Mese: dicembre 2016
LETTI SULLA LUNA (10): Ulisse, Vestali e altri testi in poesia e prosa di Valeria Serofilli
“vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.
LETTI SULLA LUNA (10): Ulisse, Vestali e altri testi in poesia e prosa di Valeria Serofilli
Propongo qui alcuni scritti di Valeria Serofilli. Poesie ispirate al mito ma anche viaggi ed esplorazioni della realtà attuale attraverso liriche e brevi racconti.
Come introduzione utilizzo, con riferimenti specifici al testo in questione ma anche con intenti di presentazione di carattere più ampio, la mia prefazione al volume “Ulisse”, a cui aggiungo per ampliare ed estendere la visuale gli interventi critici di Floriano Romboli e Andrea Salvini. IM
“Ulisse ”
Un caleidoscopio di immagini in grado di mettere in contatto presente , passato e ipotesi di futuro. Racconti che non temono di navigare verso e oltre le Colonne d’Ercole della fantasia senza però mai scordare la terra ferma dei ricordi e dell’osservazione diretta e concreta della realtà. Tramite un linguaggio stringato ma mai ignaro della forza dell’armonia e della lirica, fonte primaria e punto di partenza sia della produzione letteraria dell’Autrice che della sua ispirazione. I racconti sono preceduti da citazioni che orientano la ricezione, o meglio, fanno presagire contenuti e impressioni, incontri e sensazioni, contesti da scoprire passo dopo passo. Il ragionamento sul tempo e sul destino, sulla ragione di ciò che è di per sé, per sua natura intrinseca, irrazionale e imprevedibile, non può avere basi di appoggio certe, se non nella certezza effimera e vitale di una scommessa: quella del viaggio intorno al mondo immaginato e descritto da Jules Verne, oppure quello di Ulisse, ancora lui, figura imprescindibile, il cui percorso dura anni ed è preceduto da immense attese e seguito da lidi sconfinati di rimembranze, rimpianti e volontà di partire di nuovo, nonostante tutto. Ma l’interpretazione soggettiva e l’accorato auspicio dell’Autrice la conducono a dare vita ad un Ulisse atipico, lontano dall’immagine consolidata e prevalente, spinto dalla volontà di un ritorno definitivo in quanto appagato dall’amore finalmente raggiunto, privo quindi di ulteriori pulsioni di fuga.
I riferimenti autobiografici, caratteristica propria della Serofilli, sia in ambito narrativo che nella sua scrittura poetica, compensano in parte la componente fluida del moto mentale e narrativo. Senza tuttavia fare evaporare del tutto quel senso di mistero che si cela a volte, in modo preponderante, proprio dietro e dentro gli atti e gli oggetti in apparenza più quotidiani e prevedibili, come ad esempio nel racconto “Qui c’è il sole”dedicato alla madre e al suo mondo circoscritto nell’ambito delle mura di una casa, che, in virtù del potere immenso della fantasia e del ricordo, risulta in ultima istanza assolutamente libero, privo di barriere e autenticamente poetico. Questo racconto sembra esulare dai temi prevalenti del viaggio, ma, per la sua natura ossimorica, in realtà risulta del tutto consono ed anzi in grado di illustrare ulteriormente, per analogia e contrasto, i simboli e i contenuti di maggior rilievo e presa emotiva. Del tutto esplicite in uno dei racconti da cui non a caso la raccolta prende il titolo, le tematiche del viaggio e della ricerca del sé si ritrovano nelle varie storie in forme diverse ma in ogni caso similari e cariche di risvolti simbolici e allegorici a seconda delle situazioni dei protagonisti e degli intrecci. Anche il testo “Sirena”, il cui titolo stesso rientra nel campo semantico del mare, è unito agli altri racconti dal sottile fil rouge del potenziamento delle normali capacità percettive condotte al di là delle comuni caratteristiche e capacità umane. In questo contesto Il titolo di un altro dei racconti, “Un viaggio dentro”, assume una valenza altamente simbolica al punto da poter essere considerato alla stregua di un potenziale titolo alternativo per l’intero volume. Il viaggio della Serofilli, per scelta dell’Autrice, supera con levità le barriere del tempo e dello spazio, consentendo in tal modo anche l’inserimento di racconti di tono quasi fiabesco come Natale da Gatti, dalla raccolta Comete per la coda, per adulti che si sentono ancora bambini.
La narrazione della Serofilli in questo suo libro costituisce quindi un’esplorazione di ciò che è percepibile e, in modo ugualmente presente e urgente, di ciò che non si riesce a visualizzare, quello che resta al di là delle facoltà umane. Ciò che assilla e impaurisce ma al contempo attrae, quell’onda che cela l’orizzonte ma verso cui si dirige la prua, con una sorriso folle ma irrinunciabile.
Alcuni racconti sono di impronta più “lirica”, vele aperte ad un vento malinconico ma lieve. Altri sono tenacemente improntati alla ricerca di una logica ferrea che sfugge, si eclissa o si sposta di qualche grado, in modo costante e beffardo. Una sconfitta accettata in partenza, quella della navigazione cieca, quindi, a suo modo, una sorta di paradossale vittoria. “Perché il bello consiste nell’essere di ritorno da ogni dove senza essere andati da nessuna parte se non dentro se stessi e il proprio animo”, scrive la Serofilli. Il paradosso si fa ossimoro e viceversa, in un gorgo continuo, immutabile e cangiante, che induce a smarrire la rotta, oppure a ritrovarla, nell’attimo in cui si accetta che il viaggio non è il punto d’arrivo ma il percorso.Nei racconti di questo libro la memoria si unisce alla riflessione sul presente e sul futuro, su timori e aspirazioni dalla cui coesistenza emerge il senso del viaggio la cui meta è, per la voce narrante e per ogni viaggiatore di parole e di sogni, un’Itaca da definire e ridefinire gradualmente tramite una narrazione sempre viva e aperta all’incontro con istanti ed echi della storia, individuale e collettiva. Perché, citando l’epigrafe del racconto eponimo, possiamo affermare che, nel subconscio, molti pensieri hanno “nostalgia di casa”. Un’estensione logico-etimologica del termine “nostalgia”, che nega il concetto nell’atto di confermarlo, oppure il contrario. Il tutto ulteriormente complicato dal fatto che il subconscio è un luogo altro della coscienza, quasi un alter ego, una persona estranea che abita dentro di noi. Sulla base di questi contraddizioni e di questi attriti, fertili, o almeno in grado di generare scintille che illuminano per qualche attimo il panorama, la Serofilli ha messo insieme tessere narrative che costituiscono un mosaico interessante, di impronta personale, una prosa che ammicca a tratti alla poesia ma senza mai scordare l’assillo dell’osservare per tentare di comprendere, se non la verità, qualcosa che, nel bagliore dei mari, tra la Colchide e le nostre città, tra i secoli passati e le asprezze del presente, le possa somigliare.
IM
Testi da Vestali, poesia (Ibiskos Ulivieri Editrice, 2015)
“Penelope”
Scriverò sul tuo corpo i miei rimpianti
fra i tuoi capelli neri e bianchi
Ci siamo lasciati e ripresi mille volte
tra infinite voglie
Il filo interrotto e saldato è diventato tronco
su cui arrampicarsi:
voglio un cambiamento/ una catarsi
Sul tuo corpo tracce
del nostro amplesso/ miste ad altri odori
di cui non mi spiego il senso
Invoco venti che dissipino i tuoi torti/ tutti
i ti amo estorti
Tesso e intarsio
di te mai sazia
All’amore, al fuoco di passione
non chiedo verità
tra il limite del sogno e recriminazione.
“Lo specchio”
Il tempo impazzisce i suoi ricordi
Chi è la più bella – chiedesti
ed io risposi
Capelli bianchi, chili in eccedenza
incolmabile perdita d’amplessi
Fai la somma: assai probabile crisi d’astinenza
Non scriverei più cuori sulla sabbia
né sullo specchio/ appannato dai nostri amplessi
ma il contenuto è lo stesso:
di te non so far senza
-Illusa Penelope/ lui non tornerà
e se lo farà, non sarà poi il tuo telaio a trattenerlo
né potrai recidergli le ali o sabotare il suo vascello
spezzandone l’albero maestro
che inesauribile è la sua sete-
– Intanto ho messo il telaio accanto alla finestra
per essere la prima a gridargli ben tornato –
“Quando incontrerò i tuoi occhi”
Quando incontrerò i tuoi occhi
sarà connubio/ stasi e Paradiso
sarà che tutto tornerà sorriso
e la mia mente in volo, iconostasi
di territori dall’amore invasi
Quando incontrerò i tuoi occhi
estati d’estasi
per tutti gli inverni trascorsi/ senza i tuoi occhi
senza che mi tocchi
Uniti nella distanza/ distanti e
più che mai uniti /proprio perché distanti
ma troppo lontana è la Colchide.
SEZ.4 – Itaca
“Malata di tua perdizione”
(Omaggio a “Folle, folle, folle di Amore per te”Folle, folle, folle di Amore per te”olle, folle, folle di Amore per te”
di Alda Merini)
Ho avuto a lungo un uomo
che viveva della mia stessa essenza,
empatia/ dedizione meravigliose
ma che senza accorgermene/ mi portava nei suoi abissi
gabbia di cristallo mai infranta
E la sete, la pazzia/ la cieca corsa verso il mare aperto
smarrendo il mio sguardo/ oltre la soglia dell’amore
“Tout passe
tout casse
tout lasse et
tout se remplace” mi disse
A chi interessa ora/ il mio pianto
mentre nuvole di aceto corrugano il mio canto
tra le parole derise di un risveglio ancora vago
A chi interessa
se ha trasformato ogni mio gemito in tormento
se folle/ cerco il suo calore adorato
nel buio e gelo di una stanza vuota?
Mi trovo ora a vacillare incerta
sui colori accesi di quei nostri giorni.
POSTFAZIONE DEL PROF FLORIANO ROMBOLI A ULISSE
Sotto il segno di Ulisse*
In questo intervento intendo soffermarmi su due recentissimi lavori di Valeria Serofilli, l’e-book Ulisse (La Recherche, 2014), una raccolta di brevi racconti, e la silloge poetica ancora inedita, Vestali; si tratta di opere differenti, pensate e realizzate autonomamente eppur non prive di molteplici rapporti ideali e formali, tali da rendere criticamente proficuo un attento esame comparativo.
Occorre comunque muovere da una premessa: la ricerca della scrittrice, ormai piuttosto ricca di testi, appare caratterizzata dall’interazione di intensa esperienza personale e di raffinata elaborazione culturale-letteraria la quale canalizza e sublima i dati emozionali e sentimentali attraverso una strategia di allusioni prestigiose, di riferimenti archetipici di rilievo pregnante e dall’effetto universalizzante.
Nelle prose che compongono Ulisse – spesso di “impronta lirica”, come bene ha visto il prefatore Ivano Mugnaini – i richiami formano grappoli associativi:
Il mio uragano personale con te, che mi prendi e mi lasci come l’onda che sbatte sullo scafo. Ulisse sirena, naufragio d’anime. O Adamo e la sua donna, dai tempi (racconto Ulisse (il mio Ulisse);
Ora e da ora, con te, sarà un nuovo viaggio. Riprende il volo d’Icaro, ma con ali che non siano di cera, che non si sciolgano al fuoco di nuove passioni: basi più solide per nuove fondamenta. Così ti dico – Buon viaggio, mio Ulisse – ( ivi, corsivo nel testo ).
E’ indubbia d’altronde la centralità dell’antico eroe greco, stando altresì all’indicazione dell’autrice presente nell’explicit del racconto eponimo, racconto d’apertura che fin dal titolo – Ulisse (il mio Ulisse) – rivela quell’interazione compositiva a cui si è in precedenza fatto cenno:
Con l’augurio, più che altro a me stessa, che tu sia un Ulisse omerico, che torna a casa dopo il varco delle colonne d’Ercole, e non dantesco, a perdersi nell’illimitato.
Il rinvio alle grandi auctoritates poetiche, a due delle massime della letteratura europea, è di certo stimolante e giustifica una serie di considerazioni introduttive di carattere storico.
Per quanto riguarda Omero, è da tener presente specialmente l’Odissea, giacché, se nell’Iliade l’argomento principale consegue da una puntualizzazione tematica sul filo del discorso narrativo ( l’ira di Achille e i suoi effetti rovinosi per l’esercito degli Achei), nel secondo poema fin dall’inizio s’intende prevalentemente “cantare un uomo”( Àndra moi ènnepe, Musa…”), ovvero delineare e proporre un modello antropologico-culturale, suggerire le peculiarità tipologiche di una figura esemplare e nondimeno assai complessa, di grande interesse proprio in forza delle tante sfumature che la contraddistinguono.
Definire Ulisse “eroe del viaggio” può risultare banale; lo è meno porre in evidenza l’àmbito di costrizione, di sofferenza e di privazione in cui il paradigma “viatorio” si realizza ( la persecuzione del dio del mare Poseidone) e che induce nel navigatore il desiderio struggente del nostos, del ritorno.
Gli episodî della guerra di Troia che rivivono nel canto dell’aedo Demodoco alla reggia di Alcinoo, re dei Feaci, provocano in lui un pianto accorato: egli è l’uomo che “molto sopporta” (polýtlas).
Numerosi altri epiteti il poeta attribuisce al suo personaggio, con chiara volontà di qualificazione etica e psicologica; Ulisse è infatti ora polýmetis ( uomo dai molti pensieri, simbolo stesso della libido sciendi, come quando, nella caverna di Polifemo, si trattiene nell’antro perché vivamente interessato a conoscerne gli abitatori, o in occasione dell’incontro con le Sirene, allorché vuole ascoltarne il pericoloso canto ammaliatore), ora polýtropos (dall’ingegno multiforme, dall’intelligenza duttile e, tra l’altro, capace di controllo razionale degli impulsi istintivi, come nell’atto di punire il Ciclope omicida o nel compiere la vendetta sui Proci), ma è pure polymèchanos (dalle tante astuzie, dai mille disegni ingannevoli, sostenuto in questo dall’avvincente, efficacissima, inarrivabile eloquenza).
La tradizione post-omerica e segnatamente virgiliana operò con riduttivo schematismo sulla varietà e densità di quel modello, privilegiando le doti intellettive, ma sovente connotandole in senso negativo, poiché stimate coefficienti decisivi di obliquità fraudolenta, quando non di aperta malvagità: Ulisse è infatti designato quale dirus, saevus, durus, pellax e fandi fictor, scelerum inventor…
In Dante la sottolineatura valorizzante l’esigenza assoluta della conoscenza, la narrazione dell’avventura estrema dell’intelligenza esplorativa giungono a una tensione acuta al punto di configurare il “folle” ardimento e, secondo taluni interpreti, la dismisura di un comportamento passibile della condanna divina.
Non è possibile in questa sede diffondersi ulteriormente sulla fortuna poetica di Ulisse, anche soltanto nella letteratura italiana, da Tasso a Foscolo; la sua figura così variamente e intensamente emblematica ha nel tempo sollecitato molti scrittori al confronto e all’appropriazione critico-culturale che nel Novecento si sono risolti in un significativo processo di frantumazione del profilo dell’eroe, attraverso la disgregazione dell’apparato mitologico solitamente ad esso connesso e un proposito selettivo mirante all’apprezzamento di un solo frammento della vasta costruzione omerica.
Avendo ormai alle spalle decenni di esperienza didattica, ricordo lo stupore degli studenti disorientati per la non immediatamente individuabile presenza di Ulisse nel celebre, omonimo componimento di Umberto Saba:
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’acqua emergevano…
(…) Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi, me al largo
sospinge ancora il non domato spirito… ( vv. 1-3 e 9-12 )
Gli è che il riferimento alla terra di “nessuno” (noto eteronimo dell’Itacese) vale un atto di sfida morale, la rivolta contro l’ordinarietà delle comode, ma trite consuetudini, significa l’aspirazione a una vita libera, all’indipendenza etico-intellettuale insita nell’idea di “spingersi al largo”, di raggiungere il “mare aperto” che garantisce all’esistenza la qualità di un’avventura gratificante perché imprevedibile.
Nella cultura del secolo appena trascorso prevale perciò un approccio personale alla vicenda del guerriero-navigatore, un’adibizione spiccatamente soggettiva di essa mediante l’utilizzo meditato di un particolare suggestivo, di un tratto che risulti connaturale e coinvolgente.
Analoga è la disposizione mentale di Valeria Serofilli, secondo quanto è possibile acquisire tramite l’analisi testuale; comincio pertanto con due citazioni, la prima proprio dall’inizio del racconto Pagina mare:
Liquidità e fisicità, due realtà così diverse, come possono del resto andare d’accordo? Forse solo in virtù del fatto di essere entrambi, uomo e mare, simboli della dinamica della vita e della creazione in senso ampio. Ma cos’è mai l’uomo? Non è forse un abisso, non è forse, come l’acqua, un fluire continuo in continua transizione tra le cose da compiere e il già portato a termine?
E l’altra dalla quarta sezione (Itaca) della raccolta poetica Vestali:
Ma che senza accorgermene/ mi portava nei suoi abissi
gabbia di cristallo mai infranta
E la sete, la pazzia/ la cieca corsa verso il mare aperto
smarrendo il mio sguardo/ oltre la soglia dell’amore ( Malata di tua perdizione, vv.4-7 )
E così il motivo “viatorio” e la prospettiva della libera espansione vitale dell’individuo si precisano in queste pagine nel senso dell’incontro con l’altro, nell’intesa “empatica” con il “compagno della vita”, nella relazione anche e soprattutto fisico-amorosa, sensualisticamente appassionata; e questo si determina all’interno di una concezione della realtà inequivoca e incardinata sui concetti di liquidità e di solidità, del resto fondamentali pure quali fattori dell’organizzazione formale dei testi.
La liquidità rimanda al costante fluire tipico dell’ordine delle cose e in particolare della condizione umana, nella sua dimensione esteriore (quella dei rapporti interpersonali) e in quella intima:
E la notte il sub, piccola anima errabonda, mi ha chiesto scusa con un bacio e un dolce abbraccio ( racconto Il sub, corsivo mio );
Si decise infine che la piccola anima errabonda potesse continuare a “nuotare” fino alla vita… ( racconto La sirena, corsivo mio );
Perché il bello consiste nell’essere di ritorno da ogni dove senza essere andati da nessuna parte se non dentro se stessi e il proprio animo ( racconto Un viaggio dentro)
Fluire è il continuo mutamento, la lotta all’abitudine, all’impersonalità delle situazioni cristallizzate (“Passavano le stagioni, mutavano i luoghi, non la nostra anima. Presto avremo fatto ritorno alla nostra vita di sempre ma ora eravamo felici e il fatto che non ci accorgessimo di esserlo, voleva dire che lo eravamo”, da Un viaggio dentro ), ma comporta altresì variabilità, incertezza, precarietà, potenziale disordine:
Ma vento che va e viene
ed io disillusa penelope che
tesse e disfà
Quale più annichilente vertigine a stordirmi
e rinsavire? ( Scirocco, in Sezione prima, Sirtaki, vv.12-16)
Ora l’incessante mutabilità – e la conseguente instabilità intellettuale e sentimentale-morale – non sono congeniali all’animo umano, che sa di certo godere dell’intensità dei momenti straordinarî, ma non si appaga dell’attimalità esaltante: pretende di fissare, dare consistenza stabile, continuità e durata alle situazioni, anche sensuali e voluttuarie, fisico-corporee:
Tutti gli incensi/ dall’ambra al muschio selvatico
non valgono una stilla/ del profumo della tua pelle
Dopo l’amore
sul tuo corpo tracce
del nostro amplesso/ miste ad altri odori
di cui non mi spiego il senso (Penelope,in Sezione , Ulisse,vv.13-15);
mentre intesso tasselli musivi sul tuo corpo/ ogni tassello un ricordo (ivi,vv.7-11);
E’ che l’amore lo riconosci dall’odore e tu hai l’odore dell’uomo della mia vita (racconto Ulisse).
Viaggiare affascina, eppure è necessario il “rientro in porto”, e quindi il possesso sicuro, il saldo legame, l’appartenenza profonda che trasformi l’ebbrezza dei sensi, la vibrazione passionale in relazione duratura, in tela solida e resistente, lungi dalle cadute nell’amarezza dell’abbandono, nella solitudine del freddo, sterile ricordo:
A chi interessa
se ha trasformato ogni mio gemito in tormento
se folle/ cerco il suo calore adorato
nel buio e gelo di una stanza vuota?
Mi trovo ora a vacillare incerta sui colori accesi di quei nostri giorni ( Malata di tua perdizione, cit., vv. 15-19)
In questi versi della poetessa moderna si avverte l’eco dei lamenti di donne d’altri tempi rivolti agli amanti lontani, del tipo di quelli consegnati, per esempio, all’elegia amorosa di Ovidio nelle Heroides, che non casualmente principiano proprio con la lettera di Penelope allo sposo assente da anni:
Hanc tua Penelope lento tibi mittit, Ulixe/ nil rescribas attinet: ipse veni! (vv.1-2: “E’ tua moglie Penelope a inviarti questa lettera, Ulisse, tardivo a ritornare; non c’è bisogno che tu risponda: vieni di persona!”);
Tu citius venias, portus et ara tuis! (v.110 : “Torna al più presto, tu che per i tuoi cari sei porto e altare di salvezza!”)
Il libro ovidiano raccoglie il dolente messaggio d’amore di molte eroine del mito, da Arianna a Didone.
Lo strazio della regina cartaginese abbandonata da Enea era stato già rappresentato con insuperati accenti patetici da Virgilio nel quarto libro dell’Eneide, ove si legge uno spunto, che forse sarà stato presente alla Serofilli, perché corrispondente appunto a quella necessità di assicurare tangibile continuità, carattere non transeunte all’incontro erotico-sentimentale:
Si quis mihi parvulus aula/ luderet Aeneas, qui te tamen ore referret/ non equidem omnino capta ac deserta viderer (vv.328-330: “Se giocasse per me nella sala del trono un piccolo Enea che nondimeno riportasse nel volto la tua fisionomia, non mi sembrerebbe di essere del tutto umiliata e abbandonata”)
Invero nella lirica Penelope prima citata si leggono versi siffatti:
Ci siamo lasciati
e ripresi mille volte
tra infinite voglie
Il filo interrotto e saldato
è diventato tronco
su cui arrampicarsi:
voglio un cambiamento
una catarsi (vv.5-12)
L’uomo è per sua natura incline a fermare, a stabilizzare, non si rassegna facilmente al flusso permanente, come annotava con incisiva lucidità Luigi Pirandello in un passo famoso del saggio L’umorismo (1908):
La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo di arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi siamo già forme fissate…Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini…
Al netto dell’impianto critico-riflessivo del discorso del grande scrittore e drammaturgo siciliano e a prescindere dalle deduzioni che egli ne ricavava sul fondamento di un radicale scetticismo corrosivo e demistificatore, un atteggiamento simile si riscontra anche in queste ultime opere di Valeria Serofilli, dominate dall’antitesi fra attimalità e continuità, fra dionisismo e vestalità (intesa quale vocazione alla custodia del sacro fuoco dell’amore: “Eccomi Vestale/ in estasi di te”, Sirtaki, in Sezione prima, Sirtaki,v.1).
La visione dell’autrice è a ben vedere in buona parte contraddittoria, per cui non sorprende che a conclusione dell’ultima sezione di Vestali i versi appaiano strutturati secondo un insistito, elegante gioco di antitesi:
Ma questa è l’ora/ in cui ti desidero forte:
Ferita ormai cauterizzata
torna più acceso di prima/ più tenace (…)
nel freddo eri la luce che scaldava il cuore
ora tu il buio, il buco nero
nel mio nuovo, vano tentativo di luce ( vv.11-12 e 20-23)
Floriano Romboli
. . . . . . . .
*Questo è il testo lievemente adattato della relazione tenuta a Pisa il 20 marzo scorso nella Sala del Consiglio dei Dodici in occasione della presentazione dell’e-book antologico di racconti brevi Ulisse (La Recherche, 2014) e del Quaderno dell’Ussero (Puntoacapo Edizioni, Collezione 2014) di Valeria Serofilli. Ho conservato largamente alla struttura dell’intervento la forma originaria della comunicazione orale che mi auguro non dispiaccia all’autrice e ai lettori.
Testi da Ulisse, racconti,( Ibiskos Ulivieri Editrice, 2015)
ULISSE
(Il mio Ulisse)
“Felice come Ulisse chi ha varcato i mari,
o chi fino alla Colchide si è spinto, Giasone,
che poi tornando esperto e ricco di ragione
il tempo che gli resta si gode fra i suoi cari!”
J.Du Bellay, Les regrets
Fuori piove. Ma io a combattere la mia tempesta privata, il mio uragano personale con te, che mi prendi e mi lasci come l’onda che sbatte sullo scafo. Ulisse sirena, naufragio d’anime. O Adamo e la sua donna, dai tempi.
Mi chiedono di scrivere, ma questa delusione blocca i miei sensi e la mente, mentre mi trovo a ragionare con la parte debole della testa, che viene chiamata cuore, con la viva convinzione che se tutti cominciassimo a pensare e decidere col cuore, l’intero universo ne trarrebbe giovamento.
Poi un lampo, uno squarcio di luce, un cambio di rotta: una telefonata ad aprire un nuovo mondo.
E torni da me, ed io a riprenderti ancora, perché anch’io ho tanto da farmi perdonare. Anche se mai quanto te. E’ che l’amore lo riconosci dall’odore e tu hai l’odore dell’uomo della mia vita, un po’ macchiato d’inchiostro e penna.
Quest’ultimo periodo abbiamo avuto grossi problemi, è vero, così accettando ogni compromesso che possa portare un qualche vantaggio, tra il vissuto e l’immaginato io in cucina a comporre inutili poesie e racconti pseudo calviniani, e tu romanzi nella camera da letto.
E a sprazzi riemerge la nostra storia, mentre sempre più labili i confini tra dentro e fuori, coscienza frammentaria di una unione. Ed è ancora poesia.
Ora e da ora , con te, sarà un nuovo viaggio. Riprende il volo d’Icaro, ma con ali che non siano di cera, che non si sciolgano al fuoco di nuove passioni: basi più solide per nuove fondamenta.
Così ti dico – Buon viaggio, mio Ulisse – .
Con l’augurio, più che altro a me stessa, che tu sia un Ulisse omerico, che torna a casa dopo il varco delle colonne d’Ercole, e non dantesco, a perdersi nell’illimitato.
Perché il vero viaggio consiste nell’ essere di ritorno da ogni dove senza essere andati da nessuna parte se non dentro se stessi e il proprio animo. Per darsi alla luce, preparando il terreno all’altro viaggio di scoperta che inizia con un piccolo passo: quello in direzione dell’altro.
PAGINA MARE
(Figlio dell’onda)
Solo dopo aver conosciuto la
superficie delle cose … ci si può
spingere a cercare quel che c’è
sotto. Ma la superficie delle
cose è inesauribile.
Italo Calvino, Palomar
“Vi sono state due rivoluzioni, una tra l’uomo e la terra e una tra la terra e il mare”, era solito spiegare il mio professore di geografia nel corso delle lezioni universitarie. Per la proprietà transitiva, aggiungo, ve n’è stata dunque una tra l’uomo e il mare. Liquidità e fisicità, due realtà così diverse, come possono del resto andare d’accordo? Forse solo in virtù del fatto di essere entrambi, uomo e mare, simboli della dinamica della vita e della creazione in senso più ampio.
Ma cos’è mai l’uomo? Non è forse un abisso, non è forse, come l’acqua, un fluire continuo in continua transizione tra le cose da compiere e il già portato a termine?
Posso provare a dire, semmai, cosa non è: non è certo un essere puramente fisico, come sostiene l’Holbach. Se infatti le ossa si ricollegano alla terra, il suo sangue non richiama forse l’acqua, tanto che la medicina cinese nella teoria dei quattro mari cosmici stabilisce una stretta connessione tra il corpo umano e il cosmo in cui la testa è il cielo, gli occhi il sole, il sangue la pioggia e gli umori e le vene i fiumi?
E’ forse in quest’ottica che il Martin Eden di London si getta nell’acqua restandone per sempre inglobato, diventando, da buon marinaio aspirante scrittore, un tutt’uno con la pagina mare, inchiostro di vita per sempre impresso sul foglio in cui, profumi, colori, suoni, ricordi, aspirazioni e desideri si corrispondono in un infinita sinestesia.
Perché, facendo mio il pensiero di Calvino,“ solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose… ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile”.
Il SUB
“L’inconscio è un particolare regno della psiche
con impulsi di desiderio propri, con una propria
forma espressiva e con propri meccanismi psichici
che non vigono altrove”.
S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi,1915/32
La Sarda la chiamavo, la mia compagna d’Università con cui studiavo Lettere e Teatro. Conviveva, e per quel periodo non era così usuale tanto che altre mie amiche mi chiedevano- Ci hai studiato insieme? E’ vero che ha il letto matrimoniale nella stessa stanza vicino alla scrivania?-. E la Sarda, con quel suo parlare preciso, essenziale, ben scandito , senza saperlo mi rivelò la più grande delle verità: – di giorno litighiamo, peggio, non mi guarda; la notte però mi cerca-.
Ne è passato di tempo.In quest’ultimo periodo di giorno litigavamo, peggio, non mi guardava; la notte però mi cercava.
Poi nel buio alcune sue parole tra l’interrogazione e la discolpa, come svelare un segreto, mettermi al corrente di un qualcosa d’importante.
Perché l’uomo è antico. Ma io non gli diedi peso. Poi lo strappo definitivo, perché una donna dovrebbe capire da sola quando è il momento della scissione da tanti piccoli infiniti indizi, ed io non l’avevo capito. Forse perché in fondo non lo era, la fine. Perché l’amore vero va “oltre”: e dopo giorni eterni il tuo richiamo forte -_”La casa senza di te non ha senso né vita. E non solo la casa”- e quella canzone con dedica speciale.
Sono tornata.
E la notte il sub, piccola anima errabonda,mi ha chiesto scusa con un bacio e un dolce abbraccio. Per poi diventare di notte in notte sempre più acceso.
E mentre rifletto se il campo d’esperienza dell’inconscio sia una realtà propria o vi influisca la quotidianità, mi trovo a chiedermi se succederà ancora che il giorno litighiamo, peggio non mi guardi, e che la notte però mi cerchi.
Ed a rispondermi –pazienza, la notte aspetterò il sub- o meglio –Attento amore, non dirò pazienza aspettando la notte il sub-.
“Secondo le più recenti ricerche il subconscio
sembra essere una specie di ghetto dei pensieri.
Ora molti di essi hanno nostalgia di casa.”
Karl Kraus, Di notte, 1918.
UN VIAGGIO DENTRO
Di solito a chi mi chiede perché amo viaggiare in treno rispondo che, treno o non treno, il vero viaggio è quello dentro noi stessi.
Rispondo che so quello da cui fuggo ma non quello che cerco.
E se è vero che nei più giovani il viaggio fa parte dell’educazione mentre negli adulti dell’esperienza, è anche vero che io, di questa esperienza, ne ho ben poca.
Non ho viaggiato molto.
Ma ricorderò sempre la volta che il controllore ci chiese scusa per essere entrato nel nostro scompartimento, l’ultimo del vagone. Eravamo abbracciati, stretti, i sedili un letto di petali, i cuscini sdruciti che hanno ospitato migliaia di persone, la più bella imbottitura: il cielo in uno scompartimento direi e quel gesto di aprirlo con forza suonò come una violenza nei confronti di quella bolla spaziotemporale propria solo degli innamorati.
La cosa che l’amore sopporta con maggior fatica è l’intrusione di estranei. Se poi tocca anche pagare, questo diventa veramente insopportabile.
Il treno scivolava sulla rotaia e noi custodi del più grande segreto, con l’infinito a portata di mano, ed io con la tua mano nella mia, felici come Ulisse, senz’altra cura che noi stessi e il nostro viaggio: quel vagone il solo posto, l’unico, per incontrarci.
– Il treno viaggia con trenta minuti di ritardo – annunciava l’altoparlante, ma per noi non c’era ritardo, perché non c’era tempo. Era il treno stesso a scandire i nostri battiti oltre il vetro opaco. Passavano le stagioni, mutavano i luoghi, non la nostra anima. Presto avremo fatto ritorno alla nostra vita di sempre ma ora eravamo felici e il fatto stesso che non ci accorgessimo di esserlo, voleva dire che lo eravamo. Un po’ come per la salute. Ed io mi sentivo l’ape di Trilussa, piena di felicità per essersi posata su un bocciolo di rosa, e il mio bocciolo eri tu. Si, presto avremo fatto ritorno alla nostra vita di sempre ma ora nessuno, neanche il controllore, ci avrebbe separato. Neanche l’insistente e martellante annuncio dell’arrivo ad ogni prossima stazione, utile ma quanto mai disarmonico e dissacrante. – E’ la rapidità a generare il vizio della fretta – mi trovai a pensare . Un vizio che ora ci era estraneo.
E se Marinetti lodava la bellezza della velocità, per noi, in quel momento, il treno in corsa era bello solo perché ci permetteva di stare insieme. Avrebbe potuto anche star fermo, quel treno, perché ugualmente in corsa verso il nostro amore.
Ciò che provavamo era un alternarsi di calma serenità, propria di chi si muove tra gli oggetti dei sensi con animo sgombro d’odio e d’amore; serenità dunque, piacere e pazzia.
Pazzia, si, con quel certo compiacimento che solo i pazzi conoscono mentre tracciano la via che percorreranno i savi. Presto avremo fatto ritorno alla nostra vita di sempre e di questa rosea pazzia non sarebbe restata traccia, se non sulle nostre guance ancora rosse di baci. Saremo tornati alle nostre abitudini a cui è difficile dire addio. E l’abitudine, triste surrogato della felicità, avrebbe preso il sopravvento su questo nostro tempo, su questo nostro viaggio. Ma ora il treno in corsa scandiva quel nostro tempo altro.
Giungemmo. Dove? Alla stazione della nostra meta, con quel distanziamento necessario per giungere alla conoscenza. Per capire che molto spesso quelle verità per raggiungere le quali ci mettiamo in cammino, già le abbiamo davanti agli occhi e non ce ne accorgiamo.
Il treno ripartì per tornare alla partenza.
Perché il bello consiste nell’ essere di ritorno da ogni dove senza essere andati da nessuna parte se non dentro se stessi e il proprio animo. Per darsi alla luce, preparando il terreno all’altro viaggio di scoperta che inizia con un piccolo passo: quello in direzione dell’altro.
E tu,mio Ulisse, figlio dell’onda sei tornato.
da Amalgama, I quaderni di Poiein – Valeria Serofilli, (puntoacapo editrice 2008)
Paolo e Francesca
(Inferno, canto V)
Lo sguardo complice
il furto di una vita
in quella mela / labbra rosse
Adamo ed Eva
clonati dal peccato / prima radice
rinati pallidi dalle pagine
di un libro/ da quel bacio
unico / sia pur imitativo
A tanta passione / troppa condanna
Con Dante io vi comprendo!
(da Amalgama,I quaderni di Poiein – Valeria Serofilli, puntoacapo editrice 2008)
Nota dell’Autrice
Il testo è tratto dalla raccolta Amalgama che si articola in tre sezioni di cui la seconda, Dantesche,che accoglie questo testo su Paolo e Francesca, intende porsi come una rilettura in ottica personale ed individuale di alcune delle vicende più toccanti narrate in versi nella Divina Commedia (Paolo e Francesca ma anche Ulisse, Il Conte Ugolino, Pier delle Vigne).Personalmente concordo dunque col Bardi che la condanna possa suonare beffarda in quanto essi in fondo non hanno seguito che l’impulso irresistibile dell’amore che nasce dalla visione della bellezza dell’uno e dell’altro: può bastare un solo gesto, una parola, uno sguardo, per scendere nell’abisso, ed è quello che successe ai due amanti (v 132-138 ma solo un punto fu…”).Quel giorno s’interruppe e per sempre la lettura del libro galeotto.
Su Paolo e Francesca in “Amalgama” di Valeria Serofilli
Pochi canti danteschi come il V dell’Inferno sono stati letti, discussi, analizzati, rivissuti e, a volte, anche traditi. In pochi altri testi letterari ci troviamo a confronto con il dissidio fra l’abbandono, che pare così ovvio, alla più travolgente delle passioni umane e le sue possibili rovinose conseguenze, tra cui, la più terribile, consiste nella dannazione eterna. Ha talmente esercitato da subito il suo fascino sui lettori da diventare uno dei canti più letti e diffusi anche prima del completamento della Divina Commedia, come ha mostrato la ricognizione di uno dei “Memoriali bolognesi” risalente al 1304. I critici si sono divisi a lungo su di esso. Canto dell’amore o canto della pietà? Il Caretti trovò una brillante soluzione critica: amore e pietà sono due “parole‑tema” che non hanno un vero significato se considerate separate, ma che si rafforzano potentemente se viste l’una nell’ottica dell’altra. Il Canto genera il senso di una scissione dolorosa e mai pacificata. Paolo e Francesca sono uniti per sempre dal loro amore, ma in questa unione non troveranno mai pace. L’amor cortese che anche Dante ha sentito come fonte di elevazione spirituale e di poesia nella sua giovinezza, fallisce clamorosamente di fronte alla condanna divina, come un sogno che svanisce quando si viene destati da un evento catastrofico. Dante personaggio del Canto rivive in sé la sua stagione creatrice giovanile e sembra non accettare questa condanna: prima si turba sempre più e alla fine sviene, tronca il confronto, quasi si autocensura probabilmente per accettare la condanna divina senza esprimersi contro di essa.
Valeria Serofilli ripropone in questa sua lirica-gioiello il dramma dei due cognati, con il suo stile giocoso e insieme pregnante, sempre leggero ma dall’impronta indelebile. All’inizio i due appaiono come due ragazzi birichini che progettano di rubare una mela: è il furto di una vita, quasi un gesto che segna il passaggio alla vita adulta, o, forse, una liberazione da un ambiente familiare costrittivo. Le labbra rosse di Francesca diventano un altro frutto proibito, come quello gustato da Adamo ed Eva. La genialità di questa lirica consiste, secondo noi, anche in questa assimilazione di Paolo e Francesca proprio con Adamo ed Eva. In una chiave modernissima i due Romagnoli diventano i cloni dei Progenitori, rinati attraverso un libro, il romanzo arturiano che stavano leggendo insieme.
Se si guarda oltre, però, notiamo che la Serofilli è riuscita a ricreare nel breve volgere di questa lirica quel senso di scissione insanabile che abbiamo visto essere una delle caratteristiche del Canto dantesco. Il senso del doppio è un filo conduttore di tutta la produzione della Serofilli, come andiamo ripetendo da anni, e forse proprio per questo la sensibilità dell’Autrice si è lasciata attrarre dai due cognati romagnoli, uniti e al contempo divisi per l’eternità. Il senso della scissione balza agli occhi in certi accostamenti semantici fra parole in posizione di rilievo: uno è “verticale” (clonati – rinati), e qui i termini sono semanticamente omogenei, ma osserviamo che li divide un abisso culturale. Poi ne abbiamo altri “orizzontali”: ad esempio: unico ‑ imitativo, dove invece abbiamo una netta opposizione. La più significativa di queste opposizioni è passione ‑ condanna, sottolineata dalle allitterazioni circostanti (passione…troppa). È qui che la Serofilli non sfugge, come fa il Dante personaggio, alla espressione libera di una non accettazione e coglie, nel contempo, quello che il Poeta non ha voluto dire: Con Dante io vi comprendo! Tutto questo ci appare coerente con la vena passionale e dionisiaca che affiora in tutta la produzione serofilliana e che ci risulta evidente fin dalle sue prime raccolte. Ricordiamo appena le sue Vendemmia in “Acini d’anima” e Estasi panica in “Tela di Erato”: quest’ultima, inoltre, già si abbinava al motivo della divisione insanabile e, appunto, cominciava con la parola “scissa”
Andrea Salvini
CURRICULUM DI VALERIA SEROFILLI
Valeria Serofilli, insegnante di Lettere, come operatrice culturale è Presidente del Premio Nazionale di Poesia “Astrolabio”e degli Incontri Letterari presso il Caffè storico dell’Ussero di Pisa e di Villa di Corliano. (www.corliano.it). Ha diretto dal 2004 le collane “Passi – Poesia, I libri dell’Astrolabio” per puntoacapo Editrice di Novi Ligure, annessa all’omonimo premio letterario e “I Quaderni dell’Ussero” (Collezione di puntoacapo) nonché dal 2015 “Le PetitUssero”, Quaderni collettivi per l’editrice Ibiskos Ulivieri di Empoli (Pisa); cura il sito personale http://www.valeriaserofilli.it .E’ autrice di poesia, saggistica,critica letteraria e testi di prosa.
Poesia
Sua opera prima è Acini d’Anima (Pisangrafica, Snc,Pisa, 2000);
Tela di Eràto, (Sovera Multimedia, Roma, 2002) nella Collana “La Fronda Peneia”, con nota critica di Giorgio Bàrberi Squarotti;
Fedro rivisitato (Ed. Bastogi, Foggia 2004), collana di poesia “Il Capricorno”, curata da Maria Grazia Lenisa, con prefazione di Dino Carlesi e nota critica di Giorgio Bárberi Squarotti;
il cofanetto libro con audiolibro Nel senso del verso (Ed. ETS, Pisa 2006), contenitore multimediale che comprende un estratto delle varie raccolte poetiche dell’autrice e nuove poesie, recitate e interpretate liricamente, con accompagnamento musicale al pianoforte e clarino, rappresentato al Teatro Verdi di Pisa in forma di spettacolo;
Chiedo i cerchi (puntoacapo editrice, Novi Ligure, 2008);
Nel senso del verso – Nuovo Volume (Leonida Edizioni, Reggio Calabria 2009) opera vincitrice del Premio Gaetano Cingari 2008;
Amalgama in Valeria Serofilli – La parola e la cura (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2010), Collana I quaderni di Poiein.;
I Quaderni dell’Ussero – Valeria Serofilli (Collezione di puntoacapo Editrice 2013) nell’ambito della Collana da lei stessa diretta fino al 2015;
l’ebook antologico di poesia Resoconto e senso ( LaRecherche 2013);
Vestali, ( Ibiskos Ulivieri Editrice, Empoli,Pisa, 2015);
Racconti
Racconti brevi, (alcuni inseriti in Pisanthology della collana antologica di Perrone editore, già finalisti al premio Teramo 2005 e vincitori del Castelfiorentino 2007); raccolte di racconti brevi per ragazzi “Comete per la coda” pubblicati nei volumi antologici I Quaderni di Dedalus – Annuario di narrativa contemporanea 1 (puntoacapo Editrice , Novi Ligure 2014);
“Come essere tondi in un mondo di Quadrati” e altri racconti, pubblicati nei volumi antologici I Quaderni di Dedalus – Annuario di narrativa contemporanea 2, (puntoacapo Editrice , Novi Ligure 2014);
l’ebook antologico di racconti Ulisse (LaRecherche, 2013);
Ulisse, versione cartacea dell’ebook ( Ibiskos Ulivieri Editrice, Empoli,Pisa,2015);
Critica letteraria
Serie I Quaderni dell’Ussero da lei curati e prefati (puntoacapo di Collezione,2010,11, 12, 13, 14.).
La figura femminile nella poesia barberiana in:
Passione Poesia, letture di poesia contemporanea 1990-2015 (CFR Edizioni) a cura di Aglieco, Cannillo,Iacovella.
Passione Poesia, letture di poesia contemporanea 1990-2015 (CFR Edizioni) a cura di Aglieco, Cannillo,Iacovella.
E’ inserita in Letteratura Italiana dal secondo Novecento ad oggi (Bastogi, Foggia 2007, vol. 1) e in numerose antologie e riviste italiane e straniere fra cui “Gradiva” e “Lo Scorpione Letterario”.
E’ stata ospite di trasmissioni televisive nonché radiofoniche tra cui Radio Alma di Bruxelles, la rubrica culturale La Tela Sonora, e nel programma Carta Vetrata curato da Gaffi Editore di Roma.
In qualità di saggista ha pubblicato il volume I Gigli di Nola, pp. 254, Rotary Club, Nola – Pomigliano d’Arco, 1993 mentre in poesia ha pubblicato sette libri: sua opera prima è Acini d’Anima (Pisangrafica, Pisa, 2000), vincitrice del Premio Astrolabio 2000, sez.poesia, poi rinnovato e presieduto dall’autrice; Tela di Eràto, (Sovera Multimedia, Roma, 2002); Fedro rivisitato (Ed. Bastogi, Foggia 2004); il libro con audiolibro Nel senso del verso (Ed. ETS, Pisa 2006), contenitore multimediale con un estratto delle varie raccolte poetiche dell’autrice e nuove poesie, recitate e interpretate liricamente, rappresentato al Teatro Verdi di Pisa in forma di spettacolo; Chiedo i cerchi (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure, 2008); Nel senso del verso – Nuovo Volume (Leonida Edizioni, Reggio Calabria 2009) opera vincitrice del Premio Gaetano Cingari 2008; Amalgama in Valeria Serofilli – La parola e la cura (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2010), Collana I quaderni di Poiein. I Quaderni dell’Ussero – Valeria Serofilli (Collezione di puntoacapo Editrice 2013) nell’ambito della Collana da lei stessa diretta fino al 2015;
l’ebook antologico di poesia Resoconto e senso ( LaRecherche 2013);
Vestali, ( Ibiskos Ulivieri Editrice, Empoli,Pisa, 2015); l’ebook antologico di racconti Ulisse (LaRecherche, 2013);
Ulisse, versione cartacea dell’ebook ( Ibiskos Ulivieri Editrice, Empoli, Pisa,2015).
Tra le altre pubblicazioni: Premio Astrolabio 2008, Antologia (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2009); Premio Astrolabio 2010, Antologia (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2011); Antologia dei poeti puntoacapo, (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2010, pp. 125-130); Aspettando il Premio – Astrolabio 2016/17(Ibiskos Ulivieri Editrice, Empoli, 2016); Le petit Ussero vol 1,2, (Ibiskos Ulivieri 2015,2016).
Suoi testi sono stati letti e commentati all’interno delle trasmissioni radiofoniche di Toscana Classica, Radio Alma di Bruxelles, nella rubrica culturale La Tela Sonora e Radio Città Futura, nel programma Carta Vetrata curato da Gaffi Editore di Roma nonché televisive. Alcune varianti poetiche dell’autrice, richieste dal Centro di Documentazione sulla Poesia Contemporanea Lorenzo Montano, sono depositate presso la Biblioteca Civica di Verona. Numerosi i critici si sono occupati del suo lavoro creativo.
GLI SMS DEL SIGNOR GODOT
Un breve omaggio, o meglio messaggio, all’imprescindibile irlandese, nell’anniversario della sua morte.
Ma “il silenzio non è tacere”.
GLI SMS DEL SIGNOR GODOT
Beckett e l’immutata attualità dell’attesa
Ho immaginato varie volte di bussare alla porta di Beckett. Un irlandese che scrive in francese e parla un linguaggio elementare e arcano, universale in fondo, come un codice in attesa di decifrazione. Beckett e il suo Aspettando Godot, Stele di Rosetta della letteratura che anela a qualche Champollion che ne individui la chiave di lettura. Per poi magari, alla fine di tutto, risultare ancora sublimemente inafferrabile.
Aspettando Godot tratta, a ben vedere, di forme d’arte. Forme d’arte fondamentali, umane per eccellenza. Una eterna e l’altra eternamente attuale. La prima è l’arte della sopravvivenza. Nei confronti del dubbio, della miseria delle certezze, della comunicazione tra simili, dell’orrore e del bisogno di guardarsi attorno, un passo oltre la propria ombra. La seconda arte è altrettanto ardua: l’attesa. Quasi un tentativo di scolpire nel marmo il vento, l’aria, l’istante che c’è e quello che manca. Oggi più che mai, nonostante le comunicazioni in tempo reale, le e-mail e gli SMS, Messenger e Whatsapp, l’impressione è che, nel bel mezzo del messaggio, con le dita che quasi si intrecciano per la rapidità, ci si trovi a volte sospesi, bloccati in una smorfia parente stretta di un sorriso, o viceversa. Un po’ come Vladimir ed Estragon. Ciascuno ad aspettare un Godot che non può venire. Ma che, anche lui non a caso tramite un messaggio, ci fa sapere che di sicuro verrà domani.
Vladimir ed Estragon, abili unicamente a rispondere e a rispondersi fuori luogo, troppo presto o troppo tardi, imbestialiti e incavolati quasi sempre, e quasi sempre senza sapere perché, malinconici, immancabilmente, malgrado loro. Schiacciati dal peso di un “io” misero, ispido e adiposo, goffo, ingombrante, enorme grottesco peluche. Per trovarli, per trovare i nostri eroi, spesso non necessita pagare alcun biglietto (la SIAE, speriamo, ci perdonerà). Spesso basta ascoltare ordinarissimi dialoghi nelle strade, negli uffici, nei negozi… Beckett viene regolarmente annoverato tra gli autori del “teatro dell’assurdo”. Martin Esslin in The Field of Drama(Methuen, Londra e New York, 1986) riguardo alla drammaturgia di Beckett sostiene che “the meaning that the author might have wanted to express might merely be that it has no meaning”. Il significato, a suo avviso, è nell’assenza di significato. Posizione salda, certo. Con il tempo tuttavia, con l’attesa, Aspettando Godot si rivela anche e sempre di più un testo fondamentalmente “realistico”. Ciò che accade sono vuoti, silenzi, parole e speranze del tutto autentici e a noi familiari. Giocando con alcuni titoli beckettiani, si può dire che La lezione da imparare prima della Fine di partita è che, sicuro, di Vladimir e Estragon ci somigliano, terribilmente, e la presa di coscienza è già ricchezza, appoggio, fuga magari.
Tale presa di coscienza avviene tramite un testo che con la potenza dell’indeterminatezza ci aiuta a comprendere per quanto possibile questo mondo oscillante tra serietà e farsa, tragedia e riso, God e Charlot. Godot, appunto.
Forse.
Un testo da cercare ancora per poi ripetersi magari assieme ai protagonisti: “Nasciamo tutti folli. Alcuni lo rimangono”.
Una pièce da rivedere o da rileggere per poi poter fare eco ai personaggi dell’Amarcord felliniano, quelli che all’uscita dalla sala cinematografica dichiaravano: “Mi sono divertito tanto. Ho pianto tutto il tempo!”. Fare come loro ed esclamare all’uscita del teatro o alla fine della lettura diAspettando Godot: “Non ho capito niente. E ho capito tutto quello che c’è da capire”. Un punto di partenza. Uno dei pochi attualmente praticabili. Sempre, ovviamente, nell’attesa che venga a farci visita, domani magari, il signor Godot o chi per lui.
Letti sulla luna (9): L’ABITUDINE DEGLI OCCHI
“vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.
Monica Martinelli, L’abitudine degli occhi, Passigli, Firenze, 2015
Il “gesto”, l’azione compiuta dagli occhi è di per sé ambigua, multiforme, come il termine che esprime tale atto: la visione è allo stesso tempo di natura ottica e mentale, è immagine e riflessione, potremmo dire pensiero di un riverbero di luce e di buio. I punti di riferimento, le coordinate scelte da Monica Martinelli vengono rese note a partire dalla scelta delle epigrafi: dal un lato Emily Dickinson, i cui versi si concludono con un perentorio “era meno penoso essere cieca”, e, a fianco, Mario Luzi, di cui vengono citati quattro versi, di cui l’ultimo ha un sapore quasi dantesco, solennemente descrittivo e allegorico: “Tanto afferra l’occhio da questa torre di vedetta”.
La Dickinson incarna la solitudine, l’esplorazione di una pena individuale senza tregua né sbocco o via di fuga; Luzi è la coscienza del tentare di indagare sulla direzione, se non sul senso. Sul pullulare di morte e vita tenera e ostile, osservata da una torre di vedetta che non è d’avorio, ma fatta di argilla viva, di carne e respiro mischiato e confrontato con quello del mondo.
“Penso che non sia il cambiamento/ ma l’abitudine/ l’unità di misura dei viventi”, scrive Monica Martinelli. Poco oltre annota “È come seguire la danza/ di una foglia nel vento/ e indovinare da quale parte cadrà”. Quindi gli occhi sono guidati da un’abitudine basata però su un calcolo impossibile. La mancanza di certezze è la sola certezza individuabile. Questo libro tuttavia non si limita ad annotare eccezioni senza regole e dubbi che prescindono dalle domande. È tutt’altro che un libro di incorporee elucubrazioni. È, al contrario, un testo intessuto di oggetti tangibili, concreti, materiali e corporei. La vita è una costruzione, un edificio, e forse non è un caso che la prima lirica abbia per titolo “Maestranze”. Case di calce e case di ossa, tessuti e cartilagini, vertebre. Ma vertebre che hanno un nome, corpi che sono persone, identità. Non sono casuali neppure i titoli delle varie sezioni. Ci troviamo di fronte ad una panoramica di materie scientifiche e naturali: fisiologia, chimica, meccanica, fisica, geologia, biologia. Ma ciascuna viene accostata, anzi, innestata, con rami fatti di fibre sensibili, le venature essenziali del corpo, dei passi e delle foglie, delle case, delle cose, e dell’indifferenza. Ciò che costituisce l’esistenza, la fa respirare o la soffoca nel nulla.
Monica Martinelli ha un aspetto solare e un sorriso generoso e luminoso. Ma ha scritto un libro fatto soprattutto di cupi chiaroscuri. Con coraggio, con una coerenza assoluta aliena ai compromessi, distante perfino dall’istinto antico di aggiungere una goccia di miele al veleno: “Il pensiero si stordisce nel ricordo/ e si ferma a cercare ristoro/ da un dolore ininterrotto/ che si spezza su scogli rassegnati”. La materia inerte del dolore si rispecchia nella pietra inanimata dello scoglio che a sua volta è rassegnato.
Ci sono in questo libro sequenze di temi ricorrenti e alcuni vocaboli chiave che appaiono con una frequenza paragonabile a quella di un mantra. E ogni volta il peso specifico di questi termini viene aumentato, cresce, non viene mai diluito o stemperato, neppure dalla speranza che in un ipotetico contesto diverso possa apparire meno reale o soffocante. Il primo e il principale di questi termini è “dolore”. Risulta presente quasi nella totalità dei componimenti. Volutamente l’autrice evita il ricorso a possibili sinonimi o a perifrasi. Scrive “dolore” ogni volta che lo sente, lo ricorda, lo percepisce come ineluttabile. Senza alcuna variazione sul tema. Non sussiste tuttavia il rischio della ripetitività: l’abilità dell’autrice è quella di far sì che il lettore stesso gradualmente percepisca la necessità di tale nitida precisione descrittiva. Gli occhi dell’autrice ad un certo momento coincidono con quelli di chi osserva i suoi stessi oggetti, i componenti di una meccanica esistenziale di cui il dolore è allo stesso tempo materia e motore.
L’atteggiamento è eliotiano, potremmo dire. La Terra desolata qui è ovunque, senza neppure le brevi escursioni su terreni esotici o onirici. In una lirica, ad esempio, si legge “Se la carne è sensibile si dona al desiderio”, e, puntuale, pochi versi dopo, “tutto scivola/ e muore eternamente/ dove non si sente che l’eco/ sommesso del dolore”. Il dolore è eterno ritorno, nell’arco breve di una singola lirica come nel progetto più ampio e diffuso dell’intero volume.
Accanto al dolore, il tempo. Altro luogo letterario per eccellenza. Ma senza altro scopo, funzione o speranza che non sia quello di scandire la circolarità del flusso. L’autrice non spera in sconti di pena né in consolazioni filosofiche o mistificazioni retoriche. Sa di essere “fragile vibrazione”, conscia che “il dolore rende inutile la gioia […] un’alternanza che consuma la vita”. Non c’è neppure l’alba, la luce potenziale di un altro giorno, ad attenderci: “dopo il tramonto viene/ la notte che cancella le ombre/ e ci rende uguali”. Il concetto viene ribadito qualche pagina oltre, in modo assoluto e nitido: “Non ho un’altra possibilità/ negato il desiderio di rigenerarmi./ Sazia di tempo e di forma/ mi costringo a seguirti,/ inutile calamita del cielo”.
I versi parlano di amore negato, di vita senza vita e di un tempo privo di speranza. Eppure non c’è mai patetismo, non si indulge mai al pianto fine a se stesso o all’autocommiserazione. La voce è salda, il tono scandito. Gli occhi a cui fa cenno il titolo sanno restare senza lacrime, per vedere e per raccontare, descrivere e descriversi: “Sono la pioggia che disseta la terra/ dono gravido senza parto […] mi congedo in silenzio, senza lacrime”. C’è un’accettazione dello stato delle cose che conferisce solidità espressiva ad ogni lirica: “Se il mio destino è nel dolore/ uno spiraglio di felicità/ mi acceca come un lampo […] aspetto lo schianto delle coincidenze […] non mi stupirei/ per un sorriso di ghiaccio/ scorto su un volto amato”. Non c’è gioco petrarchesco qui, non ci sono gelidi soli o infuocate nevi. Qui l’accostamento di termini di ambiti semantici contrapposti contribuisce solo a far convergere il discorso verso una sintesi accecante: quel sorriso di ghiaccio su un volto amato. Forse una persona, o magari la vita stessa. Che, corteggiata, cercata con gli occhi, con l’abitudine degli occhi, puntualmente si nega. Resta lo schianto delle coincidenze. La ferita fredda della consapevolezza. La sola discriminante, che non muta l’esito tuttavia, è la comprensione dello status esistenziale: “vedere è un subire in permanenza./ Non si può scegliere cosa guardare,/ forse possiamo solo comprendere/ la differenza tra ciò che merita attenzione/ e ciò che fa piangere”.
D’altronde, conclude Monica Martinelli, “non tutto ciò che ha nome/ esiste o dura”. Neppure la parola consola, seppure sia necessaria, anche per testimoniare la differenza fondamentale a cui si è fatto cenno poco sopra, quella tra ciò che merita attenzione e ciò che dà solo dolore. Qui si va oltre l’atto della negazione di montaliana memoria: non abbiamo neppure “qualche storta sillaba e secca come un ramo”. Qui non possiamo dire neppure ciò che non siamo e ciò che non vogliamo. Al di là della negazione non c’è neppure la certezza di un laconico balbettio. “Dentro non c’è pace – scrive la Martinelli – infinito tendere, straziante attesa./ E dopo giunge il silenzio della terra/ ovunque e immenso”.
L’abitudine degli occhi è un libro di coraggiosa coerenza, a suo modo possente, pur senza mai neppure accennare a grida o a roboanti proclami. La sua forza è nella volontà di non cedere mai ai richiami delle sirene ammiccanti di speranze scontate e in saldo. L’autrice racconta il suo percorso, ciò che vede con i suoi occhi, dal suo punto di vista, nell’angolo di tempo e di mondo che sta attraversando. Non permette a niente e a nessuno di modificare la sua visione con riflessi alieni o chiarori fosforescenti. Si concede, e ci concede, il lusso di un percorso nel dolore fatto ad occhi aperti, senza negarlo, senza santificarlo, senza proporre panacee o luci alla fine del tunnel. È un libro di viaggio, in fondo, nell’umano mistero, tra la necessità di esistere e di domandare bellezza, “tra movimenti e fughe ripetute/ dallo sconforto di essere creature”. IM
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Recensione di Marzia Spinelli
La quotidiana fragilità delle creature
Può sembrare, L’abitudine degli occhi, un titolo antipoetico in quanto si sa, il poeta possiede uno sguardo particolare, contrario a questa abitudine che l’autrice ci pone davanti, forse come provocazione… Se infatti l’abitudine rimanda a una regola, a una normativa del guardare, il poeta invece assume uno sguardo che va all’opposto di questa regola: il suo è uno sguardo oltre, è tutto meno che abitudine. Monica Martinelli, al suo terzo libro dopo Poesie ed ombre (2009) e Alterni presagi (2011), si pone subito sin dal titolo in questa prospettiva contro, e la persegue realizzandola perché il libro è la lotta furiosa contro le abitudini. Se l’abitudine è accettazione passiva della realtà, un farsi omologare accettandone le regole del gioco, avvertiamo invece una vis ribelle nell’autrice, – donna educatissima e forsennata – come la definisce giustamente Davide Rondoni, ribelle alle convenzioni, forse anche letterarie. E coerente è la scelta delle sette sezioni in cui è suddiviso il libro nel richiamo a settori e tematiche scientifici, dando a questi un valore aggiunto nel creare un collante intrigante tra campi della scienza e tematiche dell’esistenza, attraversandoli con la Poesia. Fisiologia del dolore, chimica dei sentimenti, atteggiamento del corpo, meccanica dei passi e delle foglie (la sezione più significativa e poetica), fisica del quanto e del come, geologia delle case e delle cose, biologia dell’indifferenza: ecco allora che la quantistica, il richiamo scientifico, la meccanica e la fisica si fanno veicolo di una dimensione geometrica ma tanto umana dell’esistere, diventano il quanto del vivere, ma anche il come viviamo, amiamo, soffriamo. Ecco che le case, quanto di più solido abbiamo e in cui viviamo, con tutto quanto c’è dentro, armadi, ceramiche, macchie del caffè ecc. insomma le cose, gli oggetti, specchio del nostro reale appartenere, diventano anche essi il veicolo di uno sguardo diverso, o meglio la possibilità di scegliere tra il guardare appunto abitualmente e una prospettiva altra, forse un po’ aliena, attraverso una lente deformante che tuttavia mostra le cose come sono. In tutto questo lavoro il contesto è spesso il quotidiano collocarsi, cercare e trovare un proprio posto e spesso il protagonista da collocare è il corpo, “ la macchina imperfetta del mio corpo / disperde calore, lo cede, / emana energia per attutire il dolore / che fluisce nei vasi e si diffonde / dal centro alle estremità.”
La quotidianità, ma direi la vita e quel che in essa accade, è costantemente richiamata, spesso con precisione scientifica dei luoghi, sia si tratti del tramonto di Sperlonga, sia della tragedia della Liguria alluvionata, o della faticosa salita in montagna, o dell’infiorata di Genzano, o ancora della passeggiata a Calcata; luoghi che si attraversano tra pioggia, freddo e neve, luoghi pieni di sassi dove si posano i passi, in un metaforico cammino impervio e al tempo stesso rigenerante. In questi luoghi, in questo viandare freneticamente si immette il corpo, invischiandosi e intrappolandosi, con tenacia femminile e neutralità poetica, come ad esempio nella lirica Infiorata a Genzano: “Seduta accanto a te di cui conosco / i filamenti della pelle / i fili della rabbia intessuti / col sangue e poi ancora fiori / petali spampinati / colorati d’attenzione / rossi come il sangue / rossi come il cuore, / il centro del corpo da cui tutto dipende..” Quanto questo corpo è desiderio, spinta fortissima a vivere, ad amare, a immergersi anche nella natura, si specchia in quel lago senza nome … e gode della bellezza di cui si può solo domandare il perché. Con lucida e disarmante onestà Monica non si nasconde al proprio conflitto tra eros e thanatos, anzi sembra trarne forza, consapevolezza della finitezza, della precarietà, del dolore, e trova la modalità poetica di universalizzare la propria tragicità di creatura, come a Villa Torlonia: “ Non mi spaventa finire, / la fine è concentrata, inesitata / ma è l’attesa del buio che cancella / passi e foglie e tutto rende uguale. // Questa è pena quotidiana delle creature / e questo non avviene tra le foglie.” È uno dei versi più belli e riusciti della raccolta, giustamente ricordati e sottolineati da Rondoni in chiusura della sua prefazione, evidenziando la suggestione evocativa del termine creatura contrapposta alla prossimità, ma pur sempre vegetale, delle foglie.
Quanto a possibili rimandi e richiami che sempre ci sono in un vero poeta, é Monica stessa a darcene più che un indizio nelle citazioni dalla Dickinson e da Luzi presenti nel libro; ma spuntano anche echi di letture assimilate della poesia straniera, soprattutto anglosassone, non soltanto Emily, ma anche la Plath, in forma più delicata, forse anche i metafisici inglesi, e infine, in questo nodo di foglie, corpo, filamento, indefinibile cecità e riconquistata visuale anche l’irlandese Thomas Kinsella, di cui fatalmente e casualmente mi è capitato di leggere, proprio mentre rileggevo il libro di Monica, la poesia Mangiafoglie: “Su un cespuglio nel cuore del giardino, / su una foglia che sporge, un bruco torce / metà del corpo, un filamento / in qua e in là nello spazio / cieco. // Né foglia o stecco / a portata, a tentoni / si ritira su se stesso e prende / a mangiarsi la propria foglia.”
Così anche tra i versi della poesia di Monica: Il corpo si concentra / finché il sangue pulsa…E dopo giunge il silenzio della terra / ovunque e immenso, oltre l’eco di silenzi a noi più prossimi, quali quelli di Ungaretti e Luzi, giunge una risonanza più remota dei versi da Shiloh, un requiem di Melville, di cui riportiamo appena qualche frammento estrapolato, comunque significativo: “Leggere sfiorano, immote roteano / le rondini, volano basse / … mentre ora essi giacciono, / e sopra di loro le rondini passano / e tutto è silenzio a Shiloh.” Liberatorio, rasserenante, senza ombra di cupezza, in fondo solo luce ritrovata.
Sono ovviamente suggestioni, ma la poesia, quando è tale, possiede anche questo potere di aprirci verso orizzonti molto più ampi del previsto, del prevedibile, dell’abitudine appunto. Dal disordine la poesia distilla verità apparentemente semplici e ci inchioda, senza poterle spiegare altrimenti: “… Noi, infinitamente piccoli / e intanto soli. / Cellule amanti / in cui ha un senso l’arrivo / e non il riposo. // Note confuse in gesti di disordine./ E non ha nulla a che vedere coi ricordi.”
Marzia Spinelli
Monica Martinelli, L’abitudine degli occhi, Passigli Editori, Firenze 2015
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Dalla Prefazione di Davide Rondoni
(…)
Non ho un’altra possibilità,
negato il desiderio di rigenerarmi.
Sazia di tempo e di forma
mi costringo a seguirti,
inutile calamita del cielo.
Sono tra i versi più duri e pieni di ottuso dolore che mi sia capitato di leggere. Monica Martinelli, creatura di modi gentili e di sorriso aperto, cela e custodisce in quella stanza anteriore in cui la poesia nasce mescolando tutto con tutto, qualcosa di duro, di fatale. È da là, da quella ferita o ramo di mandorlo amputato, che viene tale durezza di versi.
Nei quali il lettore che affronterà questo libro frenetico e violento, diseguale e sorprendente, può già cogliere anche altri aspetti dell’opera: la inclinazione a mettere in scena il proprio essere al mondo come teatro per tutti, e non per esibizionismo ma per stremata umiltà. Un po’ come capitava alla Amelia Rosselli o in altro modo e con esiti maggiori a Giovanna Sicari. Un “io” di donna apertissimo e affranto che diviene teatro del mondo. […]
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Poesie tratte da
L’abitudine degli occhi:
C’è dato un tempo
per ogni tempo.
C’è una magia in ogni cosa,
nel perdono
in un bacio che ferma l’addio
nella ragione di essere nati.
Penso non sia il cambiamento
ma l’abitudine
l’unità di misura dei viventi,
ciò che ci rassicura e ci consola
ciò che ci viene naturale fare.
E poi gli occhi,
con cui misuriamo la realtà
che sia di fiato e di sabbia,
che ci prepari alla nostalgia
o all’abbandono.
È come seguire la danza
di una foglia nel vento
e indovinare da quale parte cadrà.
* * *
Mi smarrisco nel rumore del vento
e nel continuo accadere
di onde pazienti
che nel fragore si danno voce.
Il pensiero si stordisce nel ricordo
e si ferma a cercare ristoro
da un dolore ininterrotto
che si spezza su scogli rassegnati.
Ma quando il sole spegne la sua luce
e le onde si muovono nel modo giusto
lì si accende la grande malinconia
che solo il mare può vedere.
Sperlonga, al tramonto
* * *
A cuore aperto
Negli altri non so distinguere
un cuore stretto, a spigoli
da uno largo, aperto.
Mi perdo l’anima nel compostaggio
di sfalci e ramaglie.
Una tramoggia mi divide in due
mi stacca il cuore,
la parte di me più grande
da contenere quanto più si può,
da contenermi tutta.
Il volo mi sbatte in alto
gettata in aria, nell’inferno
tra piroette di carta e pioggia di cenere
risucchiata da un aspiratore potente
che non ha pietà.
Pure lì provo a cercarti
ma la scommessa è persa
ogni livido ha la sua pena,
ogni illusione la sua trasparenza.
Io invece vorrei cadere
con la grazia di un passero ferito all’ala
che volteggia in tentativi
ma subito plana di dignità.
Non ho un’altra possibilità,
negato il desiderio di rigenerarmi.
Sazia di tempo e di forma
mi costringo a seguirti,
inutile calamita del cielo.
* * *
Tra cera colata
e odore di incensi e memorie
si consuma la vita su mosaici
scoloriti da occhi e tempo.
Visi e teschi si fanno compagnia
in un avello senza tormento.
Il sacrificio del corpo e del sangue
si riduce a un fermo immagine
nel mestiere moderno di fare copia
e calco di ogni cosa sia stata nella storia.
Ma anche riprodurre è un’illusione
se il tempo non si ferma, non rimane.
Ecco perché qualunque senso è poco
di fronte a ciò che ci fa più grandi.
Firenze, Chiesa di San Miniato
* * *
Il corpo si concentra
finché il sangue pulsa
ma non c’è libera circolazione,
tutto è disposto e poi dissipato.
È una danza di vibrioni impazziti
che oscillano in sofferenza.
Dentro non c’è pace,
infinito tendere, straziante attesa.
E dopo giunge il silenzio della terra
ovunque e immenso.
* * *
Siamo i “tutti” e i “soli”
sinfonie di ricordi in una giga,
una corrente di probabilità
tra movimenti e fughe ripetute
dallo sconforto di essere creature.
Sarabanda di luci e ombre
dà la forma a una volpe che grida
sulla coda del pianoforte
o forse a una tigre addestrata
a ingoiare vita senza rimpianti.
Ma è solo un’illusione
un trucco della vista,
la volpe svanisce
e non ne resta traccia
rimane il tuo viso in ascolto
a lanciare pietre di un rosario,
preludio di dissonanze domestiche
e qualche pelucchio d’argento
scaglie invisibili su spicchi di luna.
Concerto di musica da camera,
Suites inglesi di J. S. Bach
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Nota bio-bibliografica
Monica Martinelli è nata a Roma e lavora nella Pubblica Amministrazione. Dopo la laurea in Lettere presso l’Università “La Sapienza di Roma” e un dottorato sui rapporti tra Cina e Unione Europea, ha scritto articoli e recensioni sulla rivista letteraria “Rassegna di letteratura Italiana”.
Nel 2009 ha pubblicato il libro di poesie con prefazione di Walter Mauro dal titolo Poesie ed ombre, Tracce editore. A dicembre 2009 ha vinto il Premio letterario “La città dei Sassi di Matera” per la sezione poesia inedita.
A dicembre 2011 ha pubblicato il libro di poesie dal titolo Alterni Presagi, Altrimedia editore, con prefazione di Plinio Perilli.
Ha pubblicato poesie sulle riviste “Poeti e Poesia”, “Poesia” e “Orizzonti”, e poesie e racconti su varie antologie e blog letterari italiani e internazionali.
A marzo 2015 ha pubblicato il libro di poesie L’abitudine degli occhi, Passigli editore, con prefazione di Davide Rondoni. Il libro è arrivato nella rosa dei candidati finalisti del Premio Camaiore 2015, ha vinto il primo posto del Premio Pascoli “L’ora di Barga” e il secondo posto al Premio Laurentum e al Premio internazionale “Gradiva” di New York. Inoltre, il libro è arrivato finalista e segnalato a vari premi di poesia, tra cui il Premio Frascati e il Premio Mario Luzi. Sempre nel 2015, ha vinto il primo posto al Premio “Mario Arpea”.
Nel 2016 è stata invitata a partecipare alla manifestazione annuale “Belgrade International Writers’ Assembly of Serbia”, svoltasi a Belgrado e in altre città della Serbia.
Sue poesie sono state tradotte in inglese, francese e serbo.
È redattrice della rivista di cultura letteraria e arte “I Fiori del male”.