Dante

A TU PER TU – Lucia Gaddo Zanovello

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“Ha avuto un’impennata o è una buona penna, ha la penna facile, o della nomea del corvo, di quella del tordo, del merlo, del pappagallo, del pavone.
Ma in fondo la verità è che siamo tutti creature, se pure di diversa specie, da penna, da pelo o da pelle. Secondo me ogni creatura è in qualche modo persona, perché ciascun individuo manifesta un suo proprio carattere originario, mite e benigno o scontroso e perfino dispettoso; chiunque abbia percorso parte della sua vita in compagnia di un cane, di un gatto, ma anche con un uccellino, sa bene di cosa parlo. Delle persone che non amano gli altri esseri viventi diffido, esattamente come diffido delle persone che non amano e non rispettano le persone”.
Molto originale, schietta, diretta e nitidamente simbolica, è questa dichiarazione di Lucia Gaddo Zanovello.
È una specie di autoritratto fatto con uno specchio, con il vetro fragile e prezioso delle esistenze altrui, nello specifico con la vita degli animali.
“Secondo me ogni creatura è in qualche modo persona”, osserva. Non è una frase ad effetto, un mero orpello estetizzante. Il contesto e il modo con cui è scritta ne confermano l’autenticità. A qualcuno potrà sembrare fuori luogo, esagerata, eccessiva. Ma è proprio questo il bello: è un modo per generare un nitido posizionamento, una sorta di documento di identità che manifesti l’essenza reale, inequivocabile, di ciascuno.
Nella zona di confine che separa e unisce ipotesi e verità, si colloca il libro che l’autrice presenta nell’ambito di questa intervista, dedicato alla figura di Attilio Mlatsch. Scrive Lucia Gaddo: “Ho dovuto studiare e ristudiare i contesti storici delle notizie che avevo e degli eventi attraversati e in ultima analisi, ritrovando infine la figura di questo mio nonno”. Il valore aggiunto che si affianca all’attenta opera di ricostruzione è la conquista di una consapevolezza che deriva dalla conoscenza unita all’affetto, dalla “cognizione del dolore” e dalla vera condivisione. In questo contesto, il dialogo supera le barriere della Storia, del tempo e dello spazio.
“Devo riconoscere di avere fatto maggior luce in me stessa”, ci rivela l’autrice. Questa frase in apparenza lineare racchiude vasti orizzonti di senso, il valore della ricerca della verità e quell’istante di visione ulteriore in cui l’oggettività dei fatti viene sublimata dalla partecipazione emotiva. L’attimo in cui si smette di guardare e si inizia a vedere, ossia a percepire non solo con i sensi ma con qualcosa di indefinito, misterioso e salvifico che rappresenta il nucleo della verità e della natura umana in se stessa.
“L’analogia delle vicissitudini storiche forgia in qualche modo le personalità, restituendo alcune similitudini empatiche”, annota Lucia Gaddo Zanovello. Questa considerazione si adatta bene al suo romanzo, alla ricerca di una figura familiare che il tempo e la violenza non hanno cancellato dalla memoria. Si adatta tuttavia anche al contesto più ampio di quell’insieme di “persone” (includendo nella definizione tutti gli esseri viventi) che indagano con partecipazione e affetto sul senso del loro passaggio su questo esile e mirabile pianeta sospeso nel mistero delle galassie.
IM

A TU PER TU

UNA RETE DI VOCI

La vicenda umana di Attilio Mlatsch

5 domande

a

Lucia Gaddo Zanovello

 

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Grazie mille a te per il gentile invito!

Sono contenta e ti sono grata di questa occasione di fermarmi un poco a riflettere sul mio più recente lavoro, sono opportunità che finiscono sempre per rimettere a fuoco un qualcosa di mai veramente compiuto.

Beh, per quanto riguarda il mio autoritratto, esso si fonda necessariamente sul mio vissuto in campagna per molta parte della primissima infanzia. In quel luogo ho sperimentato la solitudine più assoluta, essendo l’unica piccola in mezzo a tanti adulti, tutti costantemente indaffarati in diverse occupazioni, avevano difficoltà a trascorrere del tempo con una bambina.

Spesso in lacrime osservavo intorno a me e, incantandomi, smettevo di piangere. Devo riconoscere che la natura mi è stata Madre nel senso più vero del termine.

Sono cresciuta forse in un quadro di povertà affettiva, ma mescolando tuttavia a fragilità e sfiducia, caparbietà e tenacia, innamorata della terra, delle piante e degli animali. Osservavo l’attività dei topolini nel granaio, stupivo all’uscita dei pulcini dall’uovo, ma se dovessi specchiarmi in un autoritratto, vedrei un uccellino, forse un pettirosso.

Il volo, il nido, la muta (tutto ciò che si trasforma mi attrae, forse frutto anche questo delle mie osservazioni infantili pure sulle rane e sul baco da seta), il mondo dell’aria mi ispira da sempre, perché vedere le cose dall’alto aiuta a ridimensionarle, a farle rientrare nella loro misura reale, invogliano a credere in Dio e anche se le cadute, l’essere predati e le gabbie misurano le sventure, rigenerazioni e rinascite permangono fidenti dietro l’angolo.

La varietà delle specie alate, dei loro linguaggi, del loro affaccendarsi intorno ai nidi, alle migrazioni, seguendo l’istinto, e senza lasciare tracce, la loro filosofia di vita insomma è gaia e promettente. Anche per questa specie, nella quale si va dall’aquila al colibrì, è un po’ come per i cani, per i quali si va dal molosso al chiwawa. Straordinario. Come sono unici la potenza del cigno, la leggerezza della rondine, la domesticità della gallina e la fedeltà dei piccioni.

Per non parlare delle espressioni idiomatiche legate ai pennuti, si dice spesso ha avuto un’impennata o è una buona penna, ha la penna facile, o della nomea del corvo, di quella del tordo, del merlo, del pappagallo, del pavone.

Ma in fondo la verità è che siamo tutti creature, se pure di diversa specie, da penna, da pelo o da pelle. Secondo me ogni creatura è in qualche modo persona, perché ciascun individuo manifesta un suo proprio carattere originario, mite e benigno o scontroso e perfino dispettoso; chiunque abbia percorso parte della sua vita in compagnia di un cane, di un gatto, ma anche con un uccellino, sa bene di cosa parlo.

Delle persone che non amano gli altri esseri viventi diffido, esattamente come diffido delle persone che non amano e non rispettano le persone.

 

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

 

La vicenda umana di Attilio Mlatsch. Una ricostruzione possibile fra ipotesi e verità, Nuova luce, 6, Macabor, 2018, è la mia ultima pubblicazione. Mi ero dedicata alla stesura di molti appunti su questo argomento nel corso di un paio di anni, a cominciare dal 2016, per fare luce su di una persona a me tanto vicina, ma fino ad allora troppo e troppo a lungo rimasta misteriosa, mio nonno materno. Adoperandomi per fare luce, ho dovuto studiare e ristudiare i contesti storici delle notizie che avevo e degli eventi attraversati e in ultima analisi, ritrovando infine la figura di questo mio nonno, devo riconoscere di avere fatto maggior luce in me stessa. Leggi il seguito di questo post »

A TU PER TU – Bruno Di Pietro

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“Sono napoletano, città in cui esercito la professione di avvocato, appassionato di poesia: non amo autodefinirmi poeta. Scrivo in versi e ho pubblicato più lavori. Di carattere normalmente sincero, dico sempre senza remore o timori reverenziali ciò che penso, ma sono anche incline all’ascolto pronto a cambiare idea se mi convinco della bontà della opinione altrui. Sono incline alla ironia, spesso esercitata come autoironia. Questo lo si trova anche nei miei versi. Non amo i Poteri (specie se detenuti senza alcun merito) né li temo. Non mi inchino davanti a niente e a nessuno”.
Un autoritratto schietto, sincero, che invita ad alcune considerazioni. La prima è quasi la conferma di una regola non scritta: spesso chi dichiara di non essere poeta in realtà lo è. Che poi sia vero non di rado anche il contrario è piuttosto probabile. Ai posteri l’ardua sentenza, anche se i contemporanei qualche idea se la sono già fatta. Tornando a Bruno Di Pietro emerge dunque dal suo caravaggesco ritratto che oltre ad essere poeta senza gridarlo in faccia al mondo, è persona autoironica e libera, anche in questo caso in modo concreto, mettendoci la faccia, non solo i proclami.
Il libro che presenta qui in questa sua intervista è Colpa del mare e altri poemetti. Ed è originale, felicemente fuori schema, quell’abbinare il mare alla colpa. Di solito il mare è esaltato, elogiato, incensato. Qui è associato a qualcosa che nessuno vorrebbe, ma potrebbe anche essere una forma di amore ulteriore, chissà. Se prima l’ardua sentenza era affidata ai posteri qui è riservata a chi vorrà leggere, scoprire, attraversare le onde e assaporare il sale dei versi. Di Pietro possiede una carnalità elegante, quasi una forma di spiritualità tattile. Un modo di esplorare perfino l’intangibile con i sensi. Non è un caso che anche il mezzo della scrittura, l’atto dello scrivere, diventi esperienza sensuale, in senso stretto prima ancora che metaforico: “Di personale posso dirti che Colpa del mare è la mia vita. Chi la conosce sa esattamente a cosa si fa riferimento in ogni singolo verso. Di intimo aggiungo che tutto è conservato nei miei quaderni di cui ho una cura maniacale. Amo scrivere a penna e matita. Su carta buona se non pregiata. E ho una bella serie di penne stilografiche e asticciuole e vecchi pennini. Inchiostrare è per me lussuria purissima”.
La curiosità del lettore è chiamata in causa, adeguatamente sedotta. Non resta che leggere, questa intervista e quel libro che parla di colpe e di onde sapide, come la poesia.
IM
 
A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI

nuovo colpa del mare

5 domande

a

Bruno Di Pietro

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Grazie a te, innanzitutto.

Un “autoritratto” chiesto a chi come me non sa fare nemmeno un selfie è una bella domanda. Un po’ mi imbarazza, un po’ per carattere direi tutti i difetti che ho trasformando la risposta in un “confiteor”. Ti dico che sono napoletano, città in cui esercito la professione di avvocato, appassionato di poesia: non amo autodefinirmi “poeta”. Scrivo in versi e ho pubblicato più lavori.

Di carattere normalmente sincero, dico sempre senza remore o timori reverenziali ciò che penso, ma sono anche incline all’ “ascolto” pronto a cambiare idea se mi convinco della bontà della opinione altrui. Sono incline alla ironia, spesso esercitata come “autoironia”. Questo lo si trova anche nei miei versi.

Non amo i Poteri (specie se detenuti senza alcun merito) né li temo. Non mi inchino davanti a niente e a nessuno.

In sintesi “non te la mando a dire”.  Questo vale per tutti. Non sono abituato, né mi piace , passare per la sagrestia : all’altare ci vado diritto.

 

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

 

Con Oèdipus Edizioni nel 2019 ho pubblicato “Baie”. Ma quello pubblicato con lo stesso editore nel 2018 (“Colpa del mare e altri poemetti”) è senz’altro il mio lavoro più importante. Molti lo hanno definito “raccolta” altri “antologia” ma tengo a dire che è un unico solo “libro” dalla prima all’ultima parola, segue un progetto ed ha un “senso” nella sua interezza. E copre il lavoro che va dal 1995 al 2012.

Si dà conto in esso della questione “aurorale” della filosofia occidentale: da un lato il pensiero di Parmenide (la “fissità” dell’Essere) dall’altro quello di Eraclito (il “divenire”, l’Esserci) detto in sintesi estrema e impropria. Non a caso l’esergo è un frammento di Eraclito, mentre il libro si apre con le “Dieci Eleatiche”. L’ “orgoglio della scienza” da un lato, “il “frutteto in rigoglio” dall’altra (come nel testo eponimo). Con una inclinazione verso l’affermazione che “L’Essere è l’Esistere” e che noi più che “Essere-gettati-nel-mondo” “Giaciamo-nel-mondo”.

E che fra “l’Inizio” e “la Fine” c’è un “nel frattempo” che è la nostra vita.

 

Questo apre alla “Storia” siccome “narrazione dell’esistere” che diviene l’oggetto principale della attenzione nei “poemetti” e infine in “Impero” (Oèdipus 2017) che è la sintesi finale del discorso.

Un discorso che trova poi in “Baie” e nei lavori in corso un suo ulteriore sviluppo anche in senso stilistico.

Chi di più ha lavorato criticamente su quanto ho detto è senz’altro Giuseppe Martella col suo ampio saggio “Polifonia dell’Esserci” (apparso su Nazione Indiana). Essenziale anche la prefazione di Marcello Carlino a “Impero” e notevole un lavoro ancora inedito –uscirà a febbraio 2021- di Giuseppe A. Liberti. Ma cito volentieri anche gli splendidi e ripetuti interventi di Daniele Ventre (sempre su Nazione Indiana) di Carlo Di Legge (su Atelier) di Rosa Pierno (su Trasversale) di Vincenzo Salerno (su Menabò) di Mimmo Grasso (su “Infiniti Mondi”). Ma anche tanti altri.

Di personale posso dirti che “Colpa del mare” è la mia vita. Chi la conosce sa esattamente a cosa si fa riferimento in ogni singolo verso.

Di intimo aggiungo che tutto è conservato nei miei quaderni di cui ho una cura maniacale. Amo scrivere a penna e matita. Su carta buona se non pregiata. E ho una bella serie di penne stilografiche e asticciuole e vecchi pennini. Inchiostrare è per me lussuria purissima.

 

 

3 ) Fai parte degli autori cosiddetti “puristi”, coloro che scrivono solo poesia o solo prosa, o ti dedichi a entrambe?

Scrivo solo in versi. Una volta che ho provato a scrivere in prosa sono stato dissuaso in modo molto convincente dai migliori critici che conosco: mia moglie e le mie ragazze.

 

4 ) Quale rapporto hai con gli altri autori? Prediligi un percorso “individuale” oppure gli scambi ti sono utili anche come stimolo per la tua attività artistica personale?

Hai dei punti di riferimento, sia tra i gli autori classici che tra quelli contemporanei?

 

Amo avere altri (autori e non) con cui scambiare opinioni su quello che gli propongo. Ne ho scelto un piccolo gruppetto in cui nessuno sa chi sono gli altri. Ma non mi sottraggo anche su ciò che è inedito al confronto pubblico e anzi apprezzo la critica serrata. O anche il semplice “non mi piace”. In fondo dei versi si può dire innanzitutto questo: “mi piace o non mi piace”.  Un testo poetico o arriva diritto al cuore o no. La comprensione è poi frutto di studio, ricerca, conoscenze sedimentate. Ma la prima cosa è che il testo colpisca, resti nel cuore, nelle orecchie, nella memoria (magari!).

Sui punti di riferimento: un mare!!! Per sintesi estrema. Tutta la poesia della Grecia e di Roma antica. Dante, Ariosto, Tasso, Leopardi. Nel ‘900 Ungaretti. E poi Gatto, Sinisgalli, Giudici, Caproni, Luzi, Sanesi. Quello che ho sul comodino è però Thomas S. Eliot. E per la contemporaneità qui mi fermo.

Ci sarebbero poi i punti di riferimento filosofici e il discorso diventerebbe lungo e complesso. Bastino Nietzsche e, per il secolo scorso, il riferimento a Benjamin , Bloch , Jankélévich, Nancy, Byung Chul Han. C’è un “filo rosso” facile da intuire per chi di filosofia si occupa.

 

 

5 ) L’epidemia di Covid19 ha modificato abitudini, comportamenti e interazioni a livello globale.

Quali effetti ha avuto sul tuo modo di vivere, di pensare e di creare?

Ha limitato la tua produzione artistica o ha generato nuove forme espressive?

 

Non ha avuto un bell’effetto. Amo l’aria aperta, i rapporti umani diretti in cui il corpo ha la sua importanza, quelli virtuali non mi piacciono (salvo il caso di forza maggiore, l’estrema lontananza). Starmene chiuso in casa e per di più con frequentazioni limitate mi deprime. Poi amo la mia città. Napoli è antidepressiva per definizione. Il sole, il mare, i vicoli, i panni stesi, artigiani di tutto, il pescivendolo che sembra preso direttamente dal presepe, il rito del caffè, il “verdummaro” e i colori, i Castelli, le Chiese e i chiostri, artisti di strada che suonano a ogni angolo di via gli strumenti più vari, dal mandolino al violino all’arpa, dal “triccabballac” al “putipù”, dalla tammorra al tamburello.  Ma di quali forme espressive nuove si può parlare di fronte alla privazione di tutto ciò? Quella è la “bellezza del mondo”. “La sua esperienza visibile” (come dice Roberto Sanesi in quella che è la sua ultima poesia edita tre mesi prima di lasciarci). Diciamo che ho lavorato di ricordi e di speranza.

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Bruno Di Pietro (1954) vive e lavora a Napoli esercitando la professione forense.
 Ha pubblicato le raccolte poetiche: “Colpa del mare” (Oédipus, Salerno-Milano 2002)“[SMS] e una quartina  scostumata” (d’If,Napoli 2002)“Futuri lillà”  (d’If, Napoli,2003)“Acque/dotti. Frammenti di Massimiano” (Bibliopolis,Napoli 2007) “Della stessa sostanza del figlio”  (Evaluna,Napoli 2008) “Il fiore del Danubio” (Evaluna,Napoli 2010)“Il merlo maschio” (I libri del merlo, Saviano 2011) “minuscole” (IL LABORATORIO/Le edizioni, Nola 2016) “Impero” (Oèdipus,Salerno-Milano, 2017) “Undici distici per undici ritratti” (Levania Rivista di Poesia n° 6/2017).”Colpa del mare e altri poemetti” (Oèdipus ,Salerno Milano 2018);  “Baie” (Oèdipus ,Salerno-Milano 2019)
È presente in diverse antologie fra cui: Mundus. Poesia per un’etica del rifiuto (Valtrend, Napoli 2008) Accenti (Soc. Dante Alighieri, Napoli 2010) Alter ego. Poeti al MANN (Arte’m, Napoli 2012). Errico Ruotolo, Opere (1961-2007) (Fondazione Morra, Napoli, 2012) Polesìa (Trivio 2018,  Oèdipus Edizioni)
Articoli e interventi sulle sue opere sono presenti in riviste e blog (Nazione Indiana, Infiniti Mondi, ClanDestino, Trasversale, Versante Ripido, Frequenze Poetiche, Atelier, Levania , Trivio , InVerso, Menabò, Poetarum Silva, Le Stanze di carta). E’ stato cofondatore con Gabriele Frasca e Mariano Baino della Casa Editrice “d’If” e socio della Casa Editrice “Cronopio”.

A TU PER TU – Cinzia Della Ciana

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Questa rubrica volutamente ricerca accostamenti, incontri e contaminazioni tra differenti espressioni, stili e contenuti.
Perfettamente adeguato in quest’ottica è anche il percorso di Cinzia Della Ciana. Come potrete ricavare sia dalle risposte all’intervista sia dal curriculum dell’autrice, la sua tendenza alla varietà espressiva, all’ibridazione, alla contaminazione tra differenti strumenti comunicativi ed artistici in lei è sia una scelta che un istinto naturale.
Uno dei vocaboli che compare con maggiore frequenza nell’intervista è “performance”. La poesia “performata” (il termine non suona bene, ma ciò a cui fa riferimento in qualche caso sì) non si pone come alternativa alla poesia tout court che, quando è autentica, non ha bisogno di aggiunte o modifiche.
Si tratta, nel caso di Cinzia Della Ciana, di un deliberato e accurato progetto che mira a mettere insieme le sue passioni: la poesia e la musica. Di modo che la poesia non solo venga accompagnata dalla musica ma diventi essa stessa spartito, accordi, sonorità “cantabili”.
Sarebbe bello in questo caso se la multimedialità venisse a sostenere l’espressione astratta del concetto. Per fortuna, lo ripeto anche in questo caso perché è necessario, la lettura delle risposte dell’autrice potrà fornire i dettagli e le sfumature necessarie e sufficienti per comprendere al meglio questo suo progetto artistico condotto ormai da tempo tramite i libri pubblicati e attraverso gli incontri, gli spettacoli e le presentazioni, con passione e con coerenza.
Buona lettura, IM

 

A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.
Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.
Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.
Saranno volta per volta le stesse domande.
Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.
IM

Grumi sciolti - copertina

 

5 domande 

a

Cinzia Della Ciana

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

 

Nacqui a Montepulciano e vagai per la Toscana della cui terra sono plasmata. Esercito la professione di avvocato da decenni e da qualche anno faccio “versi”, anche in prosa, per passione. Avrei voluto essere una pianista. In realtà la musica fa parte di me e adesso “suono colle parole”.

 

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

 

L’ultima mia fatica è una raccolta di racconti dal titolo “Grumi sciolti” uscita nell’aprile del 2019 per i tipi di Helicon Edizioni. Con Grumi torno al mio primo amore, cioè la forma breve – i racconti – con i quali avevo iniziato nel 2014 (Quadri di donne di quadri, Aracne). 

Se la guardi da lontano la vita – di un individuo o di una collettività – è come l’immagine che esce da un telescopio puntato sul cosmo.
La storia è un quadro in divenire, in cui qua e là si osservano “grumi”, cioè luoghi di addensamento”, “momenti di intenso ammasso”, in cui ogni componente fluida si perde e resta solo materia, materia che si coagula e si rapprende chiudendosi a giro. Ma poiché tutto è movimento, anche questo processo di avvitamento non si sottrae alla legge del divenire, e il grumo si evolve in una spirale che lo porta inevitabilmente a spandersi. Ovvero a sciogliersi, a nebulizzarsi lasciando a galleggiare in sospensione grani. Grani che a loro volta sono nuclei di potenziali nuovi grumi. Avendo negli occhi questo quadro ho dato la parola a un narratore che apre e chiude la raccolta usando una tecnica narrativa e stilistica che richiama proprio la dinamica del “grumo sciolto”. Il classico espediente della cornice, che tiene i racconti, qui in vero è elastico, continua variazione del tema madre. La voce narrante, che si presenta come un grumo arso ignaro dell’acqua che lo culla, ad un tratto si lascia invadere da una condizione di liquidità che lo rende granello fluente, inarrestabile narratore. Che passerà in rassegna storie di grumi, e poi storie – quasi visioni – di grumi sciolti, fino a snocciolare storie di grani (tre sono le sezioni che raccolgono i racconti). E quando avrà finito l’ultimo racconto il narratore sentirà il bisogno di trattenere qualcosa tra quelle sue dita che ormai sono sciolte e non vogliono più serrarsi vuote. Raccontare sarà il suo predicare, come una preghiera.

Un piccolo scorcio sulle sezioni che articolano il libro. Nella prima “Grumi” protagoniste sono donne che si trovano in un particolare momento della loro vita e debbono compiere una scelta, nella seconda “Grumi sciolti” il mondo si dilata in un variegato quanto onirico cosmo fatto di passioni, emozioni, mito e leggenda che nella terza parte diventa “storia” (emblematico l’omaggio a Elsa Morante). 

Sono grata a tutti coloro che hanno letto questo libro e rilasciato commenti, recensioni. La prefatrice Letizia Cirillo ha colto nel segno nel momento in cui ha dichiarato che è un libro che va letto a voce alta, perché esaltando la sensorialità che lo anima, si può trasformare l’esperienza individuale della lettura in esperienza collettiva di condivisione. C’è chi come Alice Bianco poi ha voluto paragonarlo ha una tela in cui sono sparsi colore che il lettore stesso compone in quadro. Altri parlano di “prosa che accarezza la poesia” (Federico Migliorati) o di “poesia travestita” da racconto (Stefano Pasquini). 

Matucci poi, data per ammessa l’equivalenza romanzo – cinema, segnala che la mia tipologia di racconto pretende la concentrazione dello scrittore e del lettore su pochi, risolutivi fotogrammi. In effetti nei miei racconti, quasi sempre, tutto confluisce in una sorta di “buco nero” che dilata solo nel pensiero dei personaggi un tempo narrativo anche lunghissimo, e attrae al contempo dentro di sé tutto il significato di vicende che possono essere le più varie. Racconto dunque come massima concentrazione “fotografica” su un nodo che la vita ha lungamente preparato.

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A TU PER TU – Bruno Bartoletti

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Le domande di A TU PER TU oggi sono rivolte a Bruno Bartoletti.
I due cardini, o meglio le due pietre miliari del percorso umano e artistico di Bartoletti sono la scuola e la poesia. Due percorsi paralleli che nel suo caso tuttavia spesso si sono affiancati fino al punto di intersecarsi, felicemente. La scuola, i giovani quindi, a cui Bartoletti ha insegnato per molti anni, ma da cui ha anche imparato, l’immediatezza, il rifiuto delle etichette e di eccessivi formalismi, e, soprattutto, la fedeltà assoluta e appassionata a ciò che più emoziona.
Nel caso di Bartoletti direi che la passione più grande è la poesia. Ad essa ha dedicato il proprio studio, le proprie ricerche, le presentazioni, le letture generose anche dei libri altrui e il Premio “Agostino Venanzio Reali” da lui presieduto.  Ha letto e scritto poesia con la stessa emozione, senza mai perdere il gusto fondamentale di stupirsi per l’incontro con la bellezza evocata dalle parole.
Buona lettura, IM

L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.

Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.

Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.

Saranno volta per volta le stesse domande.

Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.

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5 domande

a

Bruno Bartoletti

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Buongiorno,

mi chiamo Bruno Bartoletti, sono nato a Sogliano al Rubicone, piccolo paese della Romagna così caro a Giovanni Pascoli, ho vissuto per oltre quarant’anni nella scuola, prima come insegnante poi come preside, da una decina d’anni ho raggiunto l’età della pensione che mi permette di coltivare e approfondire i miei interessi. Mi piace leggere, studiare e, quando è possibile, scrivere, seguire i giovani, ma non per insegnare poesia (la poesia non si insegna, si offre), tenere relazioni, parlare di poesia, leggere poesia. Mi sento soprattutto una persona di scuola e un insegnante che ha ancora voglia di imparare. Non so che cosa avrei fatto se non fossi stato un insegnante.

Ecco il punto fermo di chi nella scuola ha attraversato i suoi anni migliori. Ci penso spesso, e penso anche a cosa potevo fare di più e meglio. Ogni tanto mi fermo e guardo altrove, inseguendo piccoli segni con gli occhi persi. Inseguo delle immagini, ricordi, congetture, volti ancora vivi. Senza perdermi tra le carte, i programmi, i progetti, mi perdo in mezzo ai volti. Specialmente volti di ragazzi. E ancora ricordo, finché, a distanza di anni, tutto si cancellerà e si apriranno nuove strade per immergersi nel grande mare del sapere grazie agli innumerevoli autori e scrittori e critici e poeti.

Presiedo l’Associazione culturale “Agostino Venanzio Reali” e l’omonimo premio nazionale biennale di poesia.

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

Il mio ultimo libro è uscito un mese fa, ma, causa covid-19, non ha potuto avere alcuna presentazione. Non ha importanza. Il titolo è rubato a un verso di L’aquilone di Giovanni Pascoli, eppur, felice te che al vento, edito da Youcanprint. Si incontrano in queste pagine amici, compagni che ho perduto, persone ritrovate, perché la morte non cancella, ma rende più uniti, più bisognosi gli uni degli altri. La poesia cerca di ricucire questi incontri mentre si attraversa la piazza della mia e vostra memoria. E intanto volano le rondini e tornano sempre allo stesso nido, con amore e pazienza. Leggi il seguito di questo post »

A TU PER TU – Milica Lilic

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La quarta intervista di A TU PER TU mette in pratica l’intento di estendere anche oltreconfine la rete delle voci e dei dialoghi.
La destinataria delle domande è Milica Lilic, poetessa e scrittrice serba che nel corso della sua vita e della sua carriera letteraria ha intessuto rapporti di collaborazione e amicizia con persone e con artisti di diverse nazioni e latitudini. Un dialogo privilegiato è quello con l’Italia. Ne forniscono la prova sia le testimonianze di stima che anche da noi ha ricevuto da parte di critici, letterati e lettori, e lo confermano anche le interessanti risposte a questa intervista che Milica ha fornito direttamente in italiano.
Come ho già detto in altre occasioni (sta diventando un “mantra”, mi rendo conto, ma è ciò che penso), molto meglio di queste mie note introduttive potrà essere utile a chi vuole approfondire la conoscenza con Milica Lilic la lettura delle sue risposte e dei suoi scritti, sia lirici che narrativi.
 
Buona lettura, IM

L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.
Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.
Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.
Saranno volta per volta le stesse domande.
Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.
 

il fuoco e il verbo

5 domande

a

Milica Lilic

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Grazie per l’invito a presentarmi ai tuoi lettori. Il mio nome è Milica Jeftimijevic Lilic. Sono una scrittrice serba. Sono madre di due figlie e una persona che ama tutte le persone del mondo. Credo che la vita possa essere bella e significativa se facciamo il lavoro che amiamo. La letteratura è stata il mio amore fin dall’infanzia.

Ho letto molto e ho assorbito contenuti artistici prima ancora di rendermi conto di avere un dono per la creazione artistica. La mia vita è stata completamente orientata e ispirata da quell’inclinazione. Ho studiato letteratura e per un po’ ho lavorato come professore all’Università di Pristina, poi sono passata alla Televisione di Pristina con il ruolo di editore e critico televisivo. Ho un master in filologia. Tuttavia, al di là di questi impegni lavorativi, la scrittura, soprattutto di poesie, era, come lo è tuttora, il mio richiamo più forte, il bisogno dominante. Da questa possente attrazione sono nati i miei libri. Mi sono dedicata anche alla critica letteraria e alla narrazione. Ho trascorso tanto tempo in campagna e all’estero quando il mio lavoro me lo consentiva. Dopo aver terminato il mio tirocinio ho avuto più tempo a disposizione e ho potuto viaggiare più spesso. I frutti migliori di questa possibilità di viaggiare sono stati i numerosi contatti con persone di tutto il mondo e lo sviluppo della mia carriera internazionale con premi e riconoscimenti, nonché traduzioni delle mie poesie. Ho pubblicato 26 libri di poesia, prosa e critica.

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I sommersi e i salvati. Note a margine su Primo Levi

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“La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi danno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono, ma per noi la questione è più semplice. Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera”.

Le parole sono di Primo Levi, su cui ho scritto alcune note a margine su L’Ottavo. L’impressione è che certe parole conservino sempre una possente attualità. 

Rimando, per la lettura di questo e di altri articoli della rubrica “Luoghi d’Autore”, a  questo link: https://www.lottavo.it/2020/04/note-a-margine-su-primo-levi/  .

IM

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NOTE A MARGINE SU PRIMO LEVI

Di Ivano Mugnaini

La discesa negli inferi senza un vero ritorno

La guerra c’è sempre. Il resto è solo tregua.

Anzi, la guerra è sempre, è il presente che non muta, resta, a rincorrere, a mordere e strappare via la carne dei giorni.

Questa è la prima sensazione, il sapore agro del primo impatto con le parole di Primo Levi. Ben più complesso è il percorso che ha compiuto e ha voluto trasmettere. Preso atto del dolore, dell’assurdo sovrumano, anzi inumano, in grado di negare la natura stessa dell’umanità, l’alternativa è la resa, l’inazione, il silenzio, oppure il cammino della testimonianza.

Essendo conscio della fragilità e dell’imperfezione della memoria, Levi, da uomo di scienza, ha registrato tutto con oggettività, prima che qualcuno, forse lui stesso, potesse dire un giorno che i dettagli non erano esatti, non corrispondevano le dosi, le componenti, gli elementi della pazzia. Si è assunto il compito, da chimico attento e paziente, di registrare, trascrivere, riportare, in forma di parole, elenchi di eventi e gesti, attimi e corpi morti e vivi, i sommersi e i salvati.

Primo Levi (Foto da wikipedia)

Il vero viaggio di Primo Levi è stato dentro una memoria a cui dava vita passo dopo passo e da cui gradualmente veniva annientato, come da un acido corrosivo. Conscio di questo, non si è mai fermato, fino a quando ha potuto, finché ha avuto la sensazione di avere la forza di poter continuare ad essere utile ai suoi simili. Finché è riuscito a rievocare gli orrori più grandi conservando spazio per un sorriso, amarissimo ma tenace. La prova che il nemico aveva perduto. Perché la vita e l’umanità resistono perfino ad Auschwitz. Resistono all’annientamento, alla ferocia pianificata e resa meccanica, con una struttura industriale, per tramutare gli uomini in materia inerte. Ma la materia inerte non sa sorridere, non sa rievocare, seppure con la morte nel cuore, tutte le occasioni in cui nei campi di sterminio è rimasta viva la fame di arte, di musica, di letteratura, o semplicemente la volontà di vita a dispetto di tutto, essa stessa forma primaria e assoluta di poesia.

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La parola e il sogno

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Ripubblico volentieri un articolo originariamente uscito su Carteggi Letterari, rivista on line a cui altrettanto volentieri collaboro, https://www.carteggiletterari.it/2019/06/12/sogniloqui-di-stefano-taccone-iod-edizioni-2018-recensione-di-ivano-mugnaini/

Parla di un agile ma interessante libro che con divertita e serissima lievità si avventura nel regno dell’onirico, del bizzarro, dell’improbabile ma assolutamente vero, o verosimile: la vita, o la sua immagine riflessa in uno specchio.

Buona lettura, se potete e volete.

Buona estate a tutte e a tutti, IM

 

SOGNILOQUI di Stefano Taccone, IOD Edizioni, 2018 – recensione

Esiste un tipo di narrativa che, sul modello della filosofia, ma anche della musica e di altri ambiti artistici che mettono in connessione la ragione e l’immaginazione, esplora le zone di confine e si nutre di contrasti, ambivalenze ed ossimori oggettivi e concettuali, in seguito ristrutturati e restituiti, mutati, trasformati nel senso e nell’essenza.

Ciascuno ha in mente modelli rappresentativi e in qualche modo emblematici di questa tendenza espressiva che spazia dalle arti figurative a quelle in apparenza disgiunte dalla materia tangibile. Nei racconti di questo suo recente volume, Stefano Taccone ha avuto il merito, o forse l’istinto, di seguire la propria strada, un sentiero autonomo e sui generis, nel senso migliore del termine. Ha dosato gli “ingredienti” di questa mistura senza seguire alla lettera le dosi indicate nelle ricette e senza preoccuparsi troppo dei tempi, delle quantità e delle indicazioni di massima contenute nei volumi di riferimento.

Il prodotto di tale “esperimento”, condotto con divertita ma attenta cura, è un volume agile e godibile, gradevolmente spiazzante, come certe facciate barocche, lievi e tuttavia solide, giocose e in qualche modo cupe e solenni, come la vita. L’impressione è che l’autore abbia scritto questo libro con un sorriso serissimo. Come uno studioso che cerca modi per stupire, o almeno per spiazzare il proprio referente, ma allo stesso tempo è concentrato affinché tutto, anche l’incredibile e l’assurdo, anzi, soprattutto l’incredibile e l’assurdo, risultino assolutamente credibili. Veri, o talmente fittizi da essere o sembrare (che differenza fa?) più veri del vero.

Il titolo, come spesso accade, è una potente calamita, e, in una certa maniera, una prima chiave, seppure anch’essa volutamente storta, sghemba, al punto che non si comprende bene quale sia il lato giusto, o se vi sia un solo modo per adoperarla, o nessuno, o tutti insieme. “Sogniloqui” è una parola complessa e composita, adeguata vetrina, questo è certo, per i racconti a cui fa da titolo. Sogni ed eloqui, o soliloqui, o semplicente “loqui”, ossia, forse, un modo con cui dare voce ai sogni, parlarne, o lasciarli parlare. I sogni, intrinsecamente irrazionali, sfuggenti, incoercibili, vengono messi a confronto, incasellati, incanalati tra le pareti del linguaggio che, di per sé, per poter avere un senso e una funzione deve al contrario seguire schemi, regole, codici univoci. Da questo attrito, da questo costante braccio di ferro tra le due istanze contrapposte, nasce il carattere bizzarro e tuttavia lineare delle tranches de vie descritte da Taccone.

Se fossero quadri, questi racconti, verrebbe fatto di pensare a Dalì, a quegli orologi molli, liquefatti, a quei numeri tanto precisi da rimanere leggibili anche dopo il dissolvimento dei colori e dei contorni. Identici in apparenza ma in un tempo altro, in una logica altra. Sarebbe interessante calcolare quante volte, nei racconti di Soliloqui, compaiono riferimenti, diretti o indiretti ai numeri, al calcolo di distanze, misure, quantità. Siamo di fronte ad una specie di aritmetica della follia, o della bizzarria, del sublime irrazionale che tuttavia pretende di essere misurato al millimetro, come per un vestito sartoriale, o per una solenne e sarcastica cassa da morto. E il funerale non si sa bene di chi sia: se della logica o della pazzia, del tempo, della pretesa dell’uomo di trovare un senso, una direzione, una formula riassuntiva e risolutoria del caos di cui è parte integrante ma forse neppure essenziale.

I numeri ci accompagnano passo dopo passo, come ombre ghignanti, dalla prima all’ultima pagina. Fin dal primo racconto, dal titolo umoristicamente raggelante, “Tagliatelle millimetrate”. Una vicenda in cui il protagonista ha come grido di battaglia “Misuro tutto!”. Lo confessa o forse se ne vanta, o, anche in questo caso, entrambe le cose simultaneamente. Forse è il personaggio che l’autore teme di essere o di diventare, oppure, semplicemente, come Dante, opportunamente citato nel racconto, è il primo adeguato Cerbero di se stesso che subisce la pena del contrappasso per la colpa ineluttabile dei suoi personalissimi “sogniloqui”.La letteratura si fa specchio di uno specchio che forse è la vita. E resta il dubbio, essenziale, fondamentale, riguardo alla deformazione di quella superficie riflettente. Se sia connaturata, ossia propria delle cose osservate, o se abbia origine nella mente e negli occhi di chi osserva il mondo, pensandolo, potremmo dire generandolo attraverso il pensiero.

Il pensiero e la parola. Il racconto iniziale del libro si conclude con “La prova è finita!”, e poco più oltre “Il supplizio è finito! Sospiro di sollievo!”. Vengono alla mente Pirandello, Beckett, e tutta la schiera di scrittori e drammaturghi che hanno usato la parola per esprimere lo scardinamento mentale e sociale, l’emergere dell’assurdo non come occasionale emergenza ma come condizione costante e immutabile. La parola dunque è supplizio, ma anche il solo modo per esprimere tale oppressione e forse perfino per uscirne, osando guardarsi vivere, avendo tale coraggio.

Il linguaggio utilizzato in questo libro riflette adeguatamente le antinomie a cui si è fatto cenno: a brani elegantemente fluidi e cadenzati fanno da contrappunto passaggi scabri, come se l’urgenza espressiva aggredisse i personaggi, le loro voci e i loro pensieri. L’umorismo aggiunge alla dicotomia ritmica quella del senso e del significato, la connotazione e la denotazione, il sentimento del contrario. Tutto, senza irriverenza, ma con giocosa serietà, entra nel vortice dell’umorismo:  ilterzo racconto ha per titolo “Girella cumana” e la Sibilla, a suo modo, sorride anche lei. Ed è interessante l’ingresso dell’arte figurativa nell’ambito della scrittura e della dimensione autobiografica nella finzione. Lo spunto e il mezzo sono le interazioni, i filtri e le modulazioni necessarie per rendere il tutto allo stesso tempo reale e fittizio, cronaca e metafora. “La scena a cui ho appena assistito – scrive Taccone – mi ricorda un’opera, Fermare il loop, realizzata da un mio amico artista – Luigi Urso, in arte Ur5o – quasi dieci anni fa per una mostra collettiva che curai a Milano”. Sia il titolo della mostra a cui si fa riferimento sia l’unione tra arte e vita risultano in qualche emblematici, o almeno ampiamente rappresentativi, non solo del sapore del racconto specifico ma dell’intero libro.

Molti racconti hanno un che di kafkiano, in senso ampio ma non meno aspro. Il racconto “Girella cumana” si chiude anch’esso con una fuga e con il sollievo che si prova quando tutto ha fine, quando l’incubo finisce: “Non mi resta che alzarmi del letto, prepararmi e scendere giù al palazzo, affinché possa mettere fine, forse, a tutta questa sequela di misteri”. Probabilmente la sequela di misteri è il succo del discorso, forse dell’esistenza stessa, la ricerca di un senso che senso non ha. Siamo già scarafaggi; e il processo, per cose che non conosciamo e che non sappiamo di avere commesso, non ha un inizio e neppure una fine. Ci si risveglia da un incubo e in realtà è lì che il vero incubo inizia.

Forse (ed è necessario sottolineare ancora una volta la natura ipotetica dell’affermazione), una chiave, una sintesi, uno squarcio interpretativo potenziale, è racchiuso nel secondo paragrafo del racconto “Rete negli occhi”. In una serie di domande e in una descrizione oggettiva: “Cosa è successo? Mi stropiccio gli occhi ma non va via! Quel piano ottico rimane intonso! Che fare? Ben presto mi accorgo che c’è anche una freccetta, come quella che azionerebbe un qualsiasi mouse da computer, e con la forza del pensiero posso portarla dove desidero”. Un efficace ritratto del nostro tempo, della condizione attuale. Nessuna risposta se non la possibilità di spostare il fulcro dell’informazione, o meglio della ricerca di informazione, quell’intertestualità che non di rado è immensa varietà senza alcun porto certo, interminabile viaggio circolare in un mare di mondi possibili tutti veri e tutti fittizi. Al punto che, poco più avanti, un paio di pagine oltre, la voce narrante ci confessa di non essere più certo neppure di avere una testa, delle braccia e delle mani. L’incubo è accorgerci di essere noi stessi una rete nella rete, soggetti a virus che, agevolmente, da informatici diventano fisiologici, attaccano direttamente i nostri tessuti, la nostra presunta essenza reale. E sempre di più, se noi assomigliamo ai nostri computer, le macchine assomigliano a noi. “Il suo portatile è stranissimo”, si osserva a pagina 39, e la sovrapposizione tra la persona e il personal computer è assoluta. I tessuti corporei e i circuiti diventano una cosa sola, arrivano a corrispondere.

Le soluzioni, o almeno le vie di fuga e di potenziale salvezza, sfociano nel mare immaginario, futuro e futuribile, di un’eventuale evacuazione collettiva, o nel rifugio estremo, quello della consapevolezza di essere sull’orlo di un baratro che è allo stesso tempo ecologico ed etico. La presa di coscienza che “Edenlandia” in realtà è un nome grottesco dato ad un potenziale Inferno può condurre ad una reazione salvifica, in senso stretto e in senso lato.

Una delle caratteristiche di maggior rilievo di questo libro è la capacità di far riflettere su temi importanti con una deliberata leggerezza, senza pedanterie e senza proporre panacee più o meno miracolose o miracolistiche. Taccone esplora il surreale per parlare del reale, il grottesco per far sì che dallo specchio, magari nel bel mezzo di un riso, ci compaia un’immagine del degrado in cui rischiamo di adagiarci, compiaciuti, ilari e smarriti. Questi racconti affabulano, spiazzano, deliberatamente, spostando il focus su dettagli e situazioni in apparenza irreali, o improbabili, dietro cui in realtà ci è dato di cogliere una concreta e autentica istantanea di ciò che siamo e che rischiamo sempre di più di diventare se non interrompiamo la tendenza, se non apriamo varchi differenti nella rete che tessiamo e dai cui siamo fagocitati, se non ricreiamo spazi vivibili, sia fisici che mentali, più autenticamente umani.

Non è un caso forse che le ultimissime parole del libro siano: “mantenere intatto il suo autentico significato: quello di un sacrificio compiuto per amore dell’umanità”. Tra realismo e fantasia, tra il sogno e il vero, in un realismo che si espande nei territori del grottesco ma resta sempre vivido e attuale, Taccone si pone, e ci pone, le domande che contano. Compie la scelta, tra diritto e necessità, di non rinunciare a temi essenziali e vitali, ad un “idealismo” che non è mai, qui, tediosa teoria né astratta utopia. Nei Sogniloqui sorridiamo, divaghiamo, ma, alla fine, cogliamola nostra autentica immagine.

Ivano Mugnaini

 

 

Stefano Taccone (Napoli, 1981) è dottorato in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica presso l’Università di Salerno. Dal 2013 al 2015 ha insegnato storia dell’arte contemporanea presso la RUFA – Rome University of Fine Arts. Ha pubblicato le monografie Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (2010); La contestazione dell’arte (2013); La radicalità dell’avanguardia (2017). Ha curato il volume Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità(2014). Collabora stabilmente con le riviste “Segno” ed “OperaViva Magazine”. Sogniloqui è la sua prima raccolta di racconti.

LA TREGUA, PRIMO LEVI

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La discesa negli inferi senza un vero ritorno

La guerra c’è sempre. Il resto è solo tregua.
Anzi, la guerra è sempre, è il presente che non muta, resta, a rincorrere, a mordere e strappare via la carne dei giorni.
Questa è la prima sensazione, il sapore agro del primo impatto con le parole di Primo Levi. Ben più complesso è il percorso che ha compiuto e ha voluto trasmettere. Preso atto del dolore, dell’assurdo sovrumano, anzi inumano, in grado di negare la natura stessa dell’umanità, l’alternativa è la resa, l’inazione, il silenzio, oppure il cammino della testimonianza.
Essendo conscio della fragilità e dell’imperfezione della memoria, Levi, da uomo di scienza, ha registrato tutto con oggettività, prima che qualcuno, forse lui stesso, potesse dire un giorno che i dettagli non erano esatti, non corrispondevano le dosi, le componenti, gli elementi della pazzia. Si è assunto il compito, da chimico attento e paziente, di registrare, trascrivere, riportare, in forma di parole, elenchi di eventi e gesti, attimi e corpi morti e vivi, i sommersi e i salvati.
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Il vero viaggio di Primo Levi è stato dentro una memoria a cui dava vita passo dopo passo e da cui gradualmente veniva annientato, come da un acido corrosivo. Conscio di questo, non si è mai fermato, fino a quando ha potuto, finché ha avuto la sensazione di avere la forza di poter continuare ad essere utile ai suoi simili. Finché è riuscito a rievocare gli orrori più grandi conservando spazio per un sorriso, amarissimo ma tenace. La prova che il nemico aveva perduto. Perché la vita e l’umanità resistono perfino ad Auschwitz. Resistono all’annientamento, alla ferocia pianificata e resa meccanica, con una struttura industriale, per tramutare gli uomini in materia inerte. Ma la materia inerte non sa sorridere, non sa rievocare, seppure con la morte nel cuore, tutte le occasioni in cui nel campi di sterminio è rimasta viva la fame di arte, di musica, di letteratura, o semplicemente la volontà di vita a dispetto di tutto, essa stessa forma primaria e assoluta di poesia.
Il punto di partenza è Torino, città sospesa tra tradizione e innovazione. La famiglia di Levi in un primo momento accetta passivamente il fascismo, per poi comprendere troppo tardi, come moltissimi altri italiani, la follia distruttiva insita nel suo credo e nelle scelte politiche e ideologiche.
Avvengono così, in modo simultaneo, i paradossi che contraddistinguono la vita dello scrittore: lui, non religioso, ateo sia prima che dopo gli eventi e i massacri, si trova, fin dall’emanazione delle leggi razziali, a dover lottare e in un certo senso a diventare simbolo dell’ebraismo. Inoltre, dopo aver preso parte alla lotta partigiana, e dopo l’arresto, è inviato nei campi di concentramento. Lui che avrebbe sognato con ogni probabilità una vita di studio quieto nella sua Torino, di colpo è scaraventato sulla strada dall’uragano della Storia. La sua personale vicenda diventa suo malgrado una personale metafora della Diaspora. Viaggia per volere del destino, per sopravvivere, per vedere con i propri occhi, ricordare e raccontare.

Levi è il viaggiatore involontario per eccellenza. Costretto a crearsi una terra propria, uno spazio di sopravvivenza, un altrove estremo, ai margini, si trova a comprendere, cioè ad assumere in sé, la voce del dolore di un popolo sradicato: “…e ci discese nell’anima, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato”.

Il tema del viaggio è presente soprattutto in due libri emblematici di Levi, Se questo è un uomo e La tregua. L’esperienza della deportazione e del campo di concentramento in Se questo è un uomo è da intendersi come una forzata discesa negli Inferi. Ne La tregua vi è il tema del ritorno in patria o meglio, il tentativo di lasciare dietro di se le mostruosità della guerra e recuperare il senso profondo di sentirsi vivo e uguale agli altri. Se il primo libro di Levi assomiglia alla descrizione di una discesa agli Inferi, il rimpatrio è l’occasione di una progressiva risalita verso la luce e verso l’umano.
La discesa agli Inferi ha un’ampia tradizione, il cui culmine è il viaggio dantesco. Ma, a differenza di Dante, Levi non ha il beneficio della fede che sorreggeva il poeta fiorentino, e non ha né la guida paterna e benevola di Virgilio né quella solenne e amorevole di Beatrice. Viene catapultato senza alcun Limbo introduttivo dentro un esperimento biologico-sociale di annientamento. E con il suo corpo vivo, come Dante, è obbligato ad osservare altri corpi vivi. Non anime ma animali, con tutto ciò che di nobile e misero è insito in questa definizione e nella condizione che comporta e descrive.
Un viaggio la cui fine è la morte, non la salita al Paradiso. Oppure, in alcuni casi speciali, come quello dello stesso Levi, una salvezza malata, avvelenata dalla sua stessa inconcepibile essenza ed esistenza.
Il meccanismo micidiale messo in atto dagli aguzzini aveva come scopo quello di annientare negli internati ogni forma residua di umanità. Come ulteriore effetto collaterale tale prassi ha generato, nelle vittime sopravvissute, una forma ferocemente beffarda di riflessione a posteriori: l’idea che a salvarsi non sono i migliori, ma solo quelli sostenuti dalla casualità, da quella fortuna che è voce media, e cieca. Con qualcosa di ancora più subdolo che nega e sbriciola perfino il “folle volo” di Ulisse. Non sono i più coraggiosi a superare le Colonne d’Ercole e a tornare ad Itaca, ma solo quelli che, per qualche caratteristica fortuita, o forse per qualche capriccio o utilità dei macellai, sono sfuggiti alle maglie dello sterminio.
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Resta, nel momento del recupero del proprio nome, nel ritorno alla terraferma, di nuova sicura, una specie strisciante di malinconia unita ad un assurdo ma inestirpabile rimorso: quelli di essere rimasti vivi là dove solo la morte aveva cittadinanza.
Non essere più solo un numero, un frammento catalogato della catena di montaggio dello sterminio, vuol dire dover tornare a muoversi, equivale alla pena del ritorno in una patria che non sarà mai più la stessa, perché non si è più noi stessi dopo l’Inferno. Si fa ritorno ma sapendo di non potersi fermare più, non essendoci più alcuna pace possibile, anche in un’epoca di assenza di guerre ufficialmente dichiarate. “Gli altri prigionieri di Auschwitz popolano la mia memoria della loro presenza senza volto e se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia del pensiero”, scrive Levi.
Se questo è un uomo è il libro dell’esodo, della dissezione della materia viva, della tracciatura degli impianti dell’industria della morte. Ma non meno aspro è il libro del ritorno. Non c’è più “normalità” possibile per chi torna dai gironi infernali. Vede negli occhi degli altri la pietà, oppure una forma di commiserazione malcelata, o addirittura lo specchio distorto di quell’accusa implicita di complicità con gli autori dello sterminio. Si tratta del riflesso di un pensiero che ha origine nella mente delle vittime, ma è ostinato, anch’esso segue passo dopo passo chi vorrebbe fuggire da sé e dai propri ricordi.
“In the desert you can remember your name/ ’cause there ain’t no one for to give you no pain”. Nel deserto puoi ricordare il tuo nome/ perché non c’è nessuno che ti causi dolore, recitano i versi di una canzone che forse Levi avrebbe apprezzato. Il fatto è che perfino il deserto è un lusso, un privilegio che alcuni non si possono permettere. Allora resta la necessità di muoversi, viaggiare, non fermarsi fino a quando si può. Levi torna più volte ad Auschwitz. Accetta interviste e partecipa a documentari televisivi che rievocano gli anni dei campi di sterminio. Racconta con lucidità e con un senso del ritmo vivo, musicale, aneddoti e cifre, volti e parole, il freddo, la fame, gli odori. Parla delle varie “Sezioni” dei campi, ne parla per aiutare a capire, lui che di capire non sperava più. Parla di sé, lo sforzo maggiore, la pena di Sisifo. Ne parla con un “understatement” molto anglosassone, anzi, molto piemontese, una forma di difesa estrema nei confronti del reale. Lotta fino in fondo, riprende gli stessi treni che attraversano oggi una Polonia profondamente diversa ma con una ferita ancora percepibile, ancora aperta. Parla di sé, Levi, per far capire che non ha alcun merito, che si è salvato perché era utile ai nazisti in quanto chimico e perché aveva imparato da giovane alcune frasi di tedesco. La differenza tra vivere e morire poteva essere comprendere un ordine perentorio o saper leggere i numeri tatuati come un marchio sul proprio avambraccio.
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“I ‘salvati’ del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della ‘zona grigia’, le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti”, osserva.
Scritto un anno prima del suicidio, I sommersi e i salvati conferma la volontà di Levi di identificarsi nel profondo con coloro che hanno avuto la pena di essere sommersi. L’intento del libro è quello di dare voce a coloro che non ce l’hanno fatta, rinnovando l’appello alla memoria dei lettori riguardo alla Shoah: non dimenticare, affinché la Storia non debba ripetersi. Non è un caso che il libro si apra con una citazione da The Rime of the Ancient Mariner di Samuel Taylor Coleridge: Since then, at an uncertain hour,/ that agony returns:/ and till my ghastly tale is told/ this heart within me burns.
L’agonia ritorna inesorabile, e la necessità di raccontare la tetra storia brucia il cuore incessantemente. Così come brucia la coscienza di sapere che, in determinate situazioni, nelle terre più estreme dell’esistenza, non c’è più spazio per la solidarietà e trionfa la legge non scritta e tuttavia potentissima del “mors tua vita mea”. La morte degli altri può significare la propria sopravvivenza. L’orrore di questa consapevolezza non è forte quanto l’istinto atavico della conservazione che spinge a gioire per un tozzo di pane in più e un altro giorno in cui si riesce a non cadere a terra sfiniti. Il vero viaggio, il più crudo e il più vero, è quello che Levi, come migliaia di altri sopravvissuti e profughi del destino, ha compiuto nella propria testa. Il luogo più estremo e più spietato: quello da cui non c’è speranza di fuggire, quello che ti costringe a ragionare costantemente sul senso della vita, sul disgusto e l’attrazione per il gorgo del male, sul senso e sull’assenza di senso di tutto, perfino della morte.
Nelle interviste Levi descrive l’importanza di affidarsi alle parole, al racconto, pur essendo anche in questo caso conscio delle contraddizione e delle ambivalenze: “Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere quest’offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati in fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga”.
I nomi restano, oggi, anche grazie ai libri di Primo Levi. Restano i capitoli di un’epoca di violenza che, seppure con forme e dinamiche differenti, è sempre viva, sempre attuale. Del viaggio forzato e doloroso di Levi rimane anche l’ultima tappa, quel volo dalle scale di un palazzo torinese. Forse casuale, forse voluto e cercato come epilogo di un percorso che a quel punto aveva esaurito scopo, senso, energia. Ma resta il merito di avere camminato là dove nessun uomo avrebbe dovuto entrare, là dove Levi ha avuto il coraggio di dire che non per eroismo ma solo per casualità e tenacia è stato in grado di non abbandonarsi anzi tempo alle onde lasciandosi risucchiare. Resta il coraggio di chi, privo di fede e di dogmi, ha voluto credere nella dignità umana, nella parola e nel suo potere salvifico di dare testimonianza del più grande mistero: la persistenza della vita a dispetto di ogni ferocia. “La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi danno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono, ma per noi la questione è più semplice. Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera”.
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Il dono

All’iniziativa di Poetarum Silva dedicata a racconti “natalizi”, tutt’ora in corso con ottimo successo, ho contribuito volentieri con questo dono, atipico, poco “correct”, tra sogno e incubo, più incubo che sogno a dire il vero, se mi è concesso l’ossimoro.

Buona lettura, e, senza alcun ossimoro stavolta, buon 2016 a tutte le visitatrici e i visitatori di questo angolo dell’immenso oceano del web.    IM

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Il dono

Libertà va cercando, 

ch’è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta

.                   Dante, Purgatorio, I, 70-2

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         Le sei e trenta della mattina di Natale. Mi hanno svegliato di soprassalto i vicini di casa. Erano già in piedi ad aprire i regali e a cantare a squarciagola “Jingle Bells”. Pur di non sentirli sono scappato fuori di corsa. Ho ancora il pigiama sotto i pantaloni. Sulle strade e nelle vene, il gelo. Cerco perlomeno il privilegio della solitudine: viaggiare in carreggiate vuote, quasi all’inglese, sulla corsia opposta rispetto al normale. Ci sono gli altri, però. Numerose macchine, lanciate in direzione contraria o analoga. Mi viene da chiedermi perché. Dove vanno? Con quale diritto invadono il mio spazio, la mia follia fuori tempo e fuori orario?

          Lo so, è assurdo. Ma non posso fare a meno di pensarlo. Così come non posso evitare di fuggire, ora. Lontano da tutti, ad ogni costo. Mi infilo in un dedalo di viuzze che non conosco. Ho tutto il tempo che voglio. E assolutamente nessun impegno o appuntamento. Mi ritrovo in una strada sterrata. Solchi sempre più profondi all’altezza delle ruote e sempre più alti l’erba e il pietrisco al centro. Non c’è uno spazio vuoto grande abbastanza per fare manovra. Vado avanti per chilometri. Dietro di me il nulla, una pianura desolata e sconosciuta. Costeggio la siepe di una villa enorme. Presagisco la presenza di una muta di cani da guardia. Mi si affiancano, puntuali, spalancando le fauci fin quasi a mordere la rete. Mi inseguono fino all’ingresso. Mi preparo a fare retromarcia nel vialetto antistante l’entrata, più velocemente possibile, per tornare indietro, sulla strada statale. Ma, contro ogni attesa, il cancello automatico mi si spalanca di fronte. Sarebbe una ragione di più per scappare rapido come un fulmine, se fossi lucido. Oggi però è un giorno speciale. Sarà la stanchezza, la follia generata dalle musiche e dalle campane, dallo spumante e dall’overdose di pandoro, ma decido di premere sull’acceleratore ed entro.

( Il racconto completo è pubblicato a questo link: 

TUTTO È RELATIVO TRANNE IL CAOS

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Omaggio al “figlio del Caos” a 80 anni dal Premio Nobel

Tornare periodicamente a parlare di Pirandello è in qualche modo fatale, non solo come ora in occasione di un significativo anniversario. Lo è in ogni stagione così come è ricorrente interrogarsi sul senso della vita nella misura breve dell’esistenza individuale e in quella più ampia del percorso dell’umanità. Con il ghigno dell’uomo dal fiore in bocca, l’autore gioca con gli opposti, spingendo i suoi personaggi fino al parossismo, facendo perdere i confini tra vittima e carnefice, realtà e finzione, attraendo il lettore/spettatore in un vortice, un gioco di specchi che stordisce e ipnotizza.
E allora “ben ritrovato Don Luigi. Baciamo le mani”, come direbbero i suoi conterranei. Pirandello sebbene profondamente radicato nella sua terra, ha saputo spaziare, andare oltre, fino ai confini geografici e metaforici, là dove la mente incontra la verità e scorge la pazzia.
Nato a Caos, una borgata di Girgenti, l’odierna Agrigento, ebbe a dire dei suoi natali: “Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos”.
La contrada Caos, immersa nella macchia mediterranea, “luogo dove avvengono i naufragi”, assurge a paradigma del disordine, della casualità, quasi a prefigurare quelli che saranno i temi dominanti dei suoi lavori, la perdita degli assoluti, la frammentazione della personalità, il relativismo psicologico e conoscitivo che permea le relazioni umane e che fa dire ad uno dei suoi più noti personaggi “Per me, io sono colei che mi si crede.”
Pirandello inizia i suoi studi universitari a Palermo per poi trasferirsi a Roma dove si dedica agli studi di filologia romanza. Anche a seguito di un conflitto con il rettore dell’ateneo capitolino si reca in Germania, a Bonn, dove si laurea nel marzo 1891 con una dissertazione in tedesco di fonetica e morfologia della parlata di Girgenti. Ancora una volta le radici si intersecano a terreni inesplorati, il passato si protende verso il futuro, la memoria crea e prefigura ipotesi nuove. Lo scrittore siciliano si colloca tra due estremi, il Mediterraneo e il Nord Europa, la passionalità siciliana e la ragione germanica. Ben conscio che entrambe le coordinate sono già di per sé ibride e oscillanti, accolgono nel profondo il loro opposto.
Dopo questo “esilio” teutonico, vennero i decenni romani. Stabilitosi a Roma nel 1893 e introdotto da Luigi Capuana negli ambienti giornalistici e letterari, si dedicò a un’intensa attività pubblicistica e saggistica culminata nel fondamentale saggio L’Umorismo del 1908.
Il tracollo dell’impresa paterna in cui erano stati investiti tutti i beni della famiglia ebbe gravi ripercussioni sulla sua vita, soprattutto per l’acuirsi dei disturbi nervosi della moglie Antonietta di cui nel 1919 si rese necessario il ricovero definitivo in una clinica.
Dal 1915 fu il teatro ad assorbire tutte le attenzioni di Pirandello. Divenne direttore del Teatro d’Arte di Roma (1925-28) e creò una propria compagnia, chiamandovi come prima attrice Marta Abba, con la quale intrecciò un’intensa relazione.
In Pirandello l’influenza delle vicende personali ha un enorme rilievo sull’opera letteraria. In modo specifico il disagio, inteso come squilibrio, privazione, difficoltà a ritagliarsi un ruolo sociale definito e appagante, fa sì che molti dei suoi personaggi, pur nelle differenze sociali, abbiano in comune il fatto di essere estranei, tormentati, costantemente ai margini, oscillanti tra rassegnazione e ribellione, ragione e follia.
Non è un caso, nell’ottica di questa tensione costante vissuta sia in prima persona che di riflesso, che Pirandello, per sfuggire alla morsa delle antinomie esistenziali, amasse trascorrere lunghi periodi dell’anno nella quiete di Soriano del Cimino, in provincia di Viterbo, una cittadina ricca di storia immersa nei boschi: la memoria resa più docile dalla natura. In particolare rimase affascinato dalla quiete di un castagneto nella località di Pian della Britta. Pirandello ambientò a Soriano nel Cimino, citando luoghi, località e personaggi realmente esistiti, anche due tra le sue più celebri novelle, “Rondone e Rondinella” e “Tomassino ed il filo d’erba”.
Frequentò anche Arsoli, soprattutto d’estate. Amava dissetarsi con una gassosa. Il sapore della semplicità in un minuscolo paese che definiva con ironico affetto “La piccola Parigi”.
Nel sole della pace campestre Pirandello si disseta con un pensiero lieve, quasi rassicurante. Ma nel sole accecante che tutto sovrasta, il pensiero insegue una realtà altra, aspra e complessa.
Pur prendendo le mosse dal verismo di scuola siciliana di Capuana e Verga, Pirandello concentra la sua attenzione sulle contrapposizioni esistenti nei personaggi e nelle trame, tra essere e apparire, tra forma (maschera) e vita (autenticità).
L’inquietudine propria dell’uomo che invano cerca di ribellarsi agli schemi di una società priva d’ideali, il dissidio interiore creato dall’impossibilità di comunicare, produce personaggi e vicende avvolte dal caos.
Numerose opere pirandelliane indagano sul rapporto tra realtà e finzione. Tra queste una meno conosciuta ma notevolmente emblematica è senz’altro “All’uscita”, atto unico scritto nel 1916, inserito nella raccolta Maschere nude.
I cardini del testo sono quelli cari all’autore: l’interazione tra teatro e vita, tra la filosofia che prova a dichiarare solenni verità in seguito puntualmente sgretolate dalla realtà. L’effetto ineluttabile è un riso ironico e autoironico, il sentimento del contrario, un filo di illusione tenuto stretto tra le dita. Cardini fragili, soggetti a schianti e corrosioni. Ma pur sempre i soli che abbiamo.
La scena in cui si dipanano i dialoghi è quanto mai allegorica: un cimitero di campagna, avvolto da una nebbia grottesca, tragicomica. Una foschia che fa venire in mente Dante, ma anche Fellini, e perfino certi fotogrammi di alcuni film di Totò, attore a tratti pirandelliano, a suo modo, forse senza volerlo.
In questa atmosfera spettrale si muovono i protagonisti, dei fantasmi appunto: un placido borghese, etichettato come L’Uomo grasso, e, sul fronte opposto, l’intellettuale, ovviamente tormentato, denominato Il Filosofo. Quest’ultima figura è una maschera nuda e trasparente dello stesso Pirandello. Una delle occasioni in cui uno scrittore sente il bisogno di far uscire da sé le parole e le idee che ospita all’interno e che premono, scalpitano, urlano. All’uscita dalle tombe le anime trapassate si ritrovano in una condizione identica a quella vissuta e sofferta sulla terra: l’attesa. Ogni riferimento all’assurdo, sia teatrale che esistenziale, da Godot ai morti ciarlieri di Lee Masters, è volutamente palese. Che fare, dunque? Resta l’arte tutta umana della ricerca di un senso, anche nel buio, a tentoni.
Pirandello svolge un ruolo di anticipatore, aprendo la strada ad alcune delle maggiori innovazioni a livello letterario e non solo. Prefigura la rivoluzione che verrà poi sviluppata da Bertolt Brecht: i personaggi scavano in loro stessi e si raccontano in modo oggettivo, come se si osservassero dall’esterno. Tutto ciò allontana il personaggio dallo schema in voga per secoli, si estrania dall’adesione totale al ruolo, si osserva vivere. Si guarda dentro, scoprendo suo malgrado che “Nulla atterrisce più di uno specchio una coscienza non tranquilla” e scoprendo che “Nulla è più complicato della sincerità” (da Novelle per un anno). La seconda innovazione fondamentale di Pirandello consiste nell’aver portato sulle scene il senso di solitudine proprio dell’uomo moderno e l’incomunicabilità con i suoi simili: “La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce e dove dunque l’estraneo siete voi” (Da Uno, nessuno e centomila).
La pazzia è il rischio che corrono le figure pirandelliane, sospese tra ricerca di consistenza ed il loro intimo squilibrio. Questa ansia costante, riflessione senza tregua sul senso del vivere, li conduce inesorabilmente ad un esasperato cerebralismo. Ma la forza dell’arte pirandelliana è proprio nella sua totale identificazione con le sue “maschere nude”, con la loro addolorata ricerca di una sincerità necessaria e impossibile, in ogni caso lacerante.
Uno degli esempi più noti in quest’ottica si trova nei Sei Personaggi in cerca d’autore i cui protagonisti, “contrariati nei loro disegni, frodati nelle loro speranze”, cercano un autore per rappresentare un dramma a tinte fosche. Da questa ricerca e dalla relativa attesa scaturisce una commedia, una farsa amara che si realizza a tradimento, nell’atto del parlare, del dire, nello spazio occupato pensando a come dovrebbe essere.
Ma la grandezza di Pirandello, la sua portata innovativa va ricercata ben oltre la motivazione con cui gli fu attribuito il premio Nobel nel 1934 ossia “Per lo schietto e geniale rinnovamento nell’arte scenica e drammatica”. Le opere di Pirandello infatti hanno avuto un’influenza sulla narrativa, la filosofia, la psicologia e non ultimo l’arte cinematografica. Si pensi al tema dell’incomunicabilità e dell’alienazione sviluppato da Bergman e Antonioni, alla continuità tra sogno e vita nei film dello stesso Bergman e Luis Buñuel, alla molteplicità dei punti di vista che ispira Akira Kurosawa o al camaleontismo raccontato da Woody Allen con Zelig.
Continua a riflettere e a far riflettere, Pirandello, esplorando da ogni possibile angolazione il sentiero che unisce e separa la verità e il suo contrario, il ponte sull’abisso del caos esistenziale, il fluire inarrestabile il cui solo senso sicuro è la costante mutevolezza.