Inadeguato all’eterno: lettera in prosa e versi
Ho esitato a lungo prima di pubblicare questa “lettera in prosa e versi” di Roberta Pelachin.
Mi sembrava che pubblicarla potesse sembrare “autoreferenziale”, un atto in qualche modo narcisistico.
Poi l’ho riletta e mi sono reso conto che non pubblicarla sarebbe stato un errore. Per prima cosa perché è splendidamente scritta e contiene riferimenti e citazioni di notevole bellezza e valore simbolico, sulla letteratura e sulla vita: Baudelaire, Hölderlin, Leopardi, Orwell, Wordsworth, Yeats, riferimenti a Goya e al neuroscienziato Antonio Damasio e versi di cui la stessa Pelachin è autrice.
La ragione principale per cui la pubblico (dopo aver consultato Roberta) però è un’altra:
serve a confermare che “il canto genera canto” ossia che la parola ha il potere di dare vita ad altre parole, altre sensazioni, altri mondi possibili.
Il mio libro Inadeguato all’eterno è stata l’occasione, la scintilla.
In realtà Roberta Pelachin ha dato vita, partendo dalle pagine del libro, al suo fuoco e al gelo della solitudine dovuta alla perdita di suo marito, compagno di molti anni di vita, Giulio Giorello.
Il mio libro ha dato il la, ma il canto è suo, ed è condiviso.
Ognuno secondo i suoi contrappunti, le analogie e i contrasti, le tonalità e i movimenti interni.
Con l’armonia autentica che nasce dalla varietà e verità di suggestioni e situazioni che trovano in un accordo la sintesi, la chiave di un mistero fatto di buio e di sete di luce.
IM
Roberta Pelachin
(considerazioni e suggestioni in forma di epistola
ispirate dalla lettura del libro Inadeguato all’eterno)
Nel mio tempo lo scarto si è riempito di una lontananza che incombe. La morte di Giulio. Non un’icona dell’amore, ma un uomo inquieto, a volte dolce e appassionato, a volte scabro e tagliente. Mentre era ricoverato in ospedale per il Covid, due mesi sono lunghi, espresse un desiderio: sposarmi. Per ricambiare il mio affetto e condividere il tempo a venire. Un dono inaspettato, gratuito, forse… è questo l’amore. Negli ultimi giorni della sua vita dormivo a frammenti. Mi svegliavo all’improvviso e mettevo una mano sul petto per sentirne il movimento, il respiro. Poi, le nostre dita si annodavano calde sopra un corpo immobile e fiacco. “Aiutami!”, mi sussurrava. Ma io che altro potevo? Quando un affetto ha fine non c’è differenza tra abbandono o morte. Rimane solo l’assenza. La nuda, gelida assenza. Il letto troppo grande, le stanze mute, la scrivania assettata.
E i tuoi versi che scorrono davanti a me, caro Ivano, leniscono la pena. Mi accorgo che “la tempesta “[…] ti lascia solo l’attimo, / lo scarto, fessura breve / di silenzio afferrato in controtempo: / ascoltare, lontano, / l’eco, il suono, la speranza: / una vana, vitale tempesta.” Sono i versi finali dell’ultima lirica. E spero anch’io che questa bufera, che mi lascia spossata contro rocce artigliate dal vento, si acquieti poco alla volta. E, se pur vana, rimanga vitale.
Così il mio vagare di verso in verso nei tuoi Canti addolcisce le ore. Il tempo lento… inadeguato all’eterno? Sappiamo che non esiste un tempo assoluto, eterno metro e misura dell’Universo intero, ma esiste quello mio, quello tuo, quello di ogni essere vivo che cammina, esita incerto, prosegue a saltelli, si strascica lungo il sentiero. E si lascia andare, ogni tanto, a gioie inattese.
E altre voci suggeriscono gorgheggi, fatti di ali e di piume. Qualcuno li ascoltò…
Il tordo era al sole, loro erano all’ombra.
Aprì le ali poi le richiuse piano, piano, chinò la testa per un attimo,
come per una specie di tributo al sole, e poi mise fuori,
senz’altro indugio, un torrente di canti…
Per chi, per che cosa cantava quell’uccello?
Nessun compagno, nessun rivale gli stava accanto…
Che cosa gli faceva rovesciare quella musica prodigiosa dentro al nulla?…
Era come se si sentisse inondato d’un qualche cosa di liquido,
mescolato alla luce del sole…
Winston smise di pensare e si preoccupò solo di sentire.
George Orwell
Lo spazio bianco tra riga e riga calma lo sguardo. Ristora la mente. Socchiudo gli occhi per centellinare parole, suoni, immagini, un amalgama magico che solo la poesia svela con parsimonia, con garbo. A volte graffia. Leggo ad alta voce. Solo la mia tra echi di una stanza sola. Ogni Canto è canto, e va ascoltato per impregnarsi della sonorità, dell’armonia delle parole.
Ricordo quando scrissi di
Sirene celesti, platoniche, arcane visioni
che intonavano una nota, una sola, ruotando
nel moto di fusi che reggevano delle orbite il volo.
La sorte a ognuna un suono aveva elargito,
così il Cosmo tutto irradiava di eufonie
e consonanze in lieta armonia.
A volte, le Sirene scendono nel mondo dalle sfere scintillanti, abbigliate di acqua e di aria, e ci ispirano Canti. Piccole chiose, le mie, per cantare con te, di te.
Inadeguato all’eterno… Un frangibile istante, “fragile, sporco, inadeguato all’eterno” appare e dispare come di porcellana, se pure all’amore si aggrappa, come roccia che affiora da marosi irrequieti. L’amore dove “le braccia spalancate / della ragazza nuda / avranno la pietà del miele selvatico”? Come un bagliore fende della notte il buio freddo, così “il suo sorriso / enigmatico, sconosciuto e impuro / ti darà la certezza del corpo / e del cuore, senza cercare / niente di più?”
Ma allora: l’eternità è un filamento infinito di perle lungo la collana del tempo? Ma dove trovare quelle perdute, cercate, sperate? Quegli istanti feriti dal mattino che i sogni cancella? Fermarsi, ogni tanto, per godere degli istanti donati dal tempo… è questa la via?
Per sbaglio, per errore… “Ho ricevuto la vita come una ferita” scriveva Lautréamont. Poi racconti di verso in verso, della sfida a Dio stesso, ché il Poeta contempla il “crepaccio spalancato” con orgoglio “come un frutto rosso, come un figlio. Volendogli bene, in fondo”.
Gli occhi del giovane non battono ciglio, non arretrano di fronte allo sguardo di Dio, ché il dolore squarcia la ferita dove il sangue scorre, e scorre, e non si rimargina. Non può. L’emofilia che avvelena il suo sangue, e non ricompone la piaga, non nasce del corpo, ma dal cuore, ché la sofferenza squarcia e sbrana. Il ragazzo rinnega la pietà amorevole e divina. Ma non odia la vita, matrigna bastarda, rivendica soltanto con fierezza “il crepaccio spalancato” che si racchiude di frattale in frattale in spazi sempre più angusti. Solo una goccia di sangue rappreso, alla fine, nel cuore che schianta. Perché non sentiva più il mondo attorno? Quello inumano e vivo della natura? A volte, una pena immensa colma il vuoto, e solamente la lama affilata pone fine.
William Yeats scrisse che “Colui che canta un canto duraturo pensa nel suo midollo”. Ma il midollo apre troppi abissi e la carne, lacerata spesso da vane e inutili facezie, si dissolve. Rimane a vista, lacerata. La pelle si abbandona sul letto e ci guarda, muta come un mantello rabberciato. Troppi giorni, troppe notti hanno straziato la stoffa lisa.
Un altro Poeta vagava, stremato dalla notte. Ma qualcosa albeggiava tra le fronde e
Cominciò a riapparire…
lo spettacolo universale…
Era grandioso di per sé: ma in quella frattura
per cui saliva la voce incorporea / delle acque…
la natura aveva posto l’anima,
l’immaginazione del tutto.
William Wordsworth
L’eterno ritorno del dolore. “Un verso, come un sasso che ferisce / e lacera la mano che muove di onde / nuove e lucenti lo stagno del tempo, / del mondo.” Un’immagine bellissima, la tua, dove il sasso ferisce la mano, ma insieme apre onde lucenti nello stagno del mondo.
E io sono una voce dal lontano argine che la memoria cinge, e risuona in mulinelli, e dal centro del sasso lanciato con rabbia e dolore, si acquieta, alla fine. Si disperde in cerchi sempre più larghi, più lievi. Evanescenti sfocano, senza confini. Versi ignoti che ancora non sanno. È questo l’eterno cercato? Oblio alle umane parole? Eppure, sto scrivendo. Sento l’acqua che sciaborda nella risacca. Eterno andare che sopisce del vivere la fatica – forse.
Alto sulle acque. Un minuscolo girino e un lago. “Forse solo lui sa gioire di questo / liquido fango verde”. E non sa che diverrà rana e dovrà vivere nella terra, saltellando qua e là. “Se però avesse visto te, la tua bocca, l’oro / della tua pelle, la tua malia, sognerebbe di essere / balena, il mite girino, e forse, davvero, si solleverebbe / alto sulle acque, e volerebbe via”.
Ma lui non sa, né potrebbe sapere. Solo a noi, umani pensanti è concesso di immaginare un altrove. Condanna o dono? Non è dato sapere con certezza. Ma il Poeta di Recanati avvertiva che senza le illusioni non si vive. Ne anelava la friabile forma, merletto di sogni. E continueremo a mirare “confini / al di là delle nevi, vicini all’idea delle nuvole, / l’abisso del volo, del cielo”.
Inestinguibile. “Qualcosa oltre l’oceano, oltre le ondate insistite / che spazzano la mente di melma lenta”. Eppure, io immagino che le onde ostinate, ribelli ai perché di cui ignorano la natura, d’un tratto, s’innalzano insieme a lei, la marea oceanica. Solenne e potente, come lei sola può essere. E la melma lenta sparisce d’un tratto, lasciando sulla rena scorie e macerie, e un brivido percorre la nudità della pelle bagnata, vulnerabile. Piano, piano l’acqua si ritrae nell’albore che avanza di luce. Il corpo si ritrova vivo, e gemmato da mille granelli, ché la sabbia involge discreta.
E in questo flusso e riflusso, in questo andare che eterno pare, rivedo le immagini di un Pittore, Maestro di Nere Pitture. Svelò il sublime selvatico e cupo di viva materia. Ossimori di un artista, pittore di corte, che ebbe il coraggio di mostrare la finzione di re e regine. E sapeva pennellare la sensuale bellezza della Maya desnuda. E splendeva la bianca camicia del prigioniero, fiero di morire per la libertà. E con lui mi chiedo: puoi disserrare lo sguardo? Per noi?
I versi raccontano che “è questo che ci vogliono rubare, / millimetrare l’orizzonte, questo è ciò a cui mirano, / con le linee geometriche di una barra universale”. Il Pittore e il Poeta intuiscono mondi veri, immaginati, sentiti. C’è sempre un oltre. Riusciremo ad allontanarci dalla distorsione del web, ché i potentati digitali seducono con lingua biforcuta? Dai falsi dei? “L’illusione, la voglia, la speranza / che si possa andare dove il cuore smarrisce / il confine, il margine prestabilito, e il calore del sogno / brucia ancora, dolce di miele e di sale inestinguibile”.
Non un alito d’aria. Narri di un vento che corre e ripercorre le voci dei Poeti. Ma il vento è anche quello dove davvero “le foglie fremono assieme / al cuore, perfino il lago si increspa. La vita ritrova / se stessa nella parola. … l’attimo in cui l’esistere ritrova suono e fiato, / la voce sognata di un vento che soffia, lacera / e carezza, veramente”.
Ricordo l’aneddoto di un neuroscienziato, Antonio Damasio, dove il pensare e il sentire devono intrecciarsi perché la vita trovi un senso. E tra gli esempi raccontati uno mi aveva colpito. Una lesione estesa all’emisfero destro e molto altro impedivano alla donna di sentire. Solo una cosa percepiva… il vento sulla pelle.
L’attrazione. “Allora, a tratti, ti viene da pensare / di avere sbagliato direzione: / dal buio verso la luce, è esperienza / comune, è più agevole, più naturale”. La luce è fonte di vita. Furono minuscole cellule vive che miliardi di anni fa riuscirono a trasformare il sole in energia.
Ma quale luce cerchiamo noi umani? Falene impazzite sfarfallano attorno al lume di una candela. Quando si smarrì il chiarore lunare? Loro non sanno, le minuscole creature, e la vita infiamma e brucia in un attimo le ali leggere. Ma noi sapiens: siamo davvero sapienti? Seduce l’artificiale bagliore fatto di like, che del vuoto colmano i giorni alla luce fievole del computer. Ci basterà? La Luna… quanta nostalgia! Cosa narrava al pastore errante l’astro notturno?
La vita si snoda senza ragioni. Solo va nell’eterno ciclo di vita e morte, di luce e buio. Chiaroscuri nel chiostro dove passi calpestano ciottolati impervi. Chiaroscuri nei boschi damascati di colori vellutati e policromi profumi. Troveremo la luce dove balugina irrequieta tra le fronde? Ognuno avvertirà, se vorrà, un’esortazione quasi impercettibile dentro al limes sul ciglio del crepuscolo, tra mare e cielo, tra luce e buio.
Qualcosa dentro. Perché non accontentarsi del bicchiere mezzo pieno? Chi muore per fame o sfinimento, chi non ha casa né lavoro, ha diritto di star male. Il suo bicchiere è fradicio di vuoto. Eppure, io… non so adattarmi. Questo spleen che ogni tanto attanaglia e scaglia, fa male. E non è fatto solo di un umore malato, ché io sento la vita attorno: di foglie, di aria tra nuvole gommose, di voci animali. Ma la pena, è fatta di accadimenti giunti all’improvviso, come una porta spalancata da una folata gelosa del piacere, della quiete. Di gioie semplici che colorano i giorni.
“Scorre la vita / a dispetto di sé, ti porta immobile, su lidi / secchi, inattesi, proprio nell’attimo in cui / senti che niente muta il niente che, lento, divora”. Poi, ad occhi chiusi, torni indietro. Annaspano i ricordi, di un tuo tempo fanciullo “un prato semplice, bambino, dove la distanza tra destino e percorso è solo il salto di un fosso, di slancio, ad occhi chiusi, l’attimo in cui la mente diventa riflesso dorato di sole, riso profondo, leggero, del cuore.”
Piaceri immediati, semplici. Vivi: eterni per questo?
La notte. “A lei hai dato tutto, /e non importa cosa hai avuto / in cambio… Le cosce nella notte, sode, calde, distese / è lì che hai gettato i tuoi pensieri”. Il corpo, vissuto, toccato, immaginato anche quando la distanza corre nella voce del telefono. Fantasie rincorse nell’attesa. Qualcosa nella bocca “il diamante di un riso da incastonare nel tremore di un concetto, un’idea, pietra che forgia e misura, il corpo del mondo, frantumandolo”.
Loro, le donne…
”Assetate d’infinito, devote o baccanti,
piene ora di gridi, ora di pianti…
o voi, che la mia anima ha inseguito nel vostro inferno,
sorelle, tanto più vi amo quanto più vi compiango
per i vostri cupi dolori, per le vostre seti mai saziate,
per le urne d’amore di cui traboccano i vostri cuori.
Charles Baudelaire
Vivere, forse. “Per un granello di bellezza, / anche se non sai come né perché e non si vede ancora cornice né quadro”. Ma serve forse una ragione? Se l’incommensurabile fosse la misura stessa della bellezza? L’abbraccio di Venere consuma l’ardore perché nessuno la possederà davvero. E nel desiderio traslato e mai raggiunto, vive lei, Venere, la stella prima, che al crepuscolo incede, e al mattino si invola per tornare ancora nel vespro a venire. Nei sogni della notte, che sanno di lacrime e sperma.
La tempesta. “Sarebbe troppo agevole, per noi, / uno schianto di cielo, urlo, pianto, riso stranito, poi, più niente”. Troppo facile abbandonarsi al male oscuro, immoti al tempo che spegne l’alito e gela il cuore. Eppure, Hölderlin, che altalenava abissi di dolore a cattedrali di luce, ci raccontò che “Là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva.” Custode di verità? Guardiano di menzogne? Io, io… non so.
Mi incammino lungo la piana, lentamente.
Sento il mare – là in fondo. Di burrasca.
Flutti scardinano il cielo, che ingombra di nubi
e accende l’aria di lampi fosforici.
E spacca, e assorda, e s’inarca in marosi
che infiammano spettri interrati, giù in fondo – ombre.
Il vento mulinella sul volto, i capelli sgrovigliano verso lo spazio. Mi raccolgo in un antro di roccia, in attesa.
Un lampo d’azzurro, uno spicchio di cielo
si dipana improvviso, raccolto tra nubi
ancora accigliate, e svela un bagliore opalino
come di Luna, che placa in quieta bonaccia
l’assalto del mondo.
da Inadeguato all’eterno
testi citati da Roberta Pelachin:
Inadeguato all'eterno Se le braccia spalancate della ragazza nuda avranno la pietà del miele selvatico, se il sorriso sconosciuto e impuro ti darà la certezza del corpo e del cuore, senza cercare niente di più del battito delle tempie e del fuoco del sudore, avrai il dono scabro, essenziale, di un attimo: l'istante leggero e violento in cui ti senti vivo, seppure fragile, sporco, inadeguato all'eterno. * Per sbaglio, per errore "Ho ricevuto la vita come una ferita", scriveva Lautréamont. "Voglio che il Creatore ne contempli, in ogni ora della sua eternità, il crepaccio spalancato". È morto all'età di ventiquattro anni, Lautréamont. Eppure ha sentito la forza, nel respiro della carne lacerata, di sfidare l'eterno, la vita, facendo sentire il suono, l'attimo del fiato umano, all'immenso, all'infinito. È questo, forse, il patto tacito, l'impegno, il contratto non scritto firmato da ognuno all'atto di nascere. Ma intanto, mentre penso al sorriso di trionfo del poeta esanime sul bianco del suo letto, mi chiedo se davvero, io, ora, con qualcuna in più sulla pelle e nella mente delle sue ventiquattro primavere ormai lontane, riesco davvero a vedere, a percepire la polvere e il sangue della voragine del suo soffrire. E se lui, per qualche mirabile acrobazia del tempo, potrà mai scorgere l'ombra aerea, deformata, ribaltata, del mio abisso. Soprattutto mi chiedo se io stesso, e lui, e qualunque altro misero, pulsante microcosmo, siamo visibili, come la Muraglia Cinese, almeno come un minuscolo solco, una riga nell'azzurro del Cosmo, da lassù, dalle vette siderali dell'eterno. Ma forse la domanda contiene già in sé la muta risposta. O forse Lautréamont continua, cantando, ad avere ragione: riceve la ferita senza rabbia, senza sorpresa, finendo per lasciare a bocca spalancata lo sguardo insondabile che afferra la lama. Mostrando il crepaccio con orgoglio, come un frutto rosso, come un figlio. Volendogli bene, in fondo. Senza temere per niente, come un Adamo spaurito, stordito, ancora caldo dell'erba divenuta paglia del giaciglio, di avere stretto a sé con le braccia e con il cuore la pelle calda di donna o di serpente solamente per sbaglio, per errore. * L'eterno ritorno del dolore Non so cosa necessiterebbe, oggi per strapparmi a me stesso; forse una poesia ben scritta, letta in una stanza chiusa mentre attendo che si liberi la via che conduce alla vita. Una poesia che faccia piangere, e ridere, che faccia comprendere, come un cieco nel buio, lo stipite, l'angolo appuntito nello stomaco, il mobile antico, di mogano, che non avrebbe dovuto trovarsi lì. Una poesia che mi stende sul letto, placido e perso, come un pensiero, un ricordo, sicuro di essere nudo e morto, seppure dotato di troppo respiro e coperto da strati prudenti di cotone e fustagno. Un verso, come un sasso che ferisce e lacera la mano ma muove di onde nuove e lucenti lo stagno del tempo, del mondo. Una frase d'amore spietato, banale, quasi da romanzo d'appendice, che mi faccia alzare di scatto, folle come non mai, ancora innamorato, senza scampo e senza limite, felice di andare a testa nuda a mezzogiorno, ubriaco di sole, come un ramarro, come un rospo, come un dio beffardo, imperfetto, ignaro, mai come adesso, dell'eterno ritorno del dolore. * Alto sulle acque Forse solo il minuscolo girino che guizza nel lago con spinte lente, regolari, ha capito il senso di queste acque basse, stagnanti, assalite ai lati dalla foga vorace del falasco. Forse lui soltanto rimane sereno nell'attimo in cui una goccia più fredda frantuma lo specchio di un'altra stagione, cristallo di vetro che sembrava eterno. Forse solo lui sa gioire di questo liquido fango verde che non si incresperà neppure un attimo quando toccheremo uno ad uno la terra con la schiena. Continuerà a nuotare l'erede del girino, identico a se stesso, senza sognare sponde nuove da invadere, senza pensare al sentiero, al cammino tra boschi e sassi, all'ombra e alla resina dei pini, ai confini al di là delle nevi, vicini all'idea delle nuvole, l'abisso del volo, del cielo. Se però avesse visto te, la tua bocca, l'oro della tua pelle, la tua malia, sognerebbe di essere balena, il mite girino, e forse, davvero, si solleverebbe alto sulle acque, e volerebbe via. * Inestinguibile Qualcosa oltre l’oceano, oltre le ondate identiche insistite che spazzano la mente di melma lenta putrida di detersivi, pannolini e bocconcini assortiti per i cani, qualcosa oltre la bava di lumaca dei mercati, brillantina di manager in cravatta a righe diagonali, stages e progetti globali di investimento, qualcosa oltre, un sole rosso di lingua che sfiora e ride, seno nudo che danza senza pensare al giusto e al vero, alle scatole nere degli aeroplani, alle cause sante, ai ruoli mondiali di guida e orientamento. Qualcosa oltre, uno spazio, un progetto, labbra di terra, esili e possenti di vento lambito dal mare, umide, testarde, sfarinate, riemerse salde, ad ogni alba purpurea ancora calda, ancora viva. Qualcosa oltre, è questo che ci vogliono rubare, millimitrare l’orizzonte, questo è ciò a cui mirano, con le linee geometriche di un codice a barre universale. Qualcosa oltre, il sogno e la pelle di te, l’assurdo, l’errore forse, l’illusione, la voglia e la speranza che si possa ancora andare dove il cuore smarrisce il confine, il margine prestabilito, e il calore del sogno brucia ancora, dolce di miele e di sale inestinguibile. * Non un alito d'aria Non un alito d'aria, un guizzo, uno scarto di tempo. Anche il lago sullo sfondo, sarcastico, stupendo, è un dipinto di autore manierista. Navigano, sull'acqua e nella testa, vele di carta e fustagno, orrore immobile, certezza del nulla che scivola lento verso la sponda. Ma ripetono, tenaci, i poeti riuniti in schiera compatta di lettura, in una formula, un'invocazione ad un dio muto, scontento, una delle loro parole preferite: "vento - vento - vento". Rido, amaro, della loro patetica fiducia. Ma un alito reale, spettina, ora, la fronte. Forse è chimera, vana impressione. Ma anche le foglie fremono assieme al cuore, perfino il lago si increspa. La vita ritrova se stessa nella parola. E perdersi nella gabbia della sua magia è annegare la mente in acque profonde, o annegare il corpo, semplicemente, l'attimo in cui l'esistere ritrova suono e fiato, la voce sognata di un vento che soffia, lacera e carezza, veramente. * L'attrazione Quando vacillano le fedi, quando le speranze e le stelle che eri certo di vedere e toccare, si spengono senza un palpito, senza un rumore, non c'è musica né suono, non c'è nota o voce che possa entrare in sintonia con te, perché è sempre troppo allegra o troppo triste, invita ad un riso o ad un pianto che ancora non sai accettare senza vergogna e senza timore, come se fosse troppa grazia o troppa pena, come se il vizio antico di vivere fosse una colpa che non sai smettere di sentire. Allora, a tratti, ti viene da pensare di avere sbagliato direzione: dal buio verso la luce, è esperienza comune, è più agevole, più naturale; più ostico per l'occhio e il corpo umano è muoversi dalla luce verso il buio. Sì, forse alla nascita abbiamo sbagliato strada, cammino. Oppure, semplicemente, la scommessa, il senso, il destino, è individuare a tentoni, toccando la calce fredda del muro, l'interruttore. Senza paura di vedere la mano che freme e trema: la fame, il bisogno, l'attrazione. * Qualcosa dentro Qualcosa dentro non si adatta, non si adegua, continua a pulsare per moto proprio, ad ammalarsi, a guarire, con impulso autonomo. Scorre la vita a dispetto di te, ti porta su lidi secchi, inattesi, proprio nell’attimo in cui senti che niente muta il niente che, lento, divora. Ma qualcosa non si attaglia, non si allinea. Sfiora la superficie un pensiero, perla di luce scivola via con un volto stranito, sognando il tonfo, il crepitio dello schianto, il profilo dello scoglio. O un prato dove la distanza è il salto di un fosso, di slancio, ad occhi chiusi; l’attimo in cui la mente diventa riflesso di sole, sorriso profondo del cuore. * La notte La chimica pura e corrotta dei tuoi studi, gli anni giovanili, terra d’elezione, stagione effimera interminata della mente, la notte, compagna insaziabile assetata di sangue delle tue narici, sudore dei lombi, mani perdute nella frenesia ponderata dei tuoi Canti. A lei hai dato tutto, e non importa cosa hai avuto in cambio. Il tuo seme sparso nel grembo ha generato un corpo arcano, rosso di sangue e grida, pronto a correre, a fuggire, appena nato. Alieno alla luce, al riflesso paziente delle aiuole, suore dai capelli a larghe tese, ombra di chiese consacrate soltanto al santo protettore del potere. Le cosce della notte, sode, calde, distese è lì che hai gettato i tuoi pensieri, da loro li hai lasciati stritolare per ritrovarli fertili, schiusi, urlanti di forme di parole. La notte, calore di geli senza fine, i guanti a scaldare la penna, nella bocca il diamante di un riso da incastonare nel tremore di un concetto, un’idea, pietra che forgia e misura il corpo del mondo, frantumandolo. * Vivere, forse Vivere, forse, per un granello di bellezza, anche se non sai come né perché e non si vede ancora cornice né quadro né si legge la chiave del gesto, la mano che avvolge con bestiale eleganza la rete calata nel pelago, senza un riso o un ghigno di lamento, meccanica metodica del tarlo che logora sereno il suo legno, morde e martella compìto, spietato, secco il fiato nel fondo dei polmoni, apnea, abisso, esplodere rosso di buio, e il flauto dolce che ti scava dentro, inatteso, ugualmente inafferrabile. * La tempesta Sarebbe troppo agevole, per noi, uno schianto di cielo, urlo, pianto, riso stranito, poi, più niente. Solo il corpo, per istinto antico, si affannerebbe alla ricerca di un riparo di fortuna. La mente, già leggera, lontana sulla schiuma che vola incontrastata verso il mare. Ma la nostra tempesta, per quanto lunga, limacciosa, densa di vento e torrenti, tronchi, liquami, rottami, finisce sempre, all’indomani, con un sole in tuta da lavoro, stinta ma brillante, abbastanza per vedere che niente, davvero, è cambiato. Solo il ciglio del fiume è più largo, corroso, cosparso di fango già pronto a mutarsi in argilla. Estetica immutabile del nulla, laccio emostatico di una subdola serenità, vespa cieca, assassina, a spasso sopra e dentro la testa, ti lascia solo l’attimo, lo scarto, fessura breve di silenzio afferrato in controtempo: ascoltare, lontano, l’eco, il suono, la speranza: una vana, vitale tempesta.