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Luoghi d’autore. A spasso con Calvino

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L’intento della rubrica Luoghi d’autore è descritto qui sotto: provare a vedere alcuni luoghi, borghi o città, reali o immaginari, con gli occhi di scrittori fondamentali del secolo scorso e non solo.

Le tappe fondamentali di questa “esplorazione” a metà strada tra documento e immaginazione, verranno ospitate dalla rivista L’Ottavo, a cura di Geraldine Meyer, che ringrazio per l’ospitalità.

Pubblico qui la prima “passeggiata” letteraria, quella con Italo Calvino. E vi invito a leggere l’articolo completo, assieme ad altri scritti in prosa e poesia, a questo link: 

https://www.lottavo.it/2020/03/luoghi-dautore-oggi-a-spasso-con-calvino/?fbclid=IwAR21c5ka0Q4ORwJsA_FcHn-kIgGEN6vJkkSuPwx3afBEa_WBXszePAXe-E0 

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Luoghi d’Autore  contiene esplorazioni, esercizi di lettura e rilettura, brevi ma appassionate escursioni “informali” in abiti lievi e colori accesi su fondamentali sentieri panoramici. Indaga sul  rapporto tra alcuni scrittori e poeti del Novecento e i loro luoghi di residenza ed elezione, le città e i borghi in cui hanno vissuto e lottato per il diritto di esistere e resistere, per la necessità, il fardello e il privilegio dell’espressione.

Rubrica a cura di Ivano Mugnaini

A spasso con Calvino: nei luoghi, oltre i luoghi fino dentro la realtà

Se una notte d’autunno un lettore….

Se una notte d’autunno un lettore si trovasse a pensare a Calvino, alla sua fama, alla sua controversa ma innegabile attualità, alle polemiche a tratti aspre e in altri casi leziose che ne fanno comunque oggetto di dibattito come se avesse pubblicato oggi stesso un nuovo libro… ebbene, il suddetto lettore si troverebbe, alla fine, a riflettere su delle nuove o vecchie cosmicomiche.

Italo Calvino (Foto da illibraio.it)

Calvino è stato un “pianista” della parola. Ha saputo adattarsi con elasticità alle esigenze, ai temi, alle corde e agli accordi del suo essere e a quelli del mondo. Ecco, probabilmente è questa una delle possibili parole chiave: mondo. In primis per l’internazionalità autentica, genetica, che gli era propria. Non solo per la nascita nella caraibica Cuba, ma soprattutto per la capacità di esplorare continenti, lingue e mentalità diverse e farle proprie. Estremamente ligure in questo, con un piede sulla terraferma e uno proteso verso il mare, calmo o in tempesta, limpido o denso e scuro. Ma Calvino è stato e ha scritto del mondo perché ha rifiutato di collocarsi nella proverbiale torre d’avorio. Ha percorso e abitato città reali, estremamente visibili, con quello sguardo attento e astuto da marinaio, tra sorriso ironico e amaro.

Di New York, Parigi, Roma e di mille altre luoghi visti e vissuti, ha colto il mito senza abdicare alla realtà, proponendo e rielaborando, mattone su mattone, una forma di verità che facesse pensare senza lacerare, conservando la capacità di spaziare tra presente e passato, tra la dimensione concreta e una giocosa, profondamente umana, filosoficamente infantile.

Di questi ossimori e questi paradossi si nutre la sua scrittura e l’attrazione che esercita. Talmente ampia da includere anche la sua controparte, le prese di posizione di alcuni detrattori che comunque fanno riferimento ai suoi testi, li analizzano e li dissezionano, dimostrando immancabilmente una conoscenza approfondita dei tessuti e delle arterie di quel corpo così multiforme. Calvino ha il dono e il castigo di generare giudizi divergenti. La mia esperienza personale non ha alcun rilievo sul piano statistico, chiaramente, ma può servire, almeno qui e ora, a confermare che i giudizi sullo scrittore molto di rado sono serenamente anodini. Un mio amico molto colto e preparato, formidabile bevitore poco santo e parecchio logorroico, non molte sere or sono mi ha bloccato al tavolo di una cena per oltre un paio d’ore per dirmi, tra le altre cose, che a suo avviso tutta la produzione di Calvino non vale niente (anche se lo ha detto in termini più coloriti, abbondanti di lettere zeta) e che si salva solamente “Se una notte d’inverno”, proprio in quanto testo atipico, quasi un non-romanzo, una specie di ibrido alla Frankenstein, oppure un divertissement, insomma una “roba strana”, fuori schema. Pochi giorni dopo, in virtù della logica dell’alternanza, una mia amica scrittrice e giornalista mi ribadiva con foga, al contrario, il suo amore, non per me ma per il suddetto Calvino. Più che di amore si trattava e si tratta di vera e propria fede, laica, d’accordo, ma del tutto assoluta, quasi integralista. La giornalista dalle grandi doti comunicative aveva creato addirittura un club, un Circolo Pickwick di giovani scrittori di belle speranze, i quali, ispirandosi allo stile e ai temi cari a Calvino, avevano scritto un’antologia di racconti dal titolo “La consistenza”, con un’eco lunga e appassionata che riportava alle Lezioni americane da lei idolatrate e recitate brano dopo brano come versetti biblici o coranici.

Tutto questo per ribadire che il viaggio di Calvino prosegue, con costanza, sempre di buona lena, e che la sua forza con ogni probabilità è in quella capacità di generare consistenza nell’inconsistenza e varietà nell’uniformità: giudizi contrapposti ma attenzione identica. Leggi il seguito di questo post »

Intervista a Demetrio Paolin e Giorgio Scianna – Festival Indipendentemente 2017

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Il Festival Indipendentemente, di cui scrivo qui sotto un succinto programma (per informazioni più dettagliate http://www.indipendentemente.eu/ ) ospita artisti, scrittori e musicisti che ragionano, anche attraverso le loro opere, sul tema della “consapevolezza”.

Ho avuto l’opportunità e il piacere di poter chiacchierare con due degli scrittori ospiti del Festival, Demetrio Paolin e Giorgio Scianna.

Abbiamo parlato di scrittura, del mondo in cui viviamo e dei mondi possibili, quelli a cui pensiamo e che immaginiamo.

Le mie domande hanno ricevuto risposte originali, mai banali. Mi hanno chiamato in causa, mi hanno spinto a guardare le cose da prospettive diverse, in alcuni casi, confermando o contrastando ciò che avevo pensato e visto, fornendo angolazioni basate su esperienze autentiche, di uomini oltre che di scrittori.

Il mio ringraziamento, quindi, a Giorgio e a Demetrio per la partecipazione autentica e per il dialogo.

Ogni lettore, non solo gli “addetti ai lavori”, vi potrà trovare qualcosa che lo riguarda: una riflessione sulla propria “in-dipendenza” e sul proprio modo individuale, unico e differente, di creare (e modificare giorno per giorno) la propria consapevolezza e il proprio modo di raccontare e di raccontarsi, dicendo ciò che siamo e ciò che non siamo, le passioni, le paure, le speranze. Tutto ciò che di umano continua a vivere e si continua a scrivere . IM

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Indipendentemente, il primo festival dell’Editoria e delle Arti si terrà nel Castello di Belgioioso a Pavia dal 6 all’8 ottobre. Indipendentemente è una manifestazione del tutto nuova che coinvolge il teatro, la musica, la storia dell’arte e l’editoria e vuole far dialogare tutte queste parti tra loro con un fine ben preciso: creare consapevolezza.

Numerosi gli autori ospiti: Silvia Ballestra,​ Raul Montanari, Ivano Porpora, Daniela Brogi, Francesca Mazzuccato, Giorgio Scianna, Demetrio Paolin, Francesco Muzzopappa, gli storici dell’arte Maria Elena Gorrini, Davide Zizza, Stefano Maggi, il comico e scrittore Stefano Vigilante e molti altri.

Venerdi 6 ottobre Ore 18:30, Sala dei Due Balconi: Conforme alla gloria (Voland), di Demetrio Paolin, con l’autore e la pubblicista, blogger, editor Chiara Solerio .

Domenica 8 ottobre ore 19 

Sala degli Affreschi: La regola dei pesci (Einaudi), di Giorgio Scianna, con l’autore e la scrittrice Silvia Longo

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SETTE DOMANDE A DEMETRIO PAOLIN

autore di CONFORME ALLA GLORIA, Voland, 2016

in occasione della sua partecipazione a Indipendentemente, il primo festival dell’Editoria e delle Arti in programma presso il Castello di Belgioioso a Pavia dal 6 all’8 ottobre.

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1) Il titolo del Festival di cui sei ospite è “Indipendentemente”.

A tuo avviso, quanto, come e a che prezzo si può essere indipendenti, oggi, come scrittori e come uomini?

Parto da un paradosso. Io sono ospite di questo festival perché negli anni ho sviluppato una seria e durevole, vorrei dire ossessiva, dipendenza dal mettere insieme le parole. Quindi io non sono indipendente, ma anzidipendo totalmente da ciò che scrivo. È la stoffa di ciò che scrivo che mi porta a essere qui intervistato da te. Quella che tu chiami indipendenza èsecondo me accettare che esiste qualcosa che a cui chiniamo il capo; a cui infine vinti ci arrendiamo. Per me questa cosa è la scrittura.

Quindi penso che l’unico modo per essere indipendenti sia in realtà cercare qualcosa da cui dipendere, qualcosa che definisca il nostro stare nel mondo. Quando scrivo, non mi chiedo cosa voglia da me il mercato, il mio editore potenziale, la mia agente, ma semplicemente mi metto a servizio della storia che ho pensato e quella scrivo. La scrivo al meglio, perchécredo che sia importante, che sia etico fare un bel lavoro, ma io sono al servizio della storia e non di una idea di mercato, di marketing etc. etc… Èmolto semplice: a ogni parola ne segue una e una soltanto; e l’insieme di queste forma una frase, che si trasforma in un periodo che diventa pagina. Il libro si scrive parola dopo parola: questa logica conseguenza sintattica è ciò a cui sono devoto, è ciò da cui dipendo, ed è ciò che mi rende indipendente.

2) Lo scopo programmatico del Festival è “creare consapevolezza”.

Puoi darci una tua definizione di questo termine, e di ciò che, nel panorama e nella mentalità odierna, a livello politico, dell’informazione e del modo di vita, la favorisce e, sul fronte opposto, la ostacola?

Viviamo in un mondo in cui la paranoia e il complotto sono all’ordine del giorno, in cui per ogni dato fattuale esiste una contro narrazione, il piùdelle volte bislacca che si nutre dell’ignoranza. Io credo che sia necessario avere un atteggiamento di responsabilità nel raccontare le nostre storie, nell’esprimere i nostri giudizi. Creare consapevolezza è uno slogan bellissimo che ha un fondamento etico complesso. Lo scrittore non deve avere il vizio della superiorità, ma anzi si impegna ad acquisire il punto di vista “nemico” (mi sia concesso il termine). Essere consapevoli significa guardare con occhi completamente altri rispetto ai nostri. Io sono affascinato dalle motivazioni storiche psicologiche etiche dei carnefici non per crudeltà, per cinismo, ma perché assumendo il loro sguardo io posso dare a chi mi legge, a chi si attarda nelle pagine della mia storia, una narrazione consapevole, una narrazione responsabile di un fatto. Essere consapevoli vuol dire non fare generalizzazioni, e non fare semplificazioni. La consapevolezza usa una lingua lenta, che ha bisogno di tempo ed elaborazione, lontana dalla frenesia e dell’equivoco del linguaggio spigliato dei social.

3) Hai provato anni fa, seppur brevemente, la strada della poesia, percorrendo alcuni passi in quella direzione. Quali differenze hai percepito con più forza ed evidenza tra la poesia e la narrativa? Ritieni che a dispetto di tali differenze sia possibile lasciare uno spiraglio alla poesia anche in ambito narrativo o ènecessaria una separazione netta?

Non credo di essere un poeta.

Ho una competenza linguistica, so come si scrive un verso, ma non sono un poeta. Per questo motivo pur scrivendo versi non li raccolgo. Ho questo vezzo totalmente antieconomico dal punto vista della scrittura. Sul mio pc c’è un file nominato “cose_a_capo.rtf”. Quando scrivo una poesia, cancello quella precedente. E così da anni io ho sempre un’unica manciata di versi e gli altri sono perduti. La poesia italiana negli ultimi ha prodotto testi molto belli e potenti. Mi vengono in mente Andrea De Alberti, Giovanna Frene, Gilda Policastro, Maria Grazia Calandrone, Andrea Ponso. Io non sono in grado di scrivere opere come le loro, ogni tanto mi servo dei versi nelle mie narrazioni o scrivo proprio dei piccoli racconti in versi, ma sono più una forma ibrida di racconto che non una poesia vera e propria.

4) Una vexata quaestio, o, meglio, un rompicapo molto nostrano: per quale ragione a tuo avviso il racconto come forma narrativa in Italia stenta a decollare mentre in altre nazioni èseguitissimo e molto amato sia dagli editori che dai lettori?

Penso agli anni ’90, quando ho incominciato a leggere la nuova narrativa italiana, e ai libri, che hanno influenzato il mio apprendistato narrativo e mi viene da dire che erano quasi tutti libri di racconti, ad esempio i testi di Mozzi, di Nove, di Drago e di Voltolini. Il problema, io credo, non è il racconto come genere narrativo, ma il lavoro di post-produzione. Non basta, insomma, prendere 10 racconti e metterli insieme per dire “ecco un libro di racconti”. Un libro di racconti, non è una raccolta di racconti, prendi un volume come Fiction 2.0 o il Male Naturale di Mozzi e ci troverai un equilibro interno, una voce, una tessuto comune ovvero una sua organicità.

Io credo che la mancanza di questa tensione compositiva (nel senso proprio di orchestrazione) ha prodotto la disaffezione del pubblico per i racconti. Oggi, però, ci sono dei segnali positivi. Riviste come Effe – periodico di Altre narrativitàCarieCadillac, blog come Cattedrale e case editrici come Racconti edizioni siano il segnale che forse sta tornando una attenzione reale verso questo tipo di narrazione.

5) Il tuo romanzo Conforme alla gloria esplora il confine tra ciò che è umano e il suo contrario, la negazione di tutto quello che ci rende esseri degni di tale nome. La cronaca, ormai da molti mesi, sembra fare da involontario ufficio marketing al tuo romanzo, ossia, fuori di metafora e al di là della battuta esorcizzante, ogni giorno purtroppo ci offre spunti e occasioni per riflettere sulla dicotomia a cui si è fatto cenno, ponendoci di fronte a nuovi disumani orrori. Come si colloca secondo te il nostro tempo nel contesto della struttura evolutiva del male? Siamo di fronte a forme nuove o è soltanto un modello atavico che si perpetua?

Io ho l’intima convinzione che la scrittura abbia a che fare con il vero, e il luogo centrale in cui il vero appare è appunto la riflessione sull’umano e sul disumano. Conforme alla gloria, ma anche tutta la mia produzione precedente e ipotizzo quella futura se mai ci sarà, ha come punto nodale non tanto descrivere le differenze tra umano e disumano, ma i momenti di attrito tra queste due categorie: ora questa riflessione appunto è vecchia come il mondo, è forse uno degli archetipi narrativi fondanti di ogni letteratura. Io non credo che il male abbia una evoluzione, il male semplicemente èEsiste e come esistente fa parte del nostro orizzonte umano e storico. Il fatto che il male abbia forme diverse, non è indicativo di un suo cambiamento, ma al massimo di una sua diversa percezione. Pensa a come si è modificato il nostro atteggiamento rispetto alle stragi dell’Isis. Un tempo la timeline di Facebook, dopo un attentato, era per giorni piena di riflessioni, immagini, preghiere, improperi dibattiti sull’argomento. Chi si ricorda che pochi giorni fa due donne sono state sgozzate in strada a Marsiglia?

Il compito dello scrittore è non eludere lo sguardo, e lo può fare in un unico modo: scrivendo una storia che per quanto terribile e oscena sia cosìbella e da costringere chi legge e rimanere lì nonostante il male che è presente nelle pagine, perché vuole arrivare al fondo.

6) A livello tecnico e di coinvolgimento emotivo quali differenze hai notato tra il resoconto dei fatti storici come saggista (come ad esempio in Una tragedia negata) e la narrazione basata sulla storia in qualità di romanziere?

L’attività di critico, e di critico letterario, mi piace perché è il tentativo di produrre senso e narrazione, partendo altri testi e altre opere. In questo senso il coinvolgimento emotivo è più razionale, è più misurato e sobrio (mi viene da dire). Fare critica è provare a collegare con fili lunghissimi e tesi, testi diversi per spirito scrittura e indole, ma in cui tu rivedi qualcosa di tuo. Ecco forse il momento più emotivamente alto nello scrivere un saggio è quando realizzi che nel disordine delle tue letture, c’è qualcosa che collega tutto. Il critico è la cosa più vicina ad un paranoico che io possa immaginare, cerca di trovare una sorta di visione d’insieme anche quando non c’è.

Scrivere un romanzo con una precisa connotazione storica èparadossalmente molto più semplice, l’attenzione devi rivolgerla ai dettagli: conoscere bene gli usi e i costumi, conoscere le strade e i luoghi in cui ambienti la storia, i modi di dire e la moda del tempo. Poi il resto viene facile, almeno per me. In entrambi i casi il segreto è uno: studiare molto, leggere molto, prendere appunti, farsi schemi, specchietti. Nessun romanzo si scrive di getto, tanto meno un romanzo con ambientazione storica. Ora mi si dirà: ma lo scrittore X ha scritto il capolavoro mondiale Y in 30 giorni. La mia risposta è: X è un genio, noi no.

7) Sempre facendo riferimento a Conforme alla gloria e alla tua esperienza di uomo e di scrittore, intravedi in termini storici e sociali possibilità di miglioramento, o almeno semi di speranza? Credi che anche questa nostra epoca buia possa finire così come sono finite le pagine più nere di alcune efferate dittature? In termini più ampi, ritieni che la letteratura possa solo documentare scenari reali e mondi fittizi oppure debba tentare di influenzare il modo di pensare e di agire?

Io non credo nella magnifiche sorti e progressive. Non ci ho mai creduto, non ho mai avuto fiducia nel sole dell’avvenire. Penso che invece di guardare in avanti dovremmo guardare alla tradizione. Se c’è una speranza è nella tradizione. Abbiamo scrittori grandissimi che non studiamo più, abbiamo una cultura che neppure sappiamo di possedere. Fate così, ad esempio, prendete la macchina e andate a Ascoli Piceno. Giratela, guardate lo stupendo romantico che è presente in questa città e ditemi poi chi lo sapeva? Chi immaginava tanta bellezza?

In senso più ampio. Io non credo che viviamo in un mondo così terribile, per quanto riguarda il nostro occidente. L’Italia non è una dittatura, è un luogo dove puoi dire e scrivere quello che ti pare senza finire in prigione e alla gogna. Che nel resto del mondo poi il livello di democrazia sia peggiore o in alcuni casi assente è vero, ma che la letteratura possa produrre un effetto rispetto a questo, mi spiace ma credo di no.

La letteratura non serve. La letteratura non cura, non redime, non salva, non produce rivoluzioni, non defenestra dittatori, non fa cadere regimi. La letteratura produce una storia, la racconta meglio che può e come può; la letteratura fa in modo che una persona abbia uno sguardo nuovo sul mondo; la letteratura non fa l’uomo nuovo, ma dà la possibilità di guardare ciò che gli sta intorno con una responsabilità e una consapevolezza diverse.

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SETTE DOMANDE A GIORGIO SCIANNA

autore di LA REGOLA DEI PESCI, Einaudi, 2017

in occasione della sua partecipazione a Indipendentemente, il primo festival dell’Editoria e delle Arti in programma presso il Castello di Belgioioso a Pavia dal 6 all’8 ottobre.

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1) Il titolo del Festival di cui sei ospite è “Indipendentemente”.

A tuo avviso, quanto, come e a che prezzo si può essere indipendenti, oggi, come scrittori e come uomini?

Oggi non vedo tanto il rischio di asservimenti politici o ideologici, a meno che non si operi in settori specifici. Il rischio è il pensiero dominante, quello ci condiziona tutti, in ogni momento. Oggi da Twitter, Instagram, Facebook sappiamo immediatamente cosa pensano su un tema determinato le persone che riteniamo simili a noi per valori, per affinità, per simpatia. Prima di esserci ancora fatti un’idea autonoma su un quesito elettorale, su un film, su un fatto di cronaca sappiamo già cosa pensano quelli del nostro ambiente di riferimento. E questa è una gabbia mentale. Avere un giudizio libero e personale diventa una conquista.

2) Lo scopo programmatico del Festival è “creare consapevolezza”.

Puoi darci una tua definizione di questo termine, e di ciò che, nel panorama e nella mentalità odierna, a livello politico, dell’informazione e del modo di vita, la favorisce e, sul fronte opposto, la ostacola?

La consapevolezza può nascere solo da un percorso individuale coerente costruito in base alle nostre aspettative e alle nostre capacità. Oggi ci sono palchi e piattaforme naturali e virtuali di ogni tipo (TV, ancora i social) che consentono di avere una visibilità immediata, di bruciare le tappe di questo percorso. A volte questo rappresenta un aiuto enorme perché consente di accorciare le distanze non solo col pubblico, coi lettori, con gli spettatori, ma anche con gli altri artisti. A volte diventa invece un rischio molto alto: si può essere portati a forzare percorsi, a interromperli oppure a inseguirli in maniera innaturale, alla ricerca di scorciatoie pericolose.

3) Il tuo saggio Narrativa italiana oggi è del 2011. A sei anni di distanza come sono mutate le istantanee e in che direzione si sono spostati i confini?

Per fortuna l’evoluzione è continua: nuovi autori sono entrati, nuove suggestioni e nuovi temi si sono imposti. Credo che l’impalcatura di quella fotografia però regga ancora. Se la riprendessi oggi mi piacerebbe parlare di tecnologia, di realtà virtuale, degli impatti sugli schemi della narrazione delle nuove scoperte.

4) Nel 2014 per Einaudi hai pubblicato il tuo terzo romanzo,Qualcosa c’inventeremo. Prendendo il titolo come spunto, ritieni che a livello narrativo, ma anche individuale e sociale, si possa creare, forgiare, inventare ex novo?

Si dice spesso che tutto è già stato scritto e che si possono solo declinare storie note in modo personale. Non sono sicuro che sia così, non solo perché la cronaca è una sfida continua ed è importante trovare il modo di rappresentarla, ma anche perché i mezzi e gli strumenti narrativi sono in divenire. Le serie tv negli ultimi anni hanno messo in discussione tanti di noi.

5) La regola dei pesci, il tuo romanzo di recente uscita, ha un titolo fascinoso, surreale e in qualche misura ossimorico. Puoi dirci come è nato il titolo e se è frutto di un’intuizione immediata oppure il risultato di ripensamenti e aggiustamenti progressivi?

La regola dei pesci si riferisce a quel fenomeno noto in etologia come “schooling”. Si ha quando un banco di pesci si muove tutto insieme sembrando un corpo unico; è un comportamento difensivo che serve per ingannare i predatori impedendo loro di aggredire il singolo pesce. Nel romanzo il branco ha spesso una valenza negativa, quella a cui ci ha abituato la cronaca di entità deresponsabilizzante che ci fa fare in gruppo cose che non faremmo mai da soli. Il titolo ci è venuto in mente negli ultimi giorni e ci ha convinto perché coglieva l”idea del gruppo – che nel romanzo è importante, è quasi un personaggio – ma dando per una volta al branco un valore positivo: quando uno dei ragazzi è completamente scarico, in una crisi profonda, si lascia andare appoggiandosi agli altri, fidandosi del loro movimento che va nella direzione giusta.

6) Facendo ancora riferimento al tuo romanzo, ritieni che oggi si sia tutti più che mai muti come pesci (a dispetto del proliferare di svariati e sempre più rapidi mezzi di comunicazione)? Oppure credi che ci sia la possibilità di dirci, anche tra diverse generazioni, sono qui, sono fatto in questo modo, aiutatemi, aiutiamoci?

Qui mi interessava il silenzio degli adolescenti, troppo diffuso. C’è difficoltà di dialogo tra coetanei, ma è verso gli adulti che il silenzio diventa spesso impenetrabile, anche quando c’è un rapporto di affetto vero. In parte è fisiologica incomprensione generazionale, ricerca della parola e del confronto soprattutto con gli altri ragazzi, ma temo ci sia di più. Noi adulti abbiamo smarrito la capacità di parlare di futuro, perché anche per noi è nebuloso è incerto. Così siamo diventati interlocutori poco credibili proprio sulle cose che a loro interessano di più.

7) Come si colloca La regola dei pesci nel complesso della tua produzione narrativa? È un punto di svolta o è la naturale prosecuzione del discorso e del percorso da te intrapresi?

Con “Qualcosa c’inventeremo” era iniziato un dialogo sugli adolescenti, con gli adolescenti, un cammino anche fisico che mi ha portato a incontrare migliaia di ragazzi nelle scuole di tutta Italia. “La regola dei pesci” è partito da lì, dalla voglia di riprendere un percorso nel tentativo di esplorare un mondo – quello degli adolescenti di oggi – che io continuo a vedere molto giudicato ma poco conosciuto e soprattutto poco raccontato dall’interno.

LA TREGUA, PRIMO LEVI

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La discesa negli inferi senza un vero ritorno

La guerra c’è sempre. Il resto è solo tregua.
Anzi, la guerra è sempre, è il presente che non muta, resta, a rincorrere, a mordere e strappare via la carne dei giorni.
Questa è la prima sensazione, il sapore agro del primo impatto con le parole di Primo Levi. Ben più complesso è il percorso che ha compiuto e ha voluto trasmettere. Preso atto del dolore, dell’assurdo sovrumano, anzi inumano, in grado di negare la natura stessa dell’umanità, l’alternativa è la resa, l’inazione, il silenzio, oppure il cammino della testimonianza.
Essendo conscio della fragilità e dell’imperfezione della memoria, Levi, da uomo di scienza, ha registrato tutto con oggettività, prima che qualcuno, forse lui stesso, potesse dire un giorno che i dettagli non erano esatti, non corrispondevano le dosi, le componenti, gli elementi della pazzia. Si è assunto il compito, da chimico attento e paziente, di registrare, trascrivere, riportare, in forma di parole, elenchi di eventi e gesti, attimi e corpi morti e vivi, i sommersi e i salvati.
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Il vero viaggio di Primo Levi è stato dentro una memoria a cui dava vita passo dopo passo e da cui gradualmente veniva annientato, come da un acido corrosivo. Conscio di questo, non si è mai fermato, fino a quando ha potuto, finché ha avuto la sensazione di avere la forza di poter continuare ad essere utile ai suoi simili. Finché è riuscito a rievocare gli orrori più grandi conservando spazio per un sorriso, amarissimo ma tenace. La prova che il nemico aveva perduto. Perché la vita e l’umanità resistono perfino ad Auschwitz. Resistono all’annientamento, alla ferocia pianificata e resa meccanica, con una struttura industriale, per tramutare gli uomini in materia inerte. Ma la materia inerte non sa sorridere, non sa rievocare, seppure con la morte nel cuore, tutte le occasioni in cui nel campi di sterminio è rimasta viva la fame di arte, di musica, di letteratura, o semplicemente la volontà di vita a dispetto di tutto, essa stessa forma primaria e assoluta di poesia.
Il punto di partenza è Torino, città sospesa tra tradizione e innovazione. La famiglia di Levi in un primo momento accetta passivamente il fascismo, per poi comprendere troppo tardi, come moltissimi altri italiani, la follia distruttiva insita nel suo credo e nelle scelte politiche e ideologiche.
Avvengono così, in modo simultaneo, i paradossi che contraddistinguono la vita dello scrittore: lui, non religioso, ateo sia prima che dopo gli eventi e i massacri, si trova, fin dall’emanazione delle leggi razziali, a dover lottare e in un certo senso a diventare simbolo dell’ebraismo. Inoltre, dopo aver preso parte alla lotta partigiana, e dopo l’arresto, è inviato nei campi di concentramento. Lui che avrebbe sognato con ogni probabilità una vita di studio quieto nella sua Torino, di colpo è scaraventato sulla strada dall’uragano della Storia. La sua personale vicenda diventa suo malgrado una personale metafora della Diaspora. Viaggia per volere del destino, per sopravvivere, per vedere con i propri occhi, ricordare e raccontare.

Levi è il viaggiatore involontario per eccellenza. Costretto a crearsi una terra propria, uno spazio di sopravvivenza, un altrove estremo, ai margini, si trova a comprendere, cioè ad assumere in sé, la voce del dolore di un popolo sradicato: “…e ci discese nell’anima, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato”.

Il tema del viaggio è presente soprattutto in due libri emblematici di Levi, Se questo è un uomo e La tregua. L’esperienza della deportazione e del campo di concentramento in Se questo è un uomo è da intendersi come una forzata discesa negli Inferi. Ne La tregua vi è il tema del ritorno in patria o meglio, il tentativo di lasciare dietro di se le mostruosità della guerra e recuperare il senso profondo di sentirsi vivo e uguale agli altri. Se il primo libro di Levi assomiglia alla descrizione di una discesa agli Inferi, il rimpatrio è l’occasione di una progressiva risalita verso la luce e verso l’umano.
La discesa agli Inferi ha un’ampia tradizione, il cui culmine è il viaggio dantesco. Ma, a differenza di Dante, Levi non ha il beneficio della fede che sorreggeva il poeta fiorentino, e non ha né la guida paterna e benevola di Virgilio né quella solenne e amorevole di Beatrice. Viene catapultato senza alcun Limbo introduttivo dentro un esperimento biologico-sociale di annientamento. E con il suo corpo vivo, come Dante, è obbligato ad osservare altri corpi vivi. Non anime ma animali, con tutto ciò che di nobile e misero è insito in questa definizione e nella condizione che comporta e descrive.
Un viaggio la cui fine è la morte, non la salita al Paradiso. Oppure, in alcuni casi speciali, come quello dello stesso Levi, una salvezza malata, avvelenata dalla sua stessa inconcepibile essenza ed esistenza.
Il meccanismo micidiale messo in atto dagli aguzzini aveva come scopo quello di annientare negli internati ogni forma residua di umanità. Come ulteriore effetto collaterale tale prassi ha generato, nelle vittime sopravvissute, una forma ferocemente beffarda di riflessione a posteriori: l’idea che a salvarsi non sono i migliori, ma solo quelli sostenuti dalla casualità, da quella fortuna che è voce media, e cieca. Con qualcosa di ancora più subdolo che nega e sbriciola perfino il “folle volo” di Ulisse. Non sono i più coraggiosi a superare le Colonne d’Ercole e a tornare ad Itaca, ma solo quelli che, per qualche caratteristica fortuita, o forse per qualche capriccio o utilità dei macellai, sono sfuggiti alle maglie dello sterminio.
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Resta, nel momento del recupero del proprio nome, nel ritorno alla terraferma, di nuova sicura, una specie strisciante di malinconia unita ad un assurdo ma inestirpabile rimorso: quelli di essere rimasti vivi là dove solo la morte aveva cittadinanza.
Non essere più solo un numero, un frammento catalogato della catena di montaggio dello sterminio, vuol dire dover tornare a muoversi, equivale alla pena del ritorno in una patria che non sarà mai più la stessa, perché non si è più noi stessi dopo l’Inferno. Si fa ritorno ma sapendo di non potersi fermare più, non essendoci più alcuna pace possibile, anche in un’epoca di assenza di guerre ufficialmente dichiarate. “Gli altri prigionieri di Auschwitz popolano la mia memoria della loro presenza senza volto e se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia del pensiero”, scrive Levi.
Se questo è un uomo è il libro dell’esodo, della dissezione della materia viva, della tracciatura degli impianti dell’industria della morte. Ma non meno aspro è il libro del ritorno. Non c’è più “normalità” possibile per chi torna dai gironi infernali. Vede negli occhi degli altri la pietà, oppure una forma di commiserazione malcelata, o addirittura lo specchio distorto di quell’accusa implicita di complicità con gli autori dello sterminio. Si tratta del riflesso di un pensiero che ha origine nella mente delle vittime, ma è ostinato, anch’esso segue passo dopo passo chi vorrebbe fuggire da sé e dai propri ricordi.
“In the desert you can remember your name/ ’cause there ain’t no one for to give you no pain”. Nel deserto puoi ricordare il tuo nome/ perché non c’è nessuno che ti causi dolore, recitano i versi di una canzone che forse Levi avrebbe apprezzato. Il fatto è che perfino il deserto è un lusso, un privilegio che alcuni non si possono permettere. Allora resta la necessità di muoversi, viaggiare, non fermarsi fino a quando si può. Levi torna più volte ad Auschwitz. Accetta interviste e partecipa a documentari televisivi che rievocano gli anni dei campi di sterminio. Racconta con lucidità e con un senso del ritmo vivo, musicale, aneddoti e cifre, volti e parole, il freddo, la fame, gli odori. Parla delle varie “Sezioni” dei campi, ne parla per aiutare a capire, lui che di capire non sperava più. Parla di sé, lo sforzo maggiore, la pena di Sisifo. Ne parla con un “understatement” molto anglosassone, anzi, molto piemontese, una forma di difesa estrema nei confronti del reale. Lotta fino in fondo, riprende gli stessi treni che attraversano oggi una Polonia profondamente diversa ma con una ferita ancora percepibile, ancora aperta. Parla di sé, Levi, per far capire che non ha alcun merito, che si è salvato perché era utile ai nazisti in quanto chimico e perché aveva imparato da giovane alcune frasi di tedesco. La differenza tra vivere e morire poteva essere comprendere un ordine perentorio o saper leggere i numeri tatuati come un marchio sul proprio avambraccio.
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“I ‘salvati’ del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della ‘zona grigia’, le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti”, osserva.
Scritto un anno prima del suicidio, I sommersi e i salvati conferma la volontà di Levi di identificarsi nel profondo con coloro che hanno avuto la pena di essere sommersi. L’intento del libro è quello di dare voce a coloro che non ce l’hanno fatta, rinnovando l’appello alla memoria dei lettori riguardo alla Shoah: non dimenticare, affinché la Storia non debba ripetersi. Non è un caso che il libro si apra con una citazione da The Rime of the Ancient Mariner di Samuel Taylor Coleridge: Since then, at an uncertain hour,/ that agony returns:/ and till my ghastly tale is told/ this heart within me burns.
L’agonia ritorna inesorabile, e la necessità di raccontare la tetra storia brucia il cuore incessantemente. Così come brucia la coscienza di sapere che, in determinate situazioni, nelle terre più estreme dell’esistenza, non c’è più spazio per la solidarietà e trionfa la legge non scritta e tuttavia potentissima del “mors tua vita mea”. La morte degli altri può significare la propria sopravvivenza. L’orrore di questa consapevolezza non è forte quanto l’istinto atavico della conservazione che spinge a gioire per un tozzo di pane in più e un altro giorno in cui si riesce a non cadere a terra sfiniti. Il vero viaggio, il più crudo e il più vero, è quello che Levi, come migliaia di altri sopravvissuti e profughi del destino, ha compiuto nella propria testa. Il luogo più estremo e più spietato: quello da cui non c’è speranza di fuggire, quello che ti costringe a ragionare costantemente sul senso della vita, sul disgusto e l’attrazione per il gorgo del male, sul senso e sull’assenza di senso di tutto, perfino della morte.
Nelle interviste Levi descrive l’importanza di affidarsi alle parole, al racconto, pur essendo anche in questo caso conscio delle contraddizione e delle ambivalenze: “Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere quest’offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati in fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga”.
I nomi restano, oggi, anche grazie ai libri di Primo Levi. Restano i capitoli di un’epoca di violenza che, seppure con forme e dinamiche differenti, è sempre viva, sempre attuale. Del viaggio forzato e doloroso di Levi rimane anche l’ultima tappa, quel volo dalle scale di un palazzo torinese. Forse casuale, forse voluto e cercato come epilogo di un percorso che a quel punto aveva esaurito scopo, senso, energia. Ma resta il merito di avere camminato là dove nessun uomo avrebbe dovuto entrare, là dove Levi ha avuto il coraggio di dire che non per eroismo ma solo per casualità e tenacia è stato in grado di non abbandonarsi anzi tempo alle onde lasciandosi risucchiare. Resta il coraggio di chi, privo di fede e di dogmi, ha voluto credere nella dignità umana, nella parola e nel suo potere salvifico di dare testimonianza del più grande mistero: la persistenza della vita a dispetto di ogni ferocia. “La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi danno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono, ma per noi la questione è più semplice. Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera”.
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Sulle tracce di un siciliano europeo

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“C’era una volta un principe…” colto, fiero, siciliano doc e al contempo cittadino del mondo. Difficile dire dove inizi il Principe di Lampedusa e dove finisca quello di Salina. Per tutti è il Gattopardo, il romanzo icona che continua ad affascinare generazioni e le cui orme sono impresse nel nostro DNA.
Ma l’uomo, lo scrittore, il letterato e il viaggiatore possono essere riassunti nella sola figura del “Principe”?
Il punto interrogativo è d’obbligo quando si tratta di discernere tra l’uomo e il personaggio letterario e ancor più allorché si cerca di trovare una chiave di lettura di un autore celebre per un unico, grande romanzo.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa è una figura a tutto tondo che non può essere letta solo alla luce del suo celeberrimo libro o per la sicilianità che incarna e descrive. Egli fu molto di più, e, attraverso l’esplorazione delle sue rotte storiche, geografiche e biografiche, si tenterà di tracciare un ritratto diverso dell’autore, lontano dalle cornici di maniera, barocche ma tarlate e inconsistenti. Ne risulteranno i tratti di uno scrittore e di un uomo ricco di sfaccettature.
Lampedusa, dunque. Non è forse casuale rilevare che quello che per lui fu il punto di partenza, oggi per molti è un punto di arrivo, il traguardo di una speranza. Lampedusa è una propaggine d’Europa nel cuore del Mediterraneo, terra di confine e di approdo nota per sbarchi, annegamenti e traffici di vite umane dalle coste della vicina Africa. La storia cambia ma restano, pur nelle differenze, delle costanti, le caratteristiche immutabili degli esseri umani, gli stati d’animo, le miserie e le grandezze, il bisogno di un suolo di certezze e sul fronte opposto il fluire del mutamento che sradica e sconvolge.
Per queste e per altre misteriose ragioni, per questo miscuglio di antico e moderno, poetico e razionale, antropologico e filosofico, Tomasi rimane a tutt’oggi un autore attuale, ancora in grado di far coesistere caratteristiche differenti generando punti di vista, influenze e dibattiti tra i lettori e i critici. Il suo Gattopardo è diventato con il passare degli anni molto di più di un romanzo di successo e di una popolarissima pellicola. Si è trasformato in un’icona, uno spunto infinito per citazioni. È diventato un modo di dire, il simbolo di un’epoca e di un modo di pensare, identificabile quasi con il marchio del copyright, come l’aspirina o la coca cola.
Come spesso accade però, nella letteratura, nella vita e lungo quel punto ventoso e oscillante che le unisce e le divide, tra le parole e la verità, tra l’uomo e l’opera, c’è un bel tratto di mare. Nel caso specifico di Tomasi, le onde in questione sono quelle tra Scilla e Cariddi, tra la Sicilia e il Continente, inteso anche e soprattutto come Europa.
Come accadde ad un altro siciliano dal carattere complesso e multiforme, Luigi Pirandello, anche Tomasi fa rotta verso il nord.
In cinque anni di intensi viaggi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa ebbe modo di conoscere a fondo alcune delle principali capitali europee. Cercava lo spirito autentico dei luoghi e dei popoli, il volto vero da confrontare con quello del suo Mediterraneo. Scoprì la bellezza mite di Parigi e si trovò particolarmente a suo agio a Londra, città che trovò ricca di bonomia. Esplorò però anche il fascino più cupo e intrigante di Berlino. Visitò musei, ma anche le vie trafficate dal popolo e i tracciati già resi mitici da grandi libri del passato. Frequentò salotti alla moda ma anche locali di ricreazione e fu attratto da tutto, assimilando con vivida curiosità. Viaggiava con un repertorio di citazioni e scriveva lettere di rigogliosa fantasia in cui confermava la sua sete di conoscenza. Anche lui, seppure molto distante da un altro affabulatore immaginifico quale fu D’annunzio, ci teneva a dare di sé un’immagine spettacolare. Questa sua insaziabile verve ha trovato una sintesi efficace nel suo “Viaggio in Europa. Epistolario 1925-1930” .
Tomasi di Lampedusa, schivo, raffinato, studioso vorace di letterature comparate, dà l’impressione di viaggiare per scelta, per divertimento e per arricchimento interiore, per il bisogno di staccarsi da radici profonde che lo nutrono e lo bloccano allo stesso tempo. Viaggia per la volontà di rendere la sua cultura effettivamente europea. Per essere un uomo di mondo prima ancora di essere scrittore. Non per sfoggio o per aristocratico orgoglio, ma per un’esigenza sincera.
Duca di Palma di Montechiaro e principe di Lampedusa, Giuseppe Tomasi nasce a Palermo il 23 dicembre 1896. Frequenta il liceo classico a Roma dove si iscriverà anche alla facoltà di Giurisprudenza, senza però laurearsi perché chiamato alle armi. Partecipa alla disfatta di Caporetto e viene fatto prigioniero dagli austriaci. Conosce quindi l’orrore della guerra, la più cruda e spietata, quella che annulla il divario tra nobili, borghesi e uomini del popolo. Quella che rende crudelmente vera la fragilità della condizione umana, la ferocia del tempo e della Storia ma anche la forza di restare aggrappati ad una Bellezza che rappresenta la sola fonte di sopravvivenza.
Tomasi di Lampedusa fu spesso ospite del cugino, il poeta Lucio Piccolo. Grazie a lui ebbe occasione di frequentare ambienti letterari di alto livello, come nel 1954 in occasione di un convegno letterario a San Pellegrino Terme in cui conobbe, tra gli altri, Eugenio Montale e Maria Bellonci.
Al ritorno da quel viaggio, come un vulcano giunto al livello di pressione ideale, Tomasi inizia a scrivere Il Gattopardo, ill romanzo di una vita, di molte vite reali e possibili. Verrà terminato due anni dopo, nel 1956.
Il suo romanzo viene definito come un esempio di “poesia in forma di prosa”. Perché la forma poetica possiede la capacità di mettere in contatto e sintetizzare istanze e sensazioni contraddittorie tramite la coincidentia oppositorum. L’ancorarsi al passato era un gioco di specchi per parlare del presente e del futuro.
Fu proprio questa sua strana ambivalenza tra moderno e antico che provocò il rifiuto del libro da parte di molte autorevoli case editrici a cui era stato presentato. Respinto prima dalla Mondadori e poi da Einaudi sempre ad opera di Vittorini che era il selezionatore delle opere, il romanzo fu scoperto e apprezzato da Bassani. Fu proposto alla Feltrinelli che lo pubblicò. E fu un successo strepitoso. Purtroppo Tomasi di Lampedusa era già morto nell’amarezza e nello sconforto di non aver potuto vedere pubblicata la sua opera. Un episodio questo che getta ombre non del tutto archiviabili ai tempi d’oggi.
Il Gattopardo è un caso più unico che raro. Tomasi di Lampedusa era un outsider per quanto riguarda il mondo letterario ufficiale, nel quale permaneva in vizio antico della chiusura al nuovo, non importa di quale provenienza.
Ma qui ed ora, dopo che la vicenda si è comunque conclusa con il successo del libro di cui l’autore non ha potuto beneficiare in vita, è possibile forse tentare di cogliere elementi dello scrittore e dell’opera di più ampio respiro.
Tomasi di Lampedusa è stato sì, per dirla con Montale, “l’autore di un solo libro”, ma in questo volume ha racchiuso una vita intera di esperienze di respiro europeo, assorbite senza preconcetti, con passione autentica. Il Gattopardo è la risultante di un lavoro di accumulazione di note e sensazioni durato anni, scritto con una forma espressiva capace di coniugare la sintesi metaforica della poesia e l’esattezza documentaria del romanzo storico. Il libro era allo stesso tempo imbevuto di stilemi classici e proiettato verso forme e prospettive nuove. Era in anticipo sui tempi, pur parlando di un’epoca già passata. Collocato in questa terra di confine, ebbe bisogno di una lenta assimilazione prima di essere percepito dai critici come opera di assoluto valore. Il resto è storia della letteratura e della cinematografia.
Il Gattopardo è il frutto di un innesto in gran parte inusitato: la cultura europea impiantata sui rami nodosi della Sicilia, il vento nordico sui silenzi e l’aria ferma di troppi secoli di inazione, come sottolineava in Principe di Salina in un celebre passaggio: “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali”.
Nel Gattopardo il romanzo trascende il romanzo. Il libro è così ricco di contenuti da prestarsi a molteplici e parallele chiavi di lettura: storica, filosofica, psicologica, sociale, geo-politica. Ma è anche un libro coraggioso, in cui lo sguardo sui retaggi culturali che hanno creato l’humus mafioso è assolutamente schietto.
Come nelle stratificazioni geologiche, questo libro va ben oltre l’affresco storico, oltre il racconto, oltre i personaggi, i luoghi, i costumi. In questo contesto si inserisce la citazione per eccellenza, lo stemma che campeggia sul romanzo e lo identifica in modo immediato:
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Il Gattopardo racconta l’umanità, i dubbi e le speranze di uomini e donne del proprio tempo di fronte ad un mondo che cambia e ridefinisce valori, canoni e stili. Racconta come gli uomini si pongono di fronte al cambiamento e come le identità, le storie e la cultura si misurino col tempo.
Considerare Il Gattopardo un libro conservatore è un atteggiamento in gran parte miope: c’è, viva e presente, la consapevolezza dei mali storici della Sicilia. Vista non come microcosmo a sé stante ma come emblema di un modo di vivere e di pensare antico che si trova nella necessità di guardare con occhi diversi a tempi nuovi. C’è una forma di critica sociale forte e costante nel libro. L’amore per la propria terra non è cieco.
I personaggi del romanzo sublimemente avvolti di umanità, sono cesellati nella loro ambivalenza. Questa con ogni probabilità è la parola chiave: ambivalenza. Il romanzo si colloca ad un punto di snodo fondamentale della storia italiana e non solo. Quel momento in cui ci si rende conto che una certa società, un determinato sistema di vita e di pensiero è destinato ad essere superato dai tempi, dalla storia. Tomasi tuttavia non lo vive con un atteggiamento passivo e rassegnato. Non è un cantore acritico del passato, non esalta incondizionatamente les neiges d’antan. Il fulcro del suo pensiero è la volontà di portare nei nuovi tempi quanto di meglio c’è nella tradizione e nel legame autentico che deriva dalla terra d’origine. È anche grazie a Tomasi di Lampedusa se gli italiani hanno coscienza del loro grande dono e della loro condanna.
Lo sguardo distante, malinconico e nostalgico del Principe di Salina da un lato, lo stile narrativo dell’Autore-Principe, non devono trarre in inganno. Il libro urla verità senza tempo, svela le illusioni, le trappole e i miraggi dei cambiamenti repentini, i pericoli dei furbi e dei voltagabbana, denuncia l’immobilismo, insegna a guardare oltre l’apparenza, oltre il contingente, in un’ottica per dirla alla Leibniz, sub specie aeternitate.
Il Gattopardo è un’opera dall’altissimo valore educativo intergenerazionale, perché ogni epoca, così come ogni uomo, è sospeso tra due estremi, un presente che muta ad ogni istante e un passato che sfugge, scivola via, tendendo a diventare irriconoscibile. “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”. In questa dichiarazione, all’interno di questa presa di coscienza, si trova forse la chiave del successo e del fascino del romanzo e del suo autore: il senso della finitezza umana non esclude ma semmai rafforza e vivifica il tentativo di ritagliarsi uno spazio autonomo, individuale e riconoscibile all’interno del disegno imperscrutabile del tempo e del destino.
Ivano Mugnaini

SIAM FATTI DI STELLE

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SIAM FATTI DI STELLE

Libreria del Mondo Offeso

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con Marco Morelli presenta Marco Bocciarelli

I ricordi, i pensieri, i sogni, le riflessioni sulla vita e sulla scienza della piú famosa astrofisica italiana.

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Nota di lettura a Rossella Tempesta

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ImmagineUna mia nota di lettura a un’intensa poesia di Rossella Tempesta. Un’occasione per riflettere su vita e morte, realtà e finzione, verità e menzogna.IM

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Rossella Tempesta

Giorno dei morti

I morti non sono mai morti

mentre le guerre, la fame, le sofferenze

sono i frutti, il raccolto, di una grave dimenticanza

una non ricordanza

l’assenza di specchi

la loro presenza velata

ai cari occhi degli uomini

di perduti, frenetici e inani

combattenti contro i mulini

ciechi, sordi, dimentichi.

Dimenticanti, si sono

dimenticati.

Non trovano la strada e le voci

in ogni casa che ogni strada abita:

il tugurio, il castello, il tumulo di terra

e l’ossario sono un’unica storia

la pulce del cane, il cane, il padrone

un’unica cosa, la gradazione

di ogni colore, l’odore che è la storia

infinita, mai iniziata, è.

La greve oscura dimenticanza

festeggia il giorno dei morti viventi

e accendono lumi al silenzio

pure  alcuni assassini.

 

                                   ———————————————————

 

 

                                               Nota di Ivano Mugnaini a

                                               Giorno dei Morti

 

Ci obbliga a chiederci se siamo vivi, la poesia di Rossella Tempesta. Se siamo viventi, non sopravviventi. Ci invita a individuare il discrimine, il crinale da cui è possibile separare e distinguere le terre e i deserti, i raccolti fecondi e quelli che generano la gramigna e le stoppie dell’odio e della violenza. Al di sopra di tutto, come una pianta infestante, il più vasto dei mali: l’indifferenza, quella “non ricordanza” che è atto di supremo rifiuto dell’altro, annientamento preventivo, assassinio silenzioso.

L’esordio della poesia è perentorio, deliberatamente spiazzante: “I morti non sono mai morti”. La negazione dell’evidenza, l’apparente paradosso, possentemente iperbolico, ci trasporta in una dimensione che si colloca tra la realtà e la riflessione, tra l’osservazione dei dati di fatto e la sollecitazione ad andare oltre, leggendo tra le righe, muovendoci con passo rapido tra il detto e il non detto, l’inespresso che grida, accendendo “lumi al silenzio”.

La forza dell’invettiva deriva proprio dal tono che l’autrice ha scelto: non c’è mai un richiamo diretto, un’esortazione immediata. C’è, in questa poesia, un pungolo alla presa di coscienza, un richiamo a riconoscere, riconoscendosi, “la strada e le voci”, individuando le radici condivise, i luoghi, le parole, quella “casa che ogni strada abita”.

Questo tessuto connettivo è abilmente e adeguatamente rispecchiato a livello sintattico dall’utilizzo frequente di frasi in cui i vocaboli si legano l’uno all’altro, per analogia e per contrasto, attraverso parallelismi e chiasmi. Il tutto ulteriormente intrecciato da assonanze, consonanze e rime interne: “una grave dimenticanza/ una non ricordanza/ l’assenza di specchi/ la loro presenza velata”. Ed è quasi uno specchio in più, un vetro su cui si è obbligati a riflettersi, questa alternanza tra termini posti in relazione e in opposizione. Come se le assenze e le presenze linguistiche facessero da sfondo e da eco alle scelte essenziali, le affinità e l’indifferenza, la solidarietà e l’egoismo.

L’impegno sociale è uno dei temi ricorrenti nella poesia di Rossella Tempesta, sia in questo testo specifico, che, a livello più ampio, in tutta la sua produzione. Ma l’autrice non dimentica mai il compito e la natura primaria della poesia: il lavoro attento sulla parola e con la parola, la ricerca del ritmo, dell’armonia e di quel senso ulteriore che rende il dettato e la vis comunicativa implicita, allusiva, ma, nonostante questo, anzi, in virtù di questo, urgente e coinvolgente.

Da questa poesia dalla trama sintattica e dall’intreccio severo ma quasi sinfonico delle sillabe, emerge in modo ineluttabile una domanda, un interrogativo, anzi due questioni interrelate: chi siano i “morti viventi” festeggiati dal loro idolo, la “greve oscura dimenticanza”, e, se noi, noi lettori, quelli che Baudelaire avrebbe definito “ipocriti, simili e fratelli”, possiamo escluderci a cuor leggero dal novero di tale mirabile schiera. Non resta che il coraggio di guardare il “tumulo di terra” e “l’ossario”, il presente e il passato, il qui e l’altrove, l’io e l’altro, e capire, com-prendere davvero, che “sono un’unica storia”, quella storia infinita, “mai iniziata”, e, di conseguenza, ancora da scrivere, tramite una parola che è anche gesto, atto concreto, azione della mente e del cuore.

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Firenze Poesia – VOCI LONTANE, VOCI SORELLE

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VOCI LONTANE, VOCI SORELLE – FESTIVAL INTERNAZIONALE DI POESIA

19-27 GIUGNO 2012 – FIRENZE POESIA

letture, incontri con i poeti, presentazioni, confronti sulla situazione della letteratura

Biblioteca delle Oblate, via dell’Oriuolo 26

Libreria Feltrinelli, via Cerretani 30

Caffè Letterario, Piazza delle Murate

CANGO – Cantieri Goldonetta, via Santa Maria 25

Sala ex Leopoldine, Piazza Tasso

ingresso libero

PRINCIPALI EVENTI

Martedì 19 Giugno

ore 18 Libreria Feltrinelli, via Cerretani

Cecilia BELLO MINCIACCHI ed Elisa BIAGINI presentano l’ultima raccolta di Antonella ANEDDA, SALVA CON NOME, Mondadori, 2012.

Sarà presente l’autrice.

ore 21.30 CANGO – Cantieri Goldonetta

RECITAL dei poeti Antonella ANEDDA, Anna BRNARDIĆ e Damir ŠODAN

introdotti da Elisa BIAGINI

Mercoledì 20 Giugno

ore 18 Caffè Letterario, Piazza delle Murate

Adele DEI e Riccardo DONATI presentano l’antologia NUOVI POETI ITALIANI 6, a c. di Giovanna ROSADINI, Einaudi, 2012. Partecipano, con la curatrice,

Mauro BERSANI e le poetesse Daniela ATTANASIO, Isabella LEARDINI, Laura LIBERALE e Franca MANCINELLI, presenti nell’antologia

ore 21.30 Biblioteca delle Oblate Sala Conferenze (piano terra)

RECITAL delle poetesse Daniela ATTANASIO, Rosaria LO RUSSO e Giovanna ROSADINI

introdotte da Marco SIMONELLI

Giovedì 21 Giugno

ore 17.30 Caffè Letterario, Piazza delle Murate

L’EDITORIA OGGI: QUALITÀ, INNOVAZIONE MERCATO. Una conversazione con l’editore Luca SOSSELLA introdotta da Elisa BIAGINI

ore 17.30 Caffè Letterario, Piazza delle Murate

Incontro con i poeti Lello VOCE, Jean PORTANTE e Simon WEST coordinato da Vittorio BIAGINI

ore 21.30 Biblioteca delle Oblate, Sala Conferenze (piano terra)

RECITAL dei poeti Jean PORTANTE, Lello VOCE, Simon WEST e dei poeti del XI QUADERNO DI POESIA CONTEMPORANEA (a c. di Franco BUFFONI,

Marcos y Marcos, 2012): Yari BERNASCONI, Azzurra D’AGOSTINO, Fabio DONALISIO, Vincenzo FRUNGILLO, Eleonora PINZUTI, Marco SIMONELLI e Mariagiorgia ULBAR. Introduce Francesca MATTEONI. Presentazione di Niccolò SCAFFAI.

Venerdì 22 Giugno

ore 17.30 Biblioteca delle Oblate, Sala Contemporanea (primo piano)

POESIA AUSTRALIANA CONTEMPORANEA. Un panorama con letture, tenuto dal poeta e critico australiano Simon WEST, con interventi di Brenda

PORSTER e Andrea SIROTTI

ore 21.30 Sala ex Leopoldine, Piazza Tasso in collaborazione con OFFICINE C.R.O.M.A.

THÉRÈSE MARTIN ovvero SANTA TERESA DI LISIEUX ovvero SANTA TERESA DEL BAMBIN GESÙ E DEL VOLTO SANTO, DOTTORE DELLA CHIESA UNIVERSALE. RACCONTO D’INFANZIA

(liberamente tratto dal manoscritto A di Storia di un’anima e dalle poesie di Thérèse Martin).

Ideazione e riscrittura di Rosaria LO RUSSO. Con Rosaria LO RUSSO e PORSTER e Andrea SIROTTI

Martedì 26 Giugno

ore 17 Caffè Letterario, Piazza delle Murate

POESIE E PROSE DI GIOVANNI PAPINI, a cent’anni dall’uscita di Un uomo finito. Testi letti e introdotti da Raoul BRUNI e Alessandro CAMICIOTTOLI

ore 21.30 Biblioteca delle Oblate, Sala Conferenze (piano terra)

RILEGGERE NOVALIS. Una rivisitazione del grande lirico del Romanticismo tedesco condotta da Sergio GIVONE e Susanna MATI

in occasione della recente traduzione degli INNI ALLA NOTTE ad opera di Susanna MATI (Feltrinelli, 2012).

Lettura delle traduzioni di Andrea GIGLI. Accompagnamento musicale di Stefano DELLE DONNE(violino).

Mercoledì 27 Giugno

ore 18 Biblioteca delle Oblate, Sala Conferenze (piano terra)

OGGI, FIRENZE: SCRIVERE E LEGGERE Una tavola rotonda con la partecipazione di scrittori, critici, operatori culturali e amministratori.

Partecipano, tra gli altri, Grazia ASTA, Raoul BRUNI, eFFe, Elisa BIAGINI, Paolo MACCARI, Sergio NELLI, Vanni SANTONI, Marco SIMONELLI, Francesco STELLA, Marco VICHI. Introduce Vittorio BIAGINI

ore 21.30 Biblioteca delle Oblate, Sala Conferenze (piano terra)

LETTURA COLLETTIVA DI POESIA, con OMAGGIO A GIORGIO CAPRONI nel centenario della nascita

Introduzione di. Ogni partecipante leggerà due testi, uno dei quali di Caproni

INFORMAZIONI

055 48 61 59 / 334 319 8636 email: perchepoeti@gmail.com

http://associazioni.comune.fi.it/labbuon https://sites.google.com/site/vocilontanevocisorelle

http://firenzedelleletterature.wordpress.com/2012/06/06/voci-lontane-voci-sorelle/

Milo De Angelis all’Accademia di Brera

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ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BRERA

DIPARTIMENTO ARTI VISIVE

SCUOLA DI GRAFICA D’ARTE

transizioni arte__poesia

Milo De Angelis

reading, immagini di Viviana Nicodemo

lunedì 21 maggio 2012 ore 16.30

Accademia di Brera, sala napoleonica

Il laboratorio transizioni arte__poesia ospita lunedì 21 maggio alle 16.30 un reading di Milo De Angelis, presentato dal poeta Italo Testa. Nell’occasione sarà presente l’artista Viviana Nicodemo, e saranno proiettate immagini dal suo libro fotografico Necessità dell’anatomia, e dal video Cantica, realizzati in collaborazione con l’autore.

Tra le voci più significative della poesia italiana contemporanea, Milo De Angelis vive a Milano. Ha pubblicato le raccolte Somiglianze (Guanda, 1976), Millimetri (Einaudi, 1983), Terra del viso (Mondadori, 1985), Distante un padre (Mondadori, 1989), L’océan autour de Milan et autres poèmes, traduit de l’italien par J.-B. PARA, M.E.E.T., Saint-Nazaire, 1993, edizione bilingue comprendente la prima versione del poemetto L’oceano intorno a Milano, inedita sia in francese che in italiano), Biografia sommaria (Mondadori, 1999), Tema dell’addio (Mondadori, 2005), Quell’andarsene nel buio dei cortili (Mondadori, 2010). Con
Tema dell’addio ha vinto il Premio Viareggio 2005. Le sue poesie sono raccolte nelle antologie Non solo creato (Crocetti, 1990), Dove eravamo già stati. Poesie 1970-1999 (Donzelli, 2001), Poesie (Oscar Mondadori, 2008, introduzione di Eraldo Affinati). Sue poesie sono state tradotte in volume in lingua inglese e francese. Scrittore di racconti e saggi, è stato anche traduttore dal francese di Racine, Baudelaire, Maeterlinck, Blanchot, Drieu La Rochelle, e dal greco e dal latino di Eschilo, Virgilio, Lucrezio, dell’Antologia Palatina e di Claudiano. Ha scritto il romanzo La corsa dei mantelli (Guanda, 1979). è autore del saggio Poesia e destino (Cappelli, 1982), dell’Introduzione a Gli epistolari (Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1995), e Introduzione e scelta di Ogni parola ha un suono che inventa mondi: poesie e racconti (Arpanet, 2002). Ha diretto la rivista di poesia “Niebo” e la collana omonima delle edizioni La Vita Felice, per la quale ha presentato numerosi poeti contemporanei, fra cui Marco Molinari, Angelo Lumelli, Dario Capello, Michelangelo Coviello, Maria Attanasio, Andrea Leone, ed altri. Suoi interventi e saggi si trovano anche in riviste, fra cui Altri Termini, Vel, Nuova Corrente, Schema, Poesia, I Quaderni del battello ebbro, Nuovi Argomenti, Gradiva.

Alcuni artisti, fra cui Giovanna Caimmi e Paolo Cervi Kervischer, hanno dedicato loro opere alle sue poesie. Nel 2010 Viviana Nicodemo ha esposto presso la Galleria Civica di Palazzo Ducale a Pavullo nel Frignano (Modena)

Via dell’inizio, mostra di opere fotografiche e video in dialogo con 27 liriche inedite dell’autore (successivamente
pubblicate in Quell’andarsene nel buio dei cortili).

transizioni arte__poesia

a cura del poeta Italo Testa e dei docenti Paolo Di Vita, Chiara Giorgetti,
Rosanna Guida, Margherita Labbe, e Anna Mariani

Ingresso libero

info:

daverso.brera@gmail.com