A TU PER TU – Michele Nigro
Leggendo le risposte di Michele Nigro alle domande di A TU PER TU mi sono venute in mente in particolare due considerazioni. La prima riguarda l’atteggiamento dell’autore nei confronti di ciò che scrive. E la considerazione ha sia una valore specifico che più ampio. Nigro si definisce “un artigiano”, scrive libri intitolati “Pomeriggi perduti” e “Poesie minori. Pensieri minimi” e ha diretto la rivista letteraria “Nugae”, che, tradotto, equivale all’incirca a inezie, bagatelle, cose da poco. Qualcuno in modo più esplicito userebbe una parola con due zeta. Ebbene, a differenza di molti che si autoincensano e in realtà scrivono cose “con due zeta”, Nigro, che si esercita da anni nell’arte dell’understatement, ha una cura meticolosa e appassionata per la parola, mai banale, mai incolore e indolore. E poi, beh, c’è motivo di consolazione se anche gente come Catullo, Orazio e Petrarca hanno definito “nugae” alcuni loro scritti. La seconda considerazione la introduco citando un passaggio di una delle risposte di Nigro: “Il termine poeta è stato confinato a identificare solo ed esclusivamente il componitore di versi, ma per fortuna non è così: poeta, nella sua accezione creativa, è anche il narratore”. Personalmente ho trovato questo spunto interessante, in grado di generare un potenziale dibattito tra chi concorda e chi dissente. Lo stesso vale anche per altre osservazioni di Nigro inserite nell’ambito delle risposte. L’invito è quello di sempre: leggete se avete tempo e modo l’intervista e chissà che non vi venga voglia di leggere anche altro.
Buone letture, IM
A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio. Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine. Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira. Saranno volta per volta le stesse domande. Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.
IM
5 domande
a
Michele Nigro
1) Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
Grazie a te per questa opportunità. Non mi sono mai fidato degli autoritratti: peccano di omissioni o di adulterazioni dell’io. Volendo autodefinirmi dal punto di vista prettamente letterario posso dire con onestà e serenità che, pur non essendo un letterato, credo di essere almeno un artigiano della parola, un cercatore di senso e di verità prima di tutto per me stesso e magari anche per uno sparuto gruppo di lettori. Se la narrativa breve mi ha fornito qualche piccola soddisfazione soprattutto in passato, è la ricerca poetica a piantare i veri paletti lungo il confine della mia terra interiore. Una ricerca in fieri che sicuramente sposterà questo confine verso altre direzioni creative.
2) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?
Il mio ultimo libro è una raccolta di poesie intitolata “Pomeriggi perduti” (ed. Kolibris, 2019) con la prefazione del poeta Stefano Serri. Avevo bisogno, come già accaduto con la prima raccolta “Nessuno nasce pulito” (ed. nugae 2.0, 2016), di materializzare i miei versi, di poterli toccare, di osservarli fissati su carta non per un effimero capriccio autoreferenziale, dopo essere stato (e lo sono ancora) un fautore della cosiddetta web poetry: importante e per certi versi rivoluzionario è stato l’approdo, non recente, della poesia in internet; molti lettori mainstream hanno scoperto poeti sconosciuti o di nicchia, molti poeti sconosciuti hanno potuto far veicolare i propri versi al di là di una cernita editoriale diventata poco credibile nelle intenzioni letterarie e più orientata verso esigenze commerciali o di “autorevolezza” di autori già affermati.
In questa seconda raccolta, a differenza della prima più didascalica e discorsiva, ho diluito con sobrietà e con una maggiore asciuttezza stilistica ricordi, eventi esistenziali, sensazioni estemporanee, persone e personaggi da immortalare, escursioni filosofiche nel quotidiano, verità interiori bisognose di essere fermate nel tempo, capisaldi della vita che andavano onorati, luoghi importanti che da sempre nutrono il corpo e l’anima; e poi la poesia, oggetto di se stessa.
Il concetto di aspettativa, soprattutto in poesia, dovrebbe essere abolito: è deleterio, consuma le energie genuine dell’autore, ne inquina gli intenti inizialmente puri, lo rende schiavo di idee malsane. Come scrivo proprio in una poesia della raccolta, Aspirazione: “Che le parole / dalla silloge di maggio / siano fortuiti guanciali / su cui riposare / senza fretta, / conforto alla vita / appigli regalati / a sconosciute anime. […]Balsami scritti / anche per uno solo / dei lettori raminghi, / parentesi tra gli orrori del mondo / oasi di riflessione per cuore di donna…”. Bisogna curare la propria creatura, promuoverla, ma senza creare catene con essa, ed è bello anche vedere i propri versi tradotti in altre lingue (come mi è capitato con alcuni componimenti tratti da questa raccolta e tradotti in inglese, spagnolo e portoghese): la sensazione di leggersi con altri suoni di linguaggi usati in luoghi diversi del mondo è liberatoria; si ha la consapevolezza che qualcosa di tuo, di intimo, appartenga a un territorio, non solo geografico, più vasto di quello a cui si è abituati; che quel qualcosa, come un figlio, se ne vada in giro per il pianeta.
Ho particolarmente apprezzato un passaggio in una recensione a “Pomeriggi perduti” che apparirà a dicembre su una giovane e interessante rivista letteraria, e del cui autore mi riservo di non fare il nome per una questione di correttezza nei confronti della testata che ci ospiterà: “… Risponde a un’eco classica la poesia che Nigro modula su filatrici moderne…”. Credo che in questa frase lapidaria – estrapolata da un lavoro critico ben più ampio – siano riassunti non solo la descrizione della mia ricerca poetica, che giustamente oscilla tra una tradizione che “condiziona” e inevitabilmente permea il testo, e l’evoluzione del linguaggio quotidiano – al di là di ogni vacuo sperimentalismo – che non può lasciare indifferente il poeta, ma anche il raggiungimento (inconsapevole?) di quello che potrebbe essere definito uno stile. Proprio, personalissimo, disorganizzato, non generalizzabile e non rappresentativo, sicuramente destinato a tramontare o quantomeno a diluirsi in un’epoca, a non lasciare traccia o a evolvere in qualcos’altro. Forse a ritornare nel flusso arcaico e immemore delle parole nate con il mondo.
3) Fai parte degli autori cosiddetti “puristi”, coloro che scrivono solo poesia o solo prosa, o ti dedichi a entrambe?
In caso affermativo, come interagiscono in te queste due differenti forme espressive?
Mi piacciono le contaminazioni (termine non molto amato in questo periodo!), non riuscirei a essere un purista coerente. In passato mi sono cimentato nella scrittura di racconti, anche di genere fantascientifico, e di tanto in tanto, come se mi assegnassi da solo un esercizio, li ri-edito, li rimastico, perché credo che la riscrittura, il rivedere con occhi evoluti le proprie parole, sia molto più importante che sfornare spasmodicamente nuovi testi. Lo stesso vale anche in poesia, ecco perché credo, sì, nella pubblicazione delle raccolte, senza per questo esasperarne gli obiettivi finali: spesso poesie di differenti sillogi convergono in un nuovo progetto che le accomuna, che le trasforma riassegnandole, donando al lettore attento un nuovo approccio, un rinnovato punto di vista sullo stesso componimento collocato in un contesto diverso.
In trascorse occasioni ho avuto modo di intercalare la poesia in flussi narrativi: occorreva farlo non solo per interrompere lo schema del testo, ma soprattutto per fornire liricità a una storia che non aveva intenzione di evolvere in maniera didascalica e descrittiva. Quando l’ho fatto in un contesto fantascientifico, compiendo certi innesti tra prosa e poesia, ho cominciato ad assaporare il significato di un ibridismo che per molti è sacrilegio.
In un futuro progetto riguardante la mia terra di origine – la Lucania -, che non so quando riuscirò a realizzare perché richiederà tempo e stanzialità (per titillare un genius loci senza il quale farei ben poco!), la commistione tra poesia e prosa sarà la regola, la struttura non casuale dell’intero edificio.
La specializzazione è una gran bella virtù, ma quando il purismo diventa fanatismo, allora vuol dire che è giunto il momento di prendere le distanze da certe posizioni. Il termine poeta è stato confinato a identificare solo ed esclusivamente il componitore di versi, ma per fortuna non è così: poeta, nella sua accezione creativa, è anche il narratore.
4) Quale rapporto hai con gli altri autori? Prediligi un percorso “individuale” oppure gli scambi ti sono utili anche come stimolo per la tua attività artistica personale?
Hai dei punti di riferimento, sia tra gli autori classici che tra quelli contemporanei?
Pur essendo un individualista in senso lato, non solo artisticamente, recentemente ho lanciato dal mio blog un’iniziativa intitolata “Scambiamoci i libri!” tendente a stimolare appunto uno scambio di testi editi tra autori di poesia; non solo uno scambio di recensioni, in una reciprocità obbligata, bensì un modo per conoscere e ri-conoscersi, per tastare il polso della poesia italiana contemporanea, almeno tra quelli che pur avendo superato il livello “esordiente” non hanno ancora raggiunto un certo tipo di visibilità automatica come accade a pochi eletti. Come motto avrei voluto usare “Leggiamoci da vivi!” ma temevo di risultare macabro e di ricevere uno scaramantico feedback negativo: il fatto è che la retorica dell’autore morto, e il fascino derivante dal trapasso che inesorabilmente determina la positiva rivalutazione d’ufficio dei suoi versi, è una sciagura per il poeta longevo.
Il rapporto con gli altri autori è altalenante e dipende dalla chimica che si viene a creare: con la maggior parte ci si ignora (anche se, grazie ai tanto vituperati social, le occasioni di interazione si sono moltiplicate), con altri si interagisce proficuamente in vista di una reciproca promozione; rari sono i casi in cui si verifica un’autentica e profonda compenetrazione tra le poetiche, stimolata da un reale interessamento per l’altro: quando questo avviene è meraviglioso e le parti ne escono arricchite.
Non amo le gang bang poetiche, sia quelle fisiche che le cartacee; non amo le “agende dei poeti” organizzate a fine anno in una sorta di martirologio letterario. In passato sono volontariamente caduto nel tranello di antologie concepite per spillare soldi, ma l’esperienza è ciò che ci permette di accantonare certi vissuti per non ripeterli. L’individualismo deve essere usato come un filtro qualitativo e non percepito come una condanna.
I miei punti di riferimento oscillano tra passato e presente: mi piace spulciare tra la storia, ma non resto prigioniero di alcun tempo: ho amato Edgar Lee Masters, Walt Whitman, Pablo Neruda… Non so quanto la lettura dei grandi del passato influisca sulla ricerca di una propria voce e francamente non m’interessa saperlo: a volte qualche recensore scorge sprazzi di somiglianza, individua piccole analogie con autori importanti, ma la cosa non mi eccita.
Il “difetto” dei contemporanei è sempre lo stesso: sono vivi. Riconoscerne l’influsso sul mio presente richiede sforzo, maturità, lavoro analitico onesto: doti che non sempre mi riconosco anche se le mie recensioni sono apprezzate. Ma è un’operazione che va svolta: per contrastare il solone che è in noi.
5) L’epidemia di Covid19 ha modificato abitudini, comportamenti e interazioni a livello globale.
Quali effetti ha avuto sul tuo modo di vivere, di pensare e di creare?
Ha limitato la tua produzione artistica o ha generato nuove forme espressive?
Da un punto di vista strettamente personale i vari lockdown non hanno cambiato più di tanto le mie abitudini, tranne per alcune libertà a cui ho dovuto rinunciare come tutti, e che con troppa superficialità davo per scontate: nel senso che conducevo già una vita piuttosto riservata, equilibrata, non bisognosa di eccessi, e avevo già attuato da anni un certo distanziamento culturale prim’ancora che fisico e sociale come esigono le disposizioni in materia di prevenzione. Per “culturale” non intendo il numero di libri letti, bensì certe scelte qualitative (più che quantitative) dal punto di vista esistenziale che non mi hanno fatto percepire alcuna deprivazione. Mi mancano i viaggi e le folle nei concerti rock, questo sì, lo ammetto: ma so che torneremo a spostarci liberamente e a rivalutare la qualità del nostro viaggiare, caso mai rispolverando un localismo per troppo tempo snobbato in nome della falsa filosofia delle grandi mete.
Le mancanze registrate dalla massa e i vari isterismi che ne sono conseguiti hanno interessato soprattutto chi aveva strutturato la propria esistenza su falsi valori e su esigenze effimere. Al netto delle morti e dei disagi economici che si stanno verificando purtroppo in quasi tutte le nazioni del pianeta, per me la quarantena è stata una vera e propria manna: ho letto e scritto di più (soprattutto in riferimento a elementi culturali che ben si amalgamavano con le vicende in corso), non ho ricevuto le visite di rompiscatole, ho ascoltato musica e visto film che aspettavano di essere visti, ho partecipato a eventi culturali via social, ho coltivato nel mio piccolo le cose che fino ad allora avevo trascurato… Certo, il prezzo di questa manna è stato ed è altissimo.
Forte e interessante è stato il dibattito scaturito all’indomani della pubblicazione su “Poliscritture” di un mio articolo intitolato Elogio del post apocalittico: alla maggioranza delle persone dà fastidio collocare quest’epoca storica difficile nell’ambito di un’evoluzione in atto, che lo si voglia o no; potrà sembrare cinico, ma chi è avvezzo alla fantascienza distopica è arrivato preparato all’appuntamento e ha avuto un approccio differente nei confronti della pandemia da Covid19: tutto quello che stiamo vivendo, e molto altro ancora che mi auguro di non vivere, è stato ampiamente “profetizzato”, analizzato e descritto dal punto di vista narrativo in numerosi romanzi di genere. Si tratta di “scenari noti”.
Quella che manca (ed è bastata un’estate di rilassamento per tornare a scatenarci come se nulla fosse accaduto) è una seria riflessione, sia personale che comunitaria, sull’evoluzione del nostro modus vivendi, sul non ritorno a quella parte di “normalità” deleteria. Non nutro troppe speranze sul cambiamento delle abitudini dell’umanità, se queste non sono incoraggiate da cambiamenti drastici derivanti da decisioni prese a monte: gli opportunismi del capitalismo sono alimentati dalla nostra pigrizia e ci nascondiamo dietro l’invenzione di “dittature sanitarie”; un mio articolo, pubblicato sul blog in piena quarantena, s’intitola proprio “Cast Away” e la retorica del saremo migliori. Una retorica che ha alimentato e sta alimentando un linguaggio pubblicitario speranzoso e mirante esclusivamente a un tornaconto economico: parole come “ricominciare”, “rinascita”, “resilienza”, “ritornare”, “riabbracciarsi”, “risollevarsi”, “rialzarsi”, espressioni come “ce la faremo”, “andrà tutto bene”, rappresentano i cavalli di battaglia di una neolingua post-pandemica di stampo commerciale che ci terrà compagnia per molto tempo.
Credo molto di più nei micro-cambiamenti individuali che diventano lentamente esempi diffusi o da diffondere. Che diventano cultura. L’ideale sarebbe evolvere senza esserne costretti da decreti o pandemie.
Sarò sincero: non credo molto nella qualità letteraria delle cose scritte sull’onda emotiva causata dalla pandemia; è un evento non metabolizzato perché ancora in atto, e non abbiamo la visione d’insieme, la distanza temporale necessaria a scriverne in maniera equilibrata. So che stanno nascendo antologie dedicate e molti autori prolifici sfornano romanzi ambientati nell’era covid come se fosse una pagina storica ormai superata e digerita. Io dico che sarebbe molto più onesto attendere, anche anni, far sedimentare gli eventi e lasciare che l’argomento penetri lentamente, senza nominarlo, nella nostra prosa e nella futura poetica.
Poesie da
Pomeriggi perduti
Privé
Quel vostro club privé
dopolavoro per manovali
vogliosi, poco spirituali
tantra occidentale,
con l’ingresso, lembi di un’inguaribile
ferita
a volte nascosto
da fitta vegetazione capigliata
altre ancora glabro come un glande
che accoglie tra
pioggia calma che bagna
senza giungere da nubi
il sentiero reso facile
al viandante eretto
ma non eretico.
Un ariete di carne e sangue
per sfondare porte
aperte, umide di
desiderio lasciato libero,
ed entrare nella
calda stanza
di una finta immortalità.
Al termine
di movenze mai spiegate
bianchi muezzin
dall’alto di minareti a tempo
annunceranno il segreto
della vita umana in questo mondo.
***
Caffè Albania
Ricordi il caffè degli albanesi,
l’angolo cieco e sicuro di Roma dove
s’intrecciavano le mani rassegnate
degli amanti
prima di un altro addio?
Quella dolce gioia dolorosa
poetica fonte di parole che
hanno scavato a lungo in noi
stanotte ha trovato conforto
non in nuove carezze di donna
come tu pensi
ma nel suono lieve di una fontana
lontana, circondata dal silenzio
del buio stellato e delle amicizie spente.
Attendevo da anni
di riscoprire quel rito giovanile
dell’acqua bevuta in città deserte
tornando dai goliardici viavai
che precedono l’alba
di rinnovate speranze.
***
Bisaccia
Era il tranquillo fumo
di sospirati sigari lucani
che, fuggendo dalla città
mi accoglieva d’estate
disteso su balconi isolati.
Sul confine tra antiche terre
torno a respirare
un’aria filtrata dalla pietra,
all’ombra serale
del castello ducale.
In una casa bassa
aperta sul paese
strusciante di anime in altura
due vecchi senza più desideri
e stanchi di vita
con le spalle rivolte al mondo
guardano la tivvù.
Non li scalfiscono
le letture dei poeti.
20 dicembre 2020 alle 16:13
L’ha ripubblicato su Pomeriggi perdutie ha commentato:
Un sincero grazie al poeta, romanziere, critico e saggista Ivano Mugnaini per le domande stimolanti di questa intervista a cui ho avuto il piacere di rispondere… e per l’ospitalità su “DEDALUS”!
20 dicembre 2020 alle 16:46
Mi ha fatto piacere pubblicare le tue risposte, Michele, e anche alcune poesie del tuo libro “Pomereiggi perduti”