critica

La bellezza non si somma

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ImmagineTra materia e tempo, astrazione e concretezza, si muove Roberto Maggiani in questo suo libro. L’impressione è che l’autore senta sempre il bisogno di avere un correlativo oggettivo, anche quando parla di “draghi con ali come lame”. Tutto viene riportato alla solida consistenza dello sguardo, del tatto, della vista. Senza che l’immaginazione e il pensiero ne vengano limitati o condizionati. Anzi, con un effetto di reciproco rafforzamento. Il termine di paragone, il muro, ma anche il ponte costruito con tenace volontà e abilità, è la parola. “Il silenzio circonda la sola parola del mare”. E “parola” in questo caso è voce, immagine, concetto, ma anche acqua percepibile, con un sapore e una fluidità rilevabili. Niente è tolto al gusto della meraviglia, lo stupore di fronte alla vita, e a quella bellezza posta nel titolo come punto di partenza e di arrivo. Ma Maggiani ama dare corpo, nel senso letterale del termine, a quella “mitologia del quotidiano” che è un modo per osservare se stesso, soprattutto, attraverso incontri, luoghi, memorie rese concrete.  “La birra è un inevitabile destino”, è questo il verso finale di una delle liriche. Tra filosofia e film neorealista, tra ironia sapida, sobria potremmo dire, con una sorta di ossimoro, riflessione sulla sostanza del vivere. Maggiani ama le descrizioni puntuali, i dettagli, la cinepresa dell’occhio e della parola che isola un dettaglio e lo rende capace di parlare e parlarci di tutto ciò che lo circonda, la carne sensuale cosparsa di crema solare e la minuscola mosca che si pulisce le ali e la testa e magari, per un attimo, ci fa ragionare su ciò che non ci piace ricordare, o semplicemente, senza alcuna altra pretesa, racconta se stessa e un frammento di tempo. L’oscillazione tra corporeo e incorporeo è condatta in questo libro con genuina naturalezza, senza indulgere in commenti autoriali o altre esibizioni di verità presunte. L’antidoto alla retorica è l’esattezza, sono i dati cronologici e geografici, a volte messi in parallelo, come nella poesia “Cratere Gale, 6 agosto 2012, ore 7:31”. L’antidoto è prendere Beckett, il nome di un mito, e affibbiarlo ad un cane che scondinzola. Niente perde di sacralità, è giusto confermarlo, ma assume anche un volto umano, nel senso migliore del termine, in grado di abbinare leggerezza e spessore, dolore della riflessione e lievità dello sguardo, ricerca ostinata e vivida, nonostante tutto, di quella bellezza che non si somma, non si accumula neppure, non si può mettere in banca, ma senza la quale, tutto, perfino la parola, perfino il viaggio della poesia, perdono meta, senso, e verso.  IM

IO ERO L’AFRICA – di Roberta Lepri

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ImmagineL’Africa continente reale, pulsante di vita, dolore e passione, ma anche dimensione interiore, ineluttabile zona di confine tra paradiso e abisso, Cuore di Tenebra e Karen Blixen, sudore, sangue, incubo e sogno.

Un libro, quello di Roberta Lepri, da leggere come testimonianza di una storia, la vicenda di una famiglia, ma anche come un libro di formazione e di viaggio, dentro la geografia interiore, i meandri delle verità.

Pubblico qui di seguito la scheda del libro e una recensione firmata da Massimo Onofri.

Buona lettura, IM

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IO ERO L’AFRICA

di Roberta Lepri

La piccola Bianca sembra avere un unico scopo nella vita: ricostruire le vicende dei nonni in Africa. Così, scava con mille domande nella loro memoria, fino ad avere due versioni diverse della stessa storia. Angela è stata amata dalla gente del luogo ed è riuscita a realizzare il sogno di suo fratello, il più giovane vescovo d’Italia: fondare una missione vicino al fiume Giuba. L’appassionato racconto della nonna è la celebrazione di un’Africa amica, è l’inno alla gioia di chi si è trovato in armonia con tutta la natura. Teo, invece, socialista ed ex colono, è ancora prigioniero dei propri pregiudizi. Ha sofferto per la lontananza dalla famiglia d’origine, ha avuto verso i Somali un atteggiamento brutale e non ha disdegnato avventure con le giovanissime ragazze del posto pur disprezzandole. Ambientato negli anni Cinquanta, il libro narra, attraverso una scrittura luminosa e di gran fascino, una storia vera di emigrazione e razzismo al centro di un’Africa spietata e bellissima.

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Romanzi

Nell’Africa nera l’epopea famigliare di Roberta Lepri

MASSIMO ONOFRI

Un nonno: Teo. Una nonna: Angela. E una villa, piena di buone cose di pessimo gusto, esotico e coloniale, che alla piccola Bianca appaiono cariche di mistero: «Era stata costruita alla fine degli anni Sessanta con i soldi ricavati da quella che in famiglia veniva chiamata la campagna d’Africa del nonno, più o meno cinque anni che lui diceva di aver passato a coltivare le banane che invece avevano coltivato altri.

Cioè i neri».Io ero l’Africa,l’ultimo romanzo di Roberta Lepri, muove da qui, dalla discrasia d’uno sguardo, quello di Bianca, che oscilla, sempre più attratta dal fascino di quelle remote latitudini, tra i punti di vista dei nonni, i quali, nel 1954, erano partiti per la Somalia lasciando a casa i figli. Il punto di vista di Teo, mezzadro socialista: che, nonostante il socialismo, considera i somali, che disprezza, come animali da soma o da preda concupiscibile.

Quello di Angela, che è invece riuscita a realizzare il sogno del fratello vescovo, il più giovane d’Italia, fondando una missione nei pressi del fiume Giuba. E in mezzo i figli: che avranno una decisiva importanza in quanto accadrà. Lepri è brava nel far affiorare la storia – una storia di dolori e violenze, cambiamenti drastici come rinascite, fragilità, risentimenti – sull’onda di un’oscillazione che prova, da subito, a riequilibrarsi.

Malgrado l’iniziale reticenza o, forse, proprio in sua virtù: che cala, magari, sulle foto di giovani somale dal sorriso gentile e senza vestiti.

Mentre i «neri» che emergono dai racconti poco condiscendenti del nonno – sottolineati, quei racconti, dall’imbarazzo della nonna – s’impongono nella loro innocenza di sfruttati senza coscienza, di abitanti inconsapevoli d’un paesaggio che Lepri ci restituisce -soprattutto con gli occhi di Angela- in tutta la sua bruciante, commovente, bellezza.

Ecco: se per il nonno quei «neri erano solo testoni», «superstiziosi», «bugiardi» e maleodoranti, per Bianca (ilnomen si nega così, da subito, all’omen), che ammira «la meraviglia lucida» della loro pelle, il nero cessa d’essere il correlativo del pregiudizio, per diventare sinonimo della stessa allegria del vivere. Tutto questo in una prosa limpida appena increspata da qualche lieve metafora. Così, sulla «voce sottile» della nonna: «Pareva lo spiffero del vento tra i buchi delle tapparelle abbassate». Dal numero dei personaggi qui citati – solo alcuni: e nessuno africano – si capisce che questo è anche il romanzo d’una piccola epopea familiare d’emigranti: come ce ne furono, per l’Africa, negli anni Cinquanta. Ma il suo pregio sta proprio nella disponibilità interculturale, nella capacità d’adesione all’“altro” (che è, poi, innocente adesione alla vita), senza indulgere nel mito rousseauiano del buon selvaggio, magari in declinazione terzomondista. E nella decostruzione del nostro etnocentrismo: tanto più convincente perché generata dal candido e tenero sguardo d’una fanciulla in fiore. E lei lo sa: basta chiudere gli occhi e si vede l’Africa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Roberta Lepri

IO ERO L’AFRICA

Avagliano Pagine 176. Euro 13,00

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Trent’anni di Testuale

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Trent'anni di Testuale

Biblioteca Comunale Centrale

Sala del Grechetto, Palazzo Sormani – Via Francesco Sforza 7

e Milanocosa

invitano alla serata

Trent’anni di TESTUALE

critica della poesia contemporanea

24 gennaio 2014 – ore 17,30

coordina

Adam Vaccaro

con contributi e testimonianze di:

Gilberto Finzi, Cesare Viviani, Flavio Ermini, Milli Graffi,

Adam Vaccaro, Vincenzo Guarracino, Gio Ferri

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TESTUALE, rivista fondata nel 1983 da Giuliano Gramigna, Gilberto Finzi e Gio Ferri,

è un corpus ineguagliato di ricerca critica sulla poesia contemporanea,

cui vogliamo dedicare una serata di festa e di memoria.

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Vedi e commenta anche su:
http://www.milanocosa.it/eventi-milanocosa/trentanni-di-testuale

E sulla pagina Facebook: http://facebook.com/milanocosa

Info:
Associazione Culturale Milanocosa – http://www.milanocosa.it – c/o A. Vaccaro, Via Lambro 1 – 20090 Trezzano S/N
T. +39 02 93889474; +39 347 7104584 – E-mail: info@milanocosa.it; adam.vaccaro@tiscali.it
Ufficio Conservazione e Promozione Biblioteca Comunale Centrale – C.BiblioPromozione@comune.milano.it

Giacomo Cerrai su “Terra bruciata di mezzo”

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 Una recensione di Giacomo Cerrai su “Terra bruciata di mezzo” di Mirko Servetti.

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ImageGiacomo Cerrai su Terra bruciata di mezzo(fra Vespero e Lucifero)di Mirko Servetti

Sebbene il titolo stia curiosamente tra Tolkien e Eliot, la terra a cui allude Servetti risiede invece, come recita il sottotitolo, “fra Vespero e Lucifero” ovvero nel segno di Venere, nella sua doppia veste – nell’arco dell’anno – di stella del mattino portatrice di luce e di astro anticipatore del tramonto e della notte. Ma anche come emblema di un eros duplice, in costante dialettica tra epifanie e dubbi, tra luci e ombre, tra cadute e resurrezioni, così come per fortuna si conviene. Qui “eros” va inteso in senso ampio, ovviamente. Non solo cioè come valore primario, come interazione e libido tra corpi e menti (“simposio”, dice Servetti), ma anche come impulso vitalistico connaturato, modo di sentirsi qui e ora presente, fosse anche come uomo solitario davanti a un orizzonte.   Questo porta Servetti a poetizzare una certa varietà di esperienze, anche frammentarie o fugaci o immanenti, dando loro un notevole smalto o colore. Diciamo che se l’occasione non basta, se non giocata sul suono e sullo stupore (e non dico certo che sia un male), con un pò di piglio attoriale. Il risultato, a dover sintetizzare, è un lirismo fantastico, popolato di creature linguistiche rare o culte o forse inventate, vai a sapere, sempre interessante e anche divertente. I cui prodotti migliori, al di là del gusto personale con cui ho scelto i testi qui presenti (ma avrebbero potuto essere di più), sono quelli che secondo me realizzano un equilibrio tra spinte diverse, diciamo tra febbre della parola   e riconoscimento del fatto che quella stessa parola e la poesia che esprime   hanno un côté “sentimentale” e affettivo insopprimibile a cui a volte fa bene lasciarsi andare, ma senza tuttavia rinunciare alla voglia di sperimentare, costante in tutta la raccolta.

Nota di lettura a Rossella Tempesta

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ImmagineUna mia nota di lettura a un’intensa poesia di Rossella Tempesta. Un’occasione per riflettere su vita e morte, realtà e finzione, verità e menzogna.IM

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Rossella Tempesta

Giorno dei morti

I morti non sono mai morti

mentre le guerre, la fame, le sofferenze

sono i frutti, il raccolto, di una grave dimenticanza

una non ricordanza

l’assenza di specchi

la loro presenza velata

ai cari occhi degli uomini

di perduti, frenetici e inani

combattenti contro i mulini

ciechi, sordi, dimentichi.

Dimenticanti, si sono

dimenticati.

Non trovano la strada e le voci

in ogni casa che ogni strada abita:

il tugurio, il castello, il tumulo di terra

e l’ossario sono un’unica storia

la pulce del cane, il cane, il padrone

un’unica cosa, la gradazione

di ogni colore, l’odore che è la storia

infinita, mai iniziata, è.

La greve oscura dimenticanza

festeggia il giorno dei morti viventi

e accendono lumi al silenzio

pure  alcuni assassini.

 

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                                               Nota di Ivano Mugnaini a

                                               Giorno dei Morti

 

Ci obbliga a chiederci se siamo vivi, la poesia di Rossella Tempesta. Se siamo viventi, non sopravviventi. Ci invita a individuare il discrimine, il crinale da cui è possibile separare e distinguere le terre e i deserti, i raccolti fecondi e quelli che generano la gramigna e le stoppie dell’odio e della violenza. Al di sopra di tutto, come una pianta infestante, il più vasto dei mali: l’indifferenza, quella “non ricordanza” che è atto di supremo rifiuto dell’altro, annientamento preventivo, assassinio silenzioso.

L’esordio della poesia è perentorio, deliberatamente spiazzante: “I morti non sono mai morti”. La negazione dell’evidenza, l’apparente paradosso, possentemente iperbolico, ci trasporta in una dimensione che si colloca tra la realtà e la riflessione, tra l’osservazione dei dati di fatto e la sollecitazione ad andare oltre, leggendo tra le righe, muovendoci con passo rapido tra il detto e il non detto, l’inespresso che grida, accendendo “lumi al silenzio”.

La forza dell’invettiva deriva proprio dal tono che l’autrice ha scelto: non c’è mai un richiamo diretto, un’esortazione immediata. C’è, in questa poesia, un pungolo alla presa di coscienza, un richiamo a riconoscere, riconoscendosi, “la strada e le voci”, individuando le radici condivise, i luoghi, le parole, quella “casa che ogni strada abita”.

Questo tessuto connettivo è abilmente e adeguatamente rispecchiato a livello sintattico dall’utilizzo frequente di frasi in cui i vocaboli si legano l’uno all’altro, per analogia e per contrasto, attraverso parallelismi e chiasmi. Il tutto ulteriormente intrecciato da assonanze, consonanze e rime interne: “una grave dimenticanza/ una non ricordanza/ l’assenza di specchi/ la loro presenza velata”. Ed è quasi uno specchio in più, un vetro su cui si è obbligati a riflettersi, questa alternanza tra termini posti in relazione e in opposizione. Come se le assenze e le presenze linguistiche facessero da sfondo e da eco alle scelte essenziali, le affinità e l’indifferenza, la solidarietà e l’egoismo.

L’impegno sociale è uno dei temi ricorrenti nella poesia di Rossella Tempesta, sia in questo testo specifico, che, a livello più ampio, in tutta la sua produzione. Ma l’autrice non dimentica mai il compito e la natura primaria della poesia: il lavoro attento sulla parola e con la parola, la ricerca del ritmo, dell’armonia e di quel senso ulteriore che rende il dettato e la vis comunicativa implicita, allusiva, ma, nonostante questo, anzi, in virtù di questo, urgente e coinvolgente.

Da questa poesia dalla trama sintattica e dall’intreccio severo ma quasi sinfonico delle sillabe, emerge in modo ineluttabile una domanda, un interrogativo, anzi due questioni interrelate: chi siano i “morti viventi” festeggiati dal loro idolo, la “greve oscura dimenticanza”, e, se noi, noi lettori, quelli che Baudelaire avrebbe definito “ipocriti, simili e fratelli”, possiamo escluderci a cuor leggero dal novero di tale mirabile schiera. Non resta che il coraggio di guardare il “tumulo di terra” e “l’ossario”, il presente e il passato, il qui e l’altrove, l’io e l’altro, e capire, com-prendere davvero, che “sono un’unica storia”, quella storia infinita, “mai iniziata”, e, di conseguenza, ancora da scrivere, tramite una parola che è anche gesto, atto concreto, azione della mente e del cuore.

Immagine

TESTUALE 52

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TESTUALE
critica della poesia contemporanea
rivista di saggistica fondata nel 1983 da
Giuliano Gramigna Gilberto Finzi Gio Ferri

è uscito il numero
52 / 2013

puoi visitarlo, leggerlo, scaricarlo, stamparlo
al sito

http://www.testualecritica.it

saggi di
Sergio Noia Noseda, Adam Vaccaro, Rosa Pierno
Enzo Minarelli, Paolo Badini, Giuseppe Ferrara, Gio Ferri,
Miguel Muñoz (errata corrige su n.51)

analisi sui testi e le performances di
55° Biennale Arte Venezia, Antonio Porta, Giulia Niccolai, Roland Barthes,
Roberto Capuzzo, Brunella Antomarini, Ida Travi, Monica Palma,
Roberto Dall’Olio, Matteo Bianchi, Stefano Iori, Piergiorgio Paterlini,
Paola Mastrocola, Marosia Castaldi, Antonio Spagnuolo, Giovanni Fontana
Francesco De Napoli, Roberto Pazzi, Italo Calvino

chi desidera ricevere una o più copie cartacee
potrà rivolgeri alla redazione
testualecritica@gmail.com
inviando l’importo di Euro 10,00 per ciascuna copia

Nota a DISUNITA OMBRA

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Disunita ombra - coverNOTA DI LETTURA DI VALERIA SEROFILLI  AL VOLUME DISUNITA OMBRA

Il volume Disunita ombra, recentemente pubblicato da Luigi Fontanella per Archinto Editore nella Collana Zibaldone diretta da Umberto Piersanti con prefazione Sebastiano Aglieco, comprende testi composti dal 2007 al 2012.
Articolato in sei sezioni, Disunita Ombra si pone ad espressione matura e virile di un io lirico itinerante, che si ripete “sempre altro e se stesso”, scisso ma omogeneo. Ampio e consapevole è il suo sguardo di attento osservatore, che dell’Italia ha il cuore e la luce dell’interiorità, il respiro e i colori dell’Europa,
mentre dell’America i sapori e le esperienze. Nello specifico tra le pagine si delinea il volto di una New York <> (dalla prefazione di Sebastiano Aglieco).
Meditazioni attente, quasi pittoriche, queste di Fontanella, trasfuse in poesia, capaci di cogliere il guizzo delle realtà, facendo rivivere l’indefinibile connubio tra interiorità ed esperienze esteriori, ombra e luce, lo yin e lo yang, conscio e inconscio. Non a caso il libro è arricchito da numerose citazioni ad esergo delle varie sezioni in cui è suddiviso. Tra i vari autori spicca Fernando Pessoa, che ha riflettuto adeguatamente e approfonditamente sulla scissione tra realtà e immaginazione, individualità e frammentazione dell’io.
Un volume, questo di Luigi Fontanella, che si impone all’attenzione della critica sia per la forma che per i contenuti, gli spunti, le immagini, il puntiglioso ed efficace gioco di metafore, le suggestive soluzioni fonoprosodiche. Valga, come esempio su tutti, il testo “Atlanta-Houston” del marzo 2007, componimento incipitario, particolarmente ricco di allitterazioni, assonanze e consonanze.
Mi grandinano addosso
scrosci di risa
e sghembi vocalizzi
ghirigori
o frammenti residui… io
asserragliato nell’ovattato ronzìo
sospeso nello spazio
nel soffice brusìo (…)
(da “Atlanta – Houston”, in aereo, marzo 2007)
Non una fuga dal tempo, non nostalgia, bensí memoria dei numerosi luoghi visitati e vissuti, che allarga lo spazio della vita in quanto, per dirla con Marziale <<poter gioire della vita passata è vivere una doppia vita¹.
A mio avviso il messaggio del poieo di Fontanella è che l’uomo di oggi, “scisso e sofferente” (Paolo Lagazzi, autore della nota in quarta di copertina), possa trovare, nel potere immaginifico e nel valore salvifico della poesia, tutta la forza per contrastare la triste attuale realtà di linguaggio – manipolazione, in una sorta di cortocircuito tra realtà esterna e interna, creando un’anima, un’appartenenza, una realtà altra, un’ombra, un doppio, un altro da sé ma che sia <> perché l’ombra, seconda natura del suo essere, di cui ci parla Fontanella, è disunita ma non assente, scongiurando così la perdita dell’Anima ², la non vita. Ribadendo ancora una volta, se mai ve ne fosse bisogno, il valore della vita nella poesia e per la poesia.

Valeria Serofilli

1. Marziale, Epigrammi, X, 23, 7-8.
2. La mancanza di ombra per molti popoli primitivi è considerata una grave perdita
dell’anima. Si veda al riguardo: J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei sinonimi. Bur,
Rizzoli, 1989.

LA MUSA DI BLANCHOT

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silvia denti SALVATORE FITTIPALDI COPERTINASilvia Denti mi segnala questo libro e questo autore. Lo ha pubblicato e ha scritto per lui una prefazione appassionata, intensa, sincera. Faccio volentieri da cassa di risonanza proponendo qui la prefazione e alcune liriche, alcune immagini in forma di parola di questa Musa di Blanchot che ha ispirato con fervida malia sia l’autore che l’editrice.
Buon Agosto, IM

SALVATORE FITTIPALDI

LA MUSA DI BLANCHOT

(IL VIAGGIO)

edizioni divinafollia

Dedicato ad Antonella Ruzzon

“Un viaggio in cui non è possibile inoltrarsi, immergersi in quella dimensione che protegge, non percepibile e che non rivela nessuna protezione, alcuna sicurezza che il viaggio abbia una destinazione, un muoversi a un passo più in là di quello che non si può afferrare, un movimento perenne dall’aspetto sacro di approssimazione all’irraggiungibile, all’irreale: un viaggio di anime in viaggio verso il punto avanzato del percorso voluto e desiderato dai viaggiatori”.

(L’Autore)

PREFAZIONE

Obliqua magia della luce.

È stata la definizione più immediata – obliqua ma- gia della luce- a darmi l’input per stendere la pre- fazione a questo primo Autore della neonata colla- na Micron.

Salvatore Fittipaldi, conosciuto per caso, letto an- cora più occasionalmente, all’inizio:

“ … ma tu guarda quest’uomo che proposta origi- nale, che verve e che stile visibile nell’invisibile, immenso nel piccolo scrigno chiuso dell’anima ….

guarda che dignità nell’espressione, che certezza di nervo ….”. Eh, sì, a quel punto divenni un’assi- dua seguace di questa penna e mai e poi mai avrei smesso di leggere – quotidianamente – le novità postate sul suo blog, tramutate in poesie, sì, quel- le di Salvo (come mi è venuto, da subito, sponta- neo, chiamarlo). Poi lo scambio immediato, la discussione costruttiva, l’affetto naturale.

Micron nasce per dare forma al mio sogno: quello di pubblicare, a mia firma, come editore, gente che meriterebbe l’Olimpo, che magari non ha avuto la fortuna di essere contattata dai grossi nomi dell’editoria, oppure incompresa, schiva, nascosta. Gente che invia a chi legge una obliqua magia di luce, quella luce che deve rimanere accesa e non esaurirsi nel trascorrere del tempo. Come la ma- gia, o il flash della luce, anche Micron è immedia- ta, breve, non perché la si debba decurtare per scelta di risparmio cartaceo, no. Micron ha tantissimo dentro ma è concentrato, la poesia (ma po- trebbe anche essere prosa) raccolta in pochi caratteri stampati perché il nervo non necessita di lun- gaggini, anzi, colpisce e fugge, fruscio che dilegua l’ombra subito dopo l’abbraccio pieno. E Salvatore Fittipaldi è certamente uno scrittore di nervo. Uno che non cede ai rigori delle regole, ai preconcetti, alla rigidità di schemi o canoni che puntualmente ritroviamo nei libri, nelle sillogi, nelle grandi opere della storia. Già tale concezione della scrittura viene evidenziata negli inquieti, e sicuramente anche il Nostro ne fa parte, ma qui, forse, si enfatizza laddove il dubbio sulla sintassi non esiste più, qui si parla di interpretazione, di analisi del contenuto e stilistica, che si contraddistingue e mai avrà uguali. Ma cos’avrà di tanto nuovo questo genere di far poesia? Mi nascerebbe dalla gola un solo gri- do, leggetelo, io ho già espresso tutto nel titolo, ma forse qualche breve spiegazione è doverosa. Credo sia la prima volta in cui mi trovo di fronte a un testo e ne ho soggezione: non so se riuscirò a dire, descrivere, quanto un pezzo di Fittipaldi possa smuovere a livello emotivo, di appagamento, a una come me che legge un sacco, e ormai quel sacco stupisce, incanta e coinvolge molto poco. Eppure, tra le “cose” scritte, infinite, del periodo in cui sono nata e vivo, “cose” che non posso definire diversamente, tra para-editori, para-scrittori, quel sembrare che non è e mai sarà …. ho tirato fuori voci meravigliose, davvero nuove, con corde taglienti e vibranti capaci di suscitare fremiti persino ai cadaveri di qualche grande ormai sepolto nella storia. Qualcuno. Appunto. Pochi. Magari bruciati in libercoli che sono rimasti lì a fare polvere. Ma perché? Perché gli addetti ai lavori, quelli (teoricamente) veri, hanno altre faccende di cui occuparsi, ci sono i titoli dozzinali da lanciare nella grande distribuzione, non c’è posto per la nicchia, per i numeri bassi, le minime copie. No. È un no che dico io, pur non essendo nessuno, soltanto un’appassionata di scrittura e di critica letteraria, di ricerca, una come tante che ha voluto realizzare un sogno piccolo dentro a un altro sogno grande. Così, con il modesto contributo che mi è possibile dare, pubblico una persona speciale, convinta che succederà quello che è giusto che accada: questo libro verrà visto da occhi non solo esperti ma an- che potenti, e sarà portato nel mondo, come merita. Fittipaldi è stato capace di assemblare un lin- guaggio che supporta davvero il suo pensiero, lo traduce in fonemi, grafemi, ne evidenzia la musi- calità insita, persino la mimica, il nervo, appunto, che è semplicemente l’anima. Giovane, svelta, immediata, viva, pulsante e irrorata di capillari ed arterie, sangue puro. E dite niente? Tutto questo è Salvatore, tutto questo è la sublimazione dell’In- quietantismo, ciò che è parso, per certuni, forse, la degenerazione (in senso positivo) dell’ansia, del- l’arte del nostro secolo, non certo la sussunta chiacchiera sociale secondo la quale l’artista è un pazzo o un deviato. Pensiamo a Baudelaire. Basti poi capire chi va ad ispirare Fittipaldi, da Joyce a Vico, Tolstoj. Nel mio seguirlo, e fu anche un det- taglio che mi colpì, notai che questo Autore aveva creato un circolo dedicato ad Edoardo Sanguineti. Grande. Ho sempre amato Sanguineti. Avrei volu- to conoscerlo, stringergli la mano, ma l’occasione non venne. E come dimenticare gli haiku di un poeta così singolare? Le Sessanta lune: i petali di un haiku nella tua bocca. Mi è venuta così come la ricordo, coi due punti, perché anche Fittipaldi ne fa un uso esagerato, come a precisare che il suo meraviglioso delirio non smette. Mai. Surreale come Maurice Blanchot, con ossimori, pensieri mi- stici, frammentari, separati, spesso dalla doppia interpunzione, appunto, il delirio nervoso ed esi- stenziale, il viaggio in cui non è possibile inoltrarsi. In Fittipaldi io ritrovo tracce di Bataille (come di- menticare la Storia dell’occhio?), la patologia crea- tiva di De Sade, la grandiosa filosofia di Rilke e di Nietsche. La malattia dell’esistenzialismo, comun- que, è cronica, insita in ogni vero scrittore, soprat- tutto poeta, che non manca neppure in Sanguineti. Così il Nostro è ispirato da tanto scenario, che sia benedetto, veramente, per darci modo di tuf- farci in classici che, riletti con cognizione moderna, posso darci ancora e ancora di più. Dice di lui il fi- glio maggiore di Edoardo Sanguineti: <<Facendo il verso al verso di mio padre/ quasi poscritto a tan- ta post-scrittura / post-novissimamente scrive e scrive/ Fittipaldi il cui stile è questo stile/ lo stile dico di non aver stile/ mosso da gentilissima richiesta /con un doppio così di doppio padre /per Salvatore pone Federico/incisa sulla carta questa epigrafe. (Federico Sanguineti). E Salvatore rispon- de, (da 19° di Stracciafoglio): <>.

Ecco, non aggiungo altro, vi presento La musa di Blanchot (Il viaggio), con l’obliqua magia d’una luce nervosa.

SILVIA DENTI
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LE POESIE

LA MUSA DI BLANCHOT

ci sono, in carne e ossa: in prefazione e in appendice: non solo per esigenza personale, di leggerti

e di scriverti, di vederti e di sentirti: sono al capitolo su

“La solitudine essenziale”, quella del mondo, ormai m’è andata

a noia: ci corre incontro: ci appare a luce densa, illumina l’assenza:

è sempre lei:

lusinga, ci fa apparire insieme, ci fa negare

di essere lontani: non ha forma, non è reale: ci mescola al giorno e il giorno ci rimane nella mano:

se proprio non ce la faccio, raccolgo un girasole e te lo lancio, oppure dipingo una luna e te la lascio,

dentro la tua notte:

ho saltato il capitolo su “La morte necessaria”: sono già morto:

vivo e vegeto nella “Terza terra” col profumo dei petali dei fiori:

BOLLETTINO DEI VIAGGIATORI

da un vicolo cieco, da un circolo vizioso andare verso Howth Castle

e dintorni: dal silenzio senza voce passa la strada che arriva alla contrada

attraverso il parco delle arance, il pantano dei rospi, il prato della ruggine:

ha pagato il pedaggio il vento con un passo avanti e uno indietro: adesso gira in tondo, attorno ai tronchi,

nella fatalità del cerchio:

si va, non si va: si torna, non c’è ritorno: non si può tornare:

tirano su le maniche:

l’illusione della speranza fa il viaggio ricco di cadute, di dubbi dove camminare:

“Qual’ è la strada”, ha chiesto Streben:

“Non esiste di tracciata, bisogna avventurarsi verso l’inaccessibile”,

gli ha risposto Genus:

dove si trascinano sono oscuri corridoi, ma il viaggio lo vogliono ricco

di gradini , di posti dove regna tristezza e solitudine, di boschi fitti fitti

per arrivare dove è difficile dirigere la slitta al morbido cielo di Tolstoj:

*Riferimenti:

-Brechunov e Nikita: Tolstoj -Vicus commodus: G.B. Vico

-Howt Castle: Incipit di Finnegans Wake: Joyce -Streben, Genus: Faust Goethe

Traduzione:

de une impasse, d’un cercle vicieux aller à Howth Castle

et ses environs: par le silence muet passe le chemin de l’arrondissement

dans le parc d’oranges, les crapauds des marais, la rouille verte:

a payé le péage, le vent avec un pas en avant et un pas en arrière: désormais tourne en rond, autour des troncs,

dan le sort du cercle:

y aller, ne pas y aller, il est retour, il n’y a pas retour: on ne peut pas revenir en arrière:

retroussent leurs manches: l’illusion de l’espoir rend le voyage plein de chutes, de doutes où marcher:

“Quel est le chemin» at-il demandé Streben:

“Il n’y a de tracé , vous devez vous aventurer dans l’inaccessible”

il répondit Genus:

où ils se glissent sont des couloirs sombres, mais le voyage qu’ils veulent c’est riche

des marches, des endroits où il y a la tristesse , la solitude, d’épaisses forêts denses

pour arriver là où il est difficile de diriger le traîneau au doux ciel de Tolstoï:

AVVISO AI VIAGGIATORI

svègliati serena, anima mia: inizia bene l’anno:

ce la faremo a vivere: il viaggio deve continuare -AVVISO AI VIAGGIATORI:

“Evitare luoghi dove la sosta è la seduzione dei miraggi”-: sopravvivremo,

vedrai: la dialettica dei passi non subirà arresto per debolezze o dolore:

avremo, anche, pure, certamente, paura: tanta

paura: e poi, ancora, paura

di avere paura, già all’inizio, da subito, dall’istante in cui la paura non sa

evitare l’ombra che sempre la segue e la precede: avremo una paura tale

che le parole tremeranno prima di parlare:

serena, anima mia: quella che ti fa bella a te, è la paura:

CASE E DIMORE

oltre la casa, quella con le finestre e i muri abbiamo altre abitazioni: esclusive, nascoste, riservate:

luoghi senza nome, senza stanze, soffitti, pavimenti:

solo la tentazione che attira e che trattiene: posti segreti dove dimorano il linguaggio del pensiero,

il fittizio che si consegna alla finzione, il silenzio senza riduzione, irriducibile, sottratto alla riduzione:

il posto dove entra l’esigenza chiara della luce

filtrata dalle crepe, oltre l’immensità del mare: abbiamo dimore nascoste, come tane, dove respira

l’anima dell’animale, dove il soggiorno trova un altro senso,

un sapore diverso che volevi e che cercavi: abbiamo posti tenuti nascosti: se li mostri, se li riveli, essente assente, te ne ritrovi fuori: abbiamo abitazioni senza mobilio, sedie, lampadari

che sono riserva di sopravvivenza, forma del vuoto:

FIORE IN ITINERE

solo una goccia d’acqua:

non ha altro, per la sete intima dei petali: pallidi, impalliditi di dolore,

per le stimmate dei pistilli e degli stami:

se la salvezza potesse avere inizio,essere veramente guadagnata: se riuscisse il compagno di viaggio,

iniziandosi a soffrire il corpo, a svelare la certezza nascosta

nell’orrore, a risvegliare la meraviglia dopo la distruzione,

a mettere la freschezza nei fantasmi che avvolgono le

cose:

se riuscisse ad accedere al buco, a lui precluso, del destino,

forse il viaggio si eleverebbe a più alta misura, il lavoro del giorno

diventerebbe davvero creatore:

se a quest’ora del viaggio manca la certezza del presente,

il passato guarda all’estremità dell’avvenire: se appare che è il solito scenario che si muove, forse

è la strada giusta: dicono che è la strada del dolore che scatena la storia:

IL GIORNO E LA NOTTE

che lungo giorno, amica luna, il giorno piegato dentro le sue stesse pieghe nelle sue stanche costole piagate

nei gesti e negli incastri dei minuti:

credevo di conoscere i tuoi occhi, di avere fra le mani i tuoi crateri: tu lumencristi e perigeo e lumiera,

tu notte di luna piena in piena notte:

tu lunario segreto e dies lunae tu remo e noema e fuso orario: capovolto ti aspetto fino a notte:

che lunga notte, amica luna, la notte piegata dentro le sue stesse pieghe: capovolto ti aspetto fino a giorno:

IL PESO DEL VIATICO

ne sera plus comme avant: il viatico pesa e

la notte illumina la strada, la mantiene oscura nel chiarore che l’oscurità rende visibile al buio chiaro della luna, all’oscurità della partenza da dove

inizia la distanza, l’allontanamento della vicinanza:

ne sera plus comme avant se è possibile vedere cosa si vede, come prende forma il cosa si vede

quando la lontananza si avvicina:

non c’è riparo sotto la maestà della distanza per l’inquietudine, per l’indecente evidenza del corpo:

guardamelo nudo, libero dal rimpianto miserabile di essere scampato all’istante del fulmine

prima della pioggia:

I Quaderni dell’Ussero

Postato il Aggiornato il

SEROFILLIPer i tipi di Collezione Letteraria, collegata a puntoacapo Editrice, Valeria Serofilli ha curato una serie di Quaderni dedicati alle autrici e agli autori ospitati allo storico Caffè dell’Ussero di Pisa nell’ambito di una serie di incontri promossi e organizzati dall’Associazione Astrolabio da lei diretta.
Propongo qui di seguito alcuni brani del Quaderno che la Serofilli ha dedicato ai libri di cui è autrice. Ho ricevuto dalla Serofilli per il blog Dedalus assieme ad alcuni stralci del Quaderno a lei dedicato anche alcune note critiche. Pubblico alcuni testi tratti dalla raccolta “Dai tempi” con la nota critica di Marco Righetti.

Rinnovo a tutte e a tutti voi il mio auguro per un’ottima estate. IM

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Allo scopo di ridare vita all’antica tradizione dei cenacoli letterari, mi pregio di promuovere e organizzare ormai da diversi anni il Ciclo di Incontri e dibattiti nelle due sedi diverse ma complementari del Caffè Storico Letterario dell’Ussero di Pisa e il Relais dell’Ussero di Villa di Corliano, dimora storica del XV secolo della famiglia Agostini Venerosi Della Seta. I Quaderni dell’ Ussero intendono dunque costituire un progetto editoriale il cui fine è dare risalto agli autori ospitati di volta in volta nell’ambito del Calendario degli omonimi Incontri Letterari, legando insieme contributi diversi ma non per questo disparati , attenendosi alla formula dell’evento svoltosi al Caffè dell’Ussero o a Villa di Corliano. Il Quaderno propone infatti : la recensione critica al volume presentato; una scelta antologica del libro in oggetto e di altri testi editi e inediti dell’autore; un suo curricolo.
Grazie a nuove presentazioni di altri Autori di valore, la tradizione dell’Ussero sarà continuamente rinnovata, confermandosi come un punto di riferimento significativo per la cultura italiana.
Valeria Serofilli

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testi di Valeria Serofilli

DAI TEMPI – Raccolta inedita

Dai tempi
Già ti conosco / meglio, ti ho riconosciuto

Sei lo stesso / dei tempi della clava
che si ostina con la pietra focaia
che mi stringe / al riparo dagli orsi

Sei l’antico etrusco
che abbraccio sul sarcofago
il bizantino con me nel mosaico

Ti ho riconosciuto
Sei lo stesso / con me steso sul triclinio
mentre sorseggi assenzio e mi accarezzi

Sei il fontanone romano / che mi schizza
e io la vestale che
scherza con il getto

Sei lo stesso con cui danzo
il minuetto e mi difende
da chi tenta lo sgambetto

Lo stesso che adesso
mi accompagna in ascensore
mentre clicca su fb “mi piace” o “commenta”
e che su Marte mi sposerà all’istante
cercando un varco telematico al consenso

Lo stesso sei, che stringo a me
dai tempi / ad adesso.

Il Fornaio

Quando il Fornaio / impastò la mia pagnotta
vi mise sale / lievito, sesamo di giudizio / smalto rosso
di zenzero un pizzico
amore molto / vino bianco
e forse un po’ d’inchiostro

La unse quel tanto di sudore / giusto lavoro
la spezzettò in tasche di ricordo

Ne serbò briciole / per piazze di piccioni
e per piccole tese mani di ogni colore

Pezzi più grossi / cartilagine rigenerante
azione/ non azione
o per sgualcite merende sui banchi / ricreazione

Infornò il tutto, indicandone i tempi
di cottura / doratura

Lasciò detto che / quotidiana messe
pane vita fosse / per me
questa Poesia.

Lettera a mio padre
(A più sereni cieli)
Ora che più manchi/ più non manchi
e la tua memoria a quest’ora
s’intride di luce

Anche qui, tra la folla/ intossicata di vita
vocii richiami applausi
mi tieni compagnia
Più presente di quando/ al mattino
ti alzavi già stanco e soffermavi
la mente/ prima d’iniziare il giorno
Chissà com’è ora il tuo giorno
che non sia un’andata senza ritorno
un sonno privo di risveglio
Qui nell’aria una strana dolcezza
e non è certo tutto quel che resta
e mentre la calma acqua del Fiume continua a incorniciare Pisa
ho in me il tuo abbraccio/ astratto, ma non per questo meno caldo
Sei tu che più non soffri/ caro
o il ricordo di te/ a rifiorirmi dentro
senza addio?
Ora che ti so quieto/ adagiato sulla parte di me
che t’appartiene
ritorno bambina, fresca e fragile
a scrivere “padre mio, ti voglio bene”.

Ora che l’afa

Ora che l’afa
non cessa il suo morso lento/ ma vorace
ti porterei con me, a toglierti un po’ di smog
di quel catrame trasparente/ sedimento
della vita di sempre

Ti porterei alle Canarie
a ritrovare/ il volo
di quei freschi baci selvatici
Alle Sechelles, ad annegare i pensieri
di te /di me

Mentre qui/ solo l’eco delle foreste
oasi fittizie di un artificiale ferragosto

O non è forse/ il solo
restare qui/ abbracciati
mare monte lago
semplicemente noi
la nostra estate?
(Agosto 2012)

A me ti rapirà
Tra non molto/ a me
ti rapirà il sonno
e resterò a parlare col tuo fantasma
Sarà allora che potrò dirgli
tutto quel che taccio
prima del risveglio e di quel tuo “devo andare”.

Uomo nuovo
(Ab ovo)
Si rompa il guscio/ di pietra focaia e fionda
il cavernicolo di ripercussioni e invidia

Abbandonare, vorrei/ la crisalide di mattoni vecchi
e rinascere acqua di lago/senza spreco
fondamenta più solide, anche se di palafitta
e poter dire infine
”Evviva, è nato/ l’uomo senza il guscio!”.
SS.Pasqua 2013

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Note a lettura della plaquette “Dai tempi” di Valeria Serofilli
La poesia di Valeria Serofilli sgorga con il procedere di un tempo sempre uguale e diverso, è improvvisa agnizione che supera la memoria “Sei l’antico etrusco/che abbraccio sul sarcofago/il bizantino con me nel mosaico”, filiazione del proprio bisogno di nuovo consistenza, “Sei il fontanone romano / che mi schizza/e io la vestale che/scherza con il getto”, o ineludibile identità di un pensiero circolante, perché la matematica della poesia ha la proprietà di non far fuggire nulla “Lo stesso sei, che stringo a me//dai tempi / ad adesso” (Dai tempi).
E c’è la cortesia tutta naturale, sorgiva, di far lievitare il pane dei ricordi e volgerlo in elezione stringente: “Lasciò detto che / quotidiana messe// pane vita fosse / per me //questa Poesia” (Il fornaio), o il volo sperato verso un presente che tolga “un po’ di smog/ di quel catrame trasparente/ sedimento//della vita di sempre”. Parca, estroflessa la chiusa, il finire di un’attesa nella pacificazione di una resa che però ha identità impreviste : “O non è forse/ il solo// restare qui/ abbracciati// mare monte lago/ semplicemente noi/la nostra estate?” (Ora che l’afa).
Le occasioni per adottare lo sguardo altro, ‘il senso del verso’, sono le più comuni, “La sveglia”, con la sua crudele sottrazione di un tempo altrimenti disincarnato, il “Compleanno” col suo ‘discorso farfait’, il candore elegiaco per l’eternità di una cometa (“Halley”) e il gioco finale di un abbraccio da regalare alla Cometa’. Può avvenire di tutto, scrivendo poesia, anche il dilatarsi di un batter di ciglia, lo smarrimento dei collanti umani della fretta, l’essere appesi a un filo che non ha altro significato che la perdita della gravità, la leggerezza di un tempo diverso.
Percorsa la parabola, il canto si volta in senso di ineludibile distanza – come nella sognante “Aprilia Lunarossa (a una figlia probabile)” – in consapevolezza di impossibile ‘scambio di sopravvivenze’, in speranza che la poesia, in ultima analisi, non deluda, non derida. E la finestra del disinganno si allarga ancora in “Resoconto”, articolata riflessione che brancola il buio e porta la poeta a ‘tracimare coi suoi fantasmi’ indagando sul rapporto con la vita, su ‘quello che è stato o quel ch’essere poteva’ , sulla nebbia che versa “Strasogno/tra annichilimento e resoconto”. Qui l’incessante musicalità del verseggiare, le rime le paronomasie le assonanze i richiami interni concorrono ad un vero e proprio ‘crescere’ dei versi oltre il loro stesso valore semantico. Qui la poesia si dispiega, il verso si allunga e interroga se stesso come il miglior humus per veicolare il seguito di questo dialogo con il sé nascosto: una poesia, con Heidegger, come casa dell’essere.
In “Lettera a mio padre (A più sereni cieli)”, toccante omaggio al padre scomparso, le domande entrano sul foglio e ne vengono cancellate subito dopo, come se l’unico approdo consentito fosse la rinuncia a una risposta, l’accontentarsi di aver un attimo varcato l’aldilà e acceso umane luci, senza poter sapere se serviranno a illuminarlo. Allora il viaggio di questa tenera pietà filiale ritorna all’origine dialetticamente arricchito: “Ora che ti so quieto/ adagiato sulla parte di me// che t’appartiene// ritorno bambina, fresca e fragile //a scrivere “padre mio, ti voglio bene”.

Marco Righetti

Testuale n. 51

Postato il

TESTUALE
critica della poesia contemporanea

rivista di letteratura e arti fondata nel 1983 da
Gio Ferri Gilberto Finzi Giuliano Gramigna

È uscito in rete il
n.51 / 2013

con saggi e letture di e per
Giancarlo Buzzi Arturo Schwarz Rosa Pierno
Franco Campegiani Ugo Fracassa Fausta Squatriti
Miguel Muñoz Gio Ferri
Gilberto Finzi Annamaria De Pietro Alberto Mari
Laura Pierdicchi Michelangelo Coviello
Guido Oldani Adriano Accattino Giovanni Infelise

(articoli e saggi sono integralmente e gratuitamente scaricabili
e possono essere anche singolarmente stampati)

http://www.testualecritica.it