Il sirtaki con le stelle
Il niente, l’annichilimento, sono le minacce, le Sirene che ci chiamano a sé. Ma se è vero l’assunto che il percorso individuale coincide su diversa scala al destino del mondo, la tenacia, il rifiuto della resa incondizionata, traggono linfa dalla stessa fonte: “sarà che la Terra è un posto dove / mi è toccato vivere, / non affretto la corsa / respiro e danzo il sirtaki / con le stelle”.
Una mia recensione a “Di albe e di occasi” di Grazia Procino e le sue risposte alla rubrica A TU PER TU. Buona lettura, IM
Grazia Procino, Di albe e di occasi
Macabor editore,
collana Quaderni di Macabor, 2021
Sarà che vivo in controluce / con le albe e i tramonti di un sole / che, anche / quando non splende, / sorge per tutti”, scrive Grazia Procino in una delle liriche di questo suo recente libro. Vi sono segnali disseminati in questi versi. Mai resi smaccatamente palesi. Allusi, piuttosto, o evidenziati tramite richiami interni, ricorrenze e sottolineature sottese, e per questo più efficaci. La vita, innanzitutto. Quella condizione che, l’autrice lo evidenzia a più riprese, non è scontata, oggi più che mai. La vita individuale e quella collettiva, condivisa, quell’essere parte di un insieme più grande e complesso, illuminato da un sole, che, almeno lui, non fa distinzioni. Altro ineludibile concetto, ente o idea, è il tempo. La sequenza di albe e di tramonti non è mai lineare successione di istanti ma complessa interazione di presente, memoria e ipotesi di futuro. Tenendo conto del titolo c’è, inoltre, nei versi citati in apertura, una variazione solo in apparenza di scarso rilievo. Nel titolo si parla di “occasi”, nelle poesie del libro più volte di fa ricorso al vocabolo “tramonti”. Occasi è un vocabolo che fa riferimento al mondo classico. E non sembra solo un omaggio a volumi tanto amati e a lungo studiati dall’autrice. Appare quasi come un traguardo, un punto elevato raggiunto passo dopo passo, gradualmente, con tenacia, senza mai scordare il contatto dei piedi con il terreno. La cultura in questo libro non è esposta in vetrina in teche fosforescenti e tra fiocchi dorati. È presente anch’essa “in controluce”, potremmo dire, come strumento privilegiato di osservazione di un mondo il cui senso, quando è possibile coglierlo, è individuabile nella coesistenza di presente e passato, concretezza, sogno e memoria, indagine del sé in rapporto agli altri, al bene e al male della vita che scorre, a dispetto di tutto, nell’alveo del tempo.
Il tempo, dunque, ancora lui; punto di partenza ed eterno ritorno. Ma, come opportunamente evidenzia Alessandra Corbetta nella prefazione “Se il lettore si attende una rievocazione nostalgica del perduto perché passato o una proiezione illusoria in un futuro indistinto rimarrà deluso, perché alba e occaso non rappresentano punti statici corrispondenti all’inizio e alla fine, bensì parti di un andamento ciclico, dove l’ago della bussola è sempre ben puntato sul presente.”
A fianco di questa condivisibile considerazione, viene fatto di soffermarci sull’evoluzione anche del modo di scrivere dell’autrice, ossia il suo modo di porsi di fronte alla scrittura come mezzo di espressione del proprio universo interiore. Nell’intervista rilasciata per la rubrica “A tu per tu”, Grazia Procino annota: “Ho dato forma a questa silloge, raccolto testi che avevo già elaborato e ne ho scritti altri sull’onda di un’energia rinnovata e di una volontà che non si piegava; è stata una fase di fervore creativo, in cui ho toccato vertigini corroboranti. Ho detto a me stessa che non potevo lasciarmi sconfiggere senza lottare; così, è nata […] la più personale delle mie raccolte, la più rivelatrice del mio vissuto, dove la narrazione di me come donna sovrasta qualunque altra sovrastruttura intellettualistica”. Siamo così di fronte ai due estremi di questo libro, la dimensione cronologica in sé, il concetto del tempo, e, sul fronte opposto (ma in realtà sovrapponibile, se non coincidente) l’evoluzione del proprio modo di essere e di scrivere (e anche in questo caso è possibile rilevare una tendenza sempre più netta al coincidere dei punti e dei segmenti di queste rette ideali).
“Mentre ho assistito al tramonto della civiltà, declinata nei suoi valori fondanti (l’educazione dei gesti e delle parole che fa luogo alla miopia indocile di individui-monadi), mi sono posta come obiettivo una nuova Itaca, un’alba di ripensamenti e di diversi orizzonti. Una ripartenza dalla fine, sancita dall’emergenza pandemica”, rivela ancora l’intervista sopracitata. Rafforza in tal modo le fondamenta di quanto è già stato osservato ed aggiunge al contempo altri elementi di sostegno assieme a nuovi potenziali punti di osservazione.
In questo libro Grazia Procino ha deciso di schierarsi in modo netto, senza più fare scudo al suo mondo interiore con i filtri delle metafore, dei simboli e di altri espedienti per proteggersi dall’attrito con le realtà che ritiene estranee. Nei versi di questa raccolta si è presa il rischio, e il privilegio, di esporsi vestita solo della sua poesia, senza fronzoli, senza giubbotti antiproiettile e senza salvagente. Si è presa il lusso, nell’azzardo, di dire ciò che le sta a cuore nel profondo. Con la sola veste addosso, sul suo stesso cuore, dell’eleganza di assonanze e consonanze classiche per parlare del nostro tempo, delle “miopie indocili di individui monadi”, o, per usare i versi di una lirica del libro, descrivendo “questo Paese schiaffeggiato da violenze / impudiche”.
Con questa raccolta l’autrice giunge ad una maturità espressiva che fa coincidere con la volontà-necessità di sfrondare con decisione non solo gli orpelli ma anche le remore, il timore di dire troppo o di mettere un piede in un campo minato. La Procino ora cammina lieve, ma ogni passo ha la consistenza e la forza di un pensiero libero, autentico. Viene fatto di concordare, in quest’ottica, con le considerazione del poeta e critico Leopoldo Attolico: “Lontana da sudditanze, filiazioni e canti di sirena, la poesia di Grazia Procino si fa apprezzare per una propria personale espressività, subito riconoscibile, che sa muovere le parole in funzione di una comunicazione molto diretta in grado di rispettare ad un tempo chi legge e l’oggetto del ricordo.” Come spesso accade, il progresso (individuale e collettivo) corre avanti se ha alle spalle radici sane e salde. Nella poesia “A mio padre” di pagina 14 l’autrice si ritrae nel suo presente fatto di un passato che è sia parole che, soprattutto, gesto concreto: “Tutta la mia sostanza coriacea / a mala pena mi fa camminare dritta non curva di spalle / né zigzagando lenta. / Porto in me le tue lezioni / di solida dignità / aspetto albe luminose / e coricarmi voglio / legata al primo raggio che viene”.
Eccola qua, una delle albe fondamentali evocate nel titolo. Porta con sé la consapevolezza del proprio modo di essere e di sentire ma anche un invito, muto, ma, proprio in virtù di questo, ineludibile. Quell’esortazione alla solida dignità non viene evocata tramite concetti astratti ma resa pratica concreta, esempio fatto di gesti e di scelte. Oggi, finalmente, anche tramite i versi di questa raccolta, il vero senso di quell’esempio, di quello schierarsi, è stato accolto, è stato reso gesto ulteriore, finalmente affine, finalmente all’altezza del modello. Questo è, anche, un libro di impegno civile. Lo è nelle poesie in cui esplicitamente si parla di società, di uguaglianza, dei soprusi commessi dal potere ai danni degli ultimi, dei crimini ai danni dell’equità e dell’ambiente, a Taranto e in mille altri luoghi in cui il denaro è stato posto di fronte a tutto, perfino alla vita, perfino al grido di dolore del mare. Ma l’attrattiva ulteriore di questo volume è che l’impegno non è semplicemente declamato come una teoria. È stato assimilato, come esercizio da applicare anche in ambiti, semantici e non solo, che sembrerebbero estranei alla necessità di tale prassi. Anche nelle liriche d’amore questo libro chiama in causa la necessità dell’impegno, intenso come sincerità e come considerazione dell’altro, come volontà di chiarezza e di pari dignità. Con la possibilità di guardarsi finalmente negli occhi con genuina chiarezza e rispetto, da pari a pari. Riprendendo i versi di una poesia già citata, potremmo dire che l’impegno, come l’amore “Chiede solo di ospitare ancora / persone con la fronte e il cuore aperti / alla gioia. E noi siamo / una stirpe che non sa rassegnarsi al lume / che si spegne e leva il capo / si dà un abbraccio e tenta di toccare le more scure / dentro i rovi”. Poesia realistica, quella che si trova nelle pagine di questo libro. Ma non sterilmente chiusa al concetto e alla concretezza fattuale di quella “gioia” che, soprattutto in tempi come i nostri, è una parola assolutamente rivoluzionaria, eversiva, potremmo dire. Oggigiorno, la vera trasgressione è mantenere i cuori aperti alla gioia.
Evoluzione e resoconto, sono queste due delle potenziali coordinate spazio-temporali da cui è possibile osservare il libro e tramite si possono percorrerne i territori. Entrambi i termini di riferimento possono essere suddivisivi in due ambiti ulteriori, il livello personale e quello concernente il tempo collettivo, la storia, sia quella con la s maiuscola che quella del nucleo familiare o dei luoghi di nascita e di residenza. Questo libro è fatto anche di luoghi, evocati come se si trattasse di persone, di gente conosciuta per strada, guardandone a fondo gli occhi, le rughe e i sorrisi. Taranto, già citata, ma anche, per fare un esempio, Matera, città diventata, suo malgrado, un simbolo del passato, delle pietre su cui “imbiancano giorni protetti / di pazienza. / Scorrono in fila esposti / riposti nei sassi / santi anacoreti / poeti sindaci e contadini / mia nonna e la schiera nera delle sue donne, / parenti intessute / con scialli parlanti di fatiche e nostalgia. / Sorridono a Scotellaro – lui non manca ai potenti! – / di riverente ammirazione. / Fremono di pane alto e di sudore”. Il cerchio è completo: l’impegno poetico chiama a sé la vita reale, il legame tra il tempo che fu e il presente, e la figura di una poeta, così distante dal potere, così vicino al pane contadino e al sudore della fronte.
Il cerchio si estende, inoltre, inglobando, senza snaturarli, anche i sentimenti individuali, intimi, espressi ora grazie alla forza che deriva dai riferimenti familiari, come nella lirica di pagina 28, “Dall’alba al tramonto” dal titolo evocativo, riassuntivo, dall’andamento quasi programmatico. Una fondamentale presa di posizione, nello spazio, nel tempo, nell’ambito delle idee di riferimento: “Nel vocabolario / dei miei antenati contadini / esisteva solo la parola sacrificio. / Nessuna rima con amore / nascosto sotto il materasso / buono solo per procreare / attenti al primo sangue delle fanciulle da maritare. / Dall’alba al tramonto chini sui campi / a strappare la sopravvivenza / i tumulti delle piazze lontani. / Nell’oscurità delle case senza elettricità / il braciere riscaldava mani e cuori / in movimento precario / minestre di legumi e pane duro. / Alla sera per ricordarsi di / essere uomini devoti alla Provvidenza / i rosari chiedevano di rivedere all’indomani / il sole e la zappa. / L’amore in fondo in fondo /al cuore”.
Si parte da qui, da quella luce, autentica, degna di rispetto, ma fatta di buio. Buio imposto dalla miseria e da chi per secoli ha avuto interesse a cristallizzare lo status quo. Si parte da qui e, ancora una volta, la dimensione civile, sociale, si affianca a quella individuale. Il libro di Grazia Procino, con questo suo titolo in apparenza rassicurante, in realtà rappresenta un gesto di rivolta. Elegante, ponderato, espresso con civiltà, ma, a ben vedere, un invito a cambiare le carte in tavola, sullo scenario ampio dei tempi e dei luoghi della terra e su quello più intimo ma non meno tormentato e complesso delle scelte personali: “Sono stanca di essere grazia / e già guardo a un anno impigliato / tra le canne piegate e / alle lucertole verdi che sorridono al caldo. / Per resistere alla nostalgia – sembrano dire – il segreto è / confinarla / in quella sottile crosta di terra / di un’isola abitata da robusto vino rosso / che neppure lo sguardo ferma”.
“Sono stanca di essere grazia”, scrive l’autrice. E il vocabolo può essere scritto e letto con l’iniziale maiuscola e con quella minuscola. Può forse indicare la necessità di porre termine ai gesti e alle parole che rispettano l’ordine imposto da altre mani e da altri ritmi, altri battiti. Ciò non significa rinunciare al dialogo, non significa soprattutto la rinuncia al sentire. Richiama, semmai, ancora una volta l’urgenza, salvifica, della sincerità, finalmente scoperta, una volta per tutte trovata e resa fattiva. Anche nella poesia. Una variazione di grande rilievo, una rivoluzione copernicana. L’epigrafe, le parole poste all’ingresso del libro, ci invitano a tenere sempre conto dei chiaroscuri, delle ambivalenze, cercando nelle imperfezioni salvifici punti di incontro e di dialogo: “Quando da bimbi abbiamo / giocato e rigiocato / al sorriso che cattura / il mostro cattivo / non sapevamo chi si nascondeva / dietro l’angolo / se il rosso che abbaglia / o il nero che fischia il ritorno”.
“Nel fiore che sboccia / strafottente al sole /riconosco le tue cure verso la vita”. Si giunge così all’auspicata fusione tra parola e sentire, significato e significante. Anche il linguaggio mima le rivolte. In versi che sembrano ricalcare ritmi e cadenze classicheggianti irrompe con energia quello “strafottente” che allo stesso tempo infrange l’idillio e lo attualizza rendendolo assolutamente urgente, adatto ai tempi e ai modi, alle albe e ai tramonti più veri e sinceri del tempo personale e di quello del pianeta che ci ospita. È interessante rilevare anche la carica ossimorica dei versi: nella strafottenza c’è la sincerità senza più catene di una cura che è adesione alla vita, ai momenti cardine, alle nascite, alle morti e alla rinascite. “Moriamo alla luce di ceri accesi / su finestre spalancate sulle sere che giocano intorno / riti di passione. / Non c’è più nulla che ti somigli.”
Il niente, l’annichilimento, sono le minacce, le Sirene che ci chiamano a sé. Ma se è vero l’assunto che il percorso individuale coincide su diversa scala al destino del mondo, la tenacia, il rifiuto della resa incondizionata, traggono linfa dalla stessa fonte: “sarà che la Terra è un posto dove / mi è toccato vivere, / non affretto la corsa / respiro e danzo il sirtaki / con le stelle”. La danza quindi, nello stupore di una bellezza distante eppure interiorizzata, come la musica, impalpabile e concretissima. La rinascita parte dalla consapevolezza: “Umili guardiamo noi stessi / facciamo pace e scandiamo nomi -esortazioni, sono – / rubandoci dagli occhi / le tracce di quel passato che / quando si comprende / diventa presente”. Accade allora che si piega il capo solo per chinarsi di fronte alla bellezza di una giornata e, annota l’autrice, riviviamo, come se fosse sempre la prima volta, l’attimo in cui “la tua voce arrivava come l’onda / calda e forte. /Asciugarti il sudore dopo l’amore. / Le tue parole / coperta di lino bianco”.
La rinascita passa attraverso la riscoperta del valore di ogni singolo istante, di ogni alba e di ogni tramonto. La valorizzazione, con la mente e con il corpo, di quel sudore asciugato con passione, con amore. Perché in fondo, al di là di tutto il bene e tutto il male, la parola chiave è sempre quella. “Sono grata al giorno che viene / perché non è detto / e si affaccia al balcone rosso di gerani / e respiro fresca”. Il valore è in ciò che è racchiuso in quel “non è detto”. Nel rischio, nel coraggio, nell’incertezza racchiusa nello spazio che unisce e separa il buio e la luce, l’odio e il suo contrario.
Dopo avere fatto chiarezza con sé stessa, con il proprio passato e il proprio presente, Grazia Procino ritrova anche la volontà e la forza di cantare il più antico e il più moderno di tutti i sentimenti. Dopo aver parlato delle ferite del tempo e del mondo, delle ingiustizie, dei colpevoli attentati alla bellezza delle città e dei paesaggi, torna a riflettere, anzi a ragionare tramite i sensi, sul mistero per eccellenza. Ed è a questo punto, giunta al giusto livello di elaborazione e di riflessione, che si può e ci può affidare un monito in forma di versi che è un invito, accorato, a vivere i giorni che ci sono dati, gli sprazzi di luce tra un’alba e un tramonto, con passione, generosità, schiettezza, e, per quanto è concesso agli uomini, coraggio: “Vivete le gioie, / annusatele: non è vero che profumano di cannella? / Non nascondetevi, / siate coraggiosi / anche se vi sentite stanchi e vi sembra che / tutti congiurino contro di voi. / Mettete del ghiaccio / sul viso quando vi sentite / la febbre ma l’amore lasciatelo esplodere”. Eccola qui la carica eversiva di questo libro. La detonazione fatta di sincerità e riflessione, che, alla fine ci invita ad essere rivoluzionari, cercando la sola esplosione che invece di causare morte genera vita.
Ivano Mugnaini
A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
5 domande
a
Grazia Procino
1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
Sono una donna che si è sostanziata nelle letture dei grandi classici della letteratura occidentale e che, dopo aver attraversato metà della propria esistenza, ha sentito di avere qualcosa da dire agli altri e di voler far arrivare la propria interiorità a chi vuole sintonizzarsi. La techne poetica si è affinata grazie a letture molteplici e multidirezionali.
2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?
Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.
Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).
Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.
È un viaggio a ritroso nel tempo individuale e collettivo e, da ultimo, nel tempo sospeso, questa raccolta intitolata “Di albe e di occasi”, la mia terza silloge; è un’esplorazione del passato attraverso le persone care e i posti emblematici della mia formazione. È un penetrare nella geografia degli affetti anche, e soprattutto, nei luoghi dell’anima. Mentre ho assistito al tramonto della civiltà, declinata nei suoi valori fondanti (l’educazione dei gesti e delle parole che fa luogo alla miopia indocile di individui-monadi), mi sono posta come obiettivo una nuova Itaca, un’alba di ripensamenti e di diversi orizzonti. Una ripartenza dalla fine, sancita dall’emergenza pandemica.
Tra tutti i recensori che hanno letto e dedicato tempo e impegno ai miei testi, desidero citare il poeta Leopoldo Attolico, che, a proposito della mia precedente silloge “E sia” ( Giuliano Ladolfi editore, 2019), così si espresse:
“Lontana da sudditanze , filiazioni e canti di sirena , la poesia di Grazia Procino si fa apprezzare per una propria personale espressività , subito riconoscibile , che sa muovere le parole in funzione di una comunicazione molto diretta in grado di rispettare ad un tempo chi legge e l’oggetto del ricordo . Forse l’aspetto più vistoso di questo lavoro è rilevabile nella bella capacità di sintesi , che in alcuni testi può ricordare la felicità epigrammatica dei lirici greci rivisitata in chiave moderna , con l’apporto di una aggettivazione sempre sapientemente calibrata e corposa . Una lezione poetica , dunque , carica di echi e di suggestioni che si colloca , con lodevole equilibrio ed esemplare maturità , tra le più certe della odierna poesia italiana” .
3 ) Fai parte degli autori cosiddetti “puristi”, coloro che scrivono solo poesia o solo prosa, o ti dedichi a entrambe?
In caso affermativo, come interagiscono in te queste due differenti forme espressive?
Nel passato ho pubblicato una raccolta di racconti “Storie di donne e di uomini” (Quaderni edizioni, 2019) dopo la prima silloge poetica “Soffi di nuvole” ( 2017). L’approdo alla forma del racconto, dopo la prova della scrittura poetica, è avvenuto in modo naturale. La realtà andava rappresentata anche nella prosa e attraverso vari personaggi: ho raccolto la sfida ed è iniziata una diversa avventura artistica, a cui non mi sono sottratta. Dieci racconti, di cui uno lungo, dedicati alle donne, e sei racconti, di cui due lunghi, dedicati a uomini, costituiscono “Storie di donne e di uomini”, un itinerario condotto dentro le vite di donne contemporanee e di uomini antichi e contemporanei. L’attrazione verso il cosmo e il caos femminile è stato il motore dell’ispirazione della prima parte del libro: le dieci storie raffigurano donne, sia ragazze sia donne mature, avvilite e violentate dai rappresentanti del genere maschile oppure sono storie di vite umane aggrovigliate per la solitudine, che è abitata dalla noia e appesantita dalla vecchiaia. Vissuti femminili devastati da ogni genere di violenza sono setacciati dal filtro narrativo e restituiti alla pagina nella loro cruda verità. Nella seconda parte si dà voce all’universo maschile e si pone lo sguardo, secondo una inusuale prospettiva, a storie di uomini disperati per una perdita, dell’amore o della prestanza fisica. I due racconti lunghi, “Una vita che non fa rumore” e “A Esiodo non piaceva il mare” hanno per protagonisti due poeti della Grecia arcaica, rispettivamente, Ibico ed Esiodo, che vengono illuminati da inquietudini moderne o, per meglio dire, di loro si mette a fuoco l’umanità dolente, che suscita riflessioni, permanenti ancora oggi.
Il mio sguardo sul mondo sceglie in quale modalità esprimersi, se utilizzare il codice della prosa o quello della poesia, ma prediletta rimane la poesia.
4 ) Quale rapporto hai con gli altri autori? Prediligi un percorso “individuale” oppure gli scambi ti sono utili anche come stimolo per la tua attività artistica personale?
Hai dei punti di riferimento, sia tra i gli autori classici che tra quelli contemporanei?
Leggo e apprezzo molti poeti contemporanei, come Antonio Prete, Claudio Damiani o Bruno Piccinini e molte poetesse con cui ci “assorella” la medesima visione della funzione della poesia attuale, come , Valentina Calista, Alessandra Corbetta, che ha curato la prefazione al mio ultimo libro di poesie, Gabriella Grasso, Claudia Piccinno; costituire ponti e consonanze tra chi sente il bisogno di esprimere parole di senso è un’azione di civiltà umana oltre che di cultura.
Ritengo che il confronto con autori del passato e del presente sia un esercizio necessario e produttivo, un allenamento stimolante che dilata i propri orizzonti di ricerca e di impegno. Degli autori “classici”, che hanno significato per me moltissimo, non posso non tracciare la linea che da Saffo giunge a Kavafis e a Ritsos.
5 ) L’epidemia di Covid19 ha modificato abitudini, comportamenti e interazioni a livello globale.
Quali effetti ha avuto sul tuo modo di vivere, di pensare e di creare?
Ha limitato la tua produzione artistica o ha generato nuove forme espressive?
L’emergenza pandemica ha travolto i Paesi di tutto il mondo; dall’oggi al domani, senza avere il tempo di abituarci o di prepararci, abbiamo dovuto fronteggiare una situazione abnorme, epocale; ci siamo scoperti assolutamente vulnerabili, impotenti di fronte a un invisibile esserino; i più accorti hanno riflettuto sugli errori commessi nei riguardi della natura e dell’ambiente.
Nella prima fase della chiusura, quando i giorni si snocciolavano uguali a se stessi e il tempo era dilatato fino a soffocare, preclusa ogni attività che si svolgesse fuori dalle mura domestiche, ho subito il panico senza mettere mano a progetti, mi sono sentita svuotata, disorientata, disperata. Non ho scritto nulla, per giorni, finché non è subentrata la reazione al deserto di emozioni. Ho dato forma a questa silloge, raccolto testi che avevo già elaborato e ne ho scritti altri sull’onda di un’energia rinnovata e di una volontà che non si piegava; è stata una fase di fervore creativo, in cui ho toccato vertigini corroboranti. Ho detto a me stessa che non potevo lasciarmi sconfiggere senza lottare; così, è nata “Di albe e di occasi”, che è la più personale delle mie raccolte, la più rivelatrice del mio vissuto, dove la narrazione di me come donna sovrasta qualunque altra sovrastruttura intellettualistica.