recensioni

Editi ed inediti

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Se avete scritto delle poesie, oppure un romanzo, o dei racconti, inviatemi i file in lettura a:
ivanomugnaini@gmail.com.
Sarò lieto di leggerli per un’eventuale pubblicazione, se si tratta di inediti, o per una recensione nel caso di volumi già pubblicati.
Oppure per la traduzione in inglese di brani di prosa o poesie,  sillogi o interi libri o manoscritti. 

IM

Guardarlo ancora – Paesaggi e miraggi della passione amorosa, di Miriam Bruni

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“Nei miei testi cerco l’esattezza delle parole, la densità naturale dei loro significati; cerco un grembo per ciò che è inconcreto e perlopiù invisibile, e questi aggettivi, questi sintagmi, sono scaturiti in me come una sorgente che in modo limpido riflette il mio volto interiore, il mio profilo umano”, osserva Miriam Bruni nell’intervista rilasciata nel giugno del 2022 a Monica Baldini per la rivista Millecolline.

Leggendo il suo libro «Guardarlo ancora – Paesaggi e miraggi della passione amorosa» le sue parole prendono corpo e concretezza seppure nell’esaltazione di quella “invisibilità” incorporea di cui sono fatti i sogni, i pensieri, i ricordi, anche quelli più aspri e taglienti.

“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita”, ci ricorda Shakespeare nel lavoro più atipico e forse più sentito, più intimamente suo, della sua produzione drammaturgica, «La tempesta». Miriam Bruni dimostra e conferma di avere ottimamente assimilato la lezione shakespeariana. Eppure, con naturalezza, per istinto e volontà, per puro desiderio e sincera inclinazione, produce nei suoi scritti un interessante e coinvolgente ossimoro, anzi, una serie di ossimori che si allacciano e si intrecciano in viluppi che sono essi stessi espressioni variegate e autentiche di un’assoluta passione vitale, e vitalistica.

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Tutte le cose che chiudono gli occhi

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Facendo un’operazione di sintesi estrema, leggendo il materiale che ho ricevuto da Annalisa Ciampalini mi soffermerei su alcune parole, tratte dalla nota personale dell’autrice e dalla recensione di Giancarlo Sissa. L’autrice, parlando del suo libro, osserva: “sentivo che un succedersi troppo veloce e prevedibile degli eventi mi impediva di viverli pienamente, di riconoscerli, di ascoltarli, di averne cura”. Avere cura degli eventi è un’espressione che sfugge agli schemi. In genere ci si preoccupa di affrontarli, gli eventi, di ottimizzarli, di organizzarli e mille altre azioni pratiche e utilitaristiche. Annalisa Ciampalini si ripropone di ascoltarli e riconoscerli. Gli eventi come persone. Forse perché ogni accadimento, ogni attimo che viviamo, ogni passo che percorriamo e che ci percorre, è fatto del pensiero di persone, presenti o assenti, fragili ed effimere e allo stesso tempo assolutamente indelebili.
C’è in questo libro della Ciampalini una sincerità che traspare. Non c’è sfoggio né volontà di stupire. C’è una necessità vera di avere cura per potere ricevere cura. Dagli altri, ma anche dai fatti della vita, dal bene e dal male, dagli occhi dolci e da quelli feroci, dalle cose, dai passi sull’erba ma anche sul fango, sulle rocce, sui rovi.
Alle parole della Ciampalini fa eco adeguata la nota critica di Sissa, anch’essa da leggere nella sua totalità, nella sua struttura completa, organica. Tenendo fede alla promessa della sintesi, propongo, tra i tanti passaggi interessanti della recensione, questo estratto:
 “La stanza condivisa, secondo la definizione di Annalisa: «il luogo dove più luoghi coincidono, stanza di comunità, stanze d’aspetto di reparti difficili, ospizi, talora anche un’aula di scuola », ipotesi insomma comunitaria, ipotesi d’amore e di pietas partecipata, esposta e raccolta al tempo stesso, restituita al mondo e ai suoi soggetti secondo una grammatica anche spirituale ma inedita, da scoprire, da imparare, da far propria con la dovuta attenzione («Ci vollero giorni per capire i compiti che ci erano stati assegnati.») perché l’attenzione all’altro – e a se stessi – esclude ogni infingimento e impone regole severe, atte a testimoniare:
Nessuno di noi
può sostare nei pressi della parete più esposta.
Oltre quel muro
risiedono i malati veri
coloro che per le continue febbri
disertano le lezioni mattutine.
Le menti illuminate
che fissano un punto fuori campo
e colgono nel segno.
In questo brano, seguito da alcuni versi di Annalisa, Sissa individua “ipotesi d’amore e di pietas partecipata”. L’utilizzo della parola “ipotesi” ci conduce su un terreno simile a quello precedentemente accennato. Non ci sono certezze, non c’è un sentiero asfaltato su cui avanzare baldanzosi. L’amore è una scommessa. Non di rado persa. Così come altrettanto di sovente gli eventi di cui cerchiamo di avere cura ci strangolano senza neppure concederci una parola ulteriore. Eppure, ed è qui il percorso che combacia con la meta, esiste quella pietas, quell’atteggiamento difficile da definire e da inquadrare in termini logici, razionali. Forse, la direzione da seguire è quella dello sguardo dei malati veri, dei fragili, dei non integrati né integrabili. Gli occhi che fissano un punto fuori campo e colgono nel segno.
Potrebbe non essere casuale, allora, il titolo del libro, Tutte le cose che chiudono gli occhi. Non è escluso che per avere cura, per ricevere cura, per giungere alla pietas autentica, davvero condivisa, gli occhi si debbano chiudere invece che spalancare. Oppure, ma un’ipotesi non esclude l’altra, che si debba essere fragili, al punto di farsi buio, cecità quasi letale, per potere cogliere il riflesso autentico della luce, quello che, a tratti, risana anche il corpo.

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“Crisalidi”, di Giuliana Donzello

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“Il vero viaggio della scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. La frase è di Proust, ma ben si addice al senso e alla direzione del percorso letterario di Giuliana Donzello. Lei stessa la cita, appropriatamente, nel sincero e dettagliato resoconto che mi ha inviato per descrivere le tappe che l’hanno condotta a scrivere il libro di poesie Crisalidi.
Segnalo volentieri il libro di Giuliana, e consiglio a chi leggerà questo post di dare un’attenta occhiata anche alla nota in cui l’autrice parla del suo volume. Per le informazioni che contiene, utili ad una comprensione partecipata delle tematiche e delle simbologie, ma anche per il rispetto sincero nei confronti della poesia che l’ha condotta ad avvicinarsi gradualmente al mondo dei versi, senza fretta, senza approssimazioni ed improvvisazioni.
“La crisalide è uno stato di quiescenza, in cui l’insetto completa la metamorfosi con una serie di cambiamenti morfologici che trasformano il bruco in farfalla. Il ricorso metaforico alle crisalidi del titolo doveva indicare il mio stato iniziale di poetessa. Mi sono sentita bruco, ma doveva essere benaugurante della mia metamorfosi in farfalla”, scrive la Donzello.
In un mondo caratterizzato da frettolose prosopopee, è bello osservare la solenne e progressiva sacralità di questo passaggio compiuto con la cura e l’eleganza di un rito orientale.
Il risultato è un libro maturo e consapevole, ma, per fortuna dell’autrice e dei lettori, i versi sono pervasi anche dall’immediatezza di uno stupore sincero (torna con frequenza questo aggettivo chiave perché costante è l’impressione di genuinità non forzata e non di maniera che traspare dalle pagine).
Come sempre accade in questo spazio riservato alla segnalazioni di libri, mi limito volutamente ad accennare ad alcuni punti cardine.
È giusto ed è bello che sia il lettore a scoprire i momenti in cui la crisalide muta il suo aspetto in farfalla. E il modo in cui accade, nel mondo della scrittura, è sia forma che sostanza.
Il consiglio è quello di sempre: cercare il libro, magari anche contattando l’autrice o l’editore, e leggendolo confrontare le proprie impressioni con le coordinate fornite qui succintamente, ma anche in maniera più diffusa nella prefazione che pubblico integralmente in questo stesso post.
Da parte mia, confermando il mio consiglio di lettura, e, auspicando per tutti i “dedalonauti” un favorevole ritorno alle attività dopo la pausa vacanziera, aggiungo solo un altro breve ma luminoso dettaglio tratto anche in questo caso dalla nota dell’autrice:
“Dalla memoria affiora il ricordo che consente un viaggio dalle diverse connotazioni e fedeli al dualismo di Henri Bergson sono le liriche affidate a due diverse sezioni: “presenze e desideri”, affidate ad un linguaggio volutamente più lirico; “mancanze e assenze” dove il linguaggio si fa introspettivo della realtà”.
Nel momento in cui “de-sidera” e percepisce il senso del pieno e del vuoto il bruco è già farfalla.
IM
Crisalidi – Nota dell’autrice 
Il libro nasce da un atto di consapevolezza. Per molti anni ho fatto della prosa poetica il mio stile, perché consideravo la poesia così alta e destinata ad essere privilegio di pochi eletti, da considerare ancora immaturo e maldestro il mio approccio. Eppure in tutto ciò che scrivevo la poesia si rivelava. Determinante per me è stato il percepire imminente e necessario un mutamento.
La crisalide è uno stato di quiescenza, in cui l’insetto completa la metamorfosi con una serie di cambiamenti morfologici che trasformano il “bruco” in farfalla. Il ricorso metaforico alle “crisalidi” del titolo doveva indicare il mio stato “iniziale” di poetessa. Mi sono sentita “bruco”, ma doveva essere benaugurante della mia metamorfosi in “farfalla”.
Per scelta i testi sono brevi ed essenziali, risultato di un lavoro di limatura condotto soprattutto sul ritmo, le sonorità delle parole e le immagini a cui esse aprono attraverso l’uso delle metafore, lasciando al lettore libertà di lettura e di immedesimazione. Sullo sfondo della ricerca c’è sempre il rapporto tra la realtà dello spirito e la realtà della materia, come insegna Bergson.
Dalla memoria affiora il ricordo che consente un viaggio dalle diverse connotazioni e fedeli al dualismo di Henri Bergson sono le liriche affidate a due diverse sezioni: “presenze e desideri”, affidate ad un linguaggio volutamente più lirico; “mancanze e assenze” dove il linguaggio si fa introspettivo della realtà.
Accanto all’amore in tutte le sue accezioni vivono da protagonisti luoghi e città. Venezia ricorre sovente, anche in una semplice foto, il più come emblema di solitudine e sinonimo di separazione forzata dagli eventi, e soprattutto luogo di partenza ed eterno ritorno della mia scrittura, con Santa Croce, il sestiere che mi ha vista bambina e adolescente e al quale ritorna l’anima della donna adulta.
Tema antico, il tempo segna ogni cambiamento, disegna altri volti, scandisce le azioni del quotidiano, è spesso affidato a descrizioni liriche, dove la struttura lineare del verso comporta attraverso un traslato un rovesciamento del discorso che permette di comprendere l’assunto secondo il quale la poesia si caratterizza per la sua funzionalità estetica delle sue figure retoriche.

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“La creta indocile” e “Limbo minore” – letture e commenti

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Ringrazio Giulia Sonnante, scrittrice e traduttrice, per la lettura attenta e per il commento, anche in questo caso assolutamente empatico e originale, sia di alcune poesie tratte da “La creta indocile” sia del romanzo “Limbo minore”.

Riporto qui di seguito le note critiche e le “variazioni sul tema” di Giulia, con un nuovo grazie. IM

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L’Aria del Lungarno e Altre Liriche: tra vita e poesia  
Non è una madeleine, inzuppata nel tè, a riportare alla memoria un ricordo e non siamo a Combray ma, a Pisa. Al centro della lirica: “L’aria del Lungarno”, di Ivano Mugnaini, in “La creta indocile” (Oèdipus, Salerno, 2018) è l’Arno, placido, forse ignaro di quella vitalità un po’ insensata che si respira tutt’intorno. Anzi, è, esso stesso, parte integrante della Poesia, la determina, e ad essa dà nome.
Uno sciame di ragazzi sgorga dalle stanze di studio come un ampio delta: è il tramonto che strizza l’occhio all’ora violetta di eliotiana memoria: “At the violet hour, when the eyes and back Turn upward from the desk, when the human engine waits Like a taxi throbbing waiting”. (Eliot, The Waste Land, 1922) Gli occhi e le schiene si levano dagli scrittoi e, come taxi, frementi, aspettano. Ed è proprio il palpitare, il pulsare della vita che “L’Aria di Lungarno” riesce efficacemente a cogliere. Così, l’autore, studente d’un tempo, s’incammina lungo la strada che costeggia il fiume; il passo, svelto, da principio, rallenta per divenire nostalgico man mano che il ricordo prende la mano. Non si lascia soffocare, l’aria del Lungarno, il traffico non la sfiora, da essa è fagocitato: “L’aria del Lungarno scorre tra tempo e memoria. / Il traffico non la soffoca, è un cappio di lamiere / che scorre e non la sfiora.”
Scorre, sornione, l’Arno, e quasi percepiamo le urla allegre dei ragazzi che finiscono in piccoli mulinelli d’acqua. Scorre l’Arno, quasi superando gli argini, i limiti stessi del verso. Sì, perché l’Aria del Lungarno è lirica che si fa racconto. L’urgenza dell’autore è quella di cogliere la realtà e poco importa se la poesia, poi, s’incarni in un verso o in una frase.

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Figlie uniche

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Una mia recensione al libro Figlie uniche,  di Claudia Marin.

Buona lettura, IM

Figlie uniche, copertina

Claudia Marin, Figlie uniche, Iride, 2021

Figlie uniche è fluido, scorrevole, divertente, ironico, in grado di sdrammatizzare in tutti i modi possibili le ferite della vita, the slings and arrows of outrageous fortune. Si legge con un sorriso, desiderosi di scoprire come procede, paragrafo dopo paragrafo, con rapida voracità. Ma, attenzione, qualcosa resta. Non scorre via anodino e indolore. Perché quell’acqua chiara, fresca, a tratti dolce e a tratti amara, si fa specchio di esistenze possibili, forse reali, forse del tutto inventate, ma di sicuro verosimili, umanissime. Parla simultaneamente di un universo circoscritto e dello spazio e del tempo che ciascuno vive dentro di sé, tra analogie e contrasti, nello scorrere ininterrotto che cambia e ci trasforma.
Costanza, la protagonista, avrebbe tutto per essere contenta di se stessa: la professione medica, il benessere finanziario, un marito devoto sempre presente nei momenti in cui c’è bisogno di lui. Ma il rapporto complesso e conflittuale con la madre la condiziona, la fa vivere con il freno a mano delle incertezze costantemente inserito.

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Milano OltrePop. Intervista a Flavio Oreglio

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Spesso accade che le persone che sanno ridere (e nel caso specifico anche far ridere) siano anche molto serie, con molte cose da dire, capaci di ascoltare e di fornire coordinate  interessanti per esplorare la geografia, la storia e alcuni angoli della metropoli, del mondo e del tempo che in genere sfuggono agli sguardi frettolosi, da turisti.

Oreglio canta, nel duetto con Roberto Vecchioni e in questo suo Milano OltrePop, “con i piedi nel passato e lo sguardo dritto e attento nel futuro”.

Per riassumere tutti e temi gli spunti trattati nell’intervista ci vorrebbe veramente troppo tempo. Meglio, per chi vorrà, leggerla direttamente.

Buona lettura e buon ascolto

IM

720 x 720 Flavio Oreglio- Milano OltrePop - cover copia

Milano OltrePop

Intervista a Flavio Oreglio

1 ) “Con i piedi nel passato/ e lo sguardo dritto e attento nel futuro”. Comincerei col proporti più che una domanda un tema a piacere (come si faceva a scuola qualche annetto fa). Ossia qualche tua considerazione a ruota libera per mettere in relazione il disco con i versi di Pierangelo Bertoli che ho citato, con piacere, in apertura.

La citazione di Bertoli che ho inserito nell’introduzione al disco non è casuale. Troppo spesso, infatti, la riproposta di brani del passato (chiamata “tributo” oppure “omaggio”) è vista come operazione-nostalgia, come un “Do you remember?” o un “Bei tempi quelli”… ecco… niente di tutto questo mi appartiene. Io guardo avanti con la consapevolezza del punto di partenza, in questo senso i piedi sono nel passato ma lo sguardo è dritto e attento nel futuro. E a proposito delle cosiddette “radici” permettimi di aggiungere una cosa: la loro riscoperta non deve essere coltivata per ostentare una sorta di “appartenenza” ad excludendum, modello il Marchese del Grillo “Noi siamo noi e voi non siete un cazzo” e non deve servire per erigere o giustificare muri di separazione con chi quelle radici non condivide. Le radici sono memoria e ricchezza culturale, vanno sicuramente tramandate ma anche analizzate criticamente. Molti loro aspetti che oggi ci appaiono come “politicamente scorretti” si possono giustificare con l’esistenza di una mentalità, ma non devono servire oggi per giustificare una mentalità con la loro esistenza.

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L’Indice dei Libri del Mese – N.6 – 2021

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Sul numero di giugno de L’Indice dei Libri del Mese una mia recensione a ‘La Cosa’ di Gianluca Garrapa.

Nello stesso numero, tra l’altro, anche una recensione di Enzo Rega a Luigi Fontanella e tante altre belle cose, ossia bei libri

 
recensione Garrapa
 
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Tempo innocente

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L’idea dell’innocenza abbinata al concetto di tempo è a dir poco inusuale. Nel corso dei secoli e nelle pagine di innumerevoli libri il tempo è stato descritto come tiranno, assassino, spietato divoratore di membra, padre feroce che si nutre dei propri figli. Rosa Salvia, in questo suo libro, giocato con estrema cura e consapevolezza sul discrimine sottile tra emozione e riflessione, ha voluto, al contrario, dichiararne l’innocenza.
Una mia recensione al libro. Buona lettura, IM
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Rosa Salvia, Tempo innocente

Lietocolle, Collana Erato, 2019.

 

recensione di Ivano Mugnaini

 
L’idea dell’innocenza abbinata al concetto di tempo è a dir poco inusuale. Nel corso dei secoli e nelle pagine di innumerevoli libri il tempo è stato descritto come tiranno, assassino, spietato divoratore di membra, padre feroce che si nutre dei propri figli. Rosa Salvia, in questo suo libro, giocato con estrema cura e consapevolezza sul discrimine sottile tra emozione e riflessione, ha voluto, al contrario, dichiararne l’innocenza. L’autrice è troppo scrupolosa e conscia per aver semplicemente voluto divertirsi a stupire con un titolo ad effetto. Il libro è un invito alla ricerca, al pensiero critico, ad una visione attenta, divergente, laddove è necessario. È una lunga e appassionata “caccia al tesoro” per giungere a scoprire un frammento di verità, sia essa pietra salda o fiato impalpabile di un’ipotesi condivisa. Più esattamente, è una specie di gioco dei mimi in cui si tratta di indovinare chi è il personaggio, cosa fa, quale azioni compie, e, soprattutto, cosa siamo noi in rapporto a lui. Forse, in ultima istanza, si tratta di scoprire se quel personaggio che cerchiamo di indovinare, quello che viene definito innocente ma ci atterrisce, quello che ci terrorizza ma in realtà non ha colpa, in fondo, siamo noi. L’immagine di noi, l’essenza di noi.
“Oggi il sole è uno splendore!” Il primissimo verso della raccolta è questo. Sembra una pura descrizione, un’esclamazione di gioia estatica, lineare, incondizionata. Invece, per fortuna dell’autrice e del lettore, in questo libro di semplice c’è poco o niente e di puro c’è solo il desiderio di scoprire ambivalenze, coesistenze di realtà e sensazioni, in poche parole “impurità”. Solo ciò che è spurio, in grado di leggere allo stesso tempo le righe e lo spazio misterioso che le separa e le unisce, ci avvicina di qualche passo, senza annichilirci, allo splendore di quel sole da cui siamo partiti. Non è un caso che un passo oltre, nei versi successivi della lirica d’esordio, faccia la sua comparsa un “immenso occhio curioso” che gioca “fra i ghirigori della tenda”.

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Cucendo i fili della vita – rec. a “La sarta”, di Marilena La Rosa

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La sarta, o meglio la sua ideatrice ed autrice, Marilena La Rosa, cuce con i fili della letteratura la vita. O forse la ricama e rammenda con la fantasia, nella terra di nessuno tra verità e immaginazione.

Ho letto con piacere questo libro e altrettanto volentieri ne ho scritto.

Ci conduce lungo un sentiero poco battuto, una favola per adulti disillusi ma non abbastanza da non sapere sorridere quando si ci immagina “con una M gigante sulla maglia” o con la voglia di ascoltare ancora, nei recessi della mente, “versi che si baciano”.

Buona lettura, IM

 

 

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5 domande

a

Marilena La Rosa

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Questa è senz’altro la domanda più difficile. Provo a rispondere.

Sono nata e vissuta ad Acireale, che non è un fatto da poco, perché la mia è una città colta, elegante, di una bellezza struggente ma è anche la patria del cavolo trunzo la cui caratteristica principale pare sia legata indissolubilmente al dna degli abitanti (e quindi anche al mio): è duro come è dura la loro e la mia testa. Quindi, sono testarda e ho modo frequentemente di mostrare questa “dote” – che misteriosamente non tutti sembrano apprezzare – , nelle scelte, nelle relazioni familiari e sociali, nel raggiungere gli obiettivi. Nel bene e nel male, insomma. Mi sono poi trasferita a Palermo e qui ho incontrato un altro tipo di bellezza, quella sfrontata, maestosa, abbagliante del barocco o cupa, possente e austera del gotico-normanno. E nelle contraddizioni di Palermo mi sono persa e poi ritrovata e Palermo è riuscita così a diventare metafora piena della mia vita. Posso giurare, quindi, che l’ambiente condiziona l’esistenza. Anche quello familiare, ovviamente. Sono cresciuta con una mamma che mi raccontava i miti e le tragedie greche, ho conosciuto Dafne, Polifemo e Medea prima di Cappuccetto Rosso o Cenerentola. E quindi ho sempre letto e sono cresciuta fra i libri e le conversazioni a tavola avevano il sentore di un’interrogazione agli Esami di Stato: “Chi ha scritto le poesie a Casarsa?”, chiedeva mia madre mentre faceva scivolare una cucchiaiata di purè nel piatto.

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