Giorno: 30 dicembre 2020
A TU PER TU – Villa Dominica Balbinot
“Obiettivamente ostica incandescente urticante, magari pure scandalosa, addirittura probabilmente impoetica per eccellenza, anche per non finire a dare una visione falsamente idilliaca […] cosa quest’ultima per cui mi dichiaro apertamente ‘non adatta’, intellettualmente e ‘midollarmente’ non adatta. Quella che vado espressivamente rappresentando è la condizione umana ‘perenne'[…] io parlando della vita e della morte non posso essere contemporanea nel senso più tradizionalistico e forse riduttivistico del termine (come contingente) ma forse contemporanea perenne, perennemente attuale in un certo senso”.
Dal modo con cui le autrici e gli autori tracciano i contorni del proprio autoritratto si comprendono, per riflesso, molti aspetti del loro modo di rappresentare loro stessi in rapporto al mondo, anche attraverso la scrittura.
La mano di Villa Dominica Balbinot è allo stesso tempo passionale e riflessiva. Procede per scatti ed arresti, come se volesse sempre mantenere vivi, presenti e in primo piano, la forza e la riflessione, l’uragano e il chiarore. Un contrasto forte, in grado di generare dei chiaroscuri intensi. Uno specchio della vita, del tempo, degli eventi e dei mutamenti e di ciò che resta, come un infinito occhio del ciclone, a sovrastarci, a farci spalancare gli occhi di timore ma anche di sete, elettrizzati da quell’atmosfera in cui tutto il bene e tutto il male si scontrano generando scintille che illuminano a tratti il mistero dell’esistere.
Un percorso coerente, quello dell’autrice, che tra le righe delle risposte all’intervista ha inserito anche alcuni suoi versi, a testimonianza di una ricerca attualmente in corso sulla parola per renderla il più possibile vicina al suo progetto e alle motivazioni che la muovono, spingendola a creare meditando sulla “terribilezza” per usare un termine da lei coniato, quasi a voler andare oltre il più usuale vocabolo, ormai usurato dai tempi e della realtà. “Ossessionata dalla mortalità che cerca in qualche modo di raggelare per poterne almeno parlare visto la sua tremenda ustionatezza al limite dell’indicibile”.
Una poesia di terra e di fuoco, quindi, sospesa tra il presente e un tempo ulteriore, tra costruzione e distruzione, a tratti anche sintattica, per giungere ad un livello di rappresentazione di una condizione umana che la Balbinot non considera più “cantabile” con sintonie ed accordi ma solo per sequenze di bagliori ustionanti
IM
A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
5 domande
a
Villa Dominica Balbinot
1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
Intendo dare espressione a quella che sono arrivata a considerare la assoluta tragicità perenne della condizione umana, di cui azzardo una rappresentazione espressiva, una fredda visione (forse in alcuni punti disagevole, respingente perfino senza sconti comunque per nessuno-compresa me stessa beninteso), divisi come sono – e dalla notte dei tempi – gli esseri umani tra vittime e carnefici in un mondo che davvero può essere desolato.
Mentre scrivo queste puntualizzazioni e mi vado rileggendo mi rendo conto una volta di più che la tematica che mi sono azzardata a voler rappresentare è senz’altro obiettivamente ostica incandescente urticante, magari pure scandalosa, addirittura probabilmente “impoetica” per eccellenza, anche se a mio parere volendo mettersi a parlare della condizione umana, della vita e della morte insomma nulla dovrebbe a priori essere tematicamente escluso e questo anche per non finire a dare una visione falsamente idilliaca [cosa quest’ultima per cui mi dichiaro apertamente “non adatta”, intellettualmente e “midollarmente” non adatta]. Quella che vado espressivamente rappresentando è quella che secondo me è la condizione umana “perenne” al di là del cambio generazionale e al di là dei cambiamenti storici che pur tuttavia gradualmente esistono (e meno male se no ancora peggio direi), io parlando della vita e della morte che sempre si ripete nella sostanza non posso essere contemporanea nel senso più tradizionalistico e forse riduttivistico del termine (come contingente) ma forse contemporanea perenne, perennemente attuale in un certo senso.
Io – complessivamente e riassuntivamente mi presenterei così: «astorica» (ma nel senso che ahimè vedo nella storia ripetersi stesse dinamiche di base), perturbante, ontologicamente ribelle, Villa DOMINICA BALBINOT assorta medita sulla “terribilezza”. Ossessionata dalla mortalità che cerca in qualche modo di raggelare per poterne almeno parlare visto la sua tremenda ustionatezza al limite dell’indicibile”.
Per meglio – e più esattamente-rappresentare in parole il mio sentire ho qui pensato di riportare alcuni versi che ho messo come estrapolazioni altamente indicative sulla copertina di miei tre libri, aggiungendo poi anche due intere poesie ad esempio del mio intendimento e anche in un certo modo della modalità in cui la mia espressione poetica viene a prendere forma.
Ecco:
- ”…E certo terribilezza vi era, ma alta- e sul freddo versante…
Riguardo alla “terribilezza”, una poesia recente incentrata sul tema:
E LA TERRA ANTICA – E TERRIBILE
(In questo mare della innocenza
dove nessuno è innocente
avrei abitato in una dimora
liscia compatta
color di malva – e dolce)
E sulla terra antica e terribile
( nel bisogno di assassinio di queste città)
nell’obliqua solarità del pomeriggio
– nella fioritura fuori stagione-
l’autunno perdeva un poco del suo mite calore
visto da vicino,
(e foglia dopo foglia)
con gli splendidi ingannevoli colori della morte,
nebbiosi sulle acque.
Nel -solo- lago spento,
come un santuario senza rumore,
tutte queste estati travolte,
là i campi di silenzio,
nelle ore della notte,
quel bianco bagliore,ottuso.
19/07/2020
[sulla copertina del secondo libro QUEL LUOGO DELLE SABBIE]
- (L’immenso abbandono degli uomini era intorno a lei- e tutta quella ostinata vocazione alla assenza…cit.)
[sulla copertina del terzo libro “I fiori erano fermi- e lontani…]
- “…al di sotto della pelle lei si sentiva scabra, straordinariamente netta…”
[ sulla copertina del 4 libro E tutti quegli azzurri fuochi…]
A TU PER TU – Silvano Trevisani
Parto in questo caso dalle recensioni di due critici, a loro volta poeti. “Trevisani è poeta dal duplice sguardo – osserva Antonio Fiori – uno storico e antropologico sul mondo; l’altro introspettivo, sulla vita e sull’amore, che ha un misterioso tempo interiore nel quale la poesia deve districarsi”. Claudia Manuela Turco osserva che “il titolo del libro di Trevisani, Le parole finiranno non l’amore, guida costantemente il lettore verso un porto sicuro: se da un lato ci sono le insidie del presente e l’assenza di sogni e speranze, dall’altro ci sono le stanze degli affetti, private ma sempre dotate di finestre aperte sul mondo […] Poesia e filosofia, attualità e tempi trascorsi, mito e vita quotidiana si intrecciano in queste pagine grazie a una parola scelta sempre con cura, passo dopo passo, immersa in una musicalità capace di trasportare verso altre dimensioni anche mentre affonda nella materia più concreta”.
L’abbinamento evidenziato dai due critici è fondamentale, potremmo dire “vitale”, in senso stretto ancora prima che metaforico. Mette in risalto il rapporto tra il tempo interiore (e con esso lo spazio) e la dimensione cronologica che scorre, a dispetto di noi. Ma la scommessa è quella di andare oltre l’inconciliabilità apparente delle due dimensioni. Per qualcuno è azzardo, per altri utopia. Trevisani, invece, la vive come qualcosa di più di una speranza . Il titolo del libro lo dice in modo esplicito, inequivocabile. L’autore ha il coraggio, potremmo dire il privilegio, dal suo punto di vista, di dire che qualcosa va oltre le barriere e i confini eretti dal destino e dalla condizione umana.
Le risposte di Trevisani dimostrano una frequentazione assidua con autori, anche di impostazione molto diversa tra di loro, con cui ha interagito in modo schietto. Ne è stato ispirato, ha tratto linfa e spunti, pur conservando il proprio stile, le proprie idee, il proprio modo di pensare. Lo sguardo di Trevisani è aperto e sincero: non propone panacee né pietre filosofali ma non rinuncia neppure ad incamminarsi tramite le parole verso quegli sprazzi di luce che intravede nelle radure e nelle boscaglie. Le sue letture nutrono la sua scrittura, sia quelle di poeti ben noti sia quelle di autori meno conosciuti, come Pasquale Pinto, che ci segnala con intensa partecipazione. Il suo amore per la poesia è alimento stesso per ciò che fa (il giornalismo e la collaborazione con riviste) oltre che per ciò che scrive. La commistione tra concretezza e dimensione onirica, tra realismo e speranza, è il tratto distintivo dei suoi versi, identifica il suo atteggiamento, il ponte gettato tra parola e pensiero, tra presente e progetto di un domani.
IM
A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
5 domande
a
Silvano Trevisani
1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
– Silvano Trevisani, vivo di parole, essendo giornalista professionista e avendo pubblicato tantissimi libri di vario genere. Responsabile del bimestrale di poesia “Il sarto di Ulm”, collaboro con giornali e riviste. Sono cresciuto a contatto con i poeti Michele Pierri, Alda Merini, Giacinto Spagnoletti, Pasquale Pinto, nella Taranto degli anni Ottanta, e di tanti altri grandi pugliesi (Serricchio, Goffredo, Curci, Angiuli). Ma sono sempre stato uno spirito libero e ribelle, avulso dai “sistemi” e consapevole delle mie scelte. Sono credente e penso che questo influisca anche sul modo di soffrire e di vivere la poesia.
2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?
Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.
Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).
Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.
– “Le parole finiranno, non l’amore” è l’ultima raccolta di mie poesie, pubblicata da Manni L’opera l’ho pensata come raccolta poetica organicamente costruita in sezioni tematiche, che descrivono un percorso reale di vita. Fatti e pensieri si accumulano e si addensano per temi e poi si dipanano in senso cronologico, con l’intento di offrire un racconto composito, corale, spesso provocatorio, sempre teso a una forte emozione.
La realtà è sempre in primo piano, anche quando si muta in un viaggio nel mito e nelle sue sopravvivenze, attorno a luoghi mnemonici chiamati in causa per mescolarsi al presente e ritrovare radici e confronti che intrecciano il dolore e l’amore, cioè la vita.
I versi, in un linguaggio pensato, persino puntiglioso, a volte anarchico, ricercano una musicalità funzionale (quasi tutte le poesie sono chiuse da un endecasillabo) e sono densi di concetti che a volte assumono il tenore di aforismi. Ambiscono a coinvolgere emotivamente il lettore, anche quando partono dalla mia intimità, che dialoga senza parlare con i propri affetti o con l’umanità tutta, quando fa rivivere i giorni più intensi dell’amore e gli affette familiari, o quando si interroga sul divino, per dare a se stesso, in primo luogo, uno strumento emozionale per riflettere sulla propria storia.