Mese: novembre 2016

Letti sulla luna (8): NEL SECOLO FRAGILE

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vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.


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Filippo Ravizza, Nel secolo fragile, La Vita Felice, Milano, 2015

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Il titolo di questo libro avrebbe potuto essere “Il secolo fragile”: un quadro, un dipinto, un immenso poster ricco di dettagli e di particolari ma tutto sommato rassicurante, o almeno neutro, impersonale, come un bilancio aziendale, il grafico di date e dati già acquisiti, in perdita certo, ma in ogni caso da archiviare; resoconto fine a se stesso, risultanza aritmetica incontrovertibile, rassicurante nella sua logica. Ma il titolo è “Nel secolo fragile”, e la differenza è minuscola solo in apparenza. Ravizza con queste sue liriche ci conduce all’interno, nella parte più intima e viva, là dove le cose accadono, nell’istante che separa e unisce il passato e il presente dandoci la consapevolezza di essere composti di quella stessa materia, di quell’innesto, quello snodo del tempo fatto di ieri, di oggi e di un’ipotesi necessaria di domani.

Non indulge in amarcord troppo facili e consolatori, Ravizza, né scivola sul versante opposto, quello della flagellazione indifferenziata o della critica ai tempi e ai costumi. Evita la pratica del pianto ipocrita, l’abitudine a dire è tutto sbagliato e abbiamo sbagliato tutti, quindi, in fondo, non ha sbagliato nessuno. Sceglie il cammino più scomodo: pone ciascuno nella condizione di poter e dover dire, e dirsi, che la Storia con la s maiuscola è fatta di scelte individuali, è la somma di gesti di singoli individui, e il discrimine è proprio nella volontà di tramutare la fragilità, propria e del proprio secolo, in capacità di creare e trasformare.

Ora è di tutti la vacanza l’acuta ritmata
povertà: c’è un non oltre guarda manca
per sempre il vivere veloce del destino…
[…]
uno scorrere pieno…
il lembo o forse la parola
di un grande fiume.

In questi versi sono contenute alcune delle “coordinate” di questa esplorazione crono-spaziale. C’è, anche, una fotografia fedele del nostro paese, quell’alternare vacanze e povertà, sogno e crisi, la limitatezza dello sguardo incapace di andare oltre barriere da noi stessi imposte, la necessità di lottare ogni giorno per le cose concrete e quel dialogare balbettante con un destino che è sempre o troppo veloce o troppo lento. C’è, poi, l’elemento da cui tutto parte e tutto ritorna, la parola. Quella quotidiana, stesa assieme alle tovaglie sui tavoli delle cucine e dei bar, ma anche la parola che nonostante tutto tenta di trovare un senso che vada oltre, che sappia riassumere in un verso, in un concetto e in una sensazione, il sapore agrodolce di un destino personale e collettivo, come in una commedia degli anni Sessanta in cui un ballo accompagnato da una semplice canzone riesce ad alternare in tre minuti riso e pianto, allegrie di naufragi e inestirpabili malinconie.

Sono gli oggetti concreti, coerentemente, a fornire gli spunti di maggior rilievo, anche metaforico, diventando materia tangibile per riflessioni, pensieri e considerazioni:

volando fino a Torino fino a
quel ristorante alle antiche
dolcezze di un vino denso forte
esempio di cenere e moralità.

Europa Europa campagne e picchi
neve e case bianchi tetti
Europa Europa perché solo io
ti canto?
Non passano più popoli e poeti
non guardano più nell’orizzonte

non vedono speranza non vedono
futuro?.

Il vino forte contiene, mescolate, cenere e moralità, tutte le miserie e i compromessi dei nostri luoghi, delle nostre province, fisiche e mentali. Ma c’è anche un ricordo antico di moralità mai spente, mai del tutto annegate nel liquido sporco e in gran parte avariato e artefatto. Ravizza alterna immagini simboliche ad espressioni lineari, dirette, a viso aperto. Non esclude neppure il ricorso ad espressioni dirette, un’ode, o forse un’epistola immaginaria, un’invocazione cantata, con tutta la forza che deriva dalla forza atavica del modello. All’Europa chiede perché i popoli e i poeti non guardano più nell’orizzonte. E anche qui c’è il bisogno di penetrare all’interno, di esplorare i tessuti autentici, i gangli vitali. Non dice “verso l’orizzonte”; preferisce “nell’orizzonte”, di gran lunga più diretto e impegnativo. Quasi un invito ad osare nitore e coraggio, ad esplorare la verità concreta delle cose.

e voi invece miei simili miei pochi
voi dove siete? dove dove? Ada
ricordo, e poi Valeria ricordo…
anche tu Gianni e quella professoressa
che mi voleva bene che ci guardava
con tenerezza presentendo quello
che poi è stato: un destino modesto
per quei suoi ragazzi che volevano
cambiare il mondo, rovesciarlo
come si rovescia un guanto.

Ci sono i nomi, nei versi di questo libro: le parole assumono questo ulteriore peso e questo compito, testimoniare identità, confermare esistenze, progetti e percorsi vitali. I nomi di persona si sommano e si intersecano con i nomi di luogo. Milano, innanzitutto, punto di partenza per il poeta ma anche luogo concretissimo che incarna miti fatti di gesti veri, di fatica, perfino la fatica dei sogni. E poi le città europee, e quelle al di là dell’oceano, viste e immaginate per la prima volta, e spesso per la sola ed unica, nel bianco e nero dei televisori. Dall’abbraccio, spesso confuso, goffo, sgraziato ma vero di tutti questi nomi e questi stimoli, nasceva nei giovani la consapevolezza della necessità di rovesciare il mondo come un guanto. Ravizza registra tutto questo fervore nei versi di questo libro. E lo fa sempre senza chiamarsi fuori. Lo fa sentendosi volta per volta ciascuno di quei nomi di persona che furono amici ed amori, e ognuno di quei luoghi del mondo che furono e che sono paradigmi di ideali e speranze, cognizione del dolore e desideri di fuga e bellezza.

bisogna dirlo bisogna scriverlo
è questa o poesia o mia poesia l’unica
forza il vero amore che tutto abbraccia
riesce ad abbracciare con occhi lucidi,
grandi di quanta dignità è possibile
nel nostro essere uomini.

Lo sguardo di Ravizza è schietto e sincero: non cerca l’estetica che attrae e stupisce né la frase retorica che attira i consensi. Dice e descrive con occhio attento ciò che era e ciò che è. Elenca senza compiacimento ma anche senza false edulcorazioni ciò che c’è e ciò che manca a questo secolo fragile dentro cui abbiamo vissuto e viviamo. Il tono è diretto, lo sguardo fermo in costanti chiaroscuri. Ma alla fine, da tutto, emerge una scelta che appare in qualche modo necessaria: continuare a cantare il mondo per quello che è, restando ancora incantati, e con lo sguardo che si accende, per parole che sono cose, gesti, e vita. Per quell’amore vero e quella dignità possibile, che, in ogni secolo, anche nel più fragile, sono la sola prova inconfutabile del nostro essere uomini. IM

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Prefazione
di 
Gianmarco Gaspari

Una poesia che non surroga né si sostituisce alla realtà, dunque, ma che esiste in quanto parola, e che proprio nella parola trova la propria giustificazione e il proprio senso. Una poesia che si propone esplicitamente un fine, nel senso che crea e definisce, attraverso la percezione dei realia che appartengono alla parola, la conseguente costruzione di una propria realtà: e attraverso questo percorso Ravizza – non senza consapevolezza, posso immaginare – va a incontrare la teorizzazione romantica del verso che comporta conoscenza, che è conoscenza in sé…

[…] anche di questo si dovrà dire, di come cioè la lucida partitura che ci mette innanzi Nel secolo fragile costruisca anche un percorso vitale, oltreché cognitivo, nel quale la verità della parola incrocia il destino privato e individuale dell’autore, degli altri da sé che quel destino hanno attraversato con la loro presenza, e della stessa grande storia, in pieghe che offrono al lettore intensi aperçu di poesia civile attualizzati e personalizzati al punto da reciderne con assoluta nettezza ogni concessione retorica (…) E da qui ancora, da questo intersecarsi del tempo individuale con la storia – la Storia –, la moltiplicazione altrettanto vertiginosa delle geografie, con una sottolineatura dell’epos atemporale dell’appartenenza europea.

[…] Ma non sarà il disorientamento dello spazio né la sottrazione immedicabile del tempo a togliere alla poesia di Ravizza il senso salvifico che si genera dalla presenza di un interlocutore, un interlocutore che venga a restituire senso ai nomi e alle cose attraverso la forza della parola.

*

Postfazione
di 
Mauro Germani

[…] questa nuova raccolta segna una tappa importante e decisiva nell’ambito del percorso poetico di Ravizza, perché i versi non solo si arricchiscono di valenze ulteriori e di un’espressività più incisiva, diretta e appassionata, ma anche perché si aprono a memorie, immagini e riflessioni che rivelano un’urgenza esistenziale, etica e civile al tempo stesso, un bisogno di autentica consapevolezza per scoprire in noi stessi e nel tempo che ci è dato i nostri limiti e le nostre possibilità.

L’energia sprigionata dai versi si irradia dal presente al passato, e viceversa, in una relazione continua tra parola e pensiero, con estrema lucidità, tra domanda e ricordo, tra nostalgia e senso della realtà attuale, per decifrare con sguardo acuto e disincantato la fragilità del nostro secolo.

C’è il tempo della storia in Filippo Ravizza, c’è la memoria della vicenda umana in tutto il suo peso ed il suo enigma, c’è il vortice del tempo che consuma e annienta, la coscienza del nostro destino senza destino, ma c’è anche la forza della parola che insiste sulla storia, la voglia di non smarrire i segni del nostro passaggio, di trattenere il respiro, la voce di noi…

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poesie tratte da

Nel secolo fragile, La Vita Felice, Milano, 2015

dalla sezione I volti della piazza

Sorridere

Sorridere sui volti della piazza
questo è tempo è acuto scendere
verso una sera che non pensavi: ora
è di tutti la vacanza l’acuta ritmata
povertà: c’è un non oltre guarda manca
per sempre il vivere veloce del destino…
sarà seguire un ponte senza uscita
cammineremo nelle dorate care luci
affacciate nella notte sopra
le acque distanti sopra
uno scorrere pieno…
il lembo o forse la parola
di un grande fiume.

*

dalla sezione Persino la memoria

Geografia

Poca speranza unica generazione
luci luci di Lione passo dopo
passo un viaggio della mente
volando fino a Torino fino a
quel ristorante alle antiche
dolcezze di un vino denso forte
esempio di cenere e moralità.

Europa Europa campagne e picchi
neve e case bianchi tetti
Europa Europa perché solo io
ti canto?
Non passano più popoli e poeti
non guardano più nell’orizzonte
non vedono speranza non vedono
futuro?
Davvero questa è la fine della tua
Storia? Mai più canzoni o corse
abbracciati tutti verso un futuro
ampio?
Ora si è chiusa la voce tacitata
per sempre in questo luogo
qui dove tramonta il sole? Cade
l’avvenire?
Tutto è spento tranne qualche
nostro cuore…
si è fermato il movimento
delle cose immobile è la vittoria
del mercato… ogni atto si avvita
piega se stesso… poche allora
le parole rare troppo rare le poesie
tristi troppo tristi e poche e grigie
le giornate oscena la perdita cosciente
di queste nostre vite.

*

dalla sezione I popoli e le classi e il niente che non è niente

Nel niente di popoli e di classi

Le controversie del tempo ritornano
dentro le mattine tutte uguali
spalancano al cuore al volto agli occhi
le mani le chiavi degli uffici
sono aliti di luce sono volontà
antica consuetudine in questi momenti
rallentati rallentati gesti al confine
tra silenzio e verità…
non è stato dato…
dunque non erano queste generazioni
nate a costruire nate per aprire…
tutto è in questa ripetuta e lieve
andatura immobile… tutto è
nel niente di popoli e di classi
senza più storia senza più
destino… sappiamoci così sappiamoci
piegati all’incessante cadere
di giorni tutti uguali tutti soli
tutti come noi siamo ora adesso
compresi nel racchiuso spazio
del movimento insieme come un gesto.

*

dalla sezione Io, tu, noi: il nome

Moltitudini

Una mattina come tante
una mattina senza ponti
all’orizzonte… pronti pronti
a muoverci nel niente capaci
ancora di raggiungere pacati
e fermi nella mente le porte
curve e opache degli uffici…
questa mattina ancora ancora
un’altra nell’epoca più grande
della Storia che si è arresa si è
trovata lontano da noi lasciandoci
soltanto bordi di memoria…
rivedi le belle bandiere! come
si correva come si correva come
si muovevano salde nelle mani mentre
saremo finalmente tutti uguali pensavamo
frantumando il vento!
nelle mattine che verranno 
è difficile
lo sai molto difficile che la Storia
riprenda il suo cammino…
potente è la forza e vuole che tutto
resti così così com’è nel disegno
che tolse a noi la città più bella
là dove corrono insieme le voci
si fondono ai rumori ai passi
sincroni delle moltitudini.

A tutti quei ragazzi che – come me – vissero attivamente l’anno 1968 e i 5 o 6 anni a seguire.

* * *

Altre liriche tratte dal libro :

Rovesciarlo

Non torneranno in quel modo
non saranno mai più così le luci
che accompagnavano il tempo in quei
corridoi nudi e alti nelle ricreazioni…
così non ci sarà no non verrà più
alcuno di quegli antichi compagni
che del resto allora io sentivo
da me già nella rassegnazione
a diventare grandi così diversi…
e voi invece miei simili miei pochi
voi dove siete? dove dove? Ada
ricordo, e poi Valeria ricordo…
anche tu Gianni e quella professoressa
che mi voleva bene che ci guardava
con tenerezza presentendo quello
che poi è stato: un destino modesto
per quei suoi ragazzi che volevano
cambiare il mondo, rovesciarlo
come si rovescia un guanto.

.

Tra le tempie

La strada come un paradigma
lì nella sera nella pioggia
gialle foglie capovolto cielo
di Milano…
La strada che ancora una volta
scandisce questo enigma
quel non sapere chi siamo…
là tra le tempie là nel battito
assente dei metronomi come
un ricordo una mossa aria
di pericolo e di valore
una corolla che scende
una bambina che sale laggiù
quelle scale oltre le luci
dei condomini…
tutto così tutto fermo
nell’eterno movimento tutto
incerto faticoso vicino alla fine…
saremo mai stati veramente?
saremo mai arrivati rimasti
andati?

Veramente ci siamo stati?
restano le zattere, gli affetti,
resta una parola tenue e incerta
resta la voglia di toccare l’aria
sentirla cosa viva cosa vera…
restano le luci di Milano
in questa verità che non esiste
questo tenue destino a cui
nessuna pena è sentirsi per
caso sentirsi nella pura verità
illusione che cresce ferma
nell’amore, immobile davanti
alla rovina dell’amore.

.

Nel ritmo del passare

Nel gioco incessante della vita
e della morte, nel senso nel ritmo
del passare, non c’è – amico mio
che ascolti, amico mio che leggi –
non c’è consolazione… non
possiamo credere alle illusioni
della mente e a chi ci dice che tutto
rimane… che si resta… neppure
i monti neppure i fiumi con il loro
scorrere e le alte cattedrali con le loro
cupole, neppure loro sono destinate
a restare… bisogna dirlo bisogna scriverlo
è questa o poesia o mia poesia l’unica
forza il vero amore che tutto abbraccia
riesce ad abbracciare con occhi lucidi,
grandi di quanta dignità è possibile
nel nostro essere uomini.

.

Lieve possa esserti il passo

Lieve possa esserti il passo
in quel che resta (poco ormai)
della corsa… quello che rimane
lo guardano gli occhi e provano
conforto nella verità che tiene
in piedi oggi anche la pietà
che inizia la strada aperta e lunga
di un nuovo candore…
baciarsi oggi baciare il tempo
che ormai già guarda altrove…
baciare le cose che tocchiamo…
questi alberi, queste case…
forse perfino queste automobili…
anche loro ormai sorelle
nello spazio/tempo che ci è
dato… mentre vorresti dire
ai popoli e a chi ascolta…
alzatevi, alzatevi… prendetevi
la vita, essa è tutto è nulla è niente
è un sogno intero e pieno…
alzatevi ora adesso è solo questo
il vostro giorno… poi nulla resterà,
nulla: nemmeno il ricordo…
saperlo è giusto, saperlo è l’enigma
che noi siamo.

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Note biografiche 

FILIPPO RAVIZZA

Filippo Ravizza è nato a Milano, ove risiede, nel 1951. Ha partecipato intensamente alla vita delle riviste a partire dai primi anni Ottanta ricoprendo, nel corso del tempo, la condirezione del semestrale di poesia «Schema», di quello di scrittura, pensiero e poesia «Margo», del semestrale di poesia, arte e filosofia «La Mosca di Milano». Ha pubblicato saggi e poesie su numerose altre riviste letterarie, tra le quali «In folio», «La clessidra», «L’Ozio letterario», «Materia», «Poesia», «La Corte», «Quaderno», «Iduna», «Atelier», «Poiesis», «Capoverso», «Gradiva». Ha già pubblicato sei raccolte di versi: l’ultima in ordine di tempo è la plaquette «La quiete del mistero» (Amici del Libro d’Artista, 2012), preceduta da «Turista» (LietoColle, 2008), «Prigionieri del tempo» (LietoColle, 2005), «Bambini delle onde» (Campanotto, 2000), «Vesti del pomeriggio«»(Campanotto, 1995), «Le porte» (Schema Editore, 1987). Nel 1995 ha ideato, insieme al poeta Franco Manzoni, il «Manifesto in difesa della lingua italiana», oggi parte del programma orale (Cours de production orale) per il conseguimento del dottorato specialistico del Dipartimento di Italianistica dell’Université Paris 8 (Paris – Saint Denis, docente Laura Fournier). è stato chiamato a rappresentare la poesia italiana contemporanea alla XIX Esposizione Internazionale della Triennale di Milano (1996). Dal giugno del 2011 è presidente di 50&Più Università Milano, espressione del sistema universitario di 50&Più Confcommercio. Dal 2012 è membro eletto del Consiglio Nazionale Universitario della Confcommercio.

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Letti sulla Luna (7): LE ANIME DI MARCO POLO

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vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.

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Letti sulla Luna (7): LE ANIME DI MARCO POLO

Dalla quarta di copertina:

«Di che cosa parla questa raccolta dai versi asciutti, eleganti e intensi, che spazia nella geografia e nella storia e che mette a confronto voci, persone, esperienze, vicende e racconti? Parla di viaggi: per esempio quello di Darwin verso le Galapagos o di pellegrini medioevali verso Roma. Parla di viaggiatori ed esploratori: Ulisse, Guglielmo di Rubruck, Marco Polo,Colombo, Amerigo Vespucci, Magellano e Pigafetta, Bartolomé de Las Casas, Matteo Ricci, Livingstone e Stanley, Vittorio Bottego. Con Le anime di Marco Polo Giancarlo Baroni ci parla dunque di luoghi vicini e distanti, di paesi reali e di posti immaginari, di oceani e di deserti, e lo fa con il timbro di una voce poetica tanto misurata quanto autentica, in cui lo sguardo diacronico che attraversa le dimensioni del tempo coglie e trattiene emozioni e suggestioni che scavalcano spazio e tempo E un’ampia sezione del libro è dedicata alle città italiane con i loro santi i quali, come scrive Cardarelli, “son sempre fuori a compiere miracoli”».
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da Le anime di Marco Polo Book Editore, 2015, pp. 136 € 14

L’emozione, la partecipazione emotiva, non è mai smaccata in questo libro, mai gridata, eccessiva o debordante. Il viaggio qui è condotto passo dopo passo in punta di piedi e di penna. Nonostante questo, e in alcuni frangenti verrebbe da dire in virtù di questo, lo sguardo ne guadagna in nitidezza, nella capacità di individuare dettagli, prospettive, anche avulse, dal punto di vista del tempo e della storia, quella scritta dai vincenti, e della geografia, quella degli atlanti che mutano a seconda del variare dei regimi o dell’oscillazione delle coordinate socio-politiche.

Un esempio immediato, ed efficace, si trova nei versi citati qui sotto, in cui lo sdegno per una delle più evidenti e sistematiche violenze e sopraffazioni viene narrato con un approccio incentrato sull’ironia, quella che in un primo momento stempera ma in una seconda fase rischiara e mostra anche le ragioni violate, i territori che di solito si tende a ignorare, quelli degli sconfitti, dei perdenti, dei diversi.

Il rifiuto dell’indiano ribelle

Gli chiedono se vuole

prima dell’esecuzione

convertirsi. A sua volta domanda

se in paradiso vivono

cristiani simili a loro.

Il libro si muove seguendo le tracce di viaggiatori famosi, quelli che hanno ridisegnato le mappe e generato mutamenti epocali nei vari continenti. L’atteggiamento di Baroni nei loro confronti è ambivalente: da un lato l’ammirazione per il loro ruolo e la loro funzione, dall’altro la consapevolezza del sudore e del sangue che le loro imprese hanno causato. Non è un caso forse che nel titolo del libro il termine chiave sia al plurale: si parla delle anime di Marco Polo, di tutte le contraddizioni, i contrasti e i compromessi, con se stesso e con gli altri, che si pongono di fronte a ciascun uomo che si inoltri nell’inesplorato, in chiunque abbia il coraggio e la necessità di andare al di là delle Colonne d’Ercole, fuori e dentro di sé, del proprio mondo, della cultura e della mentalità che costituiscono le sue radici.

La pluralità, dunque, e la varietà, sono, giustamente, la cifra distintiva di questo libro. Seppure con il tono lieve e mai urlato di cui si è detto, Baroni si inserisce nel novero degli esploratori. Parla anche e soprattutto di se stesso. In primo luogo immaginando il mondo con gli occhi dei personaggi che racconta, ma anche dando voce e forma, con la mente e con la sensazioni, ad una serie di luoghi che diventano essi stessi persone, interpreti di questa rappresentazione che ha come tema la curiosità umana, la smania e la passione di ogni Ulisse che cerca la conoscenza, l’ignoto, il mistero, ma che in fondo, alla fine, cerca soprattutto se stesso, ciò che lo rende un individuo, un essere umano, e quindi un universo complesso e multiforme.

Vengono descritte numerose città, tra cui Padova, Firenze, Milano, Lucca, Siena, ma anche una serie di luoghi lontani, esotici, sospesi tra realtà e fantasia. Ogni sezione del libro è uno stato d’animo, una categoria del vivere e del sognare, una dimensione dell’essere con cui ci si deve confrontare, le luci e le ombre che si sono viste durante un viaggio ma che soprattutto sono rimaste dentro, costituendo la geografia interiore, i luoghi al cui interno avviene il tragitto esistenziale.

È significativo in quest’ottica che il libro contenga anche un riferimento a “Una biblioteca per viaggiare”, un continente fatto di libri. Anche Salgari è stato un grande esploratore, in fondo, senza essersi quasi mai mosso dalla sua città.

Baroni ha dato vita ad un libro la cui apparente linearità racchiude e svela, in modo graduale, significati e spunti di riflessione. Gli argomenti e i luoghi trattati sono così vari e numerosi che è impossibile elencarli tutti, e, anche in questo caso, la lettura diretta del volume è la soluzione migliore e più auspicabile per seguire tutti gli spostamenti del percorso, fisici ed emozionali. 

Nell’epigrafe, tratta dai versi di Nelo Risi, c’è, forse, un sunto possibile, un codice per cogliere il sapore e la suggestione che l’autore ha cercato di trasmettere: “Quando l’impresa/ avrà il sapore della rimembranza/ uno tra i tanti accadimenti/ a opera dell’uomo rimarrà per sempre/ nell’infinita maestà stellare/ l’impronta di quel piede/ sulla luna”. Ricordo di un sogno, o sogno di un ricordo. Un viaggio che è di per sé, in ogni caso, mito. E compiuto sul più mitico, e poetico per eccellenza, dei luoghi: la luna. Concretezza e riflessione, anche nel senso di luce indefinita che illumina allo stesso tempo il vero e l’immaginario. Appare questo il viaggio compiuto da Marco Polo e dalle sue anime, incarnate e descritte da Giancarlo Baroni in questo suo diario di bordo in versi. IM

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alcune liriche tratte da 

Le anime di Marco Polo

Vittorio Bottego


Un corpo solo con il suo cavallo
in omaggio alla città natale lo chiama Parmigiano.
Elegante quando si mette in posa
speroni sciabola i baffi impomatati
guardi verso di me gli chiede il fotografo.

*

5

(per l’insabbiamento dell’estuario che la collega al Mare del Nord, Bruges perde il primato a favore di Anversa che, per motivi simili, lo cederà ad Amsterdam)

 

Anversa la mia vicina

mi ha tolto lo scettro

e ora qualche scrittore mi chiama

Bruges la morta. Il mare

che un tempo mi aveva presa

per compagna adesso si è ritirato

lasciandomi come una moglie ripudiata. Una volta

ero la direttrice nell’Atlantico

e danzando arrivavano sin qua

per rimanervi pittori e musicisti

imbarcazioni e banche. Basta poco

per ritornare nel nulla che ci aspetta.

Ne faccia tesoro Anversa.

*

I ritorni di Ulisse

Dicono in coro come
pretendi Ulisse di sfuggire a noi
che accesa la tua inquietudine incendiamo
anche il tuo desiderio, smetti
di fingere re dei mentitori
e abbraccia noi per sempre. Poi quelle
voci sibilanti si propagano

fino a raggiungere la stanza che conserva
l’amore coniugale, persecutorie proprio
con me che non lo merito.
Vent’anni ho attraversato nel pericolo, dieci
a combattere lontano per la patria il resto
cercando di raggiungerla. Che altro
di più avrei potuto fare. Purtroppo ora,

trascorso un anno dal mio improbabile ritorno
ricongiunto a Penelope la saggia mia regina,
vivo scontento, oppresso da questi suoni che insistenti
imbrogliano i miei pensieri. Io amo
Penelope e più di ogni altra
cosa adoro la mia terra loro
lo negano. Devo essere stanco davvero

esausto, se la passione commossa
che provo da lontano verso le cose amate
lascia spazio, avvicinandosi, al sospetto.
Non resta forse allora che scovare
la misteriosa origine di queste
ambigue voci e sottometterle, domani
riparto.

*

Sotto la Pietra di Bismantova

(ancora un milione di anni fa, la pianura padana era coperta dal mare)

 

I denti di squalo conficcati

dentro l’arenaria di Bismantova

sotto la pelle dura della roccia

fanno mostra di sé in montagna,

dove un tempo nuotavano

i loro proprietari. Chissà quanti delfini

nella pianura reggiana ricoperta d’acqua

questi predoni del mare avranno divorato.

Forse a loro volta schiaffeggiati

con l’enorme pinna da una balena

sbucata in superficie per respirare.

*

Leida

Nuotiamo controcorrente come anguille
dal basso verso l’alto. Stiamo
su fondali salati resi fertili
dalla nostra costanza. Le maree
sappiamo governarle. Credono
i soldati che ci assediano
di poterci piegare? Nemmeno il diluvio
ce l’ha fatta. Adesso
inondiamo questa campagna dove affonda
la loro prepotenza.

*


Oasi

L’aria bollente; il vento
deposita sabbia sulle stuoie
nelle pieghe degli abiti
dentro le narici. Però sotto i piedi custodiamo

un tesoro inestimabile:
torrenti segreti sfidano le leggi naturali
superano la fantasia. Nel profondo
al riparo dal sole e dall’arsura

un fiume sgorga da epoche distanti. Una volta
il deserto era un lago e i boschi
crescevano rigogliosi sulle coste.
Dai pozzi scavati nella terra

da queste bocche di polvere imploriamo
il sottosuolo di mantenersi generoso.
Zampilli e papiri; le chiome dei palmeti
proiettano ombre fresche sopra gli orti.

 

 

*

Per l’apparato vocale insufficiente

 

Per l’apparato vocale insufficiente

la laringe inadatta

pronuncia una lingua primitiva

composta di suoni gutturali

e vocalizzi. Il dissenso

lo esprime a gesti.

Le sue corna mimano

il fatto di accecare

l’avambraccio di fottere

e i pollici sul naso dei ragazzi

ci satireggiano.

Se lo torturi emette

urla assordanti.

 

*

Le lenzuola di Nicosia

 

Un condominio tagliato a metà

nella scala A i turchi, in quella B i greci.

Sul terrazzo dove stendevano insieme

 

Corre un filo spinato:

quando il vento solleva le lenzuola

i lembi si sfiorano come delle dita.

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NOTE BIOGRAFICHE

Giancarlo Baroni è nato a Parma, dove abita, nel 1953. Ha pubblicato due romanzi brevi, qualche racconto, un testo di riflessioni letterarie e sei libri di poesia. Le ultime due raccolte di versi sono: I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli (Mobydick editore, 2009, prefazione di Pier Luigi Bacchini; di questo libro uscirà fra pochissimo una nuova edizione ampliata e illustrata) e Le anime di Marco Polo (Book editore, 2015).Nel 2009, 2010 e 2011 ha letto a “Fahrenheit” (Rai Radio 3) diverse sue liriche, alcune in occasione del Festival della Filosofia di Modena.Per quasi vent’anni ha collaborato alla pagina culturale della “Gazzetta di Parma”.

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Letti sulla luna (6): Senza il mio NOME

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vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.

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Adriana Gloria Marigo, Senza il mio NOME,

Campanotto Editore, 2015

Potrebbe apparire fuori tempo, e perfino fuori luogo, oggi, nelle tragedie e nelle farse di quest’epoca aspra e disarmonica, una canto così classico, elaborato, fatto di vocaboli e suoni che aspirano ad una forma e ad una grazia drammatiche, pronte per essere recitate sul palcoscenico di un teatro greco. Potrebbe, se, per fortuna nostra e per merito dell’autrice, tale ricercatezza non apparisse come una scelta deliberata, un gesto, una presa di posizione. “E s’avvera l’azzurro teso, /la sua pagina infinita”, recita un distico, e, poco oltre, “dimentica la specie che sono/ la cucitura eccellente/ sulla veste di festa -/ vivere ti è consentito/ senza il mio nome”. La pagina è il cielo, lo spazio teso che ci sovrasta e al contempo è dentro di noi; la parola è specie, modo di essere e di esistere. Ed è opzione estrema, quasi alternativa posta a discrimine dell’essere o del morire, quella di vivere con o senza il nome di qualcuno, senza di ciò che ne costituisce l’essenza, la natura più intima e preziosa.

Il titolo scelto da Geo Vasile per la prefazione che ha scritto per questo libro è “Trattato sulla beltà scandalosa della parola”. Di per sé contiene già un trattato, o, almeno, una fonte di spunti di riflessione e di ispirazione. Soprattutto per chi vorrà leggere il libro, che poi, l’ho già detto ma lo ripeto volentieri, alla fine è ciò che conta. La beltà, la bellezza, in primis. Così scandalosa, certo, in quanto rara, controcorrente, opposta alla marea lenta e non di rado stagnante dell’ordinario, dello scontato, del banale.

Vengono in mente vari riferimenti, prosa, poesia, aforismi. Si pensa al titolo di un racconto di Maupassant del 1890, La bellezza inutile (L’Inutile Beauté). Oppure riemerge alla mente la prosa poetica di Oscar Wilde: “Parole! Semplici parole! Quant’erano terribili! Quant’erano chiare, vivide, crudeli! Ad esse non si poteva sfuggire. E tuttavia quale sottile magia contenevano. Sembravano capaci di dare forma plastica a cose informi, sembravano possedere una musica loro propria, dolce come quella della viola o del flauto. Semplici parole! C’era qualcosa di altrettanto reale quanto le parole?”. Oppure, davvero non ultimo, Fernando Pessoa, “Perché è bella l’arte? Perché è inutile. Perché è brutta la vita? Perché è tutta fini e propositi e intenzioni”.

Le citazioni potrebbero essere decine, l’argomento, il tema, la ricerca e la meta della bellezza sono costanti, nell’arte e nella vita. Lo sono anche in questo libro. Ne sono prova le note scritte dall’autrice stessa, la recensione di Antonio Devicienti e le note critiche di Geo Vasile e di Flaminia Cruciani.

Soprattutto però ne sono prova le poesie tratte dal libro e qui riportate. Non di agevole assimilazione. Richiedono di entrare gradualmente nel loro tono, nell’atmosfera, ma soprattutto nell’approccio che evocano. L’immersione nel passato tuttavia non prescinde dal presente, dal reale, dalla ferita e dalla cura del vero. La compenetrazione è lenta, progressiva. È il tempo, ancora una volta, più che mai, il nodo, il cardine, il mostro, l’avversario. Il tentativo di arrivare a farlo distendere, anche in senso fisico, nei territori, negli spazi vissuti e pensati, vivibili e sognabili, tra realtà, memoria e sogno, equivale alla volontà-necessità di cantarlo, sempre con gli strumenti utili, consoni: simboli, metafore, leggende, storie, racconti e danze di parole al suono di una musica.

Cantare il tempo con strumenti che lui stesso ha creato. Questo appare il tentativo di Adriana Gloria Marigo. Cantare il tempo, sperando, magari, che ad un certo momento, sulla nota giusta, si metta a cantare anche lui, o interrompa per qualche istante il suo grido muto e insondabile. IM

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Nota dell’Autrice

La poesia contenuta in Senza il mio NOME si connota con un forte substrato di pensiero, poiché il problema ontologico è una costante fin dalla prima pubblicazione. Il tema della parola come tramite tra il pensiero e l’azione si perfeziona in questa silloge in quanto si accoglie che il fine della poesia sia di condurre alla conoscenza attraverso il manifestarsi della Bellezza. Se le movenze del verso nascono dal vissuto personale, dalla finezza del sentire e dell’ascoltare, dal turbamento che il reale suscita e dunque implicando il sentimento, la scrittura di una poesia riguarda anche la ragione, o meglio, il “pensiero poetante” di cui parla Antonio Prete.

La raccolta presenta anche le inferenze della psicologia del profondo e il linguaggio diventa simbolico e rimanda agli archetipi da cui non possiamo prescindere in quanto l’uomo è esso stesso simbolo. Il paesaggio, ad esempio, è un elemento che vive in quanto paesaggio, con i connotati delle stagioni, ma al tempo stesso è il corrispettivo del paesaggio archetipico in cui avvengono le trasformazioni alchemiche e il riconoscimento dell’Essere. Senza il mio NOME dovrebbe rappresentare la conferma di questo canone in cui il tema dell’Essere incontra il Tempo come dimensione in cui è possibile declinare l’identità senza l’imposizione di essa su nessun altro vivente.

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Poesie tratte da Senza il mio NOME,

Campanotto Editore, 2015

*

Corifere le stelle

e a loro di luce rituale

dedita la luna

dalle sinopie del tempo alzammo

numero suono vocale

il barbaro colore primario

genio o follia

scorgemmo la faglia d’altro destino.

*

DA LUINO A COLMEGNA

È l’aggregarsi di questa luce

soave e indifferente sugli oggetti

a portarmi indietro

al passo scolpito di collina

a tendini e nervi vivissimi

al mai perso talento ad essermi

esatta di misura visibile

peso e contropeso

sull’appiglio dell’ombra.

*

E S’AVVERA L’AZZURRO TESO

Stando in maestà la luna

di notte viene un vento raro

ad avvolgersi selvatico

sugli alberi spersi nella brughiera

a sconfinare stelle fino in terra.

E s’avvera l’azzurro teso,

la sua pagina infinita.

*

SU “LA MORTE DELLA PIZIA” DI F. DURRENMATT

Morì la Pizia per oracolare

inganno, doppiezza di parola

levata in vaticinio nel tempo

dismesso all’alloro

al fornice sacro ̶

rovinò la voce solforata

accartocciò il passo

disforme al pneuma allucinato.

*

Perdimi, lasciami

ove più non s’intessono

fronda e nido –

indietro, alla morgana

mangia i semi di Persefone

dimentica la specie che sono

la cucitura eccellente

sulla veste di festa –

vivere ti è consentito

senza il mio nome.

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Dalla recensione di Antonio Devicienti

[…] Ho l’impressione che la scrittura di Adriana Gloria Marigo, che già moveva da un’aspirazione alla luce e alla chiarezza, all’armonia e all’equilibrio sia d’arte che d’intelletto, approdi qui e in questo libro alla formulazione ancor più esplicita di un tale processo.

[…] per forza di stile s’impone un equilibrio espressivo poco comune, ma l’incandescenza che è ogni esistere umano non viene dimenticata, né rimossa – la poesia è, per l’Autrice, anche un modo per prendere la necessaria distanza dal magma psichico e dagli accadimenti, per dominarli, comprenderli e dar loro forma d’arte.

Per ritornare poi sul tema del mito, la composizione che fa esplicito riferimento alla Morte della Pizia di Friedrich Dürrenmatt conferma, a mio parere, come l’accenno frequente al mito da parte di Gloria nulla abbia a che vedere con un passatista e inutile neoclassicismo, ma, invece, sia consapevole scelta e prospettiva sia culturale che storico-antropologica (consideriamo il fatto che l’opera dürrenmattiana non sia tanto un ironizzare sul e uno “s-mitizzare” il mito, ma, invece, un riproporre e riaffermare l’enigma come centrale nella cultura greca antica e delfica in particolare) – per Marigo la morte della Pizia è anche un venir meno al senso più autentico della sapienzialità, cioè della capacità (tenendo conto della porzione di buio e d’enigma) di guardare nell’abisso dell’animo umano […]

Un dialogo: un ininterrotto dialogo è la terza sezione del libro che si conclude con un atto di radicale privazione, ponendo la poesia sulla faglia (per richiamare un termine importante per l’Autrice) tra il nominare e l’allontanarsi del nome (detto altrimenti: tra l’andare verso l’origine e il perdere l’origine, tra il cercare la fonte e lo smarrirla – leggasi, per esempio, Hölderlin), tra il dire e il silenzio totalizzante. Si ribadisce in via definitiva, così, proprio la tensione (si pensi alla tensione elettrica o a quella che si genera tra due forze che agiscono in direzioni opposte) tra forma espressiva elegante e sorvegliatissima e condizione esistenziale, per cui sotto la forma perfetta guizza l’inquietudine (viene in mente la pantera di Rilke), i nomi del mito famoso rivelano spalancandolo l’abisso della psiche umana.

dalla Prefazione di Geo Vasile

     Senza il tuo nome  attesta un rigoroso costruttore di improbabilità, che sa procedere per paragoni e analogie, e  la cui intelligenza si rivela dans un ordre insensé, che sa improvvisare da trovatore senza smettere di pianificare o di pensare. Improbalità implicite od eventualità fornite da una memoria potenziale o funzionale proprio in opposizione alla memoria storica, legata cioè ai ricordi personali. Quel luziano «conoscere per ardore»  è una scelta dei versi della Marigo tra la presenza estrema dell’istante e la presenza estrema del possibile, favorendo quest’ultimo affinché dia la sensazione di vivere di più.

     Volendo far emergere il clima generale del libro, ma anche i dettagli delle interferenze gravitazionali dei versi, c’è da notare sin dai primi testi un’aria quasi sovrumana, irrespirabile per il comune lettore, che mette a fuoco l’uomo e la sua attesa nel tempo, «innumeri enti dell’attesa» e soprattutto la “parola” che non appena «sciogliamo le ombre» dobbiamo farla sorgere «per numinoso nominare». Dell’eccelsa icastica fanno parte espressioni rarissime tipo D’Annunzio, Montale, Sanguineti Zanzotto: «sfrigolio sabbiale della clessidra, la pugna di Saturno, incline a smorirsi, abissi oceanidi, intuizione aligera, erba frugifera, corsa vessilliferainfeudarsi, materia trina ecc., antinomie: chiarore – cupezza erbosa, ecc.»,  sinestesie: «il suono o il grido della luce, il gioco costellato dell’ombra, magnete ultimo d’intima fibra, sfolgorii correnti di fiume, ecc. ».

     Da sottolineare nella poesia della Marigo c’è anche la non comune potenza intuitiva che sappia vedere immagini sensibili come simboli. La sua ricerca poetica sembra sia destinata alla purificazione per mezzo dei misteri della bellezza pura della parola, dell’esistenza degli umani che affrontano il paradigma postmoderno della loro sorte: la fine.

Estratto dalla nota  di Flaminia Cruciani

La natura, di sacralità pagana, è uno dei cardini di questa poetica, ma appare incorporea, trasfigurata, che non lascia incantata l’autrice ma rappresenta il porto da cui salpare per giungere al suo segreto, per mettere in evidenza il chiasma, l’intreccio fra orizzonte esterno e interno, il rapporto fra visibilità e invisibilità, verso cui la poetessa ha un atteggiamento da fenomenologo, come conferma la dedica: All’invisibile che schiude la parola. È così che si attua l’esperienza trascendente della natura e dei suoi fondamenti, in cui la tensione è superare la phýsis e saldarsi al suo mistero, alla sua meta-phýsis, al suo significato preesistente e originario.

E come procede l’autrice in questa rappresentazione? Attraverso il dire sibillino, la parola profetica e una poesia colta con un verso alto e luminoso di una trasparenza transitiva, che unge l’esperienza dall’alto come una benedizione implacabile, e con una visionarietà che la avvicina al giovane William Blake. Agisce “mettendo la forza in riserva nei segni” nella capacità evocativa d’immagini dell’abisso simbolico. Il verso di Gloria giunge come folgore a spalancare l’universo del pensiero mitico, di una logica non determinata, in cui si attuano uno sfondamento della natura e la sua lucida compenetrazione. Qui le aporie sono celebrate da una voce nitida che autorizza la coesistenza e l’affidabilità di soluzioni antitetiche e svela antinomie che non attendono di essere risolte, secondo un procedimento letterario che trova un parallelo musicale nella melodia infinita wagneriana. In questa logica di non contraddizione la poetessa ci orienta e ci disorienta in un tempo/spazio sincronico, in un’ontologia essenziale in eccesso di significato, che trova in se stessa l’abbattimento del limite e della distinzione fra l’altro e l’infinitamente altro.

Come in un prontuario oracolare, questa poesia ha la forza delle antiche sentenze sibilline, dei pronunciamenti profetici che vogliono risvegliare il lettore dal sonno del Logos e ridestarlo al Mythos. La consacrazione della sfera naturale, che viene sciolta dalla sua destinazione umana, avviene attraverso l’uso sapiente della parola che, come nelle antiche cosmogonie, qui ha potere creatore. Il nome è concepito come suono creatore, che dà origine alla vita, il suono primordiale, chiamato dagli egizi “risata” o “grido” del dio Toth, o come le sillabe mistiche, presenti nel Libro della Genesi che inizia con le parole «In principio era il verbo» o nell’Enuma Elish, la più antica cosmogonia conosciuta della Mesopotamia antica.  Anche la tradizione vedica ci informa su un mondo creato che origina da un essere ancora immateriale che dalla quiete del non essere risuona.

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Nota biografica

Adriana Gloria Marigo

Poetessa, critica, curatrice della collana di poesia Alabaster per Caosfera Edizioni, vive a Luino. Dopo gli studi universitari in pedagogia a indirizzo filosofico, ha insegnato nella scuola primaria. Nel 2015 ha curato insieme con il poeta filologo italianista romeno Geo Vasile l’antologia Elegie del poeta romeno Valeriu Andreanu e la prefazione della raccolta di poesie Profusioni – Fusibilia Editore – della poetessa Anna Bertini.

Ha pubblicato le sillogi Un biancore lontano – LietoColle, 2009; L’essenziale curvatura del cielo – La Vita Felice, 2012; Senza il mio NOME, Campanotto Editore, 2015; Impermanenza, plaquette per le edizioni Pulcino Elefante, 2015.

Dal 2012 è tra i poeti invitati all’annuale rassegna FlussidiVersi sulla poesia mitteleuropea che la Regione Veneto promuove nella città di Caorle. Su invito dell’Associazione Scrittori Sloveni nell’aprile 2014 ha presentato a Lubiana L’essenziale curvatura del cielo e a Capodistria incontrato gli studenti della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università del Litorale per un dialogo sulla poesia e sul significato di essere poeti.

Predilige la diffusione della poesia in una dimensione multidisciplinare e all’interno di altre espressioni artistiche, quali pittura e fotografia: a giugno 2014 ha presentato a Castelfranco Veneto il lavoro poetico Della natura nostra sulle fotografie di viaggio di Imaire De Poli nell’evento “Di Terra e Arte” del Centro di Ricerca Artistica Immaginario Sonoro.

Cura per Samgha la rubrica “Porto sepolto”. [a.g.m]

Contatti: adrianagloriamarigo@gmail.com

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Letti sulla luna (5): La quiete dei respiri fondati

Postato il Aggiornato il

luna-1vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.

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Per introdurre, proporre e consigliare la lettura di Fernando Lena mi baso sulla nota qui sotto riportata a firma di Gabriella Montanari. Me l’ha indicata lo stesso Lena chiarendomi che si tratta della sola recensione ancora inedita. Su vari e validi blog, infatti, si possono leggere approcci e analisi sulla sua poesia. Per quello che mi riguarda, sono contento di poter parlare di Fernando Lena basandomi anche sulla lettura di Gabriella Montanari. Con Gabriella ho avuto modo spesso di parlare della “follia”, e il nostro primo dialogo ebbe come argomento il lavoro e la biografia (del tutto misteriosa) di una poetessa che meriterebbe di essere molto più conosciuta, Maria Marchesi. Una poetessa folle in modo autentico, non patinato o da rotocalco televisivo. Disperatamente attaccata alla vita, alla sensualità, a tutto ciò che le ha consentito di resistere a condizioni e situazioni inumane. Della Marchesi Gabriella Montanari ha anche curato un libro dal titolo che già di per sé attrae e trascina nel vortice che oscilla tra vita e scrittura: Non sono più mia, edito da White Fly press. 

Anche qui ed ora, con Fernando Lena, si parla di follia, della capacità di scrutarla guardandosi dentro con coraggio, senza farsi sconti o cercare improbabili e troppo facili vie di fuga. Preso atto del deserto, dell’oceano che ubriaca e stordisce ad ogni istante, il vero e unico atto poetico, e quindi schiettamente umano, è reagire, provare a ritrovare una rotta, un senso, un cammino. Lena c’è riuscito. E quello che colpisce, anche nei versi del libro qui sotto riportati, è la lucidità. Lo sguardo ha assunto una saldezza assoluta; potremmo dire, paradossalmente ma non troppo, serena. Come un viandante che ha visto violenze, dolore, ferite, miserie di ogni genere, e che nonostante tutto, anzi, forse proprio per la consapevolezza di queste realtà, riesce a proseguire, vedendo anche ciò che gli altri schivano o considerano di scarso rilievo.

Un’ironia amara, e il coraggio di chi ha già affrontato i colpi più aspri dei nemici, esterni ed interni. La quiete, dunque, come recita il titolo del libro. Ma, la quiete dei respiri fondati. Quiete, dunque, in opposizione al respiro, che invece è prova e condizione essenziale della vitalità, della possibilità di esistere e di interagire con tutto il bello e con tutto l’assurdo di cui è fatto il mondo.

Sensibili e miti”: in questo modo Gabriella Montanari definisce le scorie del passato di Lena. Ed è di questa mitezza, ancora in grado di scatenare azioni e reazioni possenti che si nutre la poesia di questo libro.

Ho solo imparato a convivere – dice –/ con l’urlo degli altri… tacendo/ quando vengo stuprato dalla loro demenza” – scrive Lena parlando di Ciro, un internato del manicomio. Ma forse, a ben pensare, Ciro è lo stesso Lena, o, più esattamente , Ciro è ognuno di noi, fuori e dentro le mura dei manicomi dell’esistere.

Chiusi come bestie”, così, in queste tre parole, l’autore racchiude il senso e l’assurdo spietatamente reale di una condizione imposta da uomini ad altri uomini.

Però, ed è, lo confermo, il valore aggiunto del libro, non farsi ridurre davvero alla condizione di bestia, conservare l’umanità, può essere un percorso che conduce ad una consapevolezza maggiore, perfino artistica, basata sulla scrittura ma anche sull’osservazione. Sapere ancora, nonostante la cognizione del dolore, imposta a se stesso prima e poi subita dal mondo. Sapere ancora, nel senso di conoscere, ma anche di assaggiare, assaporare, un profumo, un dipinto, una bellezza, una pulsione sensuale o della mente, può condurre a quella quiete del respiro che è allo stesso tempo accettazione e rivolta tramutata in ricerca di bellezza e di poesia.

Tutto quello che rimane da dire, e non è poco, lo affido alla nota qui sotto riportata e ai versi tratti dal libro.

Il consiglio è, come sempre, quello della lettura diretta e individuale. La ricerca del libro e la lettura. Che, come ribadisco anche qui ed ora, è, alla fine, ciò che conta.

IM

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Nota di Gabriella Montanari

Sul manicomio di Aversa avevo letto poesie scritte da chi da lì ci era passato con «onorevoli» finalità politiche, per uscirsene poi con un antipasto di voci di pazienti misti, forse realmente incontrati, forse solo impersonificati. Si può anche essere poeti provetti e avvezzi agli scomodi meandri della mente, ma l’esperienza vissuta in prima persona, o quel che resta di essa, ha in bocca e sulla carta un sapore più convincente e persistente. Certo, Fernando Lena, non deve convincere di quel che può aver passato tra le mura del padiglione 5, adibito alla riabilitazione di ex tossicodipendenti. Oggi, dopo aver masticato un necessario silenzio, se non del tutto «digerito» (e vorrei anche vedere, i sassi restano a lungo nel crasso…) mi appare uomo «metabolizzato». Come un organismo che trattiene i nutrienti di quanto ingerito e ne espelle le scorie, il prodotto di scarto. E sono belle le sue scorie. Sensibili e miti, dolcemente radioattive, mai spente in velenosa cenere. Sin dalla premessa al poemetto che, nella lunghezza emotiva, tutto è tranne che -etto : «…quell’inferno mite che ancora oggi non so se detestare o ricordare con nostalgia ». Non mi stupisce questo stare in bilico. Sento una familiarità che trascende i rispettivi passati e affonda in una lava che cola sin da prima di essi. Qualcosa che chiamerei «sindrome della cella socchiusa». L’ambivalenza tra insofferenza per la reclusione e accettazione del perimetro amico. Il quadro, la struttura, il «no» che i pedagogisti consigliano di imporre al bambino affinché sperimenti, per poi rielaborarla positivamente, la frustrazione. La placenta, poi la culla, poi il lettino con le sbarre. Troppo azzardate come radici dell’ossimoro relegazione/rifugio, privazione/protezione? Come si può non provare nostalgia per l’inferno che ha rappresentato anche una sorta di conforto nella necessità di proteggersi da se stessi, dal mondo, dalle delusioni, dalle prove? Qui a Santa Maria della Pietà posso andarmene appena finito il lavoro, ma in realtà non me ne vado mai da sola. Luoghi e incontri come questi continuano ad abitarti la testa e le emozioni anche di ritorno sul tram, anche a cena, anche a letto. E l’indomani ci torni con la sensazione di rincasare, di essere atteso, di appartenere, di stare al sicuro. È ben poca cosa questa mia, ma penso intuire il sentimento di Fernando. Quiete è la parola chiave della sua poesia, la chiave della cella che crea struggente dipendenza affettiva mista ad anelito d’ali. Le sue sono storie di dolore mite, mitigato dalla chimica e dalla stanchezza dei trascorsi, quasi pace fatta con la pena, la pena interiore non scelta e quella reclusiva inflitta. Porto, parto sicuro. Incontro tra malesseri d’animo e di mente, accomunati dal nidificare su un ramo alto, lontano dai passi della gente, ma lontano anche dal cielo aperto. Rabbia assopita ma non al punto da scegliere la rinuncia alla libertà. Piuttosto, disillusione che mette una distanza sana dal ricordo. Chi riesce a uscire dal buio, poi si ritrova ad affrontare le piccole notti quotidiane con occhi di gatto, con un settimo senso di umanità. E lo si legge con commozione e non compassione, con stima per l’essere umano che trapela dal poeta. Per il bambino stupito di «io non speravo che me la cavavo». Non sempre il tempo ripara gli strappi, ma di sicuro aggiunge strati, epidermidi. Fossilizza segni, forgia nuove sagome di sensibilità e inventa linguaggi al passo con l’attualità del sentire. Dà forza, cazzo. E la poesia di Fernando ha la forza dell’Etna dalla pancia di fuoco e magma. Dalle guance irrigate di vapore acqueo che scalda.

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FERNANDO LENA, I quaderni dell’Ussero, da «La quiete dei respiri fondati» , Puntoacapo editrice, 2014. A cura di Valeria Serofilli

« …
se solo si potesse
prenotare un angolo di paradiso
lui lo meriterebbe…
– ho solo imparato a convivere – dice –
con l’urlo degli altri… tacendo
quando vengo stuprato dalla loro demenza –
Ciro è un paranoico e basta…
È l’unico che respira oltre le mura
guardando negli occhi
la paura della gente inquieta
almeno quanto un sognatore
affamato di colori.»

Fernando LenaLA QUIETE DEI RESPIRI FONDATI, I quaderni dell’Ussero, 2014

I

siete il nulla

sotto il sole apatico

di questa trincea.

Chiusi come bestie

ogni giorno

ascoltate i passi

per capire dov’è

l’inizio dell’abisso.

a volte e’una certezza

essere domati dalla follia

o solo un incubo

che vi abbraccia

con camicie interdette

stritolandovi di silenzio.

III

Intina da almeno cinquant’anni

vive intrappolata

nella coscienza di una bambina.

Tutto il giorno

vaga tra i padiglioni

abbracciando una bambola

come se fosse l’unica erede

della sua estraneità…

la domenica pranza con noi

esile come una creatura innocente

si ciba  d’incanto…

parola dopo parola

diventa sempre più libera

di  abitare il suo poema apatico

ma pieno di bambole e silenzi

che pettinano l’ira impavida

dei suoi coinquilini…

la sua follia ha una logica

che la proietta nella libertà:

ha scelto di non essere donna

per contenere l’odore infernale

                                           degli uomini.

VIII

La  chiesetta accenna

un do di campane

però non è domenica

quindi è solo

un altro funerale…

qui si muore e si vive

con un tempo indifferente

solo qualche lacrima

per  un improvviso

mutamento cosmico

arriva dal cielo…

Passano una mano sull’oblio

i pochi amici rimasti

finalmente è libero

il demone… libero

di giocare con l’immenso

e di scegliere

una camicia più comoda

un po’ più alata

come quella di un angelo.

X

Cercano di fermare l’oblio

ma non è semplice:

ieri un altro suicidio

si è aggiunto

nel libro dell’inferno…

Peppino ha ingoiato un bullone

affermando la sua vocazione

di   cadavere incatenato

tra lo spirito e l’impulso

di un cannibale…

era la spalla di Don Celeste

tutte le domeniche

serviva messa

con  lo sguardo di chi

attende da sempre un miracolo…

Teatralmente era perfetto:

come un angelo del caos

adombrava d’imprevedibilità

                                             ogni eucarestia.

XII

Nessuno pensa che Cecilia

possa davvero innamorarsi

di un ex tossico come me…

Dal buio irrompe

con una vestaglia bianca

per cercare un secondo

del mio respiro… forse

le basta per non soffocare

nel suo solito

pensiero di suicida.

Una come lei

se ha una certezza

e’ quella di essere primordiale

come una Eva bandita dal paradiso

                                                  per aver tradito.

Inseguire a tutti i costi

l’amore immorale

è stata una caccia al dolore.

Nessuno pensa

che con la sua bellezza

possa ancora ammansire

le belve dell’inquietudine

mentre il suo  sguardo

cerca nel mio

la complicità di una favola.

XVI

Fedele tutte  le mattine

un topo si gode

la sua boccata d’aria

poi sparisce verso

la puzza dei sogni

-io posso osservarlo

ma non osservare me

nella fatica che metto

durante il via vai

tra la libertà

e l’abisso…

amo questa morte

millimetrata

perche’ non disperde

il gelo dei carnefici –

XXI

Paolino arriva eccitato

indossa la solita tuta

di due taglie in meno.

Gioca da portiere,

ama il calcio in modo struggente…

Ogni tanto in infermeria

gli lasciano vedere qualche partita

non appena il suo Diego

(Armando Maradona)

aleggia sul prato

come un danzatore

lui inizia a lacrimare.

Vederlo contrastare

la sfera di cuoio

traccia un sorriso

sull’apatia dei farmaci

che lo vorrebbero immobile

davanti a una morte

                                che lo stuzzica…

Sorprende lo slancio che mette

nel chiedere alla felicità

quello che gli altri

calpestano da sempre:

un po’ d’erba,qualche palo

uno sguardo che delimita

90 minuti di libertà

XXII

quasi per gioco  il vuoto

ha prosciugato la vena.

Una cintura, il sangue strozzato,

il buio nel mistero delle  pupille

niente di più urgente abbiamo chiesto;

volevamo il mondo

iniettandolo nella discarica della

                                                     coscienza

grammo dopo grammo poi la morte

si e’ rivelata una cifra

di respiri spacciati.

XXIX

stanotte rivedo le tue mani

che inconsapevolmente

mi porgono un po’ di morte

– il tuo denaro

e’ solo per arginare

il caos dei miei globuli

almeno così credi

mentre l’adolescenza

accede nell’aria

come un volo di farfalle

                                predestinate-

Forse ho solo amato

il ciclo terminale  di un miraggio.

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Fernando Lena (1969) è nato a Comiso (Sicilia) dove attualmente vive e lavora. Si è diplomato all’istituto statale d’arte e per anni ha  fatto il creatore di gioielli presso Valenza Po’ (Alessandria). Il suo primo libro risale al 1996 dal titolo “E vola via” edito da Libro Italiano poi dopo alcuni anni di silenzio ha pubblicato prima una breve silloge ispirata a otto tele del pittore Piero Guccione (archilibri edizione) e poi un  libro più corposo dal titolo “Nel Rigore Di Una Memoria Infetta” sempre edito dalla Archilibri di Comiso. Costellato ancora da periodi di silenzio dopo esattamente 10 anni ha pubblicato l’ultimo libro un poemetto edito nella collana i Quaderni Dell’Ussero (Puntoacapo editrice ,anno 2014)dal titolo “la Quiete Dei Respiri Fondati”. Le sue poesie sono presenti in diversi blog, è stato anche finalista in premi come:Tivoli Europa Giovani,Vola Alta La  Parola (premio Luzi), Astrolabio,Torre Dell’Orologio ecc. Frequenta spesso reading sforzandosi di portare i versi dove l’indifferenza poetica  urla a gran voce.

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Rai News: una lettura de “Lo specchio di Leonardo

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Ivano Mugnaini

“Lo specchio di Leonardo”

http://poesia.blog.rainews.it/2016/11/ivano-mugnaini-lo-specchio-di-leonardo/

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di Daniele Campanari

Essere come Leonardo significa somigliare a uno specchio, ma non uno di quelli in cui siamo abituati a rifletterci per superbia o esibizionismo: uno specchio identico a un uomo. Ivano Mugnaini lo ha chiamato proprio “Lo specchio di Leonardo” (Eiffel Edizioni, Caserta, 2016) il suo libro e, senza inganni programmati, fa sapere che il protagonista è tale e quale al pittore. Da Vinci – proprio lui, il famoso uomo che ha dipinto l’altrettanto nota Gioconda – prende però soltanto una parte della scena; l’altra, quella che resta, è affidata a un alter ego: un personaggio che Leonardo “sfrutta” per stare da solo e scoprire i sentimenti pur senza togliere tempo alla vita, oppure per portare a termine i suoi scopi. Quali? Non è questo il momento per dirlo – tantomeno lo spazio – e forse neppure Mugnaini lo dice: lascia che sia il lettore a farsi un’idea, a chiarire se Leonardo è impegnato con le sue opere o c’è qualcosa di più, di personale: “Nonostante tutto questo, non molto tempo dopo il fallimento della statua equestre, Ludovico il Moro mi diede il compito di affrescare l’immagine dell’Ultima Cena il refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie, chiesa particolarmente cara alla sua casata. Mi impartì l’ordine in modo diretto e naturale, come se mi avesse richiesto di dipingere con una mano di bianco un muro di cinta o una parete annerita dal fumo di un camino. Ero io però, non lui, a dover passare giorni e giorni in quel luogo di preghiere e dolori, tra monaci vecchi e giovani che si muovevano troppo lenti o troppo frenetici, nascondendo nella tela del saio corpi assaliti da rimpianti e desideri. […]” (pag.35).

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Le pagine, alle quali Mugnani dice di “tenere particolarmente”, chiariscono chi potrebbe essere “il genio” e nascono “da un film-documentario, uno dei tanti dedicati a Leonardo” dove si mostrano gli studi scientifici e militari fatti con gli specchi. L’esordio è affidato a uno scenario tipico del tempo: un cavallo traina una carrozza mentre all’interno si narra il riposo di Leonardo e il suo identico. La qualità del racconto sta anche tra le parole che compongono un linguaggio non esagaeratamente moderno: scelta corretta dell’autore che dimostra di saper fare. D’altronde, Da Vinci non vive tra i fatti del mondo contemporaneo, non deve mica rispondere ai referendum costituzionali e non è neanche iscritto a Facebook. Quindi, se si vuole leggere qualcosa di originale che tiene il passo, lo si può dire leggendo il racconto di Mugnaini. Si badi bene, racconto e non romanzo, perché la vicenda si conclude a 87 pagine tra le quali è stato tracciato un inedito Da Vinci. Inedito perché mai scritto in questo modo e probabilmente assorbito dal lettore che avrà la possibilità di dire di aver conosciuto uno dei migliori profili del maestro di Anchiano.

Ivano Mugnaini è autore di romanzi, racconti, recensioni e note critiche. Collabora con riviste ed editori. Ha curato la rubrica “Panorami congeniali” sul sito della Bompiani RCS. Tra le sue pubblicazioni la raccolta di racconti L’algebra della vita e il romanzo Limbo minore. Il suo racconto Desaparecidos è stato pubblicato da Marsilio e il suo romanzo breve Un’alba da Marcos y Marcos. Cura il blog letterario “Dedalus”, e il sito www.ivanomugnaini.it

Lapidarium , di Flaminia Cruciani

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LETTI SULLA LUNA (5)

Lapidarium di Flaminia Cruciani

vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo.Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.

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Lapidarium di Flaminia Cruciani

nota di IM

“A volte le parole suonano vuote come monete false”: è questa una delle pietre scagliate da Flaminia Cruciani dalle pagine di questo suo libro. E non c’è contraddizione, non c’è incoerenza: le parole qui sono sincere. Scomode non per il gusto di farsi vedere, ma per la necessità di essere davvero quello che si è. Il volume è fatto di frasi brevi, fulminee, folgoranti. Anche questo mio commento si adeguerà, sia perché lo richiede la tipologia delle segnalazioni proposte in questa rubrica, sia perché preferisco lasciare spazio e voce alle parole della Cruciani, la cui forza e originalità emergono in modo immediato e spontaneo, senza necessità di sottolineature o indicazioni specifiche.
L’autrice spazia dalla dimensione personale a quella sociale, o meglio, a quella in cui l’individuo è parte di un sistema più ampio, non di rado strangolante e disumanizzante. Allora, senza isterie, senza roboanti quanto vani proclami, la poetessa si china, ma non piegarsi o inginocchiarsi, per raccogliere, piuttosto, quello che la terra offre in abbondanza, le pietre. Materiale con cui costruire ma anche armi estreme di difesa. Le scaglia, senza foga,  potremmo dire senza scomporsi, restando elegantemente infuriata, divertita e dissacrante, adirata ma tranquilla, come chiunque sa di non avere niente da perdere, se non se stessa, la propria vera natura. Quella che, comunque, niente e nessuno potrà mai rubarle.
Quindi ogni lancio è ben ponderato e calibrato, la balistica è perfetta; è quella di una ragione che non pretende di avere ragione, di una follia conscia e contenta del suo sussistere e resistere dall’altra parte della barricata.
La sola solidarietà quindi è “Con quelli che si sentono sbagliati” e il desiderio è di “stare, bere, mangiare con loro”. La condivisione dell’umanità profonda, naturale, prima di tutte le sovrastrutture assurdamente imposte.
Lapidarium è un libro profondo che esalta la semplicità.
Un libro semplice di rara complessità. Non una sola frase è banale o lascia indifferenti.
Si può essere d’accordo o meno, si può reagire in modo empatico oppure trovarlo estraneo ed eccentrico, magari. Ma è quasi impossibile che lasci indifferente. La genuinità espressiva si unisce ad un’accuratezza nello scavo, nell’indagine che risulta vagliata da un occhio libero e acuto, disposto al gioco più impegnativo e rischioso: quello di mettersi in gioco, di gettare sul tavolo sporco della vita il proprio autentico sé, quello che si è davvero, ciò che si vuole e non si vuole, si ama e si odia.
Flaminia Cruciani fa tutto ciò con naturalezza profonda in questo libro atipico che ha già ricevuto ottime recensioni e segnalazioni su vari organi di stampa, oltre che sul web.
Io, parlandone qui ed ora, posso esprimere la mia personale empatia, il gusto di scoprire dietro ogni pietra un motivo per riflettere, per sorridere di questa imperfezione che è descritta senza pontificare, senza chiamarsi fuori; dicendo però, passo dopo passo, pagina dopo pagina, io sono qui e voi là. Vi ascolto ma non cambio, non mi lascio mutare dalla corrente imperante.  Perché “Se ci mettiamo in ascolto l’invisibile ha molte cose da dirci.” “Come si può pensare di ingannare il fuoco puro?”.
Aggiungo solo, questo sì, che la lettura è consigliata. 
Lapidarium è un libro in cui ogni parola va schivata per poi lasciarsi colpire in pieno, in un dolore condiviso e nel riso di chi sopravvive, a dispetto di tutto, senza lasciarsi mutare. Condividendo lo stesso vento e la stessa materia, la libertà, la forza, il coraggio della schiettezza.
IM
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estratti da Lapidarium, puntoacapo editrice, 2015
La semplicità è difficile.
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Con quelli che si sentono sbagliati voglio stare,
bere, mangiare con loro.
*
L’invisibile non va in vacanza.
*
I moralisti non sanno che il giudicare è il
pharmakon con cui curano la loro frustrazione.
*
Quelli che stanno male tutta la vita, tenendo in
scacco matto i congiunti, e non muoiono mai.
*
Procedo dritta alla vigna nel mio versetto di
fuoco.
*
Le parole curano, sono miracolose, creano.
*
L’amore e l’odio vivono dello stesso sguardo,
quando l’angelo custode si volge
precipita il demone.
*
Essere rapiti dai propri sogni.
*
Meglio un delirio d’onnipotenza che d’impotenza.
*
I rapporti di sangue sono un’aggravante.
*
Chi è capace di tutto pretende di convincere
con le stesse parole con le quali ha ingannato.
*
Amo il pensiero funambolico e spericolato.
*
Stanotte, fra un incubo e l’altro, ho sognato che
mangiavo un piatto che si chiamava avverbi di
mare…?!
*
Lasciami far parte delle disubbidienze, delle
cose fatte per voglia fuori dai cordami, delle
amate trasgressioni. Attesa, come una stella
cadente.
*
Dietro a una santa ostentazione si nasconde
sempre una donna del campo.
*
Le idee dentro di noi diventano marmo quando
la possibilità si posa.
*
Prendere una direzione significa guardare un
punto immaginario in cui non arrivare mai.
*
Fuori da chiese e da templi, lontano da dogmi e
da comandamenti ci sono cuori innamorati di
Dio.
*
Oggi esercizi d’invisibilità.
*
Contro la stupidità non ci sono né armi né
farmaci.
*
Brucio sospesa fra terra e cielo, la mia radice è
la cenere.
*
Non ho vuoti di memoria su chi ha provato a
pulirsi i piedi sulla mia vita.
*
Potremmo anche smetterla di fare i doppiatori
di noi stessi. Che ne dite?
*
La ragione è il baluardo di chi viaggia a poppa
della vita.
*
Se ci mettiamo in ascolto l’invisibile ha molte
cose da dirci.
*
Come si può pensare di ingannare il fuoco
puro?
*
L’enfasi è l’apparato di note a margine di un
testo inesistente.
*
Mi dice “ho sbagliato”: no, tu sei sbagliato!
*
Il tempo dell’attesa non è un tempo dignitoso.
*
Quando lo Shaykh di Tell Mardikh,
preoccupato che a trent’anni non fossi ancora
sposata, mi chiedeva “Flaminia, quando ti
sposi?”, rispondevo “la fretta viene dal
diavolo!”
*
Il destino è la scusa di chi vuole mettersi in
pantofole in poltrona.
*

La gentilezza è una sentenza di vita.
*
La volontà esteticamente fondata spalanca il
cielo.
*
Ogni potere deve essere legittimato.

L’ignoranza è il funerale dell’anima.
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recensione di Pierangela Rossi
<Amo il pensiero funambolico e spericolato>; <Contro la stupidità non ci sono né armi né farmaci>; <Brucio sospesa tra terra e cielo, la mia radice è la cenere>; <Se ci mettiamo in ascolto l’invisibile ha molte cose da dirci>.; <L’enfasi è l’apparato di note a margine di un testo inesistente>; <A volte le parole suonano vuote come monete false>; <E’ più facile cullare un drago che incontrare persone gentili>; <La realtà è un irrequieto susseguirsi di avvenimenti intermittenti>; <Ci sono fili che legano le ali dismesse>. <La poesia è una formula magica>;
<Anghelos è giunto / le ali ritagliano il profilo di Dio / porta una notizia / annunzia che il vento ha girato>; <Tuona di corallo il tuo sguardo>; <Oggi sono stata al mercato delle nuvole>; <La vita ricomincia da capo in ogni istante>; <Nello studio dove lavoro il mio capo è Dio>; <La voce è il numero civico dell’anima>.
Sono solo alcuni dei numerosi fulminanti aforismi o sintesi di poesia di <Lapidarium> (con la prefazione di Tomaso Kemeny) agile ma prezioso libro <lapidario> che la giovane poetessa Flaminia Cruciani (romana, lunghi studi archeologici e iconografici complicatissimi alle spalle) ha incuneato tra la poesia orfica di <Sorso di notte potabile> (LietoColle, 2008) e l’imminente <Semiotica del male>, in uscita da Campanotto. Esponente del movimento mitomodernista, è tra le ideatrici del Grand Tour Poetico e della Freccia della Poesia. E quel che scrive, pratica: è persona gentilissima.
Ci dice Flaminia Cruciani: <Lapidarium nasce come una risposta alla banalizzazione del pensiero omologato, al torpore della nostra società anestetizzata dalla tecnologia e dalla televisione, in questo eccesso di delega alla tecnica che ha modificato anche la nostra possibilità dell’esperienza estetica. È una denuncia su un mondo che ha dimenticato l’uomo, dove l’uomo si colloca sullo sfondo. Dove i valori non negoziabili sono stati negoziati. la dignità umana è stata disgiunta dall’idea di valore, di legge universale. Si scaglia contro le scelte abusive e dissennate delle grandi potenze che hanno sostituito il fine dell’uomo e della sua dignità con il denaro e la logica economico-strumentale. In cui il denaro da mezzo è diventato fine, e l’uomo da fine è diventato mezzo>.
Tra poco, con l’uscita di <Semiotica del male>, affronterà i demoni del nostro tempo, anche in poesia: chiosa Kemeny nella prefazione: <Flaminia Cruciani respinge con ira ed eroismo il richiamo del tripudio eudemonico, pare chiaro come il soggetto metamorfico della scrittura preferisca morire piuttosto che vivere come un comune mortale>.
Speriamo che Flaminia, come del resto accade in molti punti di <Lapidarium>, conservi, nella sua complessa ricerca poetica, quell’ equilibrio che umanamente sembra evidente lei possegga, negli strati più alla luce e anche più profondi del suo sentire. Equilibrio, lei sottolinea, funambolico in un mondo malato.
Flaminia Cruciani
Lapidarium
Pagine 52. Euro 10
Puntoacapo editore

 

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recensione di Gianluca Conte
pubblicata su http://glucaconte.blogspot.it/2016/03/lapidarium-di-flaminia-cruciani.html
«La realtà è un’allucinazione condivisa» (p.7). Potrebbe bastare questo fulminante incipit, questa brevissima e temibile isagoge, per costruire un intero edificio filosofico-letterario su Lapidarium di Flaminia Cruciani, puntoacapo Editrice, 2015. Sospeso tra lo status dell’aforisma e quello della prosa poetica, il libello della Cruciani affonda stilettate di sana e corrosiva ironia nel ventre molle dell’uomo d’oggi, coadiuvato da un’attenta analisi/sintesi di questa nostra contingente condizione antropica, pregna di un fiacco, invertebrato individualismo sociale. Se per un pensatore imprescindibile come Schopenhauer il mondo non era nient’altro che una rappresentazione e il noumeno kantiano, la “cosa in sé”, diventava l’inconsapevole, eterna, unica e cieca volontà di vivere, avvolgendo di un pessimismo pressoché irriducibile l’umana stirpe in saecula saeculorum, l’“allucinazione condivisa” della Cruciani cerca di squarciare la grande illusione, l’infinito, sterminato velo di Maya rappresentato dal nostro sonno della ragione. Le parole-rasoi cruciane sembrano indicare un sentiero di liberazione dalle convenzioni, dai convincimenti comuni e allineati, infine dal non-pensiero post industriale e post boom economico, che ci vorrebbe omologati, seriali: «Con quelli che si sentono sbagliati voglio stare, bere, mangiare con loro» (p.9). Così, se le vie della salvezza schopenhaueriane erano l’arte, la morale e l’ascesi, l’autrice sembra suggerire una via forse più facile da individuare ma molto difficile da percorrere, quella del risveglio, soprattutto in senso intellettuale: «Lasciami far parte delle disubbidienze, delle cose fatte per voglia fuori dai cordami, delle amate trasgressioni. Attesa, come una stella cadente» (p.13). Ed è proprio in quelle “cose fatte per voglia fuori dai cordami” che ha sede, a nostro avviso, l’issue del frangente temporale odierno, in cui la stragrande maggioranza dei pensieri e delle azioni è eterodiretta o quantomeno condizionata. Già Marcuse, molti anni orsono, metteva in guardia dai bisogni indotti e ingannatori, creati a tavolino al solo scopo di schiavizzare l’uomo, di renderlo succube di quel superfluo che per Pasolini rendeva superflua la vita. Prima di loro Marx aveva individuato, sulla scia di Feuerbach, il processo di alienazione – l’estraniarsi della coscienza e dell’uomo da sé – e la dipendenza dell’individuo da quell’aura di misticismo che circondava gli oggetti, i prodotti (feticismo delle merci): cose che l’uomo pur producendo febbrilmente, in realtà non possedeva. Il medium cruciano, lo psicopompo che funge da soggetto/oggetto di una trasmigrazione dalla reificazione dell’umano alla Poesia, dal torpore al risveglio, è la parola, entità generante, donatrice di vita e, per certi versi, preziosa panacea: «Le parole curano, sono miracolose, creano» (p. 10). Ma in un mondo doppio, equivoco, dove lo spettro dell’apparenza è sempre in agguato, anche le parole possono rivelarsi bugiarde «A volte le parole suonano vuote come monete false» (p. 20). È questo il contrasto dell’ambivalenza insito in ogni essere, in ogni organismo, anche nella più elementare particella dell’universo. Tuttavia, nonostante la causticità e le bordate impietose indirizzate ai tanti buffoni di corte, l’autrice non declina il suo sentire nella mera invettiva ma, stigmatizzando l’unidimensionalità dell’individuo, sembra teorizzare una nuova Philía, riservata ai soggetti che si riconoscono nella differenza, nella lateralità: «Prendere una direzione significa guardare un punto immaginario in cui non arrivare mai» (p. 14); «Se ci mettiamo in ascolto l’invisibile ha molte cose da dirci» (p. 17) e ancora: «La vita ricomincia da capo in ogni istante» (p. 43). Le parole della Cruciani, dense di suggestioni psico-foniche, appaionoverba dai richiami rizomatici, che a tratti ci ricordano il tentativo di rovesciamento dell’espressione dicotomica universale dell’“Io-Altro” deleuziano, compongono uno zodiaco di segni topici, di parole solide: làpis è, ad un tempo, pietra e matrice del segno e, in quanto tale, dinamicamente dura. Lapidarium è un vortice poetico, una spirale di “stelle danzanti” che sembra opporsi a tutto ciò che Nietzsche apostrofava come décadent, come l’immobilismo e il fatalismo dell’uomo contemporaneo: «Le cose accadono se noi le strappiamo al destino» (p. 48).

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Flaminia Cruciani – note biografiche
Romana, si ė laureata in Archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico, presso Sapienza Università di Roma sotto la guida del Prof. Matthiae. Ha poi conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Archeologia Orientale nella stessa università per poi perfezionare i suoi studi con un Master di II livello in “Architettura per l’Archeologia – Archeologia per l’Architettura” per la valorizzazione del patrimonio culturale. Per lunghi anni ha partecipato alle annuali campagne di scavo in Siria, in qualità di membro della “Missione archeologica italiana a Ebla”. Ha poi conseguito una seconda laurea in “Storia dell’arte”. Ha tenuto annualmente corsi nella cattedra di “Assiriologia”, presso Sapienza Università di Roma, sul rapporto fra l’iconografia e i testi nella tradizione mesopotamica. Si è specializzata inoltre in Discipline Analogiche, attraverso lo studio dell’Ipnosi Dinamica, della Comunicazione Analogica non Verbale e della Filosofia Analogica, conseguendo il titolo di Analogista, pratica una professione di aiuto per la lettura e la decodifica delle dinamiche emozionali profonde. Ha inoltre inventato il “Noli me tangere®”, uno strumento fondato sul potere evocativo delle immagini in grado di favorire il processo di individuazione della persona. Nel 2008 ha pubblicato Sorso di Notte Potabile, ed. LietoColle. Del 2008 è Dentro, ed. Pulcinoelefante. Nel 2013 ha pubblicato Frammenti, ed. Pulcinoelefante e nel 2015 Lapidarium, ed. Puntoacapo, con la prefazione di Tomaso Kemeny. Semiotica del male è uscito nel 2016, ed. Campanotto. Suoi testi letterari sono presenti in numerose antologie italiane e straniere. Ricordiamo la recente 42 voci per la pace ed. Nomos.
Suoi testi poetici sono stati tradotti in inglese, coreano, rumeno e spagnolo. È stata selezionata fra i giovani poeti italiani contemporanei per il Bombardeo de Poemas sobre Milán, opera del collettivo cileno Casagrande. È tra i fondatori e gli ideatori del Grand Tour Poetico e della Freccia della Poesia.

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DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE

Postato il

LETTI SULLA LUNA (4)

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Il quarto libro segnalato è Dalla canicola al blu, di Lorenzo Falletti. Si tratta di racconti, un genere che consente una gamma molto ampia di variazioni sul tema, voli panoramici  e scavi psicologici. Schizzo e dipinto dettagliato, abbozzo e disegno accuratissimo. Ho apprezzato i racconti di Falletti, come ho scritto anche nella prefazione di cui pubblico uno stralcio. Assieme al parere di una scrittrice-lettrice, Viviana Albanese, che ha voluto e saputo manifestare con sincera schiettezza e nitida partecipazione le sue impressioni e le sue emozioni.

Anche in questo caso, per chi sarà incuriosito, buona lettura; che, è, alla fine, quello che conta.

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vademecum” della rubrica Letti sulla luna:

L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.

Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo.Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.

Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.

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Lorenzo Falletti, DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE, puntoacapo Editrice, Pasturana 2016, pp. 100, € 12,00

Un estratto dalla prefazione

Una verve comunicativa generosa e barocca quella dei racconti di Lorenzo Falletti. Uno specchio della sicilianità delle sue origini, fatta di sole, leggende, verità, iperboli sospese tra ponti concreti e immaginari, grandezza e sofferenza. A lato di tutto, in posizione pigramente attiva, tra coinvolgimento e atavico distacco, lo sguardo osserva la vita che suda, sbraita, si agita, corteggia e si fa corteggiare, irride e si rende ridicola, una goccia di sudore che scalda e placa al contempo: l’ironia. E una forma agra di indagine sull’esistere che un siciliano di Girgenti, tra drammi e farse, a suo tempo teorizzò e mise in pratica: il sentimento del contrario.

L’umorismo, anche nei racconti di Falletti, è ancora di salvezza, rifugio e schermo contro i colpi e gli spari della verità, quel sangue troppo caldo e troppo vivo. Falletti erige una barriera protetta da un cancello di ferro, ma di un ferro particolare, robusto ma mai pesante, mai ingombrante e goffamente massiccio. La danza barocca della parola è fatta di volute rotonde e lente, ghirigori e arzigogoli: un’esuberanza di aggettivi posti ovunque, sparsi come semi in un campo, rosseggianti e maturi come fichi d’india. Ma la crescita non è mai caotica nelle narrazioni di questo libro. C’è, accanto e dentro al rigoglio espressivo, un altrettanto saldo controllo, un rigore geometrico che impedisce di strafare e “stradire”.

Ciò è reso possibile dall’altra inclinazione naturale dell’autore, quella che poi è sfociata nella sua occupazione professionale, la recitazione. Nell’arte teatrale, lo sappiamo, tutto è tempo e il tempo è tutto. La misura quindi, anche qui, nelle storie registrate nella memoria e raccontate con gusto, contrasta e regola la sovrabbondanza senza togliere nulla della freschezza e della follia, del profumo e dell’eco della vita vissuta. È come se Falletti si facesse regista di se stesso e dei suoi personaggi, delle vicende che mette in scena sulla pagina.

Il risultato di questo connubio è un insieme godibile e originale di affabulazione e sostanza. Le trame sono sempre ben ritmate, mai lente o apatiche. Ma non c’è spazio neppure per una frenesia approssimativa e affastellata. Le descrizioni sono ricche di dettagli e di colore ma mai meramente estetizzanti o poste lì per puro sfoggio.

Il suo bagaglio magicamente s’aprì rovesciando una notevole quantità di piccoli oggetti: stelline, cilindri in metallo, palline, molle, marionette, tremule uova fritte in lattice, fazzoletti colorati ed altri aggeggi non catalogabili con nomi cristiani. Lo scroscio della pioggia di faville catturò l’attenzione di una bambina. Nei suoi occhi si specchiò la saettante follia dei balocchi.”

In questo esempio tratto dal racconto d’apertura, “Dalla canicola al blu”, si coglie in modo immediato la generosità espressiva a cui si è fatto cenno, quasi una volontà di dare al lettore non solo più dettagli possibili ma anche suggestioni, coordinate sensuali, odori, colori, sfumature visive, ed anche mentali. Come un pittore che aggiunge pennellata su pennellata, strato su strato, per giungere a rendere quasi tangibile quella “saettante follia dei balocchi”.

C’è anche un tocco di poesia, nelle trame di questo libro. Potrebbe sembrare fuori luogo, o apparire ridondante o puramente esornativa, se, a ben vedere, non fosse essa stessa sostanza, materia, o complemento mentale di quei riferimenti oggettivi, ed oggettuali, di cui le storie narrate abbondano.

Ivano Mugnaini

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Lorenzo Falletti, DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE

Io non sono una lettrice di racconti, la narrazione breve non è la mia misura, soffro quando capisco che c’è del non detto e che quel non detto avrebbe potuto essere funzionale alla storia, magari donandole un po’ di forza in più, rendendola più completa. Questa mia convinzione è stata smentita dal primo racconto di questa raccolta Dalla canicola al blu, che dà anche il titolo al volume.  Si tratta di un racconto abbastanza lungo e questo può sicuramente avermelo fatto apprezzare di più, ma ho trovato tra le righe una storia così potente e dei personaggi così profondi da farmeli amare e comprendere come quando si viene rapiti da un buon romanzo. Il protagonista Vincenzo Cassarisi è intenso, appassionato e pieno di contraddizioni e queste caratteristiche lo scrittore le fa assaporare tutte al lettore: la vita sregolata, fino alla fine, e la voglia di normalità, il tentativo di formare una famiglia a costo di falsificarne le fondamenta, il bisogno del pubblico e del successo ma anche la necessità di tornare a casa dalla madre, da quell’unica certezza che aveva dovuto abbandonare anni prima. Non mi sarei aspettata tanto; da un racconto e da un autore la cui professione è l’attore teatrale mi aspettavo più descrizione scenica, più gesti accentuati, plateali e invece ho trovato una profonda analisi dei personaggi ed emozioni palpabili che arrivano dritte al lettore. 

Anche gli altri racconti sono intensi; qualcuno mi ha toccato più di altri, nonostante i temi trattati siano fondamentalmente gli stessi: diversità innanzitutto, fisica e mentale (Liberi dagli stracci e  Solo per i bimbi) ma anche sociale  (Il principe Walter) e la necessità di integrazione spesso negata a questi personaggi, una frustrazione che sfoga spesso in violenza indirizzata solitamente verso la direzione sbagliata, come succede in Cari vecchi jeans.

Ogni racconto potrebbe appartenere a un genere diverso, nonostante quel comune denominatore che è la diversità, ma uno su tutti mi ha colpito più degli altri ed è Il principe Walter. Qui l’autore infatti sorprende più volte il lettore, e non solo per ciò che accade, per la sequenza degli eventi, ma perché disorienta, trascina nella mente del narratore e ad ogni pagina ci si chiede chi sta narrando veramente e se chi sta narrando la storia è cosciente di quel che accade, se la dimensione è quella della realtà o quella onirica e, alla fine, si rimane con l’amaro in bocca e uno strano senso di circolarità degli eventi, della vita.

È un libro che consiglierei e a cui non riuscirei ad assegnare un genere. A mio parere in pochi racconti c’è tanta varietà da poter appassionare ogni tipo di lettore e tanta maestria da parte dell’autore nel raccontare storie e personaggi diversi tra loro, donando a volte speranza ma spesso solo un senso di predestinazione. 

Viviana Albanese

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Qui di seguito la parte iniziale del racconto che dà il titolo al libro:

DALLA CANICOLA AL BLU

Aprì la porta sporgendo cautamente il capo all’interno.

Si trovò faccia a faccia con un silenzio irreale. Non era successo niente. Bene. Non era venuto nessuno. Bene. Entrò cercando di non far rumore.

– Mamma… mamma… dove sei?

Prima piano con un soffio di voce poi, prendendo coraggio, sempre più forte.

– Mamma… ci sei? – Entrò in cucina a passo felpato. Era lì sua madre, seduta,  assente, gli occhi infissi come chiodi sul muro bianco.

– Mamma, perché non rispondevi? –

Lei tacque imperturbabile. Aveva qualcosa di strano, di diverso dal solito in sè che per un attimo lo fece trasalire ma che non riuscì a cogliere.     

-Allora…? Sono venuti?- Lei tacque ancora.

– Non sono venuti. – aggiunse lui ed esitò un attimo.

Ancora silenzio. Infine, la provocò: 

-Insomma vorrei sapere cosa c’entri tu! Che se la prendano con me. E’ con me che devono veders…- 

– Gli devi settanta milioni non è vero? Dimmelo. –

 La voce atona di  sua madre gli strappò il fiato, cadde di peso a sedere. Un colpo a tradimento. Silenzio. Greve di vergogna, di imbarazzo. Le carni che bruciano. E durò, durò a lungo quel silenzio, un tempo infinito. Poi lei riprese a parlare, gli occhi perduti nel vortice profondo di un ricordo.

-E’un maschio Maddalena! Vedrai, sarà la nostra consolazione -.

Era di lui che parlava sua madre.

Vincenzo Cassarisi, professione Mago-comico-illusionista. Età, venticinque anni. Stato civile, nessun vincolo, neppure con l’aria. Sempre in fuga da tutto e da tutti. Personaggio  brillante,  ma  spesso in preda a uno stato nevrotico che ne vestiva l’esistenza. In quell’attimo, di fronte a lei, si sentì come trafitto dagli spilli alla schiena, ai piedi, dappertutto. S’alzò di scatto con le mani percorse da un tremito e  raggiunse il soggiorno. Lei doveva averlo visto così un milione di volte ma probabilmente aveva smesso d’esserne emotivamente coinvolta solo alla millesima, una madre è sempre una madre.

Vincenzo aprì il portafogli. Scontrini, appunti, biglietti del bus, come grossi coriandoli planarono sul pavimento. Incollò le dita su una banconota nuova di zecca arrotolandola. Poi, svuotando un piccolo involucro di cellofan, formò sul comodino una striscia di polverina bianchissima. Applicò la banconota  alla narice ed aspirò velocemente. Qualche secondo e si accorse che la stanza era a soqquadro. Con uno scatto si precipitò  in cucina.

-Sono venuti allora! Mamma perché non mi hai detto che… –

Ma di nuovo si interruppe giungendo alle spalle di lei. Posò lo sguardo, per la prima volta, sui suoi capelli estirpati  come  gramigna. In un secondo immaginò la scena. Fluirono nella memoria presenze sinistre. Quando era accaduto? Un’ora? Due ore prima? Forse meno. Rabbrividì. Una contrazione  allo stomaco lo aggredì deformandone i tratti del viso. A piccoli passi si pose di fronte a sua madre. Le si accovacciò accanto. Ne abbracciò  le ginocchia scarne, muto.

 – Vincenzo,Vincenzo…- un filo di voce, lucido e vibrante come quello di una ragnatela. Restarono così, secondi, forse minuti, di nuovo. Ma non c’era niente di nuovo in questo. Da giorni, da mesi, da anni. Vincenzo si alzò.

– Mamma, i tuoi capelli…-

– Che vuoi che mi importi dei capelli –

 Nuovo  lungo silenzio. Poi lei riprese.

– Dove vai  stasera? –

Vincenzo rispondendo ad un irrefrenabile istinto istrionico, assunse un piglio  professionale e malgrado la desolazione della casa per aria accennò ad una piroetta. Poi, con voce  brillante, diede inizio al numero. 

-Signori e signore, tra poco, su questo esclusivo palcoscenico, il grande Cassarisi mago-comico-illusionista, eseguirà per voi uno dei suoi spettacolari numeri. Nessun altro al mondo saprà infondervi la stessa suspance e lo stesso brivido! – S’avvicinò alla madre e sfiorandola con mano lieve fece apparire due coltelli tra le pieghe dei suoi abiti.

-Signore… ma cos’ha qui? Un armamentario! Siamo forse in presenza di un novello Jack lo Squartatore? Due coltelli? E questo cos’è? Un trancia polli? Ma che se ne farà mai di un trancia polli? –

Poi rivolto al  pubblico immaginario con teatrale “a parte”:

 – Ah, ho capito, con tutti i polli che ci sono in giro un borseggiatore che si rispetti deve circolare attrezzato. Bravo!

Lei lo osservava con  un sorriso amaro sulle labbra. Era rimasto l’adolescente di sempre. A saper leggere scovavi ancora, nell’adulto, i tratti infantili, come  sbavature di colore lasciate sulla tela da un pittore alle prime armi. Ripensò  alla faccia seria con cui da ragazzino fregava tutti giocando coi tappi delle birre. Gli guardava le mani, abili come sempre. Quante volte aveva richiuso la porta alle spalle di lui che arrivava rincorso dai compagni inferociti, mentre qualche tappo ancora gli scappava dalle tasche rigonfie dei calzoni corti. 

Con le scarpe pericolosamente slacciate e le labbra increspate da un sorriso, correva Vincenzo, all’impazzata, sul ventre tremulo di quell’afa pomeridiana che sorgeva dalla terra sfocando la campagna, laggiù, in fondo alla stradina polverosa. Lei se lo stringeva al petto, forte, con complicità. Che altro poteva fare davanti a quel sorriso? Quei  denti bianchi come mandorle sgusciate finivano sempre per abbindolarla. Si sentiva ancora addosso il  suo umore selvatico di furetto.

Non aveva mai voluto smettere di giocare Vincenzo ma non si aspettava che quelli se la prendessero con lei.

 

– Adesso, gentile pubblico, avrei bisogno di qualcuno uscito di fresco dall’ospedale. No, non lei… ho detto dall’ospedale non dalla galera. No, lei no… lei neppure… oh, santo Iddio!

Fu la voce di sua madre a distoglierlo dalla  performance.

-Vincenzo, smetti per favore! – Vincenzo s’arrestò di colpo.

– Devi andartene. Lo hanno detto quelli.

Quelli” ebbe l’effetto del vischio sulla pelle, una sensazione di caldo paralizzante. Solo dopo qualche secondo  gli bastò l’animo per trascinare lentamente una sedia. Le sedette accanto. Poggiò il viso su ciò che restava dei suoi capelli. Lei socchiuse gli occhi. Con la mano diafana carezzò la sua pelle di bambino. Ne avvertì il profumo e non avrebbe voluto.

Fu il suono della voce di Vincenzo, questa volta, a giungere come rimedio ad un salto nel vuoto.

– Ce ne andremo insieme mamma .-

– No – Rispose lei decisa.

-Ma non posso lasciarti in balia di quella gente! Rifletti: oggi hanno fatto questo ma domani? –

-Non ci sarà nessun domani se dovessero tornare e trovarti in casa.

Devi sparire… solo così  mi lasceranno in pace. Questo hanno detto. E’ una grazia, Vincenzo, l’ultima… per me e per te.-

Ancora una lunga pausa.

– Ma dove vuoi che vada mamma…? –

– Dovunque, purché tu vada, poi si vedrà. –

 

Lui non disse una parola di più. Attraversò lentamente il soggiorno e giunse in camera sua. Preparò il bagaglio. Solo una valigia, neppure troppo grande.

Il mago Cassarisi aveva ben poco da portare con sé. Un bagaglio fatto di giochi, di trucchi più che di indumenti. Importava assai a Vincenzo di coprirsi; il freddo era dentro. Un freddo che solo la risata del pubblico riusciva a dissolvere. A fine spettacolo puntava lo sguardo sulla gente, sulle sciarpe colorate, su trecce, cappelli, sul goffo barcollare dei bambini assonnati imbacuccati nei cappotti. Al diradarsi di quell’ordinaria umanità scompariva dietro le quinte. Gettava alla rinfusa nella valigia i ferri del mestiere per raggiungere col  tremito in corpo il primo anfratto che gli capitasse a tiro per incontrare la sua compagna. Lei, impalpabile dama, gli si concedeva ormai per tempi sempre più fugaci, negli anni era diventata avara.  (Certe amanti svaniscono all’improvviso lasciandoti in ricordo solo la scia di  un profumo struggente.)

Sua madre ne avvertì la presenza alle spalle. S’era arrestato sulla soglia della cucina, valigia alla mano, bloccato da una dolorosa riluttanza. 

Lei era di nuovo assente, come scissa in mille particelle sull’universo bianco di un muro. Vincenzo tornò indietro e s’avviò all’uscita. Senza rumore chiuse alle sue spalle l’uscio di casa. Due lacrime urlarono, scivolando sui solchi precoci del viso lei. 

 

Un treno, uno qualsiasi- pensò il giovane prestigiatore avviandosi verso la stazione.-

Ma tu guarda- borbottò tra sé – un mago a cui tocca fuggire come un ladro! Ma, in fondo, tutti i ladri sono un po’ maghi. Solo che i ladri spesso, assieme alle cose, rubano anche i sogni delle persone. I maghi, almeno quelli, sono ben lieti di regalarteli.

Trovò, comunque, giusto fuggire. Non era stato molto furbo da parte sua far sparire “per gioco” un sacchetto di coca da una certa valigia. I sacchetti di coca non sono fazzoletti colorati e poi, dettaglio tutt’altro che trascurabile, quelli a cui lo aveva soffiato non erano certo tipi da apprezzare i lazzi dei fantasisti. Gli tornarono in mente, una ad una, le loro facce bovine. 

Affrettò il passo guardandosi intorno. Camminò sui grossi granuli di pietrisco scuro dei binari avvertendone le sporgenze aguzze attraverso le suole sottili.

– Maledette gambe!- pensò – ti portano sempre dove non vorresti- ma meglio una multa o un taglio al piede che il frequentato sottopassaggio.

Il primo treno in partenza dalla stazione di Messina era sul binario tre.

“Messina – Milano” c’era scritto sulla tabella gialla. Poteva andare bene. Come posto gli parve abbastanza distante. Eccessivo fuggire in Brasile e quella sera stessa. Al biglietto e ai documenti non pensò minimamente, lui aveva i suoi. Era o non era un mago? Ma un momento… quello su cui stava per salire non era  forse un vagone letto? – E allora? – si rispose – e subito si ridacchiò addosso valutando che non avere prenotazione fosse un problema altrettanto  ridicolo.

Detto-fatto, si ritrovò a percorrere il corridoio riscaldato alla ricerca di uno scompartimento tranquillo. Ne scelse uno ma, mentre stava per varcarne la soglia, il suo bagaglio magicamente s’aprì rovesciando una notevole quantità di piccoli oggetti: stelline, cilindri in metallo, palline, molle, marionette, tremule uova fritte in lattice, fazzoletti colorati ed altri aggeggi non catalogabili con nomi cristiani. Lo scroscio della pioggia di faville catturò l’attenzione di una bambina. Nei suoi  occhi si specchiò la saettante follia dei balocchi.

– C’è un mago! –

Un trillo, una sorta di richiamo che parve il dipanarsi di un festone tra le grigie  pareti della vettura.

Al mago era capitato spesso di aprire la valigia davanti alla polizia locale (che lo conosceva bene) o negli angoli bui delle stazioni quando dimenticava in quale giocattolo aveva nascosto la roba di riserva.  Gli fece piacere che, per una  volta, qualcuno aveva pronunciato la parola giusta, semplice e magica, appunto. Troppo spesso passava per un rappresentante di giocattoli o per un piazzista qualunque. Che fosse un mago, insomma, nessuno lo aveva mai supposto, neppure per sbaglio.

Vincenzo allora, davanti alla sua minuta spettatrice,  si produsse in un inchino sbilenco, un po’ per via dello sgangherato contrappeso che si ostinava a chiamare valigia, un po’ per via del corridoio stretto.

-Permette, signorina? Vincenzo Cassarisi, mago-comico-illusionista al suo servizio… –

Mentre lei lo fissava incuriosita, una donna s’inginocchiò, premurosa, a raccogliere i ninnoli. Vincenzo, allora, poggiò la valigia su uno dei posti letto. Si ritrovarono in tre a riempirla nuovamente, in preda ad una strana euforia.

Richiuso il bagaglio si presentarono. Il quarto viaggiatore, un uomo sulla cinquantina, distinto, dai capelli brizzolati, non aveva fatto una piega.

Il mago pensò ad un viaggiatore solitario. Dopo poco, senza scomporsi, l’uomo parlò.

– E’ proprio certo di avere un posto assegnato qui? –

Lui guardò la donna, osservò le sue curve, i suoi occhi verdi, i capelli corvini. Era molto bella. Come avrebbe potuto rispondere di no?

– Sì certo, vediamo, vediamo… questa deve essere la cuccetta numero 151. Si, è questa. Permette? – proseguì Vincenzo, avvicinandosi all’uomo con la mano protesa.- Vincenzo Cass… –

– Sì, ho sentito – fece quello, senza distogliere lo sguardo dal buio pesto del finestrino.

– Cordialità commovente.- sussurrò ritraendosi Vincenzo. Donna e donnina, accennarono ad un sorriso impacciato.

Il nome di lei, della donna, era Cecilia.

A lui parve proprio un bel nome. Anche le sue gambe gli parvero belle, perché erano belle: tornite, nervose, diritte come due sedani.

– Ma perché, i sedani sono diritti? – Si domandò, chiudendosi in una delle sue profonde digressioni. – Se aveva fatto questo pensiero, certo un motivo  doveva esserci. Forse perché un bel sedano, oltre che cotto, va anche gustato crudo, fresco e croccante. – Sì, forse ci sono – pensò – in fondo ogni volta che mi piace una femmina mi dico sempre: “Questa me la cucino” no? –

– Guarda – disse, sedendosi, alla bimba – guarda cosa ti regalo. – e portò la mano in tasca – regaliamo a… come si chiama la piccola, scusi? –

– Marinella- rispose pronta Cecilia, che già  gli indirizzava sguardi tutt’altro che di  circostanza. Lui tirò fuori dalla tasca un agnellino di plastica che animò premendo una molla alla base. Lei rispose con un sorriso convalescente, come la traccia  di luce sul volto di una bambola consunta dai giochi.

– Bello! –

– Sta attenta però, mi raccomando, il lupo è sempre in agguato!

– Io sono lo zio. – rispose a denti stretti l’uomo.

-Scusi tanto, sa. Dev’essere stato il suo pelo grigio a trarmi in inganno. Certo, se ora la bimba  mi rassicura. Proviamo a chiederlo a lei. Questo signore è tuo zio non è vero ?

– Lei, giovanotto, è un po’ troppo impudente per i miei gusti! –

– Lei, invece, pare essere un lupo alquanto maleducato. Ops, scusi… volevo dire uno zio alquanto maleducato! –

Le donne soffocarono nuovamente una risata. L’uomo, dopo una lunga pausa, si alzò e contenendo il disappunto  gli andò incontro con la mano protesa.

– In fondo non posso darle torto, sono stato un po’  scorbutico poc’anzi. Permette?  Dott. Angelo Petralia – Presentazione fatta. Un contatto che però, al mago, non piacque affatto. Aveva la mano viscida il tipo. Ripensamento troppo immediato per essere vero. Un mago sa scrutare le facce e gli occhi della gente, è da lì che si affaccia il cuore degli uomini sulle cose del mondo. Suo malgrado non riuscì a capire quale genere di rapporto legasse i tre. Ma in fondo siamo tutti degli strani viaggiatori, concluse. Certo, vedere  una  donna  così giovane in compagnia di un orso (anche se molto distinto)  in viaggio con una denutrita nipote da ospedale da poveri, non poteva che destare perlomeno curiosità. Per non parlare dello sguardo della bambina velato di  misteriosa malinconia.

Ma in quel momento ebbe altro a cui pensare: il freddo. Cominciò a sentirlo anche dentro. Infilò le mani in tasca finché non s’alzò col consueto scatto. Pensò alla toilette del treno. La raggiunse. Non che sperasse di trovarla libera ma quanto ci metteva quello ad uscire!? Nel corridoio s’era pure tolta la luce. In certi momenti pare che il tempo si fermi. Finalmente lo scatto della serratura. La luce che trafilò dall’uscio del bagno delle Ferrovie dello stato non temeva confronti con quella dell’eden. Entrò al volo. Girò più volte la maniglia sul rosso. Non s’apriva, bene. Tirò fuori la bustina di cellofan e la depose sul  ripiano di vetro della specchiera. Ma fu un attimo; un violento cambio di binario sbatacchiò lui contro la parete del bagno e la bustina dentro il WC. Biglietti… biglietti da centomila zuppi fradici, purtroppo in forma di polvere e a cui non sarebbe certo bastato il calore di un phon per tornare alla vita.