Giorno: 8 novembre 2016
Letti sulla luna (5): La quiete dei respiri fondati
“vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.
********************************************************
Per introdurre, proporre e consigliare la lettura di Fernando Lena mi baso sulla nota qui sotto riportata a firma di Gabriella Montanari. Me l’ha indicata lo stesso Lena chiarendomi che si tratta della sola recensione ancora inedita. Su vari e validi blog, infatti, si possono leggere approcci e analisi sulla sua poesia. Per quello che mi riguarda, sono contento di poter parlare di Fernando Lena basandomi anche sulla lettura di Gabriella Montanari. Con Gabriella ho avuto modo spesso di parlare della “follia”, e il nostro primo dialogo ebbe come argomento il lavoro e la biografia (del tutto misteriosa) di una poetessa che meriterebbe di essere molto più conosciuta, Maria Marchesi. Una poetessa folle in modo autentico, non patinato o da rotocalco televisivo. Disperatamente attaccata alla vita, alla sensualità, a tutto ciò che le ha consentito di resistere a condizioni e situazioni inumane. Della Marchesi Gabriella Montanari ha anche curato un libro dal titolo che già di per sé attrae e trascina nel vortice che oscilla tra vita e scrittura: Non sono più mia, edito da White Fly press.
Anche qui ed ora, con Fernando Lena, si parla di follia, della capacità di scrutarla guardandosi dentro con coraggio, senza farsi sconti o cercare improbabili e troppo facili vie di fuga. Preso atto del deserto, dell’oceano che ubriaca e stordisce ad ogni istante, il vero e unico atto poetico, e quindi schiettamente umano, è reagire, provare a ritrovare una rotta, un senso, un cammino. Lena c’è riuscito. E quello che colpisce, anche nei versi del libro qui sotto riportati, è la lucidità. Lo sguardo ha assunto una saldezza assoluta; potremmo dire, paradossalmente ma non troppo, serena. Come un viandante che ha visto violenze, dolore, ferite, miserie di ogni genere, e che nonostante tutto, anzi, forse proprio per la consapevolezza di queste realtà, riesce a proseguire, vedendo anche ciò che gli altri schivano o considerano di scarso rilievo.
Un’ironia amara, e il coraggio di chi ha già affrontato i colpi più aspri dei nemici, esterni ed interni. La quiete, dunque, come recita il titolo del libro. Ma, la quiete dei respiri fondati. Quiete, dunque, in opposizione al respiro, che invece è prova e condizione essenziale della vitalità, della possibilità di esistere e di interagire con tutto il bello e con tutto l’assurdo di cui è fatto il mondo.
“Sensibili e miti”: in questo modo Gabriella Montanari definisce le scorie del passato di Lena. Ed è di questa mitezza, ancora in grado di scatenare azioni e reazioni possenti che si nutre la poesia di questo libro.
“Ho solo imparato a convivere – dice –/ con l’urlo degli altri… tacendo/ quando vengo stuprato dalla loro demenza” – scrive Lena parlando di Ciro, un internato del manicomio. Ma forse, a ben pensare, Ciro è lo stesso Lena, o, più esattamente , Ciro è ognuno di noi, fuori e dentro le mura dei manicomi dell’esistere.
“Chiusi come bestie”, così, in queste tre parole, l’autore racchiude il senso e l’assurdo spietatamente reale di una condizione imposta da uomini ad altri uomini.
Però, ed è, lo confermo, il valore aggiunto del libro, non farsi ridurre davvero alla condizione di bestia, conservare l’umanità, può essere un percorso che conduce ad una consapevolezza maggiore, perfino artistica, basata sulla scrittura ma anche sull’osservazione. Sapere ancora, nonostante la cognizione del dolore, imposta a se stesso prima e poi subita dal mondo. Sapere ancora, nel senso di conoscere, ma anche di assaggiare, assaporare, un profumo, un dipinto, una bellezza, una pulsione sensuale o della mente, può condurre a quella quiete del respiro che è allo stesso tempo accettazione e rivolta tramutata in ricerca di bellezza e di poesia.
Tutto quello che rimane da dire, e non è poco, lo affido alla nota qui sotto riportata e ai versi tratti dal libro.
Il consiglio è, come sempre, quello della lettura diretta e individuale. La ricerca del libro e la lettura. Che, come ribadisco anche qui ed ora, è, alla fine, ciò che conta.
IM
**********************************************************
Nota di Gabriella Montanari
Sul manicomio di Aversa avevo letto poesie scritte da chi da lì ci era passato con «onorevoli» finalità politiche, per uscirsene poi con un antipasto di voci di pazienti misti, forse realmente incontrati, forse solo impersonificati. Si può anche essere poeti provetti e avvezzi agli scomodi meandri della mente, ma l’esperienza vissuta in prima persona, o quel che resta di essa, ha in bocca e sulla carta un sapore più convincente e persistente. Certo, Fernando Lena, non deve convincere di quel che può aver passato tra le mura del padiglione 5, adibito alla riabilitazione di ex tossicodipendenti. Oggi, dopo aver masticato un necessario silenzio, se non del tutto «digerito» (e vorrei anche vedere, i sassi restano a lungo nel crasso…) mi appare uomo «metabolizzato». Come un organismo che trattiene i nutrienti di quanto ingerito e ne espelle le scorie, il prodotto di scarto. E sono belle le sue scorie. Sensibili e miti, dolcemente radioattive, mai spente in velenosa cenere. Sin dalla premessa al poemetto che, nella lunghezza emotiva, tutto è tranne che -etto : «…quell’inferno mite che ancora oggi non so se detestare o ricordare con nostalgia ». Non mi stupisce questo stare in bilico. Sento una familiarità che trascende i rispettivi passati e affonda in una lava che cola sin da prima di essi. Qualcosa che chiamerei «sindrome della cella socchiusa». L’ambivalenza tra insofferenza per la reclusione e accettazione del perimetro amico. Il quadro, la struttura, il «no» che i pedagogisti consigliano di imporre al bambino affinché sperimenti, per poi rielaborarla positivamente, la frustrazione. La placenta, poi la culla, poi il lettino con le sbarre. Troppo azzardate come radici dell’ossimoro relegazione/rifugio, privazione/protezione? Come si può non provare nostalgia per l’inferno che ha rappresentato anche una sorta di conforto nella necessità di proteggersi da se stessi, dal mondo, dalle delusioni, dalle prove? Qui a Santa Maria della Pietà posso andarmene appena finito il lavoro, ma in realtà non me ne vado mai da sola. Luoghi e incontri come questi continuano ad abitarti la testa e le emozioni anche di ritorno sul tram, anche a cena, anche a letto. E l’indomani ci torni con la sensazione di rincasare, di essere atteso, di appartenere, di stare al sicuro. È ben poca cosa questa mia, ma penso intuire il sentimento di Fernando. Quiete è la parola chiave della sua poesia, la chiave della cella che crea struggente dipendenza affettiva mista ad anelito d’ali. Le sue sono storie di dolore mite, mitigato dalla chimica e dalla stanchezza dei trascorsi, quasi pace fatta con la pena, la pena interiore non scelta e quella reclusiva inflitta. Porto, parto sicuro. Incontro tra malesseri d’animo e di mente, accomunati dal nidificare su un ramo alto, lontano dai passi della gente, ma lontano anche dal cielo aperto. Rabbia assopita ma non al punto da scegliere la rinuncia alla libertà. Piuttosto, disillusione che mette una distanza sana dal ricordo. Chi riesce a uscire dal buio, poi si ritrova ad affrontare le piccole notti quotidiane con occhi di gatto, con un settimo senso di umanità. E lo si legge con commozione e non compassione, con stima per l’essere umano che trapela dal poeta. Per il bambino stupito di «io non speravo che me la cavavo». Non sempre il tempo ripara gli strappi, ma di sicuro aggiunge strati, epidermidi. Fossilizza segni, forgia nuove sagome di sensibilità e inventa linguaggi al passo con l’attualità del sentire. Dà forza, cazzo. E la poesia di Fernando ha la forza dell’Etna dalla pancia di fuoco e magma. Dalle guance irrigate di vapore acqueo che scalda.
FERNANDO LENA, I quaderni dell’Ussero, da «La quiete dei respiri fondati» , Puntoacapo editrice, 2014. A cura di Valeria Serofilli
« …
se solo si potesse
prenotare un angolo di paradiso
lui lo meriterebbe…
– ho solo imparato a convivere – dice –
con l’urlo degli altri… tacendo
quando vengo stuprato dalla loro demenza –
Ciro è un paranoico e basta…
È l’unico che respira oltre le mura
guardando negli occhi
la paura della gente inquieta
almeno quanto un sognatore
affamato di colori.»
Fernando Lena, LA QUIETE DEI RESPIRI FONDATI, I quaderni dell’Ussero, 2014
I
siete il nulla
sotto il sole apatico
di questa trincea.
Chiusi come bestie
ogni giorno
ascoltate i passi
per capire dov’è
l’inizio dell’abisso.
a volte e’una certezza
essere domati dalla follia
o solo un incubo
che vi abbraccia
con camicie interdette
stritolandovi di silenzio.
III
Intina da almeno cinquant’anni
vive intrappolata
nella coscienza di una bambina.
Tutto il giorno
vaga tra i padiglioni
abbracciando una bambola
come se fosse l’unica erede
della sua estraneità…
la domenica pranza con noi
esile come una creatura innocente
si ciba d’incanto…
parola dopo parola
diventa sempre più libera
di abitare il suo poema apatico
ma pieno di bambole e silenzi
che pettinano l’ira impavida
dei suoi coinquilini…
la sua follia ha una logica
che la proietta nella libertà:
ha scelto di non essere donna
per contenere l’odore infernale
degli uomini.
VIII
La chiesetta accenna
un do di campane
però non è domenica
quindi è solo
un altro funerale…
qui si muore e si vive
con un tempo indifferente
solo qualche lacrima
per un improvviso
mutamento cosmico
arriva dal cielo…
Passano una mano sull’oblio
i pochi amici rimasti
finalmente è libero
il demone… libero
di giocare con l’immenso
e di scegliere
una camicia più comoda
un po’ più alata
come quella di un angelo.
X
Cercano di fermare l’oblio
ma non è semplice:
ieri un altro suicidio
si è aggiunto
nel libro dell’inferno…
Peppino ha ingoiato un bullone
affermando la sua vocazione
di cadavere incatenato
tra lo spirito e l’impulso
di un cannibale…
era la spalla di Don Celeste
tutte le domeniche
serviva messa
con lo sguardo di chi
attende da sempre un miracolo…
Teatralmente era perfetto:
come un angelo del caos
adombrava d’imprevedibilità
ogni eucarestia.
XII
Nessuno pensa che Cecilia
possa davvero innamorarsi
di un ex tossico come me…
Dal buio irrompe
con una vestaglia bianca
per cercare un secondo
del mio respiro… forse
le basta per non soffocare
nel suo solito
pensiero di suicida.
Una come lei
se ha una certezza
e’ quella di essere primordiale
come una Eva bandita dal paradiso
per aver tradito.
Inseguire a tutti i costi
l’amore immorale
è stata una caccia al dolore.
Nessuno pensa
che con la sua bellezza
possa ancora ammansire
le belve dell’inquietudine
mentre il suo sguardo
cerca nel mio
la complicità di una favola.
XVI
Fedele tutte le mattine
un topo si gode
la sua boccata d’aria
poi sparisce verso
la puzza dei sogni
-io posso osservarlo
ma non osservare me
nella fatica che metto
durante il via vai
tra la libertà
e l’abisso…
amo questa morte
millimetrata
perche’ non disperde
il gelo dei carnefici –
XXI
Paolino arriva eccitato
indossa la solita tuta
di due taglie in meno.
Gioca da portiere,
ama il calcio in modo struggente…
Ogni tanto in infermeria
gli lasciano vedere qualche partita
non appena il suo Diego
(Armando Maradona)
aleggia sul prato
come un danzatore
lui inizia a lacrimare.
Vederlo contrastare
la sfera di cuoio
traccia un sorriso
sull’apatia dei farmaci
che lo vorrebbero immobile
davanti a una morte
che lo stuzzica…
Sorprende lo slancio che mette
nel chiedere alla felicità
quello che gli altri
calpestano da sempre:
un po’ d’erba,qualche palo
uno sguardo che delimita
90 minuti di libertà
XXII
quasi per gioco il vuoto
ha prosciugato la vena.
Una cintura, il sangue strozzato,
il buio nel mistero delle pupille
niente di più urgente abbiamo chiesto;
volevamo il mondo
iniettandolo nella discarica della
coscienza
grammo dopo grammo poi la morte
si e’ rivelata una cifra
di respiri spacciati.
XXIX
stanotte rivedo le tue mani
che inconsapevolmente
mi porgono un po’ di morte
– il tuo denaro
e’ solo per arginare
il caos dei miei globuli
almeno così credi
mentre l’adolescenza
accede nell’aria
come un volo di farfalle
predestinate-
Forse ho solo amato
il ciclo terminale di un miraggio.
Fernando Lena (1969) è nato a Comiso (Sicilia) dove attualmente vive e lavora. Si è diplomato all’istituto statale d’arte e per anni ha fatto il creatore di gioielli presso Valenza Po’ (Alessandria). Il suo primo libro risale al 1996 dal titolo “E vola via” edito da Libro Italiano poi dopo alcuni anni di silenzio ha pubblicato prima una breve silloge ispirata a otto tele del pittore Piero Guccione (archilibri edizione) e poi un libro più corposo dal titolo “Nel Rigore Di Una Memoria Infetta” sempre edito dalla Archilibri di Comiso. Costellato ancora da periodi di silenzio dopo esattamente 10 anni ha pubblicato l’ultimo libro un poemetto edito nella collana i Quaderni Dell’Ussero (Puntoacapo editrice ,anno 2014)dal titolo “la Quiete Dei Respiri Fondati”. Le sue poesie sono presenti in diversi blog, è stato anche finalista in premi come:Tivoli Europa Giovani,Vola Alta La Parola (premio Luzi), Astrolabio,Torre Dell’Orologio ecc. Frequenta spesso reading sforzandosi di portare i versi dove l’indifferenza poetica urla a gran voce.