Tempo innocente
L’idea dell’innocenza abbinata al concetto di tempo è a dir poco inusuale. Nel corso dei secoli e nelle pagine di innumerevoli libri il tempo è stato descritto come tiranno, assassino, spietato divoratore di membra, padre feroce che si nutre dei propri figli. Rosa Salvia, in questo suo libro, giocato con estrema cura e consapevolezza sul discrimine sottile tra emozione e riflessione, ha voluto, al contrario, dichiararne l’innocenza.
Una mia recensione al libro. Buona lettura, IM
Rosa Salvia, Tempo innocente
Lietocolle, Collana Erato, 2019.
recensione di Ivano Mugnaini
L’idea dell’innocenza abbinata al concetto di tempo è a dir poco inusuale. Nel corso dei secoli e nelle pagine di innumerevoli libri il tempo è stato descritto come tiranno, assassino, spietato divoratore di membra, padre feroce che si nutre dei propri figli. Rosa Salvia, in questo suo libro, giocato con estrema cura e consapevolezza sul discrimine sottile tra emozione e riflessione, ha voluto, al contrario, dichiararne l’innocenza. L’autrice è troppo scrupolosa e conscia per aver semplicemente voluto divertirsi a stupire con un titolo ad effetto. Il libro è un invito alla ricerca, al pensiero critico, ad una visione attenta, divergente, laddove è necessario. È una lunga e appassionata “caccia al tesoro” per giungere a scoprire un frammento di verità, sia essa pietra salda o fiato impalpabile di un’ipotesi condivisa. Più esattamente, è una specie di gioco dei mimi in cui si tratta di indovinare chi è il personaggio, cosa fa, quale azioni compie, e, soprattutto, cosa siamo noi in rapporto a lui. Forse, in ultima istanza, si tratta di scoprire se quel personaggio che cerchiamo di indovinare, quello che viene definito innocente ma ci atterrisce, quello che ci terrorizza ma in realtà non ha colpa, in fondo, siamo noi. L’immagine di noi, l’essenza di noi.
“Oggi il sole è uno splendore!” Il primissimo verso della raccolta è questo. Sembra una pura descrizione, un’esclamazione di gioia estatica, lineare, incondizionata. Invece, per fortuna dell’autrice e del lettore, in questo libro di semplice c’è poco o niente e di puro c’è solo il desiderio di scoprire ambivalenze, coesistenze di realtà e sensazioni, in poche parole “impurità”. Solo ciò che è spurio, in grado di leggere allo stesso tempo le righe e lo spazio misterioso che le separa e le unisce, ci avvicina di qualche passo, senza annichilirci, allo splendore di quel sole da cui siamo partiti. Non è un caso che un passo oltre, nei versi successivi della lirica d’esordio, faccia la sua comparsa un “immenso occhio curioso” che gioca “fra i ghirigori della tenda”.
La descrizione lascia immediatamente spazio all’analisi. Sembra di vedere una figura femminile che di fronte ad un davanzale sposta di lato la sua compagna più tenera e ingenua. O forse no. Anche in questo caso non c’è alternanza né scissione. L’immenso occhio curioso è sia avido di bellezza estetica che di pensiero. Mentre si nutre della luce di quel sole, riflette su sé stesso che guarda. Osserva l’idea di sé nell’atto di guardare. Fino al punto in cui sguardo e pensiero coincidono. Le letture di Rosa Salvia hanno generato questo incontro ravvicinato tra filosofia e poesia. Hanno dato ai versi dell’autrice una connotazione specifica. La poesia può essere un modo privilegiato di indagine e di ricerca. A patto che restino presenti e vivide le caratteristiche proprie dell’espressione lirica. La poesia iniziale si conclude con due versi ineludibili: “ma un filo sbeccato diventa il tuo canto. / Nella cecità”. Ed ecco che la sintesi assume forma e si dichiara, nitida, nuda. Espone agli occhi di chi guarda la sua forza e le sue ferite, il volo e il confine. La ragione è un filo sbeccato. Imperfetto ma cantabile, plasmabile in note e accordi. Il tutto sfocia in due lapidarie parole: nella cecità. Ma è una cecità che non equivale al buio.
Questo libro ci parla di un tempo che non ci uccide e di un buio che non ci rende ciechi. A patto che si riesca a coglierne il mistero e ad accordarci, per quanto ci è concesso con le nostre umanissime risorse, alle sue note, agli abissi mirabili dei suoi suoni.
I versi di questa raccolta si nutrono e ci nutrono di ossimori, di ambivalenze, di contrasti che non si annullano, non si annientano. Generano forme nuove, geometrie più ampie. L’accostamento di materiali di diversa natura e consistenza non genera stridore. Perché la mano che li affianca e il pensiero che ne evoca la compresenza hanno modi delicati. L’autrice non impone verità. Ci conduce semmai con un sorriso serio ma sincero tra le pietre e le nuvole, tra le cose e le idee che costituiscono l’edificio che ha costruito negli anni, con le sue letture filosofiche, con i suoi innamoramenti poetici, con la ragione e la follia, con il bene e con il male che ha incontrato e che ha guardato con uguale attenzione, potremmo dire con uguale comprensione e partecipazione. Non stride questo libro perché non predica e non suggerisce soluzioni per migliorare il mondo. Non lancia slogan miracolistici. Ci sussurra semmai, ma in modo che chiunque possa sentire, che la fuga ha un senso solo se ci consente di tornare, poi, mutati, nel solo luogo dove possiamo essere noi stessi. Ci suggerisce che la pietra del tempo non è mai uguale a se stessa, non un solo istante. Ci invita a pensare quanto simili siano, a ben guardare, le cose e i concetti che ci sembrano distanti e differenti.
“Sillaba simile al silenzio, Desiderio / aperto al Desiderio così anteriori / al muro della terra”. Alla fine di tutto, dopo avere percorso le vie delle pietrose verità, il gesto da compiere non è un muto silenzio, sembra dirci Rosa Salvia. A dispetto di tutto, nella sua personale visione, la parola, il dire poetico, la presenza tramite l’espressione del proprio essere, ha sempre un senso, perfino nell’assenza di senso. “Il tempo è come un fanciullo che gioca ai dadi, / trasforma / in maniera impercettibile / lo spettacolo del mondo nello stesso spettatore / che mescola nell’imperfetto intreccio / del pensiero con il linguaggio del corpo, / gli astri, le acque, i gridi degli uccelli, le ombre / e i giorni”. Per usare le parole della stessa autrice, questo libro parla di un tempo “innocente” e dell’Eros platonicamente inteso come via alogica verso l’Assoluto. È perfettamente consona anche la citazione di Marguerite Yourcenar che Rosa Salvia ci propone come chiave per tentare di aprire alcune della porte che ci troviamo di fronte: “di saggezze ce n’è più d’una, e tutte sono necessarie al mondo; non è male saperle alternare”.
L’ossimoro è sempre generoso: ci permette di vedere entrambe le facce della luna all’unisono. Rosa Salvia ammette i limiti del linguaggio, lo considera inadatto a raccontare qualsiasi tipo di complessità, per quanto semplice, per quanto elementare. Eppure ricorre al linguaggio, alle parole, per esprimere ciò che più le sta a cuore, anzi, ciò che costituisce l’essenza stessa del suo essere. Ribadisce la ricchezza di un limite, una condanna che è anche privilegio. L’uomo, il tempo dell’uomo (e l’impressione è che in questo libro questi due concetti coincidano) è, anche, pierre écrite, pietra scritta. “Incisa nella pietra, la vita, sempre e comunque, scavata dall’acqua alla scaturigine della roccia. Della vita umana e animale, millenaria e vegetale”, per dirla con le parole dell’autrice.
“Sempre il tempo è sul punto di scadere, / e sempre è appostato sul canto della via”. Le parole di Tommaso Landolfi che fanno da esergo al libro sono poste ad un bivio ideale, quello tra il tempo che divora e lo spazio che ascolta, l’ombra «che trattiene ogni sillaba di ogni parola / sacrificata nelle cerimonie del vivere». La poesia lotta, nella precisione esatta dello sguardo. Ed è una frase veritiera, programmatica, potremmo dire. Ma la precisione della poesia, per sua natura, è sfumata, “cuce la notte senza luce / su una lavagna bianca”. Sono versi, questi ultimi, notevolmente efficaci anche sul piano del suono, della tessitura delle assonanze. Soprattutto però assumono rilievo per i richiami e i segnali: la notte è senza luce ma è riproducibile, potremmo dire che può essere resa, nella sua tessitura, su una lavagna bianca. Ancora una volta il gioco è tutt’altro che agevole: siamo invitati a prendere posizione, a schierarci: a dirci da che lato vogliamo stare e soprattutto se quel bianco della lavagna, della parola, aumenta il senso di cecità, di abbacinamento, o al contrario consente di vedere i colori del buio. Chiaroscuri caravaggeschi, ossimori di luce e di tenebre. In quel pulviscolo percorso da un riflesso, effimero e imperituro, c’è, forse, la poesia, forse la vita stessa, quel bagliore di senso che ci è consentito cogliere, che ci è consentito essere.
Il tempo di questo libro è umano, compie e subisce azioni e reazioni, possiede sentimenti e percezioni, soffre e desidera. È, come detto, uno specchio di noi. Non uno specchio alla Dorian Gray. Piuttosto uno specchio che potrebbe ricordare Alice. Attraverso quel vetro vediamo ciò che è e soprattutto ciò che non è, come eravamo, perfino ciò che abbiamo sognato di essere. Guardare in quello specchio ci guarisce o ci ammala, ci dona la gioia di una visione fantastica o ci stranisce a causa del dissidio tra il reale e l’ideale? La sentenza è più che mai ardua. Ma ci sono momenti che si salvano, attimi che ci curano, anche quando la ferita sembra non più suturabile: “Una sera, a casa di mia madre, trovai / tante collane alcune rotte. Lei mi disse / che potevo tenerle, scolpirle dentro di me / l’eco della nostra comunione di allora”. Questi versi confermano che la sola cura, forse, è far sì che pensiero e sentire non si sovrappongono come nella lotta greco-romana, ma si stringano in un abbraccio che cancella i confini e le remore.
Tra l’emozione e la riflessione, tra il bianco e il nero, tra il falso e il vero, c’è un tempo che ci appartiene nel profondo. Non necessariamente è il tempo eroico o quello delle grandi scelte. Più spesso è il tempo, raro, prezioso, in cui siamo stati ciò che veramente siamo e abbiamo desiderato solo le stelle che eravamo in grado di vedere. “Lo impariamo dal Tempo che velocemente si consuma: la vita / a un certo punto non ci torna più. Strano sarebbe il contrario, / per noi poveri eroi del quotidiano: che seguitassimo fino / alla morte ad essere più o meno soddisfatti del nostro essere qui, / dissolvendo ogni memoria a favore della visibilità, della facciata. / Un giorno, senza preavviso, le cosiddette familiari parvenze / strusceranno come fuscelli sulla sabbia e ognuno resterà / un po’ stupito e solo nel mondo vuoto di significato, e tutto sarà / come se non fosse stato”. Si estende, qui, per qualche tratto, fino ai margini della prosa, la poesia; per esprimere nel modo più ampio e lineare un concetto di base.
Si nutrono di varietà di forme e di accenti, le poesie di Tempo innocente. Anche se tutto concorre a creare un’immagine univoca, un mosaico di tessere coerenti, adeguatamente collocate. Ci sono richiami a filosofi dell’antichità e c’è, costante, l’urgenza dell’oggi, la quotidianità; ci sono liriche lunghe che analizzano e descrivono dettagliatamente e ci sono poesie che somigliano ad epigrammi, spesso taglienti, che possiedono una stringatezza e un vigore che sarebbero piaciuti a Marziale, ma anche, in tempi più vicini ai nostri, a Pasolini e a Flaiano: “Quelli che dormono / s’azzeccano come piattole / al carro dei tiranni”.
La varietà espressiva è sempre fertile, consente di spaziare, rende possibile evocare punti di riferimento e sedersi accanto a loro, di fronte ad un bicchiere, come antichi amici, anzi, come amici in ogni tempo, innocente e crudele, terso o nebbioso, propizio o sferzato dalla tempesta: “L’Essere è, il Non-Essere non è. / Essere Infinito compiuto in una sfera… / Caro Parmenide, ahinoi, ti contraddici! / Perciò non importa quello che saremo, / quello che faremo. Noi siamo il canto / in questa tonalità piena di errori”. Eccoli qui, con ogni probabilità, alcuni degli indizi disseminati dall’autrice lungo il terreno per metterci nella direzione giusta, quella da lei auspicata. “Noi siamo il canto in questa tonalità di pieni di errori”, scrive. Versi belli di per sé. Ma non è solo questo che conta.
Tempo innocente è un libro scritto con serietà e attenzione, con una misura che accosta il gioco alla cognizione del dolore più antico, quello della caducità, l’azione corrosiva che ci sbriciola e gradualmente ci annienta. I versi di questo libro avrebbero potuto essere lamentosi oppure propinarci tirate consolatorie. Per fortuna del lettore non si è verificata né l’una né l’altra ipotesi. Hanno fatto da correttivo alcuni salvifici elementi: l’amore sincero di Rosa Salvia per i suoi simili, quei bipedi imperfetti che tuttavia, a volte, si salvano dal mondo e da loro stessi grazie all’eros, all’amore e alla capacità di tornare bambini. Altra ancora di salvezza fondamentale è l’ironia: sapere vedere il vero e il suo contrario, la gioia e il dolore, il buio e l’oscurità, e cogliere, di ciascuno, i chiaroscuri, come in un quadro da dipingere istante per istante. “Tu dici amore / ma è l’inafferrabile dell’amore / che splende nelle tue gallerie”. Questo libro cerca con serena e tenacissima passione quella luce che a tratti illumina perfino le gallerie più lunghe e più buie. Quell’amore che in certi momenti rende vivibili anche le ere più oscure.
Ivano Mugnaini
A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio. Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine. Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira. Saranno volta per volta le stesse domande. Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica. IM
5 domande
a
Rosa Salvia
1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
Grazie prima di tutto, di vero cuore! Sono lieta di essere qui a dialogare con te, Ivano, di cui ho viva stima. Però parlare di me m’intimidisce, anzi mi imbarazza forse perché mi vedo molto out, non senza problemi. Col fatto di vivere in un tempo volatile di “usa e getta”, ma anche di “riusa e getta di nuovo”, vedo in pericolo le mie poche certezze. Passerei volentieri il mio tempo come Cosimo, il barone rampante di Italo Calvino, appollaiata su un albero di leccio anche perché per poter scrivere occorre cancellarsi, dedicarsi interamente al significato da scovare per mezzo del silenzio, dell’ascolto. Peraltro non so proprio cosa pensare di me come poeta, la parola stessa mi spaventa. La mia presunzione non si spinge a ipotizzare una scoperta, o una riscoperta. E intanto non riesco ad abbandonare la penna. I miei quaderni sono zeppi di appunti, versi, cancellazioni, riscritture. C’è sempre una tensione verso qualcos’altro, una sensazione di mancanza, di assenza. Scrivere una poesia è sempre un ricominciare daccapo. La lingua è un campo di tensioni in divenire che non si risolve mai, un fiume carsico che avvince ed inquieta, “una tecnologia sciamantica di controllo della morte” per dirla con il filologo Daniele Ventre. Ad ogni modo la mia famiglia, la mia casa, la mia cagnetta sono la ‘medicina’ contro le quotidiane insidie del mondo esterno diventato, ahinoi, una sorta di teatro dell’assurdo che mi richiama il dialogo fra sordi de “La cantatrice calva” di Ionesco. Ci si parla addosso, si strepita, si urla, non si ascolta. Da brividi! Meglio la fuga! Suggerisco a propria difesa di leggere il saggio di Henri Laborit “L’elogio della fuga”.
2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?
Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.
Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica). Suggerisco in proposito di leggere
Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.
Il mio libro più recente è la raccolta poetica Tempo innocente (LietoColle, dicembre 2019), un libro di ampio respiro di 116 pagine che affronta il tema del tempo ‘innocente’, del tempo che soffre, dell’Eros platonicamente inteso come via alogica verso l’Assoluto. Il tempo innocente è il tempo della tensione verso l’altrove poetico che, come scrive Andrea Galgano nella prefazione al libro, “non è l’illusorio gigante puro e non contaminato giaciglio degli occhi, bensì permane nel segno dello stupore attonito, che è conoscenza, densità dell’istante e principio”. Una sezione del libro dal titolo Infinitesimi di logos è poi un viaggio minimo, se così si può dire, fra alcune espressioni di pensiero di filosofi a me particolarmente cari che nasce dalla riflessione di Marguerite Yourcenar, “di saggezze ce n’è più d’una, e tutte sono necessarie al mondo; non è male saperle alternare”.
Come osserva Pasquale Di Palmo nella prefazione ad una mia raccolta precedente Il giardino dell’attesa (Samuele Editore, giugno 2017) nella mia scrittura “è presente la consapevolezza che il linguaggio sia sempre inadatto a raccontare qualsiasi tipo di complessità, per quanto semplice, per quanto elementare”. C’è sempre nei miei versi qualcosa di immobile, di stratificato, di “petroso”, in cui niente e nessuno possono scalfire una realtà dai tratti disadorni e archetipici, tanto meno il linguaggio. “Al centro del poema la pietra” scrive Derrida. Da qui nasce il mio convulso e vorticoso percorso poetico. La pietra, registrata in frequenza attraverso le sue variazioni o allusioni materiche è il luogo in cui si inscrive la misura del tempo, la storia, la vicenda, la ferita. “La pietra allude, come nel più derridiano fra i poeti, Yves Bonnefoy, l’iscrizione a una soglia: Pierre écrite. Incisa nella pietra, la vita, sempre e comunque, scavata dall’acqua alla scaturigine della roccia. Della vita umana e animale, millenaria e vegetale”. (Dalla postfazione di Manuel Cohen alla raccolta Dolore dei Sassi, puntoacapo Editrice, settembre 2015).
3 ) Fai parte degli autori cosiddetti “puristi”, coloro che scrivono solo poesia o solo prosa, o ti dedichi a entrambe?
In caso affermativo, come interagiscono in te queste due differenti forme espressive?
Sono stata sin da bambina un’accanita grafomane. Ne ho scritto di fiabe e racconti rimasti nel cassetto! Nel 1991 ho però pubblicato con una piccola ma pregiatissima casa editrice lucana (Edizioni Osanna Venosa) un mio romanzo breve “La parabola di Elsa”, ambientato fra Bronte in Sicilia nell’anno della strage contadina ad opera dei garibaldini guidati da Francesco Crispi, e una Napoli velata e intimista in cui si snodano le vicende familiari e affettive della giovane Elsa figlia di un invadente e arrogante proprietario terriero. All’epoca il libro suscitò l’interesse di molti miei amici fra cui il poeta Gino Scartaghiande, il primo ad invogliarmi a scrivere in versi, dato il carattere secco e incisivo della mia scrittura. Da quel momento la passione per la poesia è diventata dirompente. Ho pubblicato qualche racconto inedito sulla rivista on line La poesia e lo spirito, ma poi solo poesia.
4 ) Quale rapporto hai con gli altri autori? Prediligi un percorso “individuale” oppure gli scambi ti sono utili anche come stimolo per la tua attività artistica personale?
Hai dei punti di riferimento, sia tra i gli autori classici che tra quelli contemporanei?
Essendo cugina del poeta Beppe Salvia, la cui prematura morte (6 aprile del 1985) segnò molto la mia vita personale indirizzandomi a scelte radicali e coraggiose come la fine sul nascere di un matrimonio e il conseguente trasferimento a Roma dopo anni di studi universitari a Firenze, il mio interesse è andato in primis alla sua alta poesia e a quella dei poeti suoi amici ed estimatori legati alle riviste Braci e Prato Pagano. Poi, pian piano, ho cominciato a prediligere un percorso individuale pur rimanendo attenta lettrice di poeti contemporanei di cui preferisco non far nomi. Tantissime voci interessanti, potrei dimenticarne qualcuna. Mi interessa molto leggere poeti giovani e devo dire che talora mi trovo davanti versi che come misteriose schegge luminose mi confortano e mi convincono che la poesia è viva ancor più in questi tempi di decadenza. Per quanto riguarda più in generale i poeti che sono stati per me più di altri un punto di riferimento costante, oltre ai francesi sopracitati (da aggiungere Paul Celan), ci sono Saba, Ungaretti, Sandro Penna, Alfonso Gatto, lo svedese Tomas Transtromer, Mario Luzi, l’argentina Alejandra Pizarnik, i poeti greci come Costantino Kavafis e Giorgio Seferis. E infine c’è un libro che chiamo il mio vangelo, che leggo e rileggo nei momenti di malinconia per trarne ristoro “Lettere a un giovane poeta” di Rainer Maria Rilke.
5 ) L’epidemia di Covid19 ha modificato abitudini, comportamenti e interazioni a livello globale.
Quali effetti ha avuto sul tuo modo di vivere, di pensare e di creare?
Ha limitato la tua produzione artistica o ha generato nuove forme espressive?
Questo lungo periodo di forzata clausura ha certamente inciso negativamente sulla mia vita privata costringendomi a incontrare molto più raramente rispetto al passato le persone che amo e quelle a me più vicine.
Di questo ne soffro, ma poi penso a tutti coloro che vivono situazioni drammatiche di perdita di lavoro, di malattia, penso ai giovani, al loro futuro incerto, alle persone sole e allora la mia inquietudine, le mie ansie nei momenti più bui, diventano condivisione, solidarietà pur vivendo ormai in una sorta di eremitaggio laico. Quanto alla mia produzione artistica, al contrario, ho scoperto in me rinnovata energia, rinnovata passione per la scrittura. Una sorta di panacea che nutre i momenti di vuoto, pur fra mille interrogativi e contraddizioni. A tal proposito, approfitto di questo spazio per dare notizia del mio prossimo libro in uscita in aprile con L’editore Giuliano Ladolfi Quella strana assenza di gravità. Il titolo è quello della prima sezione del libro che comprende testi da me scritti nel 2019: un viaggio nella natura e nell’arte per esaltare il valore sacro della bellezza, quel sublime kantiano eterno e disinteressato che è la tensione più profonda verso l’Inconoscibile. Nelle altre sezioni (testi scritti nel 2020) affronto il tema della necessità di quello che chiamo “il dormiveglia vigile” rispetto all’esperienza drammatica che stiamo vivendo; ritorna poi il tema della misura del tempo, del tempus edax che ci limita e ci imprigiona. Infine, l’ultima sezione del libro è un omaggio a Simone Weil. Già Pasquale Di Palmo nella sua prefazione alla raccolta Il dolore dell’attesa che ho citato sopra, fa riferimento all’influenza che il prezioso libro di Simone Weil, La pesanteur e la grace, ha avuto sul mio percorso filosofico e umano. E questo mio nuovo libro di prossima uscita si conclude con una ventina di testi dedicati a Simone, compresi sotto i titoli Silenzi e Volgersi a guardare. I dieci testi sotto il titolo Volgersi a guardare sono già stati pubblicati nell’ antologia del Premio Poesia Onesta 2020, essendo io fra i sei vincitori del Premio.