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A TU PER TU – Gabriella La Rovere
«Forse hai sbagliato – mi disse mia madre poco prima di morire – la medicina non era la tua strada, tu dovevi fare la scrittrice. Ho sempre scritto e, soprattutto, ho sempre letto. Tanto. Quando lavoravo in ospedale, mi facevano raccogliere e scrivere l’anamnesi proprio perché ero affascinata dalle storie, dalla situazione che aveva determinato la malattia e da tutto il corollario emotivo che vi ruotava attorno”. Il percorso individuale di Gabriella La Rovere interseca la sua vicenda personale ai fatti e agli eventi che stiamo vivendo, e, su un piano più ampio, conferma il legame tra la scrittura e la vita, l’immaginazione e la realtà.
“Da un paio di settimane è uscito il mio ultimo libro Francisco. La vita del matto buono dei frati, Augh Edizioni. Per la prima volta mi sono cimentata in un romanzo storico andando a recuperare la storia di Francisco Pascal, frate carmelitano converso, vissuto alla fine del Cinquecento, presumibilmente autistico. È il libro a cui sono più legata emotivamente perché ha avuto una gestazione lunga, di ben nove anni!”, scrive Gabriella in una delle risposte.
Leggendo le altre risposte si mettono insieme le tessere di un mosaico che compone una figura all’interno di un quadro, un romanzo che ha per trama, sviluppo e meta, la scrittura del romanzo stesso.
“Sono riuscita a trovare questo libro antico… a soli 30 km da casa mia. Un caso? Forse no! Comunque, il problema rimaneva per il francese. Anche qui una strana coincidenza che mi fa imbattere in una traduzione di un classico francese ad opera di suore di clausura del Monastero Benedettino dell’Isola di San Giulio. Il libro viene tradotto e la vita di Francisco irrompe e sconvolge chi ne viene a contatto, prima tra tutte la monaca traduttrice che ne ignorava l’esistenza”.
Il caso è una delle manifestazioni del destino? Forse sì o forse no. Comunque leggendo questo racconto nel racconto, viene fatto di ripensare alle parole della madre di Gabriella e darle ragione: l’inclinazione naturale dell’autrice è verso la scrittura, l’occhio coglie le sfumature e la concatenazione che è sia origine dei fatti stessi sia conseguenza.
Poiché la spiegazione è più complessa del fenomeno, è bene limitarci a sottolineare sia l’inclinazione naturale verso la scrittura sia il connubio a lei caro, quello tra la parola e la medicina. In fondo sono ambiti affini: la parola può essere cura, sollievo, e la medicina necessita la parola, la comunicazione di qualcosa che va al di là del livello concreto, fisico, coinvolgendo la sfera psicologica ed emotiva, cioè che costituisce l’essenza stessa di ogni essere umano.
La scrittura di Gabriella La Rovere si schiera dalla parte dei diversi, dei fragili, di coloro che si trovano in una condizione particolare e necessitano riguardo e attenzione. L’atteggiamento dell’autrice non è mai cupo e patetico. Nelle sue parole, e nei gesti, concreti, fattivi, c’è la determinazione di un sorriso. Quello di chi conosce alla perfezione, per averla vista, vissuta e valorizzata, la bellezza e la forza, anche creativa, della diversità.
Buona lettura, IM
5 domande
a
Gabriella La Rovere
1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
«Forse hai sbagliato – mi disse mia madre poco prima di morire – La medicina non era la tua strada, tu dovevi fare la scrittrice». Ho sempre scritto e, soprattutto, ho sempre letto. Tanto. Quando lavoravo in ospedale, mi facevano raccogliere e scrivere l’anamnesi proprio perché ero affascinata dalle storie, dalla situazione che aveva determinato la malattia e da tutto il corollario emotivo che vi ruotava attorno. Tanti anni fa mi proposi ad una casa editrice che pubblicava una rivista che andava a tutti i medici di famiglia; mi sarebbe piaciuto scrivere di medicina invece, senza neanche sapere chi fossi, mi chiesero di scrivere dei racconti perché c’era una rubrica letteraria che stentava a decollare. E così tutto iniziò.
2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?
Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.
Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).
Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.
Da un paio di settimane è uscito il mio ultimo libro “Francisco. La vita del matto buono dei frati” Augh edizioni. Per la prima volta mi sono cimentata in un romanzo storico andando a recuperare la storia di Francisco Pascal, frate carmelitano converso, vissuto alla fine del Cinquecento, presumibilmente autistico. È il libro a cui sono più legata emotivamente perché ha avuto una gestazione lunga, di ben nove anni!
Soffro d’insonnia e in una delle mie notti a leggere e studiare, mi sono imbattuta in un libro della fine dell’Ottocento, scritto da un abate anonimo, che raccontava del “Venerabile Francisco del Bambino Gesù”. Era scritto in francese, che non conosco, ma fortunatamente la sinossi era in inglese. Si parlava di un ragazzo che aveva commesso un omicidio, senza esserne minimamente turbato. Questa cosa mi aveva incuriosita e ho cercato di capirne di più. Sono riuscita a trovare questo libro antico… a soli 30 km da casa mia. Un caso? Forse no! Comunque, il problema rimaneva per il francese. Anche qui una strana coincidenza che mi fa imbattere in una traduzione di un classico francese ad opera di “suore di clausura” del Monastero Benedettino dell’Isola di San Giulio. Il libro viene tradotto e la vita di Francisco irrompe e sconvolge chi ne viene a contatto, prima tra tutte la monaca traduttrice che ne ignorava la esistenza.
La traduzione mi arriva come un bene prezioso, con questa storia che deve essere condivisa, ma occorre modificarla, renderla fruibile da tutti, in altre parole, romanzarla. Ci sono voluti nove anni e altri libri da me scritti e pubblicati. E nel frattempo quaderni e quaderni pieni di ricerche storiche, di una prima parziale stesura, di riscritture, di note a margine e poi sui post-it, sui fogli volanti. Non ero mai pronta finché ho deciso di affrontare la sfida.
A TU PER TU – Stefano Vitale
Delle risposte di Stefano Vitale all’intervista, mi ha colpito tra gli altri questo passaggio: “prendere posizione, attraverso la poesia e il disegno, sulle lacerazioni della contemporaneità, del presente. Non si tratta di un libro ‘ideologico’, perché l’intento principale è fare poesia ed arte. In questo caso misurandoci col presente, affrontando l’impoetico con mezzi poetici. E cercando di proporre una visione più universale dei temi che trattiamo. Lo spunto nasceva dall’indignazione per le politiche sull’immigrazione e l’accoglienza di tutti i migranti del mondo, dalla rabbia per la generale indifferenza, ma anche dall’esigenza di cogliere e rappresentare il sentire dell’uomo e della donna di oggi immersi in questa realtà”.
Ci sono in queste parole molti spunti, molti inviti, impliciti ma molto pressanti, alla riflessione, anzi alla necessità di chiamarsi in causa. “Affrontando l’impoetico con mezzi poetici”, scrive Vitale. E non è solo una frase bella esteticamente. Anche se la bellezza è forse, oggi più che mai, un’arma di difesa. L’impoetico lo sappiamo cos’è. Ognuno se lo trova davanti agli occhi, nei timpani e nel cervello ogni giorno. Ognuno ha il suo personale “rumore” da affrontare. E sappiamo anche che “rumore” in vari ambiti disciplinari, da quelli tecnici a quello filosofici, psicologici e linguistici, è molto più del semplice chiasso. È il frastuono della disarmonia. C’è da valutare allora le contromisure. Quali sono i mezzi poetici? Oltre alla parola, al verso, c’è ad esempio, la musica, e non è casuale in tale contesto il legame profondo di Vitale con la musica, soprattutto quella sinfonica, a cui accenna egli stesso nelle risposte.
Ma i mezzi poetici non sono solo strettamente artistici. Se l’indifferenza è il male per antonomasia di questi nostri tempi, bisognerà agire sul tasto opposto, creare un controcanto, un’azione uguale e contraria che eviti la caduta nel baratro. Sandro Luporini e Giorgio Gaber avrebbero scritto e cantato che “Libertà è partecipazione”. I confini, sia quelli reali fatti di mattoni e filo spinato, sia quelli mentali non meno solidi e laceranti, si abbattono nel momento esatto in cui si partecipa del dolore degli altri. Ritrovare un “sentire” autentico è la vera sfida. Ciò che ci restituirà la dimensione di uomini e donne. La nostra autentica umanità.
Coerentemente, Vitale ha una visione sobria e oggettiva. La speranza non è data “a priori”, va conquistata, va meritata. Anche il suo sguardo sul mezzo tramite cui si esprime è schietto: “Ho sempre sostenuto che la poesia è una cosa fragile che però ha in questa fragilità la sua qualità, la sua forma di paradossale resilienza. […] La poesia dovrebbe, talvolta, obbligare il lettore a non distrarsi, a tendere lo sguardo verso l’inatteso, costringendolo anche a prendere coscienza di quel che si vorrebbe rimuovere. Così facendo la poesia prende sul serio i vuoti dell’esistenza, le fratture, le questioni irrisolte”.
Poesia quindi non come materia astratta ma come sollecitazione al gesto, alla presa di coscienza, alla rimozione delle mura e dei confini che non di rado lasciamo scavare nelle nostre menti.
IM
A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
5 domande
a
Stefano Vitale
1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
Sono nato a Palermo, città-radice che sento nostalgicamente vicina, ma vivo a Torino, città che amo per la sua discrezione e vivibilità, per la sua bellezza elegante. Qui mi sono laureato in filosofia, qui ho costruito la mia vita personale e professionale. Qui ho fondato nel 1981 i Centri di Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva, una cooperativa sociale dove ancora oggi lavoro come formatore e responsabile di servizi educativi. A Torino coltivo le mie passioni che sono, a parte la poesia e la letteratura, l’impegno civile nel mondo dell’educazione, della cultura e della musica. Oggi sono Direttore Artistico dell’Ass. Amici Orchestra Sinfonica RAI.
2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?
Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.
Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).
Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.
Il mio ultimo libro è “Incerto confine” edito da “paolagribaudo editore” nella sua collana di libri artistici “disegnodiverso”. Il libro è stato scritto con Albertina Bollati che ha curato le immagini. Si tratta di un libro “unico”, nel senso che poesie e immagini sono un tutt’uno, sia pure in una prospettiva di dialogo. Insomma il libro è un insieme che non perde di vista la valorizzazione dei diversi strumenti espressivi. Così, nella coerenza del messaggio, vogliamo emerga la diversità dei percorsi, delle strategie comunicative. Si tratta di una plaquette, come si dice, che abbiamo voluto produrre sulla base di una esigenza etica ed estetica: prendere posizione, attraverso la poesia e il disegno, sulle lacerazioni della contemporaneità, del presente. Non si tratta di un libro “ideologico”, perché l’intento principale è fare poesia ed arte. In questo caso misurandoci col presente, affrontando l’impoetico con mezzi poetici. E cercando di proporre una visione più universale dei temi che trattiamo. Lo spunto nasceva dall’indignazione per le politiche sull’immigrazione e l’accoglienza di tutti i migranti del mondo, dalla rabbia per la generale indifferenza, ma anche dall’esigenza di cogliere e rappresentare il “sentire” dell’uomo e della donna di oggi immersi in questa realtà. Il tema del “confine” rinvia ad una varietà di simboli, connotazioni, esperienze: si pensa ai muri, alle barriere, alla frontiere che dividono, opprimono, ma vogliamo che si pensi anche all’immagine della soglia intesa come passaggio verso nuove dimensioni dell’esperienza, e poi abbiamo anche bisogno di confini “buoni”, di spazi protetti, di limiti che ci aiutino a non frammentarci. Il libro è uscito a novembre del 2019 poco prima dell’emergenza Covid: per certi aspetti abbiamo anticipato alcune tematiche con cui poi abbiamo dovuto fare i conti. “Incerto confine” inoltre non perde di vista né la relazione con la memoria, né appunto con la ricerca di una pura espressione artistica. La memoria storica è indispensabile per costruire radici e identità così come la creatività è necessaria per aprire nuove strade, per dare voce e calore a pensieri diversi, inattesi.
Su questo libro hanno scritto diversi autorevoli critici e poeti come Alessandro Fo, Paolo Ruffilli, Ivano Mugnaini, Alfredo Rienzi, Dario Capello, Daniela Pericone, Alessandra Paganardi, Carlo Prosperi, Lucia Triolo, Fabrizio Bregoli, Angelo Manitta, Pierangela Rossi, Marvi del Pozzo, Alberto Piazza, Giorgio Moio e tanti altri che devo ringraziare per la loro attenzione.
La cosa bella è che ciascuno di loro ha colto aspetti diversi, a testimonianza del fatto che questo libro non è un monolite, ma un “territorio” complesso in cui sono “tessute insieme” prospettive, risonanze, pensieri ed emozioni multiple. La poesia dovrebbe essere anche questo: una forma di espressione che si fa forte della sua “ambiguità”, della sua “indefinitezza” e persino “imperfezione”. Ho sempre sostenuto che la poesia è una cosa fragile che però ha in questa fragilità la sua qualità, la sua forma di paradossale resilienza. La poesia è prima di tutto sforzo del linguaggio di dire altrimenti ciò che è necessario dire. Per questo il poeta dovrebbe essere attento a quanto accade intorno e dentro di sé. La poesia dovrebbe, talvolta, obbligare il lettore a non distrarsi, a tendere lo sguardo verso l’inatteso, costringendolo anche a prendere coscienza di quel che si vorrebbe rimuovere. Così facendo la poesia prende sul serio i vuoti dell’esistenza, le fratture, le questioni irrisolte.
Il libro, come ho detto prima, nasce proprio dalla voglia di alzare un argine alla deriva etica del nostro tempo, di provocare e denunciare l’indifferenza del pensiero. E c’è stato anche chi ha criticato dal punto di vista “politico” alcune prese di posizione dei miei testi. Ma la poesia è sempre “poesia civile”: l’importante è che sia poesia e non banale ideologia al servizio di questa o quella fazione più o meno di potere. La poesia è assolutamente priva di potere , è una “causa persa” come diceva Philip Roth. Al massimo può essere poesia asservita. E, ovviamente, non è il mio caso.
Tra le recensioni mi piace segnalare questo passo di Daniela Pericone (L’ Estro Verso): “ Dalla copertina del libro Incerto confine …, spicca un omino stilizzato in nero appeso a un cielo di nuvole azzurre sul fondo di un luminoso firmamento. Non si poteva rendere meglio il senso del nostro consistere, una sorta di fragilità e tenacia insieme che riassume l’essenza della condizione umana. Così il confine di cui parla il titolo non è che un’illusione creata dalla mente dell’uomo, perché in natura non esistono divisioni nette, barriere invalicabili, ogni cosa ‘sconfina’ nell’altra, si contamina e si supera, diventa di continuo altro da sé”.
Paolo Ruffilli ha colto un altro aspetto per me fondamentale: “C’è una misura partecipativa, nella poesia di Vitale, un proiettarsi sempre oltre la barriera della propria vicenda e della propria storia, in una sorta di interrogativo aperto, che è la prospettiva del futuro o, se si vuole, la scommessa con la vita, in quella “mescita di ombre e di luce” che caratterizza tutto perché “non siamo dentro e neppure fuori / in questo incerto confine mobile” (“Italian Poetry)
Alessandro Fo ha ben tracciato il perimetro del libro: “Il tema è il confine fra la sventura e la fortuna, fra la libertà e la schiavitù, fra una patria da cui si è costretti a fuggire e terre nuove in cui si ripone speranza (forse non sapendo ancora fino in fondo quale accoglienza invece vi sarà, in alterna vicenda fra la buona volontà di pochi e l’indifferenza, se non l’odio, di molti – forse ormai dei più)” e ancora “ Non sempre si avverte con nettezza chi stia prendendo la parola nelle liriche: l’impressione è che per lo più si tratti dei migranti; ma Vitale lascia intenzionalmente aleggiare un margine di ambiguità, come a ‘confondere i confini’ fra chi sta male e chi si presume sia insediato nel benessere. Ciascuno ‘gode’ delle proprie limitazioni, e forse per questo l’illustrazione sul retro della copertina è quella di un «codice a sbarre». Ciascuno di noi è un recluso (p. 36).
“Incerto confine” ci vuole dire che dobbiamo considerare il nostro dolore, ma anche il dolore dell’Altro per rivitalizzare la forza del sentire, della reciproca protezione. La poesia è parola paziente che accoglie e ospitare vuol dire mettere in comune, offrire un tempo e uno spazio dove tra l’io e il tu possa nascere un linguaggio, una comunicazione che avvolge e protegge valorizzando le diversità.
Come si può capire, il libro si colloca all’interno del mio percorso poetico abituale e riprende alcuni temi del precedente “La saggezza degli ubriachi”. Qui ho voluto sperimentare un linguaggio più “espressionista”, fatto anche di immagini evocative, di figure poetiche più insistite. Lo stile è sempre lineare, almeno credo. Alcune poesie sono state inserite per dare un senso all’economia generale del libro e in una pubblicazione “normale” non le avrei inserite: sono magari poesie più occasionali. Non tutti i figli vengono su come vorremmo, ma sempre figli restano.
Come ho detto prima, la collaborazione con Albertina Bollati è un valore aggiunto che arricchisce la proposta poetica, mettendola in dialogo con altre arti: il colore, il disegno, l’immagine. Così come spesso la mia poesia è in dialogo con la musica. Insomma l’idea è di tracciare e superare, di individuare e oltrepassare confini, senza farsi imprigionare, pur nella consapevolezza che tutti abbiamo dei vincoli, dei limiti necessari.
“Incerto confine” è per me un libro di transito, una pausa di sperimentazione che introduce e prepara il mio prossimo libro vero e proprio che uscirà entro il 2021. Quando i confini e le barriere della pandemia saranno spero superati.
3 ) Fai parte degli autori cosiddetti “puristi”, coloro che scrivono solo poesia o solo prosa, o ti dedichi a entrambe?
In caso affermativo, come interagiscono in te queste due differenti forme espressive?
Mi considero un autore di sola poesia. Per lo meno ho pubblicato solo poesia, a parte le pubblicazioni di tipo professionale dedicate al gioco, al teatro, all’educazione ambientale, ai temi della gestione dei conflitti. E leggo molta poesia perché ritengo indispensabile per un poeta confrontarsi continuamente coi poeti, certo, del passato che fanno da riferimento, ma anche con quelli del presente. Ecco perché nel tempo ho sviluppato anche un lavoro da “critico” letterario. Che porto avanti con la rubrica “Oggetti smarriti” sul giornale on line www.ilgiornalaccio.net . Ma scrivo anche racconti, brevi, sorta di poesie un po’ più lunghe…in tal senso ammiro moltissimo l’inarrivabile Francesco Biamonti che aveva saputo fare poesia coi i suoi romanzi.
4 ) Quale rapporto hai con gli altri autori? Prediligi un percorso “individuale” oppure gli scambi ti sono utili anche come stimolo per la tua attività artistica personale?
Hai dei punti di riferimento, sia tra i gli autori classici che tra quelli contemporanei?
Come ho detto, leggo molta poesia contemporanea, dei nostri giorni intendo. Così cerco di confrontarmi con altri poeti. Non è facile perché è una piazza molto affollata, con voci non sempre chiare. Tutti hanno qualcosa da dire, tutti vogliono dire qualcosa, come in un condominio decisamente variegato. In ogni caso ho degli scambi più frequenti con amici poeti della mia regione attorno alla rivista “Amadomio” in cui appunto sperimentiamo questa varietà di punti di vista. Tra loro voglio ricordare Alfredo Rienzi, Beppe Mariano, Riccardo Olivieri, Angela Suppo. Tra gli autori “classici” amo rileggere Mario Luzi, Giorgio Caproni, Vittorio Sereni ed anche la prima Antonella Anedda, poi Fabio Pusterla e Alberto Nessi, ma anche Umberto Fiori, Silvia Bre. Ammiro la poesia di Cristina Alziati e mi piace la scrittura di Italo Testa e quella di Anna Maria Carpi. Un pensiero particolare lo tengo per Jolanda Insania. Tra i poeti stranieri ho un dialogo, umile ma fitto, con Mark Strand, Fernando Pessoa, Jorge Luis Borges, Cees Nooteboom. La poesia è un mondo straordinario che continuamente mi stupisce e sorprende.
5 ) L’epidemia di Covid19 ha modificato abitudini, comportamenti e interazioni a livello globale.
Quali effetti ha avuto sul tuo modo di vivere, di pensare e di creare?
Ha limitato la tua produzione artistica o ha generato nuove forme espressive?
Certamente. Il confinamento ha limitato le relazioni sociali, che sono il mio principale nutrimento; mi ha impedito di andare a teatro, al cinema, a concerto, di viaggiare; ho dovuto annullare gli eventi che io stesso avevo organizzato. E’ stato difficile. Ho visto molti poeti gettarsi a scrivere versi ispirati dalla situazione: per parte mia ho cercato di limitare questo tipo di “produzione” e mi sono dedicato invece a sistemare il nuovo libro che vorrei pubblicare l’anno prossimo. Avere meno impegni mi ha restituito tempo. La clausura forzata prima e le limitazioni parziali poi, hanno permesso, come ha subito detto David Grossman, di mettere in fila le nostre priorità, di riscoprire la differenza tra ciò che è essenziale e ciò che è abitudine, routine, vano agitarsi. L’ho anche scritto in bel libro collettivo curato da Paola Gribaudo dal titolo “Condividere” (2020): “Perché se c’è una speranza è proprio qui, in questa nostra testarda volontà di non affogare, nella fatica della gioia di una ragione possibile, essenziale. Ci potrà salvare questa nostra infinita domanda di vita perché niente sarà come prima. Neppure noi. Chissà se ce la faremo a essere migliori con più musica, poesia, amore e meno ingiustizie, diseguaglianze, pregiudizi, prepotenza. Esitiamo sulla soglia del buio, ma evitiamo gli inutili lamenti e coltiviamo radici nell’aria dove la terra è ancora grembo, nell’attesa che fiorisca il seme della nostra incerta trasparenza.
Stefano Vitale. Poeta e critico letterario, ha pubblicato Double Face (Ed. Palais d’Hiver, 2003); Semplici Esseri (Manni, 2005); Le stagioni dell’istante (Joker, 2005); La traversata della notte (Joker, 2007); Il retro delle cose (Puntoacapo, 2012); Angeli (con disegni di Albertina Bollati, Edizioni Paola Gribaudo, 2013); ha curato (con Maria Antonietta Maccioccu) l’antologia Mal’amore no (SeNonOraQuando, 2015); La saggezza degli ubriachi (La Vita Felice, 2017). È presente su numerose antologie, blog, siti. Sue poesie sono tradotte in inglese sul Journal of Italian Translation (2019) e sul sito “Italian Poetry” (2018). È presente su “Atlante dei poeti” del portale “Griseldaonline” dell’Università di Bologna e sul sito “Italian Poetry”.
A TU PER TU – Silvano Trevisani
Parto in questo caso dalle recensioni di due critici, a loro volta poeti. “Trevisani è poeta dal duplice sguardo – osserva Antonio Fiori – uno storico e antropologico sul mondo; l’altro introspettivo, sulla vita e sull’amore, che ha un misterioso tempo interiore nel quale la poesia deve districarsi”. Claudia Manuela Turco osserva che “il titolo del libro di Trevisani, Le parole finiranno non l’amore, guida costantemente il lettore verso un porto sicuro: se da un lato ci sono le insidie del presente e l’assenza di sogni e speranze, dall’altro ci sono le stanze degli affetti, private ma sempre dotate di finestre aperte sul mondo […] Poesia e filosofia, attualità e tempi trascorsi, mito e vita quotidiana si intrecciano in queste pagine grazie a una parola scelta sempre con cura, passo dopo passo, immersa in una musicalità capace di trasportare verso altre dimensioni anche mentre affonda nella materia più concreta”.
L’abbinamento evidenziato dai due critici è fondamentale, potremmo dire “vitale”, in senso stretto ancora prima che metaforico. Mette in risalto il rapporto tra il tempo interiore (e con esso lo spazio) e la dimensione cronologica che scorre, a dispetto di noi. Ma la scommessa è quella di andare oltre l’inconciliabilità apparente delle due dimensioni. Per qualcuno è azzardo, per altri utopia. Trevisani, invece, la vive come qualcosa di più di una speranza . Il titolo del libro lo dice in modo esplicito, inequivocabile. L’autore ha il coraggio, potremmo dire il privilegio, dal suo punto di vista, di dire che qualcosa va oltre le barriere e i confini eretti dal destino e dalla condizione umana.
Le risposte di Trevisani dimostrano una frequentazione assidua con autori, anche di impostazione molto diversa tra di loro, con cui ha interagito in modo schietto. Ne è stato ispirato, ha tratto linfa e spunti, pur conservando il proprio stile, le proprie idee, il proprio modo di pensare. Lo sguardo di Trevisani è aperto e sincero: non propone panacee né pietre filosofali ma non rinuncia neppure ad incamminarsi tramite le parole verso quegli sprazzi di luce che intravede nelle radure e nelle boscaglie. Le sue letture nutrono la sua scrittura, sia quelle di poeti ben noti sia quelle di autori meno conosciuti, come Pasquale Pinto, che ci segnala con intensa partecipazione. Il suo amore per la poesia è alimento stesso per ciò che fa (il giornalismo e la collaborazione con riviste) oltre che per ciò che scrive. La commistione tra concretezza e dimensione onirica, tra realismo e speranza, è il tratto distintivo dei suoi versi, identifica il suo atteggiamento, il ponte gettato tra parola e pensiero, tra presente e progetto di un domani.
IM
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UNA RETE DI VOCI
5 domande
a
Silvano Trevisani
1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
– Silvano Trevisani, vivo di parole, essendo giornalista professionista e avendo pubblicato tantissimi libri di vario genere. Responsabile del bimestrale di poesia “Il sarto di Ulm”, collaboro con giornali e riviste. Sono cresciuto a contatto con i poeti Michele Pierri, Alda Merini, Giacinto Spagnoletti, Pasquale Pinto, nella Taranto degli anni Ottanta, e di tanti altri grandi pugliesi (Serricchio, Goffredo, Curci, Angiuli). Ma sono sempre stato uno spirito libero e ribelle, avulso dai “sistemi” e consapevole delle mie scelte. Sono credente e penso che questo influisca anche sul modo di soffrire e di vivere la poesia.
2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?
Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.
Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).
Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.
– “Le parole finiranno, non l’amore” è l’ultima raccolta di mie poesie, pubblicata da Manni L’opera l’ho pensata come raccolta poetica organicamente costruita in sezioni tematiche, che descrivono un percorso reale di vita. Fatti e pensieri si accumulano e si addensano per temi e poi si dipanano in senso cronologico, con l’intento di offrire un racconto composito, corale, spesso provocatorio, sempre teso a una forte emozione.
La realtà è sempre in primo piano, anche quando si muta in un viaggio nel mito e nelle sue sopravvivenze, attorno a luoghi mnemonici chiamati in causa per mescolarsi al presente e ritrovare radici e confronti che intrecciano il dolore e l’amore, cioè la vita.
I versi, in un linguaggio pensato, persino puntiglioso, a volte anarchico, ricercano una musicalità funzionale (quasi tutte le poesie sono chiuse da un endecasillabo) e sono densi di concetti che a volte assumono il tenore di aforismi. Ambiscono a coinvolgere emotivamente il lettore, anche quando partono dalla mia intimità, che dialoga senza parlare con i propri affetti o con l’umanità tutta, quando fa rivivere i giorni più intensi dell’amore e gli affette familiari, o quando si interroga sul divino, per dare a se stesso, in primo luogo, uno strumento emozionale per riflettere sulla propria storia.
A TU PER TU – Mario Fresa
L’ospite di oggi della rubrica A TU PER TU è Mario Fresa. Come avrete modo di rilevare dalle sue risposte all’intervista, il suo modo di concepire e vivere la scrittura è improntato all’azione di contrasto che porta avanti con assidua coerenza nei confronti della “dittatura dell’ordine raziocinante della cosiddetta realtà”. L’espressione è estrapolata dalla risposta riguardante il suo libro di recente uscita, Bestia divina, ma può essere letta anche in una prospettiva più ampia. Fresa spazia tra prosa, poesia e critica rifuggendo sempre le vie eccessivamente battute o i percorsi agevoli, lisci e “canonici”. Si definisce “un felice impuro, con la tendenza a una convinta disobbedienza verso tutte le categorie di forma assoluta”. Ciò gli ha consentito di ritagliarsi uno spazio proprio, una posizione ben definita, sia a livello di produzione che di ricezione, generando, cioè, pareri e reazioni mai neutri, mai anodini.
Anche in questo caso, l’invito è a cogliere attraverso le espressioni dell’autore, nel contesto più ampio e dettagliato delle sue risposte, i punti che ho accennato in questa introduzione.
Buona lettura, IM
A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
5 domande
a
Mario Fresa
1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
Mi parrebbe imbarazzante un’autopresentazione. La biografia è un accidente e non è affatto interessante (se non è addirittura disturbante o deviante o respingente). Sicché preferirei glissare. Capisco, da questo punto di vista, l’Hassan di Alfred de Musset: «Il suo cuore era una casa priva di scale…».
2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?
Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.
Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).
Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.
No, non ho alcun rapporto intimo (cioè “personale”, sentimentale) con ciò che scrivo. O meglio: ciò che scrivo è in rapporto esclusivo con tutto quel che si oppone alla maschera dell’io (ha a che fare, dunque, con l’Es; ed è per questo profondamente autentico – poiché Adorno specifica che: «L’Es è l’io»). L’ultimo libro s’intitola Bestia divina; è stato pubblicato nel 2020 presso la Scuola di Pitagora editrice (su invito del direttore di collana). È un libro di poesia: dunque l’esternazione di un’allegra e crudele forma di nevrosi. È, forse, un romanzo la cui trama è stata violentemente stracciata, strappata. Ed è una favola nera con personaggi veri (sì, così tanto veri che sembrano tutti innaturali, o fantasmatici o inventati). Ma è soprattutto un luogo di diserzione dell’io. Un cruciverba privo di soluzioni (o con troppe soluzioni). Ed è, infine, un attestato di violenta fedeltà: fedeltà all’incongruo, al non dicibile, al nascosto (dunque, allo spirito della musica, suprema lingua dell’Essere). Ci sono anche varie prose: non anti-poesie, ma dolci spine senza rose, balletti che hanno presto dichiarato guerra alla croce del significato univoco, alla dittatura dell’ordine raziocinante della cosiddetta realtà.
Inadeguato all’eterno: lettera in prosa e versi
Ho esitato a lungo prima di pubblicare questa “lettera in prosa e versi” di Roberta Pelachin.
Mi sembrava che pubblicarla potesse sembrare “autoreferenziale”, un atto in qualche modo narcisistico.
Poi l’ho riletta e mi sono reso conto che non pubblicarla sarebbe stato un errore. Per prima cosa perché è splendidamente scritta e contiene riferimenti e citazioni di notevole bellezza e valore simbolico, sulla letteratura e sulla vita: Baudelaire, Hölderlin, Leopardi, Orwell, Wordsworth, Yeats, riferimenti a Goya e al neuroscienziato Antonio Damasio e versi di cui la stessa Pelachin è autrice.
La ragione principale per cui la pubblico (dopo aver consultato Roberta) però è un’altra:
serve a confermare che “il canto genera canto” ossia che la parola ha il potere di dare vita ad altre parole, altre sensazioni, altri mondi possibili.
Il mio libro Inadeguato all’eterno è stata l’occasione, la scintilla.
In realtà Roberta Pelachin ha dato vita, partendo dalle pagine del libro, al suo fuoco e al gelo della solitudine dovuta alla perdita di suo marito, compagno di molti anni di vita, Giulio Giorello.
Il mio libro ha dato il la, ma il canto è suo, ed è condiviso.
Ognuno secondo i suoi contrappunti, le analogie e i contrasti, le tonalità e i movimenti interni.
Con l’armonia autentica che nasce dalla varietà e verità di suggestioni e situazioni che trovano in un accordo la sintesi, la chiave di un mistero fatto di buio e di sete di luce.
IM
Roberta Pelachin
(considerazioni e suggestioni in forma di epistola
ispirate dalla lettura del libro Inadeguato all’eterno)
Nel mio tempo lo scarto si è riempito di una lontananza che incombe. La morte di Giulio. Non un’icona dell’amore, ma un uomo inquieto, a volte dolce e appassionato, a volte scabro e tagliente. Mentre era ricoverato in ospedale per il Covid, due mesi sono lunghi, espresse un desiderio: sposarmi. Per ricambiare il mio affetto e condividere il tempo a venire. Un dono inaspettato, gratuito, forse… è questo l’amore. Negli ultimi giorni della sua vita dormivo a frammenti. Mi svegliavo all’improvviso e mettevo una mano sul petto per sentirne il movimento, il respiro. Poi, le nostre dita si annodavano calde sopra un corpo immobile e fiacco. “Aiutami!”, mi sussurrava. Ma io che altro potevo? Quando un affetto ha fine non c’è differenza tra abbandono o morte. Rimane solo l’assenza. La nuda, gelida assenza. Il letto troppo grande, le stanze mute, la scrivania assettata.
E i tuoi versi che scorrono davanti a me, caro Ivano, leniscono la pena. Mi accorgo che “la tempesta “[…] ti lascia solo l’attimo, / lo scarto, fessura breve / di silenzio afferrato in controtempo: / ascoltare, lontano, / l’eco, il suono, la speranza: / una vana, vitale tempesta.” Sono i versi finali dell’ultima lirica. E spero anch’io che questa bufera, che mi lascia spossata contro rocce artigliate dal vento, si acquieti poco alla volta. E, se pur vana, rimanga vitale.
Così il mio vagare di verso in verso nei tuoi Canti addolcisce le ore. Il tempo lento… inadeguato all’eterno? Sappiamo che non esiste un tempo assoluto, eterno metro e misura dell’Universo intero, ma esiste quello mio, quello tuo, quello di ogni essere vivo che cammina, esita incerto, prosegue a saltelli, si strascica lungo il sentiero. E si lascia andare, ogni tanto, a gioie inattese.
E altre voci suggeriscono gorgheggi, fatti di ali e di piume. Qualcuno li ascoltò…
Il tordo era al sole, loro erano all’ombra.
Aprì le ali poi le richiuse piano, piano, chinò la testa per un attimo,
come per una specie di tributo al sole, e poi mise fuori,
senz’altro indugio, un torrente di canti…
Per chi, per che cosa cantava quell’uccello?
Nessun compagno, nessun rivale gli stava accanto…
Che cosa gli faceva rovesciare quella musica prodigiosa dentro al nulla?…
Era come se si sentisse inondato d’un qualche cosa di liquido,
mescolato alla luce del sole…
Winston smise di pensare e si preoccupò solo di sentire.
George Orwell
Lo spazio bianco tra riga e riga calma lo sguardo. Ristora la mente. Socchiudo gli occhi per centellinare parole, suoni, immagini, un amalgama magico che solo la poesia svela con parsimonia, con garbo. A volte graffia. Leggo ad alta voce. Solo la mia tra echi di una stanza sola. Ogni Canto è canto, e va ascoltato per impregnarsi della sonorità, dell’armonia delle parole.
Ricordo quando scrissi di
Sirene celesti, platoniche, arcane visioni
che intonavano una nota, una sola, ruotando
nel moto di fusi che reggevano delle orbite il volo.
La sorte a ognuna un suono aveva elargito,
così il Cosmo tutto irradiava di eufonie
e consonanze in lieta armonia.
A volte, le Sirene scendono nel mondo dalle sfere scintillanti, abbigliate di acqua e di aria, e ci ispirano Canti. Piccole chiose, le mie, per cantare con te, di te.
Inadeguato all’eterno… Un frangibile istante, “fragile, sporco, inadeguato all’eterno” appare e dispare come di porcellana, se pure all’amore si aggrappa, come roccia che affiora da marosi irrequieti. L’amore dove “le braccia spalancate / della ragazza nuda / avranno la pietà del miele selvatico”? Come un bagliore fende della notte il buio freddo, così “il suo sorriso / enigmatico, sconosciuto e impuro / ti darà la certezza del corpo / e del cuore, senza cercare / niente di più?”
Ma allora: l’eternità è un filamento infinito di perle lungo la collana del tempo? Ma dove trovare quelle perdute, cercate, sperate? Quegli istanti feriti dal mattino che i sogni cancella? Fermarsi, ogni tanto, per godere degli istanti donati dal tempo… è questa la via?
Nuvolario. Nuvole, parole, follie

Il racconto è strano: parla di nuvole, pioggia, parole, follie…
Ma a volte le nuvole, la pioggia e una tenace, umanissima follia spazzano via follie peggiori.
Grazie a Repubblica e a Tito Pioli per l’ospitalità
Chi volesse può leggerlo a questo link:

Comunardo Niccolai. Reti, miti, bivi
Covid, Comunardo, reti, miti e bivi.
Un modo per provare a riflettere sul dubbio di sempre.
Leggi il seguito di questo post »
Racconto del 25 aprile su Repubblica. parma
Sono molto lieto che il mio racconto NOMI CONCRETI E NOMI ASTRATTI sia stato pubblicato nelle pagine de “la Repubblica” di Parma proprio oggi, 25 Aprile, anniversario della Liberazione.
Il racconto, pur partendo da un’ambientazione in apparenza distante, la scuola, ha in realtà proprio l’intento di sottolineare l’importanza della libertà, di pensiero, di scelta, di opinione.
E, a fianco, intimamente connesso ed essenziale, il diritto di chiunque, a prescindere da qualsiasi connotazione individuale, a essere se stessa o se stesso.
Ipotesi
Ils m’ont alors ôté les menottes. Ils ont ouvert la porte et m’ont fait entrer dans le box des accusés. La salle était pleine à craquer. Malgré les stores, le soleil s’infiltrait par endroits et l’air était déjà étouffant. On avait laissé les vitres closes. C’est à ce moment que j’ai aperçu une rangée de visages devant moi. Tous me regardaient : j’ai compris que c’étaient les jurés. Mais je ne peux pas dire ce qui les distinguait les uns des autres. Je n’ai eu qu’une impression : j’étais devant une banquette de tramway et tous ces voyageurs anonymes épiaient le nouvel arrivant pour en apercevoir les ridicules. Je sais bien que c’était une idée niaise puisque ici ce n’était pas le ridicule qu’ils cherchaient, mais le crime. Cependant la différence n’est pas grande et c’est en tout cas l’idée qui m’est venue.
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