eugenio montale

A TU PER TU – Chiara Zanetti

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Molti gli spunti di interesse che nascono dalle risposte di Chiara Zanetti alle cinque domande della rubrica A TU PER TU.
Di Chiara mi ha sempre colpito la capacità di abbinare la ricerca di leggerezza, divertimento e convivialità ad un’efficienza che verrebbe da definire di stampo “teutonico”. Ma non c’è bisogno di andare oltre confine. Diciamo un’efficienza che anche noi abitanti di questa strana Penisola a tratti sappiamo avere, quando ci svegliamo dal lato giusto.
Chiara non ha cercato scorciatoie: ha saputo ottenere risultati con dedizione e applicazione, mai ottusa o asettica, sempre all’insegna della gentilezza e del dialogo.
Anche nelle risposte all’intervista ha confermato queste caratteristiche: con grande sincerità e chiarezza ci parla di sé e dello “specchio in forma di parole” di un libro in cui, scrutando dentro se stessa e dentro un proprio “lutto”, finisce per parlare di tutti noi, di quello che fatalmente perdiamo, senza mai perderlo del tutto, forse, della fragilità e della persistenza, dell’interiorità, della paura (attuale, oggi e sempre) e della tenace volontà di guardarsi dentro trasformando la perdita e lo smarrimento in ricerca di espressione e di dialogo.
Anche in questo caso, se volete e potete, leggete le risposte nella loro interezza e nel contesto che ben delinea i chiaroscuri, il buio e la ricerca di spiragli di luce.
IM

A TU PER TU

UNA RETE DI VOCI

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5 domande

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Chiara Zanetti

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve autoritratto in forma di parole ai lettori di Dedalus?

Caro Ivano, grazie per l’ospitalità. Sai, nella mia vita sono sempre stata dalla parte dell’intervistatrice, della giornalista e mai il contrario, salvo un paio di importanti eccezioni.

Un mio autoritratto… Forse un’isola, circondata da pareti di mare, ma in continua ricerca di scambi con la terraferma. È significativo, peraltro, il mio rapporto con le periferie e l’insularità come identità liminale, ma non è questo il momento di dilungarmi in merito…

Caso vuole che stessi parlando proprio ieri con un caro amico scrittore di come i dipinti che alcuni artisti hanno realizzato ispirandosi alla mia figura siano in realtà troppo semplici per cogliere la mia essenza profonda. Credo infatti di essere (come tutti o quasi, in realtà) una persona complessa, densa di sfumature, contraddizioni, iperboli, svalutazioni…. Ma anche accrescitivi, vezzeggiativi, diminutivi. Una sorta di grammatica della persona… E non scordiamoci del binomio con l’analisi! Mi piace molto tentare di capire il mondo, questo è tutto quello che so di me e che ha ispirato il percorso che mi accingo a cominciare a gennaio 2021, ovvero il Master triennale in Counseling presso Aspic.

2 ) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto lessenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sulliniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

La mia unica opera edita – al momento – è Testamento blu, uscita lo scorso 20 novembre con Echos.

Eravamo nel pieno del primo lockdown quando iniziai a scriverla, e anche l’agenzia di reclutamento per cui lavoravo al tempo era chiusa. Ero a casa, del tutto non abituata a trovarmici costantemente… Io amo scrivere, da sempre, come adoro leggere. Inoltre, mi ero appena imbarcata in una nuova relazione sentimentale dopo il fallimento del rapporto più lungo e sostanzioso della mia vita, finito nell’ottobre del 2018. Quasi due anni, direte, che significa… Beh, per me, molto, visto e considerato che è stato il lasso di tempo necessario per elaborare questo e altri “lutti”. Mi sono guardata dentro e ho pensato, sull’onda anche di una vocazione alle relazioni d’aiuto, perché non scrivere un saggio introspettivo in cui parlare di questo enorme buco nero (come credo ce ne siano nella maggioranza delle storie umane) e dare un esempio a cui appellarsi a chi si trova in difficoltà su vari fronti? E poi il gioco era fatto, ormai, ho colto la palla al balzo e ho iniziato a buttare giù il primo capitolo… Ne sono seguiti altri e infine è avvenuto il sodalizio con un artista che stimo molto per bravura e profondità di vedute, Andrea Lelario, a cui ho proposto di realizzare le illustrazioni del mio libro.

Il titolo mi sembra abbastanza indicativo… Il blu era per Wassily Kandinsky la tonalità dell’approfondimento e, in quanto al sostantivo, esso rimanda a ciò che lascio in eredità ai lettori, che può essere poco o può essere tanto, ma sarà sempre qualcosa.

Nella sua prefazione al testo, Vittorio Raschetti scrive: “Occorre passare per molti solitudini per trovare sentieri non ancora tracciati che portano nei pressi del vero. Perché non arrivare a nulla è diverso da arrivare al nulla. Solo nei segni più labili e nelle tracce più evanescenti è possibile salvarsi, solamente nella fragilità e nella persistenza di ciò che sembra già condannato a scomparire”, e penso qualifichi molto questo manoscritto, che mi ha procurato gioie e pianti.

Aspettative non ne ho. Nessuna velleità letteraria, sogno di successo, speranza di lucro o desiderio di entrare nel novero dell’intellighenzia italiana. Nel mio libro dipingo la mia interiorità ed è tutto ciò che mi importa, se qualcuno vi si può rispecchiare. Per accennare al mio rapporto intimo con questo testo, sicuramente farei riferimento anche alla paura… Timore che possa non piacere o deludere qualcuno.

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Letti sulla luna (9): L’ABITUDINE DEGLI OCCHI

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vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.

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Monica Martinelli, L’abitudine degli occhi, Passigli, Firenze, 2015

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Il “gesto”, l’azione compiuta dagli occhi è di per sé ambigua, multiforme, come il termine che esprime tale atto: la visione è allo stesso tempo di natura ottica e mentale, è immagine e riflessione, potremmo dire pensiero di un riverbero di luce e di buio. I punti di riferimento, le coordinate scelte da Monica Martinelli vengono rese note a partire dalla scelta delle epigrafi: dal un lato Emily Dickinson, i cui versi si concludono con un perentorio “era meno penoso essere cieca”, e, a fianco, Mario Luzi, di cui vengono citati quattro versi, di cui l’ultimo ha un sapore quasi dantesco, solennemente descrittivo e allegorico: “Tanto afferra l’occhio da questa torre di vedetta”.

La Dickinson incarna la solitudine, l’esplorazione di una pena individuale senza tregua né sbocco o via di fuga; Luzi è la coscienza del tentare di indagare sulla direzione, se non sul senso. Sul pullulare di morte e vita tenera e ostile, osservata da una torre di vedetta che non è d’avorio, ma fatta di argilla viva, di carne e respiro mischiato e confrontato con quello del mondo.

“Penso che non sia il cambiamento/ ma l’abitudine/ l’unità di misura dei viventi”, scrive Monica Martinelli. Poco oltre annota “È come seguire la danza/ di una foglia nel vento/ e indovinare da quale parte cadrà”. Quindi gli occhi sono guidati da un’abitudine basata però su un calcolo impossibile. La mancanza di certezze è la sola certezza individuabile. Questo libro tuttavia non si limita ad annotare eccezioni senza regole e dubbi che prescindono dalle domande. È tutt’altro che un libro di incorporee elucubrazioni. È, al contrario, un testo intessuto di oggetti tangibili, concreti, materiali e corporei. La vita è una costruzione, un edificio, e forse non è un caso che la prima lirica abbia per titolo “Maestranze”. Case di calce e case di ossa, tessuti e cartilagini, vertebre. Ma vertebre che hanno un nome, corpi che sono persone, identità. Non sono casuali neppure i titoli delle varie sezioni. Ci troviamo di fronte ad una panoramica di materie scientifiche e naturali: fisiologia, chimica, meccanica, fisica, geologia, biologia. Ma ciascuna viene accostata, anzi, innestata, con rami fatti di fibre sensibili, le venature essenziali del corpo, dei passi e delle foglie, delle case, delle cose, e dell’indifferenza. Ciò che costituisce l’esistenza, la fa respirare o la soffoca nel nulla.

Monica Martinelli ha un aspetto solare e un sorriso generoso e luminoso. Ma ha scritto un libro fatto soprattutto di cupi chiaroscuri. Con coraggio, con una coerenza assoluta aliena ai compromessi, distante perfino dall’istinto antico di aggiungere una goccia di miele al veleno: “Il pensiero si stordisce nel ricordo/ e si ferma a cercare ristoro/ da un dolore ininterrotto/ che si spezza su scogli rassegnati”. La materia inerte del dolore si rispecchia nella pietra inanimata dello scoglio che a sua volta è rassegnato.

Ci sono in questo libro sequenze di temi ricorrenti e alcuni vocaboli chiave che appaiono con una frequenza paragonabile a quella di un mantra. E ogni volta il peso specifico di questi termini viene aumentato, cresce, non viene mai diluito o stemperato, neppure dalla speranza che in un ipotetico contesto diverso possa apparire meno reale o soffocante. Il primo e il principale di questi termini è “dolore”. Risulta presente quasi nella totalità dei componimenti. Volutamente l’autrice evita il ricorso a possibili sinonimi o a perifrasi. Scrive “dolore” ogni volta che lo sente, lo ricorda, lo percepisce come ineluttabile. Senza alcuna variazione sul tema. Non sussiste tuttavia il rischio della ripetitività: l’abilità dell’autrice è quella di far sì che il lettore stesso gradualmente percepisca la necessità di tale nitida precisione descrittiva. Gli occhi dell’autrice ad un certo momento coincidono con quelli di chi osserva i suoi stessi oggetti, i componenti di una meccanica esistenziale di cui il dolore è allo stesso tempo materia e motore.

L’atteggiamento è eliotiano, potremmo dire. La Terra desolata qui è ovunque, senza neppure le brevi escursioni su terreni esotici o onirici. In una lirica, ad esempio, si legge “Se la carne è sensibile si dona al desiderio”, e, puntuale, pochi versi dopo, “tutto scivola/ e muore eternamente/ dove non si sente che l’eco/ sommesso del dolore”. Il dolore è eterno ritorno, nell’arco breve di una singola lirica come nel progetto più ampio e diffuso dell’intero volume.

Accanto al dolore, il tempo. Altro luogo letterario per eccellenza. Ma senza altro scopo, funzione o speranza che non sia quello di scandire la circolarità del flusso. L’autrice non spera in sconti di pena né in consolazioni filosofiche o mistificazioni retoriche. Sa di essere “fragile vibrazione”, conscia che “il dolore rende inutile la gioia […] un’alternanza che consuma la vita”. Non c’è neppure l’alba, la luce potenziale di un altro giorno, ad attenderci: “dopo il tramonto viene/ la notte che cancella le ombre/ e ci rende uguali”. Il concetto viene ribadito qualche pagina oltre, in modo assoluto e nitido: “Non ho un’altra possibilità/ negato il desiderio di rigenerarmi./ Sazia di tempo e di forma/ mi costringo a seguirti,/ inutile calamita del cielo”.

I versi parlano di amore negato, di vita senza vita e di un tempo privo di speranza. Eppure non c’è mai patetismo, non si indulge mai al pianto fine a se stesso o all’autocommiserazione. La voce è salda, il tono scandito. Gli occhi a cui fa cenno il titolo sanno restare senza lacrime, per vedere e per raccontare, descrivere e descriversi: “Sono la pioggia che disseta la terra/ dono gravido senza parto […] mi congedo in silenzio, senza lacrime”. C’è un’accettazione dello stato delle cose che conferisce solidità espressiva ad ogni lirica: “Se il mio destino è nel dolore/ uno spiraglio di felicità/ mi acceca come un lampo […] aspetto lo schianto delle coincidenze […] non mi stupirei/ per un sorriso di ghiaccio/ scorto su un volto amato”. Non c’è gioco petrarchesco qui, non ci sono gelidi soli o infuocate nevi. Qui l’accostamento di termini di ambiti semantici contrapposti contribuisce solo a far convergere il discorso verso una sintesi accecante: quel sorriso di ghiaccio su un volto amato. Forse una persona, o magari la vita stessa. Che, corteggiata, cercata con gli occhi, con l’abitudine degli occhi, puntualmente si nega. Resta lo schianto delle coincidenze. La ferita fredda della consapevolezza. La sola discriminante, che non muta l’esito tuttavia, è la comprensione dello status esistenziale: “vedere è un subire in permanenza./ Non si può scegliere cosa guardare,/ forse possiamo solo comprendere/ la differenza tra ciò che merita attenzione/ e ciò che fa piangere”.

D’altronde, conclude Monica Martinelli, “non tutto ciò che ha nome/ esiste o dura”. Neppure la parola consola, seppure sia necessaria, anche per testimoniare la differenza fondamentale a cui si è fatto cenno poco sopra, quella tra ciò che merita attenzione e ciò che dà solo dolore. Qui si va oltre l’atto della negazione di montaliana memoria: non abbiamo neppure “qualche storta sillaba e secca come un ramo”. Qui non possiamo dire neppure ciò che non siamo e ciò che non vogliamo. Al di là della negazione non c’è neppure la certezza di un laconico balbettio. “Dentro non c’è pace – scrive la Martinelli – infinito tendere, straziante attesa./ E dopo giunge il silenzio della terra/ ovunque e immenso”.

L’abitudine degli occhi è un libro di coraggiosa coerenza, a suo modo possente, pur senza mai neppure accennare a grida o a roboanti proclami. La sua forza è nella volontà di non cedere mai ai richiami delle sirene ammiccanti di speranze scontate e in saldo. L’autrice racconta il suo percorso, ciò che vede con i suoi occhi, dal suo punto di vista, nell’angolo di tempo e di mondo che sta attraversando. Non permette a niente e a nessuno di modificare la sua visione con riflessi alieni o chiarori fosforescenti. Si concede, e ci concede, il lusso di un percorso nel dolore fatto ad occhi aperti, senza negarlo, senza santificarlo, senza proporre panacee o luci alla fine del tunnel. È un libro di viaggio, in fondo, nell’umano mistero, tra la necessità di esistere e di domandare bellezza, “tra movimenti e fughe ripetute/ dallo sconforto di essere creature”. IM

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Recensione di Marzia Spinelli

La quotidiana fragilità delle creature

Può sembrare, L’abitudine degli occhi, un titolo antipoetico in quanto si sa, il poeta possiede uno sguardo particolare, contrario a questa abitudine che l’autrice ci pone davanti, forse come provocazione… Se infatti l’abitudine rimanda a una regola, a una normativa del guardare, il poeta invece assume uno sguardo che va all’opposto di questa regola: il suo è uno sguardo oltre, è tutto meno che abitudine. Monica Martinelli, al suo terzo libro dopo Poesie ed ombre (2009) e Alterni presagi (2011), si pone subito sin dal titolo in questa prospettiva contro, e la persegue realizzandola perché il libro è la lotta furiosa contro le abitudini. Se l’abitudine è accettazione passiva della realtà, un farsi omologare accettandone le regole del gioco, avvertiamo invece una vis ribelle nell’autrice, – donna educatissima e forsennata – come la definisce giustamente Davide Rondoni, ribelle alle convenzioni, forse anche letterarie. E coerente è la scelta delle sette sezioni in cui è suddiviso il libro nel richiamo a settori e tematiche scientifici, dando a questi un valore aggiunto nel creare un collante intrigante tra campi della scienza e tematiche dell’esistenza, attraversandoli con la Poesia. Fisiologia del dolore, chimica dei sentimenti, atteggiamento del corpo, meccanica dei passi e delle foglie (la sezione più significativa e poetica), fisica del quanto e del come, geologia delle case e delle cose, biologia dell’indifferenza: ecco allora che la quantistica, il richiamo scientifico, la meccanica e la fisica si fanno veicolo di una dimensione geometrica ma tanto umana dell’esistere, diventano il quanto del vivere, ma anche il come viviamo, amiamo, soffriamo. Ecco che le case, quanto di più solido abbiamo e in cui viviamo, con tutto quanto c’è dentro, armadi, ceramiche, macchie del caffè ecc. insomma le cose, gli oggetti, specchio del nostro reale appartenere, diventano anche essi il veicolo di uno sguardo diverso, o meglio la possibilità di scegliere tra il guardare appunto abitualmente e una prospettiva altra, forse un po’ aliena, attraverso una lente deformante che tuttavia mostra le cose come sono. In tutto questo lavoro il contesto è spesso il quotidiano collocarsi, cercare e trovare un proprio posto e spesso il protagonista da collocare è il corpo, “ la macchina imperfetta del mio corpo / disperde calore, lo cede, / emana energia per attutire il dolore / che fluisce nei vasi e si diffonde / dal centro alle estremità.”

La quotidianità, ma direi la vita e quel che in essa accade, è costantemente richiamata, spesso con precisione scientifica dei luoghi, sia si tratti del tramonto di Sperlonga, sia della tragedia della Liguria alluvionata, o della faticosa salita in montagna, o dell’infiorata di Genzano, o ancora della passeggiata a Calcata; luoghi che si attraversano tra pioggia, freddo e neve, luoghi pieni di sassi dove si posano i passi, in un metaforico cammino impervio e al tempo stesso rigenerante. In questi luoghi, in questo viandare freneticamente si immette il corpo, invischiandosi e intrappolandosi, con tenacia femminile e neutralità poetica, come ad esempio nella lirica Infiorata a Genzano: “Seduta accanto a te di cui conosco / i filamenti della pelle / i fili della rabbia intessuti / col sangue e poi ancora fiori / petali spampinati / colorati d’attenzione / rossi come il sangue / rossi come il cuore, / il centro del corpo da cui tutto dipende..” Quanto questo corpo è desiderio, spinta fortissima a vivere, ad amare, a immergersi anche nella natura, si specchia in quel lago senza nome … e gode della bellezza di cui si può solo domandare il perché. Con lucida e disarmante onestà Monica non si nasconde al proprio conflitto tra eros e thanatos, anzi sembra trarne forza, consapevolezza della finitezza, della precarietà, del dolore, e trova la modalità poetica di universalizzare la propria tragicità di creatura, come a Villa Torlonia: “ Non mi spaventa finire, / la fine è concentrata, inesitata / ma è l’attesa del buio che cancella / passi e foglie e tutto rende uguale. // Questa è pena quotidiana delle creature / e questo non avviene tra le foglie.” È uno dei versi più belli e riusciti della raccolta, giustamente ricordati e sottolineati da Rondoni in chiusura della sua prefazione, evidenziando la suggestione evocativa del termine creatura contrapposta alla prossimità, ma pur sempre vegetale, delle foglie.

Quanto a possibili rimandi e richiami che sempre ci sono in un vero poeta, é Monica stessa a darcene più che un indizio nelle citazioni dalla Dickinson e da Luzi presenti nel libro; ma spuntano anche echi di letture assimilate della poesia straniera, soprattutto anglosassone, non soltanto Emily, ma anche la Plath, in forma più delicata, forse anche i metafisici inglesi, e infine, in questo nodo di foglie, corpo, filamento, indefinibile cecità e riconquistata visuale anche l’irlandese Thomas Kinsella, di cui fatalmente e casualmente mi è capitato di leggere, proprio mentre rileggevo il libro di Monica, la poesia Mangiafoglie: “Su un cespuglio nel cuore del giardino, / su una foglia che sporge, un bruco torce / metà del corpo, un filamento / in qua e in là nello spazio / cieco. // Né foglia o stecco / a portata, a tentoni / si ritira su se stesso e prende / a mangiarsi la propria foglia.”

Così anche tra i versi della poesia di Monica: Il corpo si concentra / finché il sangue pulsa…E dopo giunge il silenzio della terra / ovunque e immenso, oltre l’eco di silenzi a noi più prossimi, quali quelli di Ungaretti e Luzi, giunge una risonanza più remota dei versi da Shiloh, un requiem di Melville, di cui riportiamo appena qualche frammento estrapolato, comunque significativo: Leggere sfiorano, immote roteano / le rondini, volano basse / … mentre ora essi giacciono, / e sopra di loro le rondini passano / e tutto è silenzio a Shiloh.” Liberatorio, rasserenante, senza ombra di cupezza, in fondo solo luce ritrovata.

Sono ovviamente suggestioni, ma la poesia, quando è tale, possiede anche questo potere di aprirci verso orizzonti molto più ampi del previsto, del prevedibile, dell’abitudine appunto. Dal disordine la poesia distilla verità apparentemente semplici e ci inchioda, senza poterle spiegare altrimenti: “… Noi, infinitamente piccoli / e intanto soli. / Cellule amanti / in cui ha un senso l’arrivo / e non il riposo. // Note confuse in gesti di disordine./ E non ha nulla a che vedere coi ricordi.”

Marzia Spinelli

Monica Martinelli, L’abitudine degli occhi, Passigli Editori, Firenze 2015

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Dalla Prefazione di Davide Rondoni

(…)

Non ho un’altra possibilità,
negato il desiderio di rigenerarmi.
Sazia di tempo e di forma
mi costringo a seguirti,
inutile calamita del cielo.

Sono tra i versi più duri e pieni di ottuso dolore che mi sia capitato di leggere. Monica Martinelli, creatura di modi gentili e di sorriso aperto, cela e custodisce in quella stanza anteriore in cui la poesia nasce mescolando tutto con tutto, qualcosa di duro, di fatale. È da là, da quella ferita o ramo di mandorlo amputato, che viene tale durezza di versi. 

Nei quali il lettore che affronterà questo libro frenetico e violento, diseguale e sorprendente, può già cogliere anche altri aspetti dell’opera: la inclinazione a mettere in scena il proprio essere al mondo come teatro per tutti, e non per esibizionismo ma per stremata umiltà. Un po’ come capitava alla Amelia Rosselli o in altro modo e con esiti maggiori a Giovanna Sicari. Un “io” di donna apertissimo e affranto che diviene teatro del mondo. […] 

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Poesie tratte da

L’abitudine degli occhi:

C’è dato un tempo

per ogni tempo.

C’è una magia in ogni cosa,

nel perdono

in un bacio che ferma l’addio

nella ragione di essere nati.

Penso non sia il cambiamento

ma l’abitudine

l’unità di misura dei viventi,

ciò che ci rassicura e ci consola

ciò che ci viene naturale fare.

E poi gli occhi,

con cui misuriamo la realtà

che sia di fiato e di sabbia,

che ci prepari alla nostalgia

o all’abbandono.

È come seguire la danza

di una foglia nel vento

e indovinare da quale parte cadrà.

* * *

Mi smarrisco nel rumore del vento

e nel continuo accadere

di onde pazienti

che nel fragore si danno voce.

Il pensiero si stordisce nel ricordo

e si ferma a cercare ristoro

da un dolore ininterrotto

che si spezza su scogli rassegnati.

Ma quando il sole spegne la sua luce

e le onde si muovono nel modo giusto

lì si accende la grande malinconia

che solo il mare può vedere.

Sperlonga, al tramonto

* * *

A cuore aperto

Negli altri non so distinguere

un cuore stretto, a spigoli

da uno largo, aperto.

Mi perdo l’anima nel compostaggio

di sfalci e ramaglie.

Una tramoggia mi divide in due

mi stacca il cuore,

la parte di me più grande

da contenere quanto più si può,

da contenermi tutta.

Il volo mi sbatte in alto

gettata in aria, nell’inferno

tra piroette di carta e pioggia di cenere

risucchiata da un aspiratore potente

che non ha pietà.

Pure lì provo a cercarti

ma la scommessa è persa

ogni livido ha la sua pena,

ogni illusione la sua trasparenza.

Io invece vorrei cadere

con la grazia di un passero ferito all’ala

che volteggia in tentativi

ma subito plana di dignità.

Non ho un’altra possibilità,

negato il desiderio di rigenerarmi.

Sazia di tempo e di forma

mi costringo a seguirti,

inutile calamita del cielo.

* * *

Tra cera colata

e odore di incensi e memorie

si consuma la vita su mosaici

scoloriti da occhi e tempo.

Visi e teschi si fanno compagnia

in un avello senza tormento.

Il sacrificio del corpo e del sangue

si riduce a un fermo immagine

nel mestiere moderno di fare copia

e calco di ogni cosa sia stata nella storia.

Ma anche riprodurre è un’illusione

se il tempo non si ferma, non rimane.

Ecco perché qualunque senso è poco

di fronte a ciò che ci fa più grandi.

Firenze, Chiesa di San Miniato

* * *

Il corpo si concentra

finché il sangue pulsa

ma non c’è libera circolazione,

tutto è disposto e poi dissipato.

È una danza di vibrioni impazziti

che oscillano in sofferenza.

Dentro non c’è pace,

infinito tendere, straziante attesa.

E dopo giunge il silenzio della terra

ovunque e immenso.

* * *

Siamo i “tutti” e i “soli”

sinfonie di ricordi in una giga,

una corrente di probabilità

tra movimenti e fughe ripetute

dallo sconforto di essere creature.

Sarabanda di luci e ombre

dà la forma a una volpe che grida

sulla coda del pianoforte

o forse a una tigre addestrata

a ingoiare vita senza rimpianti.

Ma è solo un’illusione

un trucco della vista,

la volpe svanisce

e non ne resta traccia

rimane il tuo viso in ascolto

a lanciare pietre di un rosario,

preludio di dissonanze domestiche

e qualche pelucchio d’argento

scaglie invisibili su spicchi di luna.

Concerto di musica da camera,

Suites inglesi di J. S. Bach

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Nota bio-bibliografica

Monica Martinelli è nata a Roma e lavora nella Pubblica Amministrazione. Dopo la laurea in Lettere presso l’Università “La Sapienza di Roma” e un dottorato sui rapporti tra Cina e Unione Europea, ha scritto articoli e recensioni sulla rivista letteraria “Rassegna di letteratura Italiana”.

Nel 2009 ha pubblicato il libro di poesie con prefazione di Walter Mauro dal titolo Poesie ed ombre, Tracce editore. A dicembre 2009 ha vinto il Premio letterario “La città dei Sassi di Matera” per la sezione poesia inedita.

A dicembre 2011 ha pubblicato il libro di poesie dal titolo Alterni Presagi, Altrimedia editore, con prefazione di Plinio Perilli.

Ha pubblicato poesie sulle riviste “Poeti e Poesia”, “Poesia” e “Orizzonti”, e poesie e racconti su varie antologie e blog letterari italiani e internazionali.

A marzo 2015 ha pubblicato il libro di poesie L’abitudine degli occhi, Passigli editore, con prefazione di Davide Rondoni. Il libro è arrivato nella rosa dei candidati finalisti del Premio Camaiore 2015, ha vinto il primo posto del Premio Pascoli “L’ora di Barga” e il secondo posto al Premio Laurentum e al Premio internazionale “Gradiva” di New York. Inoltre, il libro è arrivato finalista e segnalato a vari premi di poesia, tra cui il Premio Frascati e il Premio Mario Luzi. Sempre nel 2015, ha vinto il primo posto al Premio “Mario Arpea”.

Nel 2016 è stata invitata a partecipare alla manifestazione annuale “Belgrade International Writers’ Assembly of Serbia”, svoltasi a Belgrado e in altre città della Serbia.

Sue poesie sono state tradotte in inglese, francese e serbo.

È redattrice della rivista di cultura letteraria e arte “I Fiori del male”.

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Sulle tracce di un siciliano europeo

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“C’era una volta un principe…” colto, fiero, siciliano doc e al contempo cittadino del mondo. Difficile dire dove inizi il Principe di Lampedusa e dove finisca quello di Salina. Per tutti è il Gattopardo, il romanzo icona che continua ad affascinare generazioni e le cui orme sono impresse nel nostro DNA.
Ma l’uomo, lo scrittore, il letterato e il viaggiatore possono essere riassunti nella sola figura del “Principe”?
Il punto interrogativo è d’obbligo quando si tratta di discernere tra l’uomo e il personaggio letterario e ancor più allorché si cerca di trovare una chiave di lettura di un autore celebre per un unico, grande romanzo.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa è una figura a tutto tondo che non può essere letta solo alla luce del suo celeberrimo libro o per la sicilianità che incarna e descrive. Egli fu molto di più, e, attraverso l’esplorazione delle sue rotte storiche, geografiche e biografiche, si tenterà di tracciare un ritratto diverso dell’autore, lontano dalle cornici di maniera, barocche ma tarlate e inconsistenti. Ne risulteranno i tratti di uno scrittore e di un uomo ricco di sfaccettature.
Lampedusa, dunque. Non è forse casuale rilevare che quello che per lui fu il punto di partenza, oggi per molti è un punto di arrivo, il traguardo di una speranza. Lampedusa è una propaggine d’Europa nel cuore del Mediterraneo, terra di confine e di approdo nota per sbarchi, annegamenti e traffici di vite umane dalle coste della vicina Africa. La storia cambia ma restano, pur nelle differenze, delle costanti, le caratteristiche immutabili degli esseri umani, gli stati d’animo, le miserie e le grandezze, il bisogno di un suolo di certezze e sul fronte opposto il fluire del mutamento che sradica e sconvolge.
Per queste e per altre misteriose ragioni, per questo miscuglio di antico e moderno, poetico e razionale, antropologico e filosofico, Tomasi rimane a tutt’oggi un autore attuale, ancora in grado di far coesistere caratteristiche differenti generando punti di vista, influenze e dibattiti tra i lettori e i critici. Il suo Gattopardo è diventato con il passare degli anni molto di più di un romanzo di successo e di una popolarissima pellicola. Si è trasformato in un’icona, uno spunto infinito per citazioni. È diventato un modo di dire, il simbolo di un’epoca e di un modo di pensare, identificabile quasi con il marchio del copyright, come l’aspirina o la coca cola.
Come spesso accade però, nella letteratura, nella vita e lungo quel punto ventoso e oscillante che le unisce e le divide, tra le parole e la verità, tra l’uomo e l’opera, c’è un bel tratto di mare. Nel caso specifico di Tomasi, le onde in questione sono quelle tra Scilla e Cariddi, tra la Sicilia e il Continente, inteso anche e soprattutto come Europa.
Come accadde ad un altro siciliano dal carattere complesso e multiforme, Luigi Pirandello, anche Tomasi fa rotta verso il nord.
In cinque anni di intensi viaggi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa ebbe modo di conoscere a fondo alcune delle principali capitali europee. Cercava lo spirito autentico dei luoghi e dei popoli, il volto vero da confrontare con quello del suo Mediterraneo. Scoprì la bellezza mite di Parigi e si trovò particolarmente a suo agio a Londra, città che trovò ricca di bonomia. Esplorò però anche il fascino più cupo e intrigante di Berlino. Visitò musei, ma anche le vie trafficate dal popolo e i tracciati già resi mitici da grandi libri del passato. Frequentò salotti alla moda ma anche locali di ricreazione e fu attratto da tutto, assimilando con vivida curiosità. Viaggiava con un repertorio di citazioni e scriveva lettere di rigogliosa fantasia in cui confermava la sua sete di conoscenza. Anche lui, seppure molto distante da un altro affabulatore immaginifico quale fu D’annunzio, ci teneva a dare di sé un’immagine spettacolare. Questa sua insaziabile verve ha trovato una sintesi efficace nel suo “Viaggio in Europa. Epistolario 1925-1930” .
Tomasi di Lampedusa, schivo, raffinato, studioso vorace di letterature comparate, dà l’impressione di viaggiare per scelta, per divertimento e per arricchimento interiore, per il bisogno di staccarsi da radici profonde che lo nutrono e lo bloccano allo stesso tempo. Viaggia per la volontà di rendere la sua cultura effettivamente europea. Per essere un uomo di mondo prima ancora di essere scrittore. Non per sfoggio o per aristocratico orgoglio, ma per un’esigenza sincera.
Duca di Palma di Montechiaro e principe di Lampedusa, Giuseppe Tomasi nasce a Palermo il 23 dicembre 1896. Frequenta il liceo classico a Roma dove si iscriverà anche alla facoltà di Giurisprudenza, senza però laurearsi perché chiamato alle armi. Partecipa alla disfatta di Caporetto e viene fatto prigioniero dagli austriaci. Conosce quindi l’orrore della guerra, la più cruda e spietata, quella che annulla il divario tra nobili, borghesi e uomini del popolo. Quella che rende crudelmente vera la fragilità della condizione umana, la ferocia del tempo e della Storia ma anche la forza di restare aggrappati ad una Bellezza che rappresenta la sola fonte di sopravvivenza.
Tomasi di Lampedusa fu spesso ospite del cugino, il poeta Lucio Piccolo. Grazie a lui ebbe occasione di frequentare ambienti letterari di alto livello, come nel 1954 in occasione di un convegno letterario a San Pellegrino Terme in cui conobbe, tra gli altri, Eugenio Montale e Maria Bellonci.
Al ritorno da quel viaggio, come un vulcano giunto al livello di pressione ideale, Tomasi inizia a scrivere Il Gattopardo, ill romanzo di una vita, di molte vite reali e possibili. Verrà terminato due anni dopo, nel 1956.
Il suo romanzo viene definito come un esempio di “poesia in forma di prosa”. Perché la forma poetica possiede la capacità di mettere in contatto e sintetizzare istanze e sensazioni contraddittorie tramite la coincidentia oppositorum. L’ancorarsi al passato era un gioco di specchi per parlare del presente e del futuro.
Fu proprio questa sua strana ambivalenza tra moderno e antico che provocò il rifiuto del libro da parte di molte autorevoli case editrici a cui era stato presentato. Respinto prima dalla Mondadori e poi da Einaudi sempre ad opera di Vittorini che era il selezionatore delle opere, il romanzo fu scoperto e apprezzato da Bassani. Fu proposto alla Feltrinelli che lo pubblicò. E fu un successo strepitoso. Purtroppo Tomasi di Lampedusa era già morto nell’amarezza e nello sconforto di non aver potuto vedere pubblicata la sua opera. Un episodio questo che getta ombre non del tutto archiviabili ai tempi d’oggi.
Il Gattopardo è un caso più unico che raro. Tomasi di Lampedusa era un outsider per quanto riguarda il mondo letterario ufficiale, nel quale permaneva in vizio antico della chiusura al nuovo, non importa di quale provenienza.
Ma qui ed ora, dopo che la vicenda si è comunque conclusa con il successo del libro di cui l’autore non ha potuto beneficiare in vita, è possibile forse tentare di cogliere elementi dello scrittore e dell’opera di più ampio respiro.
Tomasi di Lampedusa è stato sì, per dirla con Montale, “l’autore di un solo libro”, ma in questo volume ha racchiuso una vita intera di esperienze di respiro europeo, assorbite senza preconcetti, con passione autentica. Il Gattopardo è la risultante di un lavoro di accumulazione di note e sensazioni durato anni, scritto con una forma espressiva capace di coniugare la sintesi metaforica della poesia e l’esattezza documentaria del romanzo storico. Il libro era allo stesso tempo imbevuto di stilemi classici e proiettato verso forme e prospettive nuove. Era in anticipo sui tempi, pur parlando di un’epoca già passata. Collocato in questa terra di confine, ebbe bisogno di una lenta assimilazione prima di essere percepito dai critici come opera di assoluto valore. Il resto è storia della letteratura e della cinematografia.
Il Gattopardo è il frutto di un innesto in gran parte inusitato: la cultura europea impiantata sui rami nodosi della Sicilia, il vento nordico sui silenzi e l’aria ferma di troppi secoli di inazione, come sottolineava in Principe di Salina in un celebre passaggio: “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali”.
Nel Gattopardo il romanzo trascende il romanzo. Il libro è così ricco di contenuti da prestarsi a molteplici e parallele chiavi di lettura: storica, filosofica, psicologica, sociale, geo-politica. Ma è anche un libro coraggioso, in cui lo sguardo sui retaggi culturali che hanno creato l’humus mafioso è assolutamente schietto.
Come nelle stratificazioni geologiche, questo libro va ben oltre l’affresco storico, oltre il racconto, oltre i personaggi, i luoghi, i costumi. In questo contesto si inserisce la citazione per eccellenza, lo stemma che campeggia sul romanzo e lo identifica in modo immediato:
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Il Gattopardo racconta l’umanità, i dubbi e le speranze di uomini e donne del proprio tempo di fronte ad un mondo che cambia e ridefinisce valori, canoni e stili. Racconta come gli uomini si pongono di fronte al cambiamento e come le identità, le storie e la cultura si misurino col tempo.
Considerare Il Gattopardo un libro conservatore è un atteggiamento in gran parte miope: c’è, viva e presente, la consapevolezza dei mali storici della Sicilia. Vista non come microcosmo a sé stante ma come emblema di un modo di vivere e di pensare antico che si trova nella necessità di guardare con occhi diversi a tempi nuovi. C’è una forma di critica sociale forte e costante nel libro. L’amore per la propria terra non è cieco.
I personaggi del romanzo sublimemente avvolti di umanità, sono cesellati nella loro ambivalenza. Questa con ogni probabilità è la parola chiave: ambivalenza. Il romanzo si colloca ad un punto di snodo fondamentale della storia italiana e non solo. Quel momento in cui ci si rende conto che una certa società, un determinato sistema di vita e di pensiero è destinato ad essere superato dai tempi, dalla storia. Tomasi tuttavia non lo vive con un atteggiamento passivo e rassegnato. Non è un cantore acritico del passato, non esalta incondizionatamente les neiges d’antan. Il fulcro del suo pensiero è la volontà di portare nei nuovi tempi quanto di meglio c’è nella tradizione e nel legame autentico che deriva dalla terra d’origine. È anche grazie a Tomasi di Lampedusa se gli italiani hanno coscienza del loro grande dono e della loro condanna.
Lo sguardo distante, malinconico e nostalgico del Principe di Salina da un lato, lo stile narrativo dell’Autore-Principe, non devono trarre in inganno. Il libro urla verità senza tempo, svela le illusioni, le trappole e i miraggi dei cambiamenti repentini, i pericoli dei furbi e dei voltagabbana, denuncia l’immobilismo, insegna a guardare oltre l’apparenza, oltre il contingente, in un’ottica per dirla alla Leibniz, sub specie aeternitate.
Il Gattopardo è un’opera dall’altissimo valore educativo intergenerazionale, perché ogni epoca, così come ogni uomo, è sospeso tra due estremi, un presente che muta ad ogni istante e un passato che sfugge, scivola via, tendendo a diventare irriconoscibile. “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”. In questa dichiarazione, all’interno di questa presa di coscienza, si trova forse la chiave del successo e del fascino del romanzo e del suo autore: il senso della finitezza umana non esclude ma semmai rafforza e vivifica il tentativo di ritagliarsi uno spazio autonomo, individuale e riconoscibile all’interno del disegno imperscrutabile del tempo e del destino.
Ivano Mugnaini