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La mia più grande possibilità sono io – Intervista ad Anita Likmeta

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Ho conosciuto Anita Likmeta tramite LinkedIn. Ci siamo scambiati saluti formali e auspici reciproci per la scrittura. Da una ragazza giovane, bella e di successo, mi sarei aspettato la classica “puzza sotto il naso”, che, visto il contesto internazionale, equivale più o meno a meno a “to have the snobbish”, o qualcosa del genere, chi più ne ha più ne metta, anzi, chi più ne sa più ne metta. Invece ho notato e ricevuto molta cortesia, fin dall’inizio. Mi ha incuriosito.

Sono andato e leggere il suo blog, https://anita.tv/me/, e la sua biografia, il sunto della sua vicenda. Così uguale a quella di tanti altri “migranti” e così specifica, diversa. Mi è venuto in mente di chiederle un’intervista per la rubrica “A tu per tu” del mio blog. Mi ha risposto in modo del tutto originale, non riconducibile a schemi, rifuggendo da qualsiasi generalizzazione, predica edificante o proposta di panacea. Mi ha fatto capire che la sua vicenda vale solo per lei, per il suo destino individuale. Eppure, proprio per questo suo rifuggire le frasi fatte e i punti di vista facili e ben confezionati, le sue parole forse possono fungere da spunto e da stimolo, dicendoci d’accordo, oppure dissentendo, scuotendo la testa, dubbiosi o schiettamente contrari.

Le sue parole possono servirci, facendo proporzioni, proiezioni, ipotesi e confronti, a provare a riflettere sulla questione dell’immigrazione, suoi profughi, sull’accoglienza e sui muri, reali e metaforici, sull’integrazione possibile e/o utopica, e su un mare di altre questioni che abbiamo intorno, e dentro. IM

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rubrica “A TU PER TU”

Intervista a ANITA LIKMETA

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1) Benvenuta Anita.

Puoi raccontarci la tua vicenda personale, dalla tua infanzia in Albania fino ad oggi?

Intanto grazie per lo spazio concessomi. Ci vorrebbe molto tempo per spiegare questa domanda, ma cercherò di essere più ermetica possibile. Sono nata a Durazzo, in Albania, ma per questioni private i miei genitori mi hanno portata dai nonni, i quali mi hanno cresciuta per 11 anni e mezzo. Nel 1997 mia madre, la quale era già partita per l’Italia con la prima nave del 1991, fece per me il certificato di ricongiunzione familiare e questo mi permise di partire con lei. Partimmo la mattina del 2 giugno del 1997 per poi raggiungere le sponde di Bari la notte del 3 giugno. Successivamente ci stabilimmo vicino a Pescara. In Italia ho fatto le scuole medie, il liceo classico, poi a Roma l’Accademia d’Arte Drammatica “Corrado Pani” e infine l’Università degli studi di Roma “La Sapienza” dove mi sono laureata in Lettere e Filosofia con l’indirizzo in Scienze Storiche. Ho pubblicato per Il Fatto Quotidiano, IlGiornaleOff, The Huffington Post etc. Oggi ho un mio personal blog, http://www.anita.tv, dove racconto le mie storie e quelle degli altri, insomma l’editore sono io, e questo lo trovo straordinario.

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2) Tu sei un esempio di integrazione riuscita, ma i casi come il tuo non sono frequenti. Quali sono a tuo avviso gli ostacoli che impediscono a tutt’oggi un reale dialogo tra persone e popoli diversi?

Onestamente non saprei dirti se sono davvero un esempio di integrazione riuscita e non mi piace neanche rientrare in questa categoria, non mi piacciono le etichette di alcun genere. Sono un essere libero, sono nata in un Paese che ha avuto una storia difficile e di quella storia ne siamo pagando tutti le conseguenze. Per me è stato un percorso molto arduo inserirmi nel tessuto sociale italiano. Quando ero piccola pensavo soltanto a studiare perché vedevo in questa possibilità la mia realizzazione come individuo. Ad oggi, posso dire che non mi interessa più come gli altri mi percepiscono, tanto meno le varie forme di giudizio che quando ero più acerba mi facevano soffrire. La mia più grande possibilità sono io, la mia casa è il mio corpo, il mio cielo sono i miei occhi. La mia integrità è la mia più grande conquista.

3) Dare consigli non è mai facile, ma, visto che conosci bene sia l’esperienza di chi si trova ospite di una terra non sua sia quella di chi invece è cittadino integrato, cosa ti sentiresti di dire a chi chiede ospitalità e a chi si trova a dover interagire con chi bussa alla sua porta?

In Levitico 19:33-35 sta scritto che: “Quando uno straniero risiede con voi nel vostro Paese, non lo maltratterete. Lo straniero che risiede fra voi, lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, poiché anche voi foste stranieri nel Paese d’Egitto. Io sono l’Eterno, il vostro Dio. Non farete ingiusta nei giudizi con le misure di lunghezza, di peso e di capacità.”

Ecco, io non aggiungerei niente di più a questa domanda che non può avere nessun altra risposta.

4) Sei arrivata in Italia diversi anni fa. Come l’hai vista trasformarsi in questi anni? Come è cambiata questa nazione e come sono cambiati gli italiani dai tempi del tuo sbarco a Bari?

Gli italiani sono un popolo magnanimo, sempre disposti ad aiutare il prossimo. Amo l’Italia per questo suo modo di rispondere alla vita. Il cuore degli italiani risponde ad una coscienza più alta, divina e giusta. L’Italia è lo stivale che raccoglie tutti, va aiutata e non abbandonata come stanno facendo. Vivendo in Italia ho trovato molte similitudini con l’Albania, in qualche modo questi due popoli sono molto congrui. Forse il clima mediterraneo, forse i rapporti intercorsi da sempre fra questi Paesi ma se scendo in Calabria ho la netta sensazione di parlare con miei conterranei.

5) Ti trovi spesso per ragioni professionali a lavorare e soggiornare all’estero. Quale idea hanno gli stranieri dell’Italia? Corrisponde ai soliti cliché o è basata su conoscenze meno scontate, più accurate e più vicine alla realtà?

Beh, l’idea che gli stranieri hanno dell’Italia è la stessa che gli italiani hanno dell’Albania. Poi ci sono quelli che l’Italia la conoscono davvero, mi è capitato di vedere qui a Londra il documentario di Annalisa Piras e Bill Emmott “Girlfriend in a Coma”, il quale mi è sembrato un perfetto quadro di quello che io stessa ho vissuto negli anni in Italia. Tuttavia, personalmente non mi preoccuperei della visione che gli altri hanno di noi, piuttosto concentro le mie energie sul “fare”.

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6) In questo blog mi occupo principalmente di letteratura, ma anche di cinema, di musica e del mondo artistico. Quali sono stati i libri, i film, le canzoni e le espressioni artistiche che ti hanno maggiormente influenzato e hanno contribuito a formare e perfezionare la tua conoscenza della lingua e della cultura italiana?

Nel 1997, appena sbarcata in questo piccolo paesino, Villanova di Cepagatti, in provincia di Pescara, conobbi in prima media un parrocco, Don Cleto. Mi faceva tanto ridere. Io non portavo mai la merenda a scuola, ma lui ogni giorno si preoccupava se io mangiassi, se io sorridessi, se ero felice o se ero triste. Durante l’ora di religione, Don Cleto decise di portarmi via dalla classe nel suo studio che era sopra la scuola. Nella stanza c’erano una infinità di libri, quaderni pieni di appunti e tante Bibbie in varie lingue. Il parrocco mi chiese di sceglierne uno. Perquisii con attenzione e alla fine presi tra le mani un volume molto corposo. Sulla copertina c’era scritto “William Shakespeare – Le opere”, tradotte in italiano da Montale e Quasimodo.

Trascorsi l’inverno tra il 1997-98 a studiare Shakespeare e me ne innamorai. Poi, ovviamente Montale e Quasimodo, Verga, Pirandello, Ungaretti, Saba, Silone etc, ma devo essere onesta, gli autori che hanno inciso davvero nella mia formazione sono Dostoevskij, Cechov, Goethe, Joyce, Orwell, Dickinson, Wordsworth, Hannah Arendt, Levi, e poi Brecht, le cui poesie sono state per me un punto di riferimento.

Lo ammetto: io

non ho speranza.

Il cieco parla di una via di uscita. Io

ci vedo.

Quando tutti gli errori sono esauriti

l’ultimo compagno che ci sta di fronte

è il Nulla.”

(Der Nachgeborene)

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7) Quali affinità percepisci tra il popolo albanese e quello italiano e quali sono le radici condivise?

L’Albania e’ stata caratterizzata da una lunga storia fatta di continue invasioni: dai greci ai romani, dai goti ai bizantini, ai bulgari, ai serbi, ai normanni, ai veneziani, agli svevi, agli angioini, ai turchi e infine agli italiani. Una somma di successione di popoli che hanno contribuito a modificare il codice genetico più e più volte e quindi alterato il patrimonio storico culturale sociale religioso e politico nei secoli. Come l’Italia, ma per motivi differenti, neppure, o ancor meno, un paese come l’Albania aveva mai conosciuto una compattezza nazionale. I due paesi, data la loro vicinanza geografica, hanno sempre avuto continue relazioni economiche politiche e sociali che risalgono alla diaspora albanese guidata da Giorgio Castriota di Skenderberg che ebbe come conseguenza una massiccia emigrazione di albanesi in Calabria alla fine del 1400. Entrambi sono popoli mediterranei e quindi condividono i modi di vivere la vita, poi noi abbiamo avuto la dittatura di Hoxha per cui siamo stati molto condizionati per 50 anni circa.

8) Tu scrivi per varie testate articoli ben documentati, basati su fatti e osservazioni reali. Se dovessi però scrivere un pezzo di pura fantasia, una specie di proiezione immaginaria sul futuro dell’Europa, quale scenario descriveresti?

L’unione dei popoli d’Europa sarebbe il più bello dei temi.

9) Questa domanda, strettamente legata alla precedente, riguarda invece il tuo ruolo nel mondo dell’editoria. Come ti vedi tra qualche anno, come sarà a tuo parere il mondo dell’informazione e della cultura nel futuro, e, potendo realizzare i tuoi più belli auspici, come vorresti che fosse?

Penso che non ci sarà più l’editoria, piuttosto non ci saranno più i giornali per come li intendiamo. Credo che ognuno potrà essere l’editore di se stesso attraverso il proprio canale.

10) Ringraziandoti per questa tua intervista, ti chiediamo una tua dedica personale ai lettori di questo blog e a tutti gli appassionati di letteratura. Sul frontespizio del tuo libro personale cosa scriveresti?

A Ninì, la bimba dalla ferrea coscienza.

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Anita Likmeta

Anita Likmeta
Anita Likmeta
Dottoressa in Storia medievale, moderna e contemporanea laureata in Lettere e Filosofia all’Università di Roma “La Sapienza, Anita Likmeta è una storica, scrittrice e documentarista.
Nata a Durazzo in Albania si trasferisce in Italia con la famiglia all’età di 11 anni, dapprima nella cittadina di Pescara e in seguito a Roma dove ha frequentato l’Accademia di Recitazione “Corrado Pani”. Nel 2011 si trasferisce a Parigi dove maturerà il suo saggio storico nonché tesi di laurea, discussa con il professore Giancarlo Giordano, in merito alle relazioni tra l’Albania e l’Italia nel periodo che va dal 1922 al 1943. Sempre a Parigi conosce una realtà culturale che l’ha portata a co-dirigere un documentario insieme al regista francese del collettivo Kourtrajmé Mohamed Mazouz dove ha intervistato il candidato premio Nobel per la letteratura e conterraneo Ismail Kadaré, l’artista Kiki Picasso, l’artista italiano Tanino Liberatore e il politico francese Francois Asselineau. Il 13 ottobre del 2013 il giornale “Il Fatto Quotidiano” pubblica un suo articolo in cui racconta il viaggio che l’ha portata in Italia e la sua visione in merito alle politiche dell’immigrazione. Da gennaio 2014 scrive sull’Huffington Post diretto da Lucia Annunziata. Da aprile ad agosto 2015 ha collaborato per la pagina culturale IlGiornaleOff de Il Giornale diretto da Edoardo Sylos Labini.
Vive fra Londra, Roma e Milano.

PASOLINI TRA FAME DI VITA E ARCHETIPI DI LUOGHI

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La terza tappa della rubrica VIAGGIO AL CENTRO DELL’AUTORE approda sull’idroscalo di Ostia, dove, quasi quarant’anni fa, trovò la morte uno degli artisti italiani più complessi ed eclettici. Questo excursus prova a seguire passo dopo passo il suo percorso in alcuni dei luoghi che hanno segnato profondamente il suo vissuto personale e professionale.

Viaggio rubrica Dedalus

Pasolini tra fame di vita e archetipi di luoghi

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In principio era Pasolini, Pier Paolo Pasolini, poi divenne pasoliniano. Un pò come Fellini è, ineluttabilmente, felliniano.
L’aggettivazione toglie o aggiunge connotati identitari all’autore? Pasolini il cui pensiero si è spinto a guardare oltre l’immanente si muove su dicotomie proprie esclusivamente del suo tempo oppure ancor oggi valide e attuali? In questi tempi frenetici in cui si twitta e si tagga è facile ridurre la complessità di una persona ad un aggettivo. E’ il caso però di chiedersi se e come Pasolini diventò pasoliniano.
Un tentativo di risposta può essere fornito proprio dall’accostamento con Fellini, per analogia e per contrasto. Entrambi hanno rappresentato il proprio tempo, gli anni in cui l’Italia ha provato a scrollarsi di dosso secoli di miseria culturale e di soggezione a censure, condizionamenti, frustrazioni camuffate da sani e canonici principi. Sia Pasolini che Fellini utilizzano, seppure in modo molto diverso, le armi del pensiero divergente, onirico, e la forza dirompente del sesso, inteso come impulso liberatorio, propedeutico alla conoscenza, mai come mero voyeurismo o surrogato della pornografia. Un mutamento di portata epocale non poteva tuttavia non avere conseguenze, anche e soprattutto a livello psicologico. Fellini si protegge rivestendo le radici della propria terra, geografica e mentale, con l’alone di una visione onirica, un film nel film, pellicola nella pellicola in grado di tramutare un posto in un luogo della memoria e del sogno, al di là di ogni connotazione spaziale e temporale. Pasolini, sul fronte opposto, rende i luoghi così netti, scabri, scavati nei contorni, sottolineati mille volte nella loro dimensione primigenia fino al punto in cui, seppure per vie diversissime, giunge anche lui allo straniamento, alla dissoluzione delle variabili reali e ineluttabilmente mutevoli, le assi della cronologia e della topografia.

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I luoghi diventano topos, siti della mente, coordinate del pensiero. Diventano posti che si sottraggono a qualsiasi connotazione concreta, qualsiasi realtà. Vengono inglobati e assimilati nella categoria specifica dei “luoghi pasoliniani”. Luoghi dove la vita brucia come le giornate d’estate. Tra borgate e marane si accendono attimi scarni d’esistenza e lo sguardo del poeta vaga e indaga alla ricerca di quella purezza e forza genuina delle cose, privando i luoghi di ogni monumentalità, di ogni cifra stilistica, attraversando, con la mente e con il cuore, il degrado delle periferie, delle borgate, gli spazi vuoti della campagna desolata e improduttiva, paradigma di autenticità amara.
Pasolini, per coerenza filosofica e ideologica, per rivalsa contro il mondo, forse anche per un impulso a metà tra eroismo e autolesionismo, guarda nell’abisso, lo scruta, e, ineluttabilmente, ne viene attratto.
Il poeta subisce il conflitto tra i residui di una cultura borghese e cattolica assimilata suo malgrado e la volontà di negarla, ristrutturando il suo orizzonte, il mondo artistico e umano che vive. Per questo desiderio di azzeramento e riscrittura, Pasolini sceglie come specchio oscuro e icona ideale il rudere, la casa fatiscente, gli spazi inurbani non raggiunti dal cemento della città. E’ questa la scabra essenza in cui Pasolini fa muovere i suoi personaggi e i suoi racconti. Scriveva Pasolini: “Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile.
Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.

MOSTRE: DA FONTANA A BAJ, GLI IRRIPETIBILI ANNI '60
E ancora:
“Sono scandaloso. Lo sono nella misura in cui tendo una corda, anzi un cordone ombelicale, tra il sacro e il profano”.
Sacro e profano, passato e presente, realtà e sovrastrutture. Sono questi gli estremi tra cui si muove il Pasolini uomo e artista. Se Fellini ha trasformato la sua Rimini in un fondale della memoria e Roma in un set per un film che dichiara costantemente la sua natura fittizia, Pasolini sceglie il tragitto contrario: toglie il velo di retorica, fa a pezzi i dépliant turistici e i cliché creati ad hoc dalla sottocultura dominante, dalle Pro Loco e dagli enti locali e statali che promuovono il moderno come progresso e l’asfalto come via privilegiata del benessere.
Pasolini percorre con la macchina da scrivere e la cinepresa l’Italia e il mondo. Bologna, città colta ma ancora soggetta a compromessi e miserie di stampo “paesano”. Il Friuli contadino, Casarsa, paese natale della madre, Susanna Colussi, così crudo e chiuso, duro di pettegolezzi che annientano tutto ciò che è “diverso”. Terra di solitudine che spinge alla fuga. Matera, città di pietra, così simile ai luoghi della crocifissione, al Golgota sempre presente della miseria vera, spietata, disumanante. Spazio per una verità che vive ogni giorno la dimensione del dolore, l’essenza quasi preistorica che sembra perduta, eppure esiste, ai margini di tutto, perfino della possibilità di concepirla, di immaginarla come esistente.
Il mondo poi, i viaggi in compagnia di Moravia, della Maraini, della Callas, per abbinare la cultura all’asprezza della verità. Lo Yemen, l’Africa, il fascino di un’arte fatta di terra e fango, costruzioni mirabili nella cruda nudità del deserto. L’arte nel silenzio e nello spazio assoluto della riflessione. Al ritorno da ogni viaggio, Roma, la città “madre”. Mamma Roma, così diversa dal suo figlio, così distante eppure imprescindibile. La città che gli dona la gloria e il pane, ma anche, con un patto non scritto ma chiarissimo per tutte le parti in causa, la morte. Quella effettiva, sulla spiaggia di Ostia, in un sudario fatto di granelli di sabbia. Scenario crudelmente reale e allo stesso tempo del tutto simbolico. Metafora di sangue. La Roma di Pasolini è quella delle borgate, degli accattoni, dei personaggi che vivono sul filo di un rasoio affilato. Gente con un fascino atavico e fatale: una fonte inesauribile di inchiostro e di immagini dotate di una crudele, poeticissima fame. Così diversa e così uguale alla sua. Pasolini se ne ciba, se ne sazia, sapendo che si tratta di sostanze estranee al suo corpo, qualcosa di lontano dalla sua natura colta e in fondo aristocratica, nonostante tutto, a dispetto di ogni scelta e volontà. Un avvelenamento deliberato e sistematico, non per rendersi immune, ma, semmai, sperando di morirne in modo adeguato, diventando ciò che ha raccontato, la sostanza delle proprie parole e delle proprie inquadrature.
Per colmare il divario tra la dimensione effettiva e il proprio ideale, Pasolini, come detto, tende a riportare i luoghi della sua esistenza alla dimensione originaria, scevra da tutto ciò che li ha tramutati e standardizzati, resi moderni nell’accezione più becera. Per Pasolini l’artista deve, attraverso la sua opera, custodire e proteggere un paesaggio culturale. In questa prospettiva, il paesaggio non è solo ambiente geografico e naturale, ma anche e soprattutto ambiente storico e umano: un territorio stratificato nel tempo, che è insieme universo linguistico, identità di luoghi, e patrimonio d’immagini artistiche che questo ambiente trasmette. Ciò spiega perché, in un frammento d’autoritratto en poète, Pasolini veda se stesso come una “forza del passato”:

Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro sulla Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopo storia,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. (B, I, 619)

Il primo intreccio tematico che si presenta all’attenzione del giovane Pasolini, filologo e poeta, è il legame tra paesaggio, memoria e lingua. La lingua, nella sua pluralità di tradizioni e di volti, esprime una realtà molto più ricca e multiforme rispetto a quella del territorio “ufficiale” di un paese. Pasolini lo scopre con il dialetto friulano, da lui utilizzato per la sua prima raccolta di versi, le Poesie a Casarsa (1942), poi ampliato come La meglio gioventù, (1954). Casarsa, il paese materno, è una “intatta provincia dell’atlante neolatino”: un atlante, dunque, non tanto geografico quanto soprattutto storico e linguistico.

…Ciasarsa
– coma i pras di rosada –
di timp antic a trima.

(…Casarsa
– come i prati di rugiada –
trema di tempo antico.) (B, I, 17)

Imparare a usare il dialetto come “strumento di ricerca” implica un passaggio preliminare: imparare il dialetto. Ciò è significativo, se si tiene presente che il friulano non era normalmente parlato dalla madre di Pasolini: la media borghesia, infatti, si esprimeva in veneto. Il friulano di Casarsa, invece, è una lingua materna, poiché arcaica, contadina, una sorta di mistero pre-istorico: di qui l’idea di un percorso a ritroso “lungo i gradi dell’essere”. Il dialetto, per Pasolini, coltissimo scrittore dotato di un italiano nitido e ricco, diventa un paradossale quanto significativo atto di riscoperta ma anche di ribellione, quasi un atto di disobbedienza civile. La realtà che Pasolini decide di rappresentare ha anch’essa un volto poeticamente provocatorio. Un primo gesto di coscienza politica.
In opposizione agli spazi scabri del Friuli, il ricordo di Bologna, gli anni della formazione e della lettura, gli anni in cui assimila bellezza e scrittura, portici magnifici e libri fondamentali: “Il Portico della Morte è il più bel ricordo di Bologna. Mi ricorda l”Idiota’ di Dostoevskij, mi ricorda il ‘Macbeth’ di Shakespeare, i primi libri. A quindici anni ho cominciato a comprare lì i miei primi libri, ed è stato bellissimo, perché non si legge mai più, in tutta la vita, con la gioia con cui si leggeva allora”. E’ ironico, comunque, notare, in questo frammento autobiografico, un’ironia amara nei nomi: perfino negli anni in cui il poeta respira serenità, la Morte, da quel Portico, sembra inviargli un monito, un appuntamento per un futuro prossimo.
Roma, dunque, il terzo grande polo dell’esistenza di Pasolini. Il luogo che gli fece conoscere il cinema di Renoir e Clair, che gli consentì di avvicinarsi all’arte di Giotto e Masaccio e di avviare fondamentali esperienze letterarie come la rivista “Officina”.
Il mondo di Pasolini diventa Roma. Anche qui, il primo approccio è un approccio linguistico. L’ingresso nella lingua è una lettura creativa del reale, un’operazione determinante per inquadrare e “fotografare” un luogo e il suo paesaggio socio-culturale. E il romanesco affonda nella vita delle borgate, esattamente come il friulano saliva dalla vita del mondo contadino. Ma per Pasolini Roma è, in sé, l’icona del linguaggio delle cose. È la vitalità urlata dei ragazzi di vita; è la grandezza del passato che convive con la miseria delle periferie sottoproletarie; è la città del cinema, della cultura, dello squallore; del potere temporale e di un “Gesù corrotto nei salotti vaticani”, una città papalina e atea, insieme nel tempo e fuori del tempo.

Con una tecnica che è già cinematografica, Pasolini realizza lunghe carrellate storico-geografiche sull’Italia, che gli permettono la “continua, attentissima resa di una serie di quadri di paesaggio”. Qui però torna, ineludibile, la domanda da cui siamo partiti: si tratta di quadri realistici o astratti, in qualche modo filosofici? La seconda opzione prevale, alla luce di quanto si è detto e osservato in questa breve escursione sulle tracce di uno dei più complessi e irrequieti artisti italiani del Novecento. Pasolini, nei suoi libri e nei suoi film, ritrae sempre il suo paesaggio interiore, l’idea del mondo che avrebbe voluto, che amava, e che lo inorridiva, ma che sentiva essere la sola fonte di autenticità a cui attingere. A costo di annegare nel pozzo delle verità scomode e taglienti come i coltelli e le urla e le vitalissime pazzie dei ragazzi di strada. Pasolini diventa se stesso nel momento esatto in cui si nega, nega ciò che davvero era. Si accosta al contrario di sé, copula con il lato opposto della sua natura intrinseca, per esprimere ciò che concepiva come la sola arte degna di tale nome: quella scabra, giottesca, lontana da qualsiasi elaborazione inessenziale.
Il paradosso, è che in questa sua ricerca di un’Italia come era, come autenticamente fu in un passato distante e incontaminato, ha finito per parlare con un’accuratezza documentaria di un’Italia attuale, di una parte del paese che si tendeva e in fondo si tende a nascondere, a ignorare, rimuovendola dalla coscienza e dai manifesti pubblicitari.
L’Italia “pasoliniana”, cruda, essenziale, così vicina alla dimensione primigenia, ha fatto intravedere, per contrasto, come in una fotografia sovraesposta, ciò che realmente esiste, al di là dei confini della rispettabile patina accattivante cara ai turisti.
Pasolini ha avuto in sorte il compito di narrare una dimensione tanto pura e ideale, così connotata secondo il suo modo di vedere e di pensare, da poter apparire incorporea, astratta, filosofica. Eppure, alla fine, il suo mondo primigenio, sognato, creato, recuperato, mondato da ogni orpello, ha fatto apparire appena dietro l’orizzonte delle palazzine una realtà più vera del vero, forte e disperata come la sua sete e la sua fame di vita. Quella stessa vita, che, guardata dritta negli occhi, lo ha condotto ad una morte, che è stata ed è, emblematicamente, assolutamente reale e tuttavia già mitica, avvolta in mistero di urla e silenzi, risa e ghigni ottusi e crudeli. Tanto vera da sembra immaginaria. Assolutamente “pasoliniana”.
Ivano Mugnaini