“Here lies one whose name
was writ in water”.
Qui giace un uomo il cui nome
è stato scritto nell’acqua.
Frase tratta dall’epitaffio
riportato sulla lapide di
John Keats
Lo sconosciuto guardava gli oggetti lasciati nelle macchine parcheggiate. Camminava lento, la mattina presto, sempre e solo con la pioggia. “Cosa posso fare per ognuno?”. si chiedeva. “Quale biglietto lasciare? Quali parole? Un consiglio, un apprezzamento per la sensibilità, un aiuto per la vita?”.
La mia è un’ipotesi. Follia. Come la sua. Forse peggiore. Ma non posso fare a meno di chiedermi in che direzione si muove, verso quale senso. Per avere una risposta devo sperare nella pioggia giusta, nel ritmo, nelle frequenze adeguate. Lo incontro. Lui trova me. È capace di morbidi agguati.
I suoi vestiti sfuggono agli occhi, vi rientrano in un secondo momento: colori soffici, fuori tono, in armonia solo con loro stessi. Sembra parlare tutte le lingue e nessuna, la sua cantilena oscilla su cadenze che spaziano dallo slavo allo spagnolo. In una mano tiene una vecchia mappa della città, nell’altra stringe con timidezza una cassa di plastica utilizzata per trasportare le bottiglie d’acqua minerale. Il contenitore, vuoto, diventa una sedia, solida, leggera. Fluida e mobile, come l’acqua che gli dava uno scopo, una funzione. Acqua lui stesso, nella pioggia, con in mano un guscio di plastica che un tempo racchiudeva acqua. Un circolo perfetto, perenne.
Ho bisogno di dargli un nome. La mente adora il superfluo. Potrei chiederlo direttamente a lui, come si chiama. Ma non sarebbe la stessa cosa. Mi mentirebbe, o risulterebbe banale, magari. Mi arrogo il diritto di battezzarlo io. Un appellativo bizzarro e solenne, su misura per lui, ecco cosa mi serve. Nuvolario, voilà. Perfetto. Almeno per me. Lui non è necessario che lo conosca. Nuvolario, miscuglio di assonanze fascinose: un capo indiano, un pilota di auto da corsa, un imperatore persiano. Tutto e niente. Lui soltanto.
Mi si avvicina di un altro passo, cerca con gli occhi il mio sguardo, e mi chiede informazioni su una strada. Mi porge la mappa della città e mi invita a indicargli il punto esatto. Mentre la apro mi sembra di cogliere un sorriso sarcastico. Ma forse mi sbaglio. Probabilmente è un riflesso, uno sprazzo di luce nel grigio del cielo. Ci sono tre vie che portano il nome che mi ha chiesto. Incredibile ma vero. Dislocate in punti estremamente distanti l’uno dall’altro. Glielo faccio notare, e lui allarga le braccia, serafico. Gli chiedo cosa deve fare di preciso, cosa cerca, una casa, un monumento, un ufficio, un palazzo… Sorride, senza aprire bocca.
Mi viene il sospetto che la richiesta di informazioni sia una scusa per parlare con persone che, per qualche sua personale ragione, o assenza di ragione, trova interessanti. Porre un quesito che presuppone tre possibili risposte, tutte ugualmente valide, e tutte identicamente errate, gli consente di non avere alcun obbligo. Né una meta precisa. Può girare continuamente con la consapevolezza del limite e delle potenzialità: dirigersi volta per volta verso un luogo che è sempre, allo stesso tempo, giusto e sbagliato. La schiavitù e la libertà.
(il racconto completo è qui: http://www.ivanomugnaini.it/parole-nellacqua/ )