Francesco Marotta

SONETTI DOLENTI E BALORDI

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Frisa sonetti copert“Presenze e paesaggi familiari emergono e si profilano lungo quel sentiero, ombre mute di guardia al vivo e straziato incanto di un universo dove ciò che è polvere riacquista corpo e voce e parla la lingua indivisa degli antri e delle fonti, della sabbia e della goccia che la fa rifiorire, del faro che smania luce dalla voragine oscura che si spalanca al richiamo del suo desiderio e la lascia sciamare libera nell’aria.”
Parto da questo brano della intensa e profonda prefazione di Francesco Marotta per parlare del libro Sonetti dolenti e balordi di Lucetta Frisa. Il sentiero è quello che l’autrice percorre con coerenza da anni nella sua attività letteraria: una lievità densa, una gravità percepita con consapevolezza ma senza mai cedere al gusto autolesionistico (anche nell’ambito della scrittura) del patetismo senza sbocco. E’ la parola che dà forma al dolore ma è la parola stessa che fa rifiorire questi sonetti. Dolenti ma non sconfitti prima di una danza di sfida, simile a quella dei Maori, tra forza e sberleffo, vitale, ironico, tenace. In questo senso forse i Sonetti sono anche “balordi”. Con quella follia che smania dalla voragine oscura ma è anche capace di sciamare libera nell’aria.
Il grido di Pessoa posto ad esergo della sezione Sequenza del dolore è esemplificativo: “sento il tempo come un enorme dolore”. Ma, poco oltre, due versi aprono una ferita che è anche feritoia, spazio aperto su prospettive altre: “Ma s’impara/ che [il dolore] ha mille nomi mille teste vive”. Ciò che si può nominare non diventa meno feroce, però diventa in qualche modo pensabile, oggetto di interazione, quasi soggetto vivo con cui dialogare.
Ho la possibilità di pubblicare la dettagliatissima prefazione di Francesco Marotta e lo faccio molto volentieri. Contiene riferimenti intertestuali ampi e precisi, ma anche una passione di lettore autentica e un apprezzamento non artefatto, non di maniera. Chi lo vorrà potrà trovare nella prefazione riferimenti puntualissimi in grado di approfondire svariati aspetti delle liriche che pubblico qui di seguito.
Follia, mistero, sogno.. ci sono in questo libro tutti gli ingredienti che costituiscono l’orizzonte espressivo di Lucetta Frisa. Miscelati in modo sempre nuovo, con ulteriori scoperte, passi lungo un sentiero che sembra identico ma muta, passo dopo passo. Questo rinnovamento nell’apparente immobilità rinnova la pena ma anche l’emozione, genuina. Quella che nella sequenza più privata viene sintetizzata dalle parole di René Char: “rido meravigliosamente con te/ ecco l’unica fortuna”. Nel dominio dei sonetti dolenti c’è spazio per il riso, se c’è ancora la sorpresa, la scoperta, la volontà di esplorare, perfino terreni bruciati dalla lava o spazzati da venti di uragano.
Scelgo alcune poesie. Anche se una lettura globale del libro, e, lo confermo, della sentita prefazione, parte integrante del testo stesso, forniscono una visione molto più adeguata del viaggio in forma di parole. Per confermare a noi stessi che leggere è “uscire da sé come un giorno/ chiudemmo la porta di casa dietro/ di noi senza le chiavi e il permesso/ dove vai – ci chiesero – non lo so./ Non contavamo i passi le parole/ degli altri credevamo nei numeri/ senza interruzione”. IM

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Sonetti dolenti e balordi

Aprendo i suoi sensi umani il dolore
si fece insopportabile come la gioia
lui volle proteggersi dalla rovina
degli eccessi e dal presente che costringe
azioni ed emozioni a recitare
qui il loro teatro e cominciò a salire
il colle sopra la città e comprese
tempo spazio ironia camminando
in salita respirando pensando
e non pensando più. Il corpo pensava
da solo i suoi occhi pensavano
tutte le direzioni: si fermò
a tradurre il suo grande sogno in libro
ma sapeva che l’amore non si legge.

***

Il dolore è lava di vulcani
colata a valle divenuta nera,
della polvere gli invisibili grani
sono sostanza dell’infinito nero
dei vulcani spenti. Ma s’impara
che ha mille nomi mille teste vive
moriranno insieme a te nel bianco
riflesso dell’occhio di chi ti vede
accartocciarti con il tuo dolore
senza nome e al tuo nome perduto
e a tutti i nomi degli amati giochi
– ferite e cicatrici disseccate –
e con le prime materne carezze
alle ebbrezze esplose ai primi fuochi.

***

La via Lattea non mi scivola sugli occhi
rivolti alla sua perlata scia.
Qui l’ombra di una formica la memoria
confusa del mondo con la sua storia
ottusa persa la sua antica follia.
Dicono i saggi che prima di noi
e dell’umano tempo saturnino
lei regnava indistinta dall’aria.
Ed io quando vado oscillando in bilico
tra pensieri e pensieri e poi slitto
su cose perfide infide e strappo
pelle pupille sesso mi possiede
follia di cullarmi nel suo grembo
snodata da tutti i qui e gli adesso.

***

Per vivere ho bisogno del mistero
occhi di un’altra specie sacre pietre
dipinte o incise nel buio delle grotte.
Scende tiepido dal polso alle caviglie
il mistero delle cerimonie
trattenuto e sfuggito al presente
perché anch’io m’inchino ancora e tendo
braccia mani gola e canto a chi non sente
e non mi vede ora che sono ombra
che vorrei sanguinasse come un corpo
stremato senza più metafore.
Vorrei credere un messaggio sacro
l’imprevista invasione della luce
sul mio scuro letto addolorato.

***

So che il congedo è solo mio solo io
posso gioire o piangermi addosso
solo io conosco il mio inferno lo strato
di terra l’ipogeo dell’inverno
lì mi stendo muta e nuda senza udito
né vista né storia né memoria
e lo specchio non c’è di maga che
mi ricordi chi ero se ero. Bellezza
intravidi da strappi, dai morsi
alle mele ho succhiato veleni,
sputai gli attimi e i lunghi respiri
tutto sembrava insipido da bere
e di tutto mi rimane il desiderio
che svuota e colma d’aria il bicchiere.

***

Non sento non sento nulla qui dentro
e si batte il petto secco con le dita
secche e l’occhio triste lei che sta
per morire vive l’incubo del cuore
svuotato come l’anfora che portò
l’acqua fresca e ora è riversa rotta
nel museo. Soffre di non più soffrire
nel dormiveglia del suo sonno futuro
non ama più né più domanda amore
mi guarda come la parete bianca
che ha davanti: unica cosa insensata.
E quando piango la penso e sentire
devo sentire sentirmi annegare
nell’acqua delle mie torbide lacrime.

***

Bisogna uscire da sé per entrare
negli altri nel loro dolore come
nella loro gioia entrare nell’erba
negli occhi dei cani nel cuore algido
dei metalli e dei sassi docilmente
entrare ovunque dicendo scusate
non siamo invadenti ma è per conoscenza
siamo divisi solo in apparenza
ad ognuno la sua parte e la sua voce
e la sua futura polvere. Sapete
chi siete e dove andate? Amateci
fate finta di parlarci compatirci
anche noi come voi siamo gli attori
di questa tragedia d’odio e d’amore.

***

Questi brandelli di sapienza astri
soli in mezzo al cielo vuoto apparsi
su pagine quasi tutte bianche
riempite da noi da chi ora vive
e li interroga qui tra vita e morte
cauterizzati come un’ustione
antica che ha perduto per sorte
la sua tenera pelle protettiva.
Si deve dire e intuire: ciò che è, è
perché può essere mentre il nulla non è,
allora noi non siamo o da un’altra riva
siamo o non siamo nulla ma potremmo
essere. Uomini ? Chiudo il libro
sotto questa perturbante luce

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Prefazione di Francesco Marotta

La passione dell’origine

In una pagina particolarmente significativa e premonitrice del Libro delle Interrogazioni, nel fervore di un dialogo serrato, estremo, con una parola che è vertiginosa coscienza del vuoto su cui il suo dire si staglia (il deserto che si profila in forma di risposta ad ogni domanda, l’assenza inesprimibile che il segno annuncia nell’attimo in cui depone sulla pagina la traccia febbrile del suo passaggio), Edmond Jabès annota, e ci lascia in eredità come una testimonianza gravida di futuro, una riflessione che è anche un preciso e inequivocabile indirizzo di poetica e di ricerca di senso: “Scrivere è avere la passione dell’origine; provare a toccare il fondo. Il fondo è sempre l’inizio. Anche nella morte, certo, una moltitudine di fondi costituisce l’abisso, tanto che scrivere non significa fermarsi alla meta, ma oltrepassarla senza fine”. La vocazione al superamento e all’oltranza, quantunque l’approdo finale del percorso, una volta varcata la soglia che la domanda dischiude come un precipizio, non sia altro che la certezza del silenzio, la memoria metamorfica di tutti i silenzi attraversati e da attraversare in un movimento infinito e circolare, si definisce nell’idea in atto di una sostanziale restituzione al pensiero della visione originaria, raccolta e addensata in tracce e in barlumi affioranti dal profondo, della caotica dismisura delle sue radici, ovvero nel disvelamento dell’enigma che la sua luce inglobante, ordinatrice e categoriale, riversa sulla superficie accompagnando gli esseri e le cose in tutto il tragitto della loro terrestre vicenda.

L’estrema tensione augurale del testo jabesiano, “alba e tramonto in una sola luce”, si materializza netta e inequivocabile davanti agli occhi della mente, con tutta la sua elementare progettualità di ethos nascente e la sua naturale inclinazione a definirsi in misura di paradigma estetico, ad ogni approccio a questi Sonetti dolenti e balordi di Lucetta Frisa, imponendosi come chiave gnoseologica ed ermeneutica privilegiata, disponendo ed orientando non solo la lettura e l’analisi dei testi, ma fornendo al contempo la mappa più precisa per collocare quest’opera in posizione di rilievo all’interno della produzione complessiva dell’autrice. Le liriche, infatti, non sono il frutto di una occasionale o momentanea e, quindi, immediatamente contestualizzabile accensione, quanto piuttosto “sogni” che “si sarebbero un giorno fatti carne”, il riaffiorare, in natura di lampi ed intuizioni erratiche, di frammenti lungamente covati nel corso degli anni, cresciuti sui margini in ombra di un disegno poetico che da La follia dei morti a Se fossimo immortali, da Ritorno alla spiaggia a L’emozione dell’aria, è venuto costruendosi nel tempo, con rigore, sapienza ideativa e padronanza crescente delle linee e delle strutture fondanti, come un’architettura intimamente e intellettualmente riconoscibile, solida e lineare nella sua voluta e ricercata esposizione ai punti cardinali della percezione e dello sguardo.

La passione delle origini, allora, quasi a sparigliare volutamente l’ordine del discorso, si ammanta in quest’opera di sfumature e colori affatto nuovi e li ricombina declinandosi in forme e modalità “balorde”, sottilmente e deliberatamente “sovversive”, refrattarie all’imperativo di poetiche organizzate unicamente in funzione della trasparenza e costrette, inevitabilmente, entro i reticoli e i codici escludenti di un orizzonte rappresentativo asettico e uniforme, monocromatico e monodico. Tutto ciò riesce possibile, e si realizza con esiti sorprendenti, in forza di scelte lessicali etimologicamente spurie e perturbanti, di un balzo nella penombra del non-detto e del non-ancora tanto sul piano dell’utilizzo sghembo e obliquo, disarmonico e dissonante, di strutture metrico-sintattiche consolidate (il sonetto richiamato dal titolo), quanto su quello di una suggestiva e spiazzante inversione del moto ascensionale che caratterizza, per tradizione o per consolidata convenzione filosofica, ogni processo consapevolmente e compiutamente conoscitivo. Un processo la cui progressione verticale viene rovesciata in una vertiginosa discesa nell’abisso, fino alle viscere ribollenti della materia e dell’essere (“Per vivere ho bisogno del mistero / occhi di un’altra specie sacre pietre / dipinte o incise nel buio delle grotte”): una metamorfosi tutta inglobata e interiorizzata, che comporta la rinuncia a ogni pregressa coordinata razionale e a qualsivoglia permanenza statica del soggetto nel cerchio di una verità e di un senso dati, capace di tramutare in mistero il chiarore, di farne avvertire tutta l’insostenibilità, tutto il peso della carica radiante che ci tiene indissolubilmente legati all’esistenza attraverso una rappresentazione astratta e geometricamente riproducibile del creato, attraverso la ricezione unilaterale della molteplice e polifonica cadenza dei nostri stessi passi (“un enigma per me / camminare in superficie”): da qui la necessità, pungente fino allo spasmo ultimo e alla dissoluzione, dello svelamento, l’urgenza della restituzione di ogni luce alla matrice oscura da cui promana (perché solo “il nero nel sottosuolo / tiene il seme del mondo”), di ogni orma sonora alla dimora da cui si parte, si diffonde e si fa eco e pensiero, mappa udibile e leggibile, plurale, di ogni possibile cammino.

Il poeta sa che il suo canto, parto ed erede della dicibilità del mondo e della progressione razionale della voce tra le maglie di un universo che si rende decifrabile solo nella persistenza inclusiva ed univoca dell’ordine e della luce, ha bisogno di sguardi altri (“occhi di un’altra specie”) ai quali sorreggersi e dai quali lasciarsi guidare in questa catabasi fino alla dimora abissale del principio: altri occhi che parlino, attraverso lo stupore ammutolito dei suoi, la lingua umbratile delle origini, il verbo oltraggioso e inafferrabile di un panteismo apocrifo e pagano, l’alfabeto ferito e sanguinante di chi ha lungamente sperimentato il dolore, la follia, l’esclusione, l’inesistenza, la morte pur di aprire una breccia, con lo stilo, la passione e il furore del suo “grido inascoltato”, nel “silenzio di dio”. Il dolore e il lutto cercano i suoi occhi e la sua bocca, finalmente liberi dalle catene di una luce che esclude il suo rovescio simmetrico, per farsi specchio e visione, per seminare nella nudità del giorno il loro carico di spine e di memorie, la loro sete inappagata di riconciliazione.

Il viaggio oracolare, ossimoricamente dissoluto e aggregante (“io dei balordi sono la vestale”), si articola in sequenze pulsanti come partiture di un coro senza requie, dove le parole si cercano, si allontanano, si rincorrono e si riafferrano come respiri vaporati dai pori di un unico immenso corpo danzante: in ognuna di esse si apre un vortice visivo, un centro immaginale che raccoglie e recupera voci e volti privi di ogni anteriorità e di ogni futuro, presenti da sempre come macchie invisibili d’inchiostro sui bordi levigati di testualità già precedentemente meditate e scritte, come stimmate che, ora, dalla pagina irraggiano nella carne la luce demente o saggia dell’attesa – che covano, all’insaputa dei giorni, il sogno inesauribile di una vita sul limitare di una nuova“’apertura”, la risalita dal caos informe della morte agli orizzonti della ricomposizione. Sono profili che parlano, da lontananze estreme, l’alfabeto familiare dell’insonnia, ombre protettive con le quali lungamente abbiamo dialogato perché le sapevamo, da sempre, portatrici di un verbo innominabile, di un dolore inesprimibile, l’unico capace di contenere e di rivelare “divinità nascoste” scorticandole “fino alla nudità”: sogni senza tempo di un’epifania suprema, lo squarcio tra le pieghe del reale che annuncia la risalita dagli abissi di Kitež, la città invisibile che dimora gli spazi inesplorati e incontaminati delle nostre esistenze.

Presenze e paesaggi familiari emergono e si profilano lungo quel sentiero, ombre mute di guardia al vivo e straziato incanto di un universo dove ciò che è polvere riacquista corpo e voce e parla la lingua indivisa degli antri e delle fonti, della sabbia e della goccia che la fa rifiorire, del faro che smania luce dalla voragine oscura che si spalanca al richiamo del suo desiderio e la lascia sciamare libera nell’aria. Qui si respira la follia di dio: un soffio che per la pupilla murata del presente, per la sua cecità “che costringe / azioni ed emozioni a recitare”, è canto balordo, illusione demente e distorta, ma che, per armonia e risonanza indicibile di poesia, si trasforma in matrice di stupori impensabili, stupori di un tempo senza tempo, di una terra senza nascita e senza morte. Qui Nadežda può ricomporre il volto dell’amato strappandolo agli artigli della storia, custodire il segreto del suo nome a “protezione dal male / della terra”, e col suo canto trasformare in preghiera il furore dei lupi che l’assediano; qui Andrea Salos, investito dalla stessa pazzia celeste, può riaprire la sua bocca, muta da secoli, che ha conservato e vegliato parole potenti e fraterne come un abbraccio, pronte ad accogliere l’ultimo volo dei perseguitati dal destino; qui la donna velata di Elea ancora ritorna a riprendersi la “luce sparsa” dal suo corpo sotterrato e la ridipinge “per chi resta”, ripetendo il miracolo della vegetazione, degli astri e delle stagioni, del disfacimento e della rinascita. Qui il lutto di Alejandra è il dolore taciuto di tutte le creature che trascorrono la loro esistenza “acquattate come bestie in allarme”, che “si dolgono di solitudine / incurabili, inascoltate”: volti perduti per sempre, ai quali può ridare voce solo chi stringe nelle sue mani il filo che tiene i vivi e i morti insieme: solo chi sa farsi lacrima che eternamente migra, di vita in vita, fino a lambire l’immobile riva degli occhi di dio.

ΒΙΒΛΙΟ ΚΑΙ ΒΙΒΛΙΟ

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ΒΙΒΛΙΟ ΚΑΙ ΒΙΒΛΙΟ, ovvero, con traduzione libera, LIBRI E LIBRI. Si tratta del nome del blog greco curato da Konstantinos Kokologiannis. Recentemente, navigando su Google, ho visto che Konstantinos ha ripubblicato nel suo blog la nota critica di Francesco Marotta originariamente apparsa su “La dimora del tempo sospeso”. La prima reazione è stata di divertimento, accompagnata da un certa dose di consapevolezza dell’ignoranza, non essendo in grado di leggere le parti dell’articolo scritte in greco moderno. Poi, a mente più fredda, mi è nata una considerazione. Banale, scontata, certo, ma anche viva, tenace, gradevole: nonostante le violenze e le pressioni assurde e inumane del sistema economico-finanziario, le tensioni, le sperequazioni e le vessazioni, i libri girano, per percorsi autonomi, liberi, inarrestabili. Mi fa molto piacere che il mio libro sia approdato, come uno strano e arcano messaggio nella bottiglia, sulle sponde del mare greco. La culla della civiltà, quella che, nonostante tutto, permane, resiste, persiste, curiosa, viva. Non sono capace di ringraziare in greco moderno, lo confermo. Per fortuna però Kostantinos, con cui ho avuto modo di dialogare dopo la pubblicazione di questo suo post, parla italiano. Colgo anche l’occasione per ringraziare nuovamente l’amico Francesco Marotta, che, con la sua accurata nota critica, ha reso possibile questo incontro e questo dialogo. Sfido di nuovo a cuor leggero il rischio della retorica, concludendo con un “Viva la Grecia!”. Per tutto ciò che anche oggi, anzi, oggi più che mai, rappresenta e simboleggia. I.M.
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τάρτη, 12 Σεπτεμβρίου 2012
Ivano Mugnaini, L’algebra della vita Greco e Greco Editori

Gli sviluppi nel corso del tempo dell’arte del racconto hanno evidenziato e messo definitivamente a fuoco una precipua caratteristica delgenere: il suo essere, in buona sostanza, un banco di prova ineludibile per chiunque coltivi ambizioni di scrittura fuori dal circuito della serialitàprogrammatica e dalle secche di una narrazione che si consuma, soprattutto oggi, nella pura e semplice rappresentazione del dato, nell’ordinario e rituale esercizio affabulatorio che ha come unico fine quello di raccogliere i frammenti del reale e di ricondurli a un paradigma teorico preesistente, canonizzato. Il corpo a corpo con la scrittura, nel caso del racconto, avviene invece in un tempo metamorfico non mai assolutizzato, in unpaesaggio altro dove le coordinate non sono mai prefissate ma si definiscono, nella loro essenzialità, solo nel farsi del discorso, nell’oltranza della narrazione – alla presenza, silenziosa e discreta, della tradizione, che agisce come propulsore e catalizzatore di voci, attraverso i fantasmi che lascia emergere, a ondate, dalle acque mobili del suo mare inattuale. Esattamente quello che avviene in questo libro. […]
(Francesco Marotta, L’algebra della vita: il racconto tra ratio gnoseologica e istanza etica.)

Ivano Mugnaini, L’algebra della vita
Prefazione di Luigi Grazioli
Milano, Greco e Greco Editori, 2011

L’INSEGUITORE

Troppo nitidi, troppo statici. Ho provato, quando mia moglie non guardava, a girarli e rigirarli tra le dita, a farli ruotare come trottole sul legno del tavolo. Niente da fare: dopo un po’ il metallo degli occhiali riacquista il suo peso e le lenti rallentano sempre più fino a restare immobili, occhi di vetro che riflettono le pareti del laboratorio, le finestre semichiuse, l’enorme orologio a pendolo appeso alla parete centrale.
A mia moglie è sempre piaciuto il pendolo dell’Ottocento, l’orgoglio, il simbolo stesso del nostro negozio di ottica e orologeria. C’è sempre stato, fin da quando ero ragazzo, forse l’ha comprato mio suocero, o il padre di mio suocero, o forse anche loro l’hanno trovato già lì. Scandisce i movimenti, le azioni, le parole che dici e quelle che non osi nemmeno sognare. C’è, si fa pensare, e a volte credo che anche lui pensi a me, e rida, di ogni gesto quieto, paziente, scandito a bacchetta dalle lancette di ferro e di ottone dei suoi secondi e dei suoi minuti. Mi raggiunge continuamente, il tempo, mi piazza un braccio nerboruto sulla spalla e non si stacca più, come un ubriaco in un bar che ti chiede da bere e ti racconta una storia lunga, incomprensibile, costantemente identica a se stessa.
Mia moglie assomiglia un po’ al pendolo: è di legno liscio, saldo, smaltato con cura, senza screpolature e senza ammaccature. E’ precisa, puntuale, ama il suo lavoro, l’attività che è chiamata a svolgere. Procede in senso orario senza mai perdere un colpo, senza una pausa, un’esitazione, un dubbio. Mi invita ad imitarla, ad essere zelante, a prestare attenzione ai clienti, a mostrare attaccamento. Ha ragione, sì, ha senz’altro ragione lei.
Una lente ferma tra le dita è uno specchio, due lenti che girano nelle mani sono un’idea, due ruote che corrono sull’asfalto lucide come lenti sono una fuga. Mia moglie ha ragione, è dalla parte del giusto. Io ho solo una bicicletta rossa fiammante e corro in direzione opposta. L’asfalto non è mai grigio, o meglio, non è mai grigio allo stesso modo. Non è del colore del giorno prima, non ha lo stesso profumo e la stessa consistenza, le salite rincorrono le discese e il sudore sulla fronte trasforma un tramonto in un’alba.
Esco in silenzio dalla porta laterale del negozio e monto in sella con l’espressione di un bambino che sale sul cavallo più bello di una giostra. Svolto l’angolo ed il negozio non c’è più. Non c’è lui per me né io per lui. Solo un rettilineo assolato, l’odore della pineta e del mare, il riflesso delle macchine che mi sfilano accanto piene di ragazze in maglietta e di asciugamani colorati. Respiro a fondo, indosso gli occhiali da sole presi a prestito nel negozio ed inizio l’inseguimento. Non c’è nessuno davanti a me, solo un viale alberato, automobili e moto. Eppure io lo vedo, è laggiù, a un centinaio di metri da me, ha un passo regolare, basta aumentare la frequenza delle pedalate e posso raggiungerlo. E’ lui, il compagno di viaggio ideale, quello che, a seconda del mio umore, procede cupo al mio fianco o ride e scherza con me. E’ laggiù, il ragazzo eternamente torturato, vittima di tutti i regimi. Lo riprendo e cerco i suoi occhi per un attimo. Non c’è bisogno di parole, pedaliamo spalla contro spalla unendo forza e fragilità, fendendo la stessa aria, sognando insieme il traguardo di una valle silenziosa dove poter distendere le braccia, posare la schiena sull’erba e chiudere gli occhi vedendo e pensando solamente il sole.
Oppure, quando sono di buonumore, mi metto sulle tracce di Mercks, il più forte, l’eterno vincente. L’ho anche conosciuto un giorno Eddy Mercks, quello vero, in carne ed ossa. Gli ho chiesto l’autografo, ho accostato la bici alla sua e mi sono fatto scattare da un amico una foto che conservo come una reliquia. Mi ha sorriso il campione, ed ha provato a dirmi qualcosa in un italiano tagliente come una lama, pieno di erre appuntite e arrotate. Gli ho sorriso anch’io e gli ho detto grazie. Non sapeva, il belga, per fortuna, quello che pensavo in quel momento. Dicevo a me stesso che era forte, sì, era bravo il cannibale, ma io, se avessi potuto allenarmi a tempo pieno, lo avrei battuto prima o poi. E in ogni caso, mi dicevo, l’ho già battuto tante di quelle volte! Quasi ogni giorno lo immagino davanti a me, lo inseguo, lo supero e lo batto in volata. Povero Mercks, se sapesse quante volte l’ho sconfitto scoppierebbe a piangere come un ragazzino, come quella volta al traguardo di Sanremo quando fu costretto a ritirarsi dal Giro d’Italia. Per sua fortuna non sa niente, e io non ho intenzione di dirglielo. Lo lascio dov’è, nella leggenda, nella memoria, e sul viale che costeggia la pineta, pronto ad essere inseguito e staccato ogni volta che mi va di pedalare e di fantasticare.
Ne ho conosciuta di gente famosa in vita mia, ciclisti e atleti ma anche artisti e personaggi famosi. Ho incontrato la nipote di Puccini, un giorno. Bella come Tosca, come Madama Butterfly, vestita di colori accesi, delicata come un alito di vento, un filo di fumo, una melodia che danza sull’azzurro e sul verde. Mi sono perso nel sogno di lei, ed anche lei, forse, si è innamorata di me. Una cosa è sicura, ho ricorso la sua armonia, nel ritmo della fatica, nel cigolio dei pedali, nell’ombra disegnata sugli alberi, nel dipanarsi ondulato della strada che riflette le pulsazioni del cuore come il volo di un gabbiano che si specchia sulle acque di Torre del Lago.
L’ho inseguita, la musica di Puccini, si è lasciata raggiungere quando ha compreso che non volevo costringerla a seguire il mio cammino, volevo solo averla al mio fianco fino all’istante in cui avrei imparato, partendo da lei, a sentirne gli accordi nelle braccia e nelle gambe.
Ho inseguito anche un collega, l’occhialaio di Amsterdam: Baruch Spinoza, un uomo colto, un filosofo. Io, lo confesso, non sapevo chi fosse, me l’ha spiegato un mio amico. Sono ignorante, lo so, lo ammetto, ma lui mi ascolta, mi parla di filosofia, pedala e ride anche lui al mio fianco, dice cose assurde e cose vere come me. Non sa se i paesi a cui passiamo di fronte esistono davvero o sono immaginari, conosce solo le stille di sudore, l’imprecazione, la voglia di arrivare in cima alla salita per vedere cosa c’è lassù e cosa oltre, o magari solo per avere il vento fresco sulla faccia e sul petto, per quanto male possa fare.
Mi piace anche, di tanto in tanto, attraversare la città, sfrecciare sui viali pedonali e lungo la Passeggiata zeppa di gente. Con la bici luccicante, contromano, volo e vedo per un attimo breve le loro risa e le dita che mi indicano e tamburellano allusive sulla fronte. Corro, ed ogni istante cambia la gente, anche se la gente non cambia mai. Ma basta un colpo di pedale, elegante e potente come quello di Adorni, come quello di Koblet, e sono alle spalle. Spariti, andati, presenti e lontani.
A volte passo accanto a camion pieni di soldati. Seri, massicci, con le divise tirate a lucido. Passo a testa bassa come uno scalatore timido, Battaglin, Ocaña, Chioccioli. Passo piano e lascio correre i sogni. Immagino di poter montare a rovescio le ruote dei loro mezzi blindati e delle loro jeep come a volte faccio in negozio con le lenti degli occhiali. Mia moglie è convinta che lo faccia per sbadataggine e puntualmente si imbestialisce. Non sa che lo faccio apposta. Una lente rovesciata può essere magica, può far vedere il mondo a sghimbescio, può farti sbagliare strada e direzione e farti finire su una spiaggia dove gli unici proiettili sono gli zampilli che raggiungono la pelle dopo un tuffo tra le onde. Vorrei poter dire e fare davvero tutto questo, ma per ora so solo procedere muto. Continuo a inseguire però, a puntare lento e tenace verso la Cima Coppi, lo Stelvio, il Mortirolo, la più dura e la più ambita delle vette.
So correre anche all’indietro, so inseguire, guardando dritto davanti a me, anche il tempo, lungo viali illuminati da lampioni potenti come stelle o sulle pietre e la polvere degli stradoni, ai bivi sperduti delle campagne. Per chiedere indicazioni ad Alessandro il Grande, a Giulio Cesare, a Napoleone. Con la scusa di domandare come si arriva ad un borgo inventato, invitarli a pedalare con me, ad accorgersi che basta un campo di papaveri su cui stendersi quando si è stanchi e un ciglio di strada per vedere orizzonti e confini senza bisogno di oltrepassarli, senza la foga di sentirli tuoi, perché restano liberi, sempre, nonostante tutto, nonostante te.
Anche e soprattutto le donne, la bellezza, ho inseguito. Ragazze da marito e donne sposate, salite dolomitiche, erte, insidiose, rosa come la pelle e celesti come gli occhi baciati dal sole d’alta quota. Le ho inseguite, paziente, ammaliato, pedalando morbido e seguendo con le dita le curve dei fianchi e del seno. Mi hanno staccato spesso, per forza, per necessità, oppure, alla fine, mi sono lasciato sfilare io, ho fatto l’elastico lasciando che prendessero metri e filassero via, per paura, per lasciare spazio a nuove chimere e nuove fughe. Perché è bello a volte anche guardare la bellezza che si allontana sapendo che è stata tua, ha condiviso con te un tratto di strada, la meraviglia, la lucertola e il gatto che attraversano di fronte a te e ti sembra che ti sorridano come se avessero capito, come se conoscessero, loro, la magia dell’attimo: il rischio e il privilegio dell’asfalto, saper scivolare senza paura, contenti dell’istante che scalda di follia e di passione.
La mattina, dopo notti di amore rubato, tornavo al negozio ad incastrare frammenti geometrici di vetro. Le mani erano docili, per qualche minuto, riuscivo a guardare mia moglie e a sorridere alla sua saggezza. Lei capiva senza parlare, o magari si accorgeva, come me, che era meglio non capire, a volte è così, per sopravvivere.
La rispetto, l’ho sempre rispettata, è parte di me. Mi perdona, non mi insegue, ed io so bene che se volesse potrebbe raggiungermi in qualsiasi momento. Potrebbe mettersi di traverso sulla strada e bloccarla, guardarmi in faccia e obbligarmi a fissarla negli occhi. Non lo fa. Lascia che io vada, che sparisca senza preavviso lasciando negozio e clienti, soldi e porte spalancate. Lei è qui, sempre, la sento, so che c’è. Ci perdoniamo a vicenda: lei ha le sue ragioni, io la fortuna di averla e di scappare da lei.
Fuggo, sì, spesso da solo, a volte in compagnia. Con Enrica negli ultimi tempi, soprattutto con Enrica, una ragazza che pedala come un uomo, borbotta con una voce aspra che non riesce a nascondere e fa ondeggiare le spalle tozze, la testa e gli occhi che sorridono nel pianto. Vorrebbe raccontarmi storielle da caserma, barzellette sceme da osteria, da caraffa di vino rosso da un litro. Invece, regolarmente, finisce per parlarmi di sua zia, la vecchia Cesira che l’ha tirata su fin da quando è morta sua madre, tra preghiere, mani giunte, profumo di naftalina sullo scialle color Pentecoste e sulla gonna di velluto grezzo che respinge l’estate, la tramuta in una stanza cieca, una macchina da cucire dei primi del Novecento con una ruota arrugginita e una pedana su cui poggiano gambe gonfie. Mi parla di sé Enrica, del terrore e del desiderio di diventare come sua zia, delle albe già in attesa del crepuscolo, della bicicletta appoggiata al cancello del cimitero quando le ombre preparano la notte e resta solo il custode all’interno, quasi cieco, quasi pazzo, sempre preso a pregare e bestemmiare, a parlare coi morti e ad accarezzare le foto dei bambini e delle donne più belle. Entra di soppiatto là dentro, Enrica, con un fiore bianco colto in un prato da portare alla zia. Per pregare e respirare assieme a lei il silenzio della notte.
Mi attrae e mi atterrisce la mia compagna di escursioni. Mi piace, ma ho paura a guardarla in faccia, è troppo pallida, troppo luminosa, sgraziata e attraente. Temo di innamorarmene. Mi viene da ridere a confessarlo ma è così. Provo affetto per lei, vorrei strapparla alla gabbia dei ricordi, alle tarme nere che le rodono la mente, al vaso di cristallo della tomba ogni giorno più giallo ed opaco.
Presto o tardi lo faccio. Anzi no, lo faccio oggi stesso. La invito a pedalare con me, a buttarci giù per la discesa del colle ad occhi semichiusi senza pensare a niente, giù, più veloci del cuore, del sangue nelle vene.
Oggi lo faccio, io e lei in picchiata lungo i tornanti leggeri come rapaci, rapidi come ciottoli levigati, ignari di mura, paracarri, lamiere di auto che ci corrono contro.
So che lei parte sempre prima di me. Pedala vigorosa, è difficile da raggiungere. Io sono inseguitore però, è il mio ruolo, il mio mestiere. Macino metri sereno e concentrato, so dove andare oggi, conosco la via e la meta. Tengo un’andatura sostenuta da passista veloce, aumento ritmo e forza ma non la vedo, non c’è. Accelero ancora, do tutto ciò che ho. Niente. E’ fuori del raggio visivo, una curva oltre. Non ho più forze, la delusione mi fa sentire ora tutta la fatica accumulata. Mi pianto, mi blocco di colpo, riesco a procedere con immenso sforzo solo pochi centimetri alla volta. La salita ride fiera adesso, coglie il suo trionfo, la rivincita. Sorrido amaro e metto un piede a terra. In quel preciso istante sento una mano grande e lieve che mi sfiora la spalla. Mi volto lentamente con gli occhi dilatati. E’ lei, Enrica. Mi sorride, e, senza bisogno di parlare, mi appoggia le dita sulla schiena e mi invita a riprendere il cammino. Mi ha raggiunto, ha tenuto con ostinazione estrema il passo folle del mio scatto. Era partita dopo di me, attardata da un contrattempo. Mi ha scorto all’orizzonte e si è messa sulla mia scia, ha aspettato che esaurissi le energie e mi ha ripreso, pedalata dopo pedalata.
Sono stanco ora. Di tutto, anche della stanchezza, del sudore che un tempo adoravo. Con lei al mio fianco però ritrovo la voglia di spingere ancora un po’ sui pedali, quel tanto che basta per scollinare, rialzare la schiena dolorante e abbandonarsi alla discesa. La sento accanto. Mi guarda dolcemente. E’ felice adesso, e sono felice anch’io, sento il vento nelle orecchie ed è identico al suo riso. Mi perdo in lei, nel profumo, nella mano che mi sfiora la fronte e mi invita a chiudere gli occhi. Non c’è occhiale ora, non c’è lente, non c’è parola esatta e graduata che possa convincermi a tenere le palpebre aperte. Ho corso. Ho respirato la polvere e il polline dei prati e dei viali, fremendo, imprecando, cercando di capire e smettendo di cercare per comprendere davvero. Ho scelto le linee, le traiettorie da impostare, il margine di rischio, la prudenza e il gusto dell’impatto, muro di mattoni rosso sangue. Come il mio sangue che colorerà la strada, come un bacio, una carezza.
Ho conosciuto Enrica, ne ho avuto paura, una paura stupenda. L’ho fuggita tenendola al mio fianco, mi sono lasciato raggiungere fingendo di non averla veduta, di non aver percepito la sua presenza alle mie spalle. Ora volo con lei in discesa verso il mare, ad occhi chiusi e braccia spalancate. Le ruote girano, brillano nel sole. C’è ancora la strada, l’essenza, l’ossigeno che non vedi ma è ovunque, dentro di te, nella realtà, nel sogno. C’è ancora la strada, e la amo ancora. Posso diventare un granello di asfalto, un cristallo di roccia con cui gioca una formica. Posso muovermi rapido, inseguire l’infinito ed esserne inseguito. Essere tempo e spazio, spazio e tempo: una parete di cemento e il riflesso iridescente di un attimo che vola nel traguardo della mente a braccia alzate, gli occhi e le labbra spalancati in un sorriso, nel flash breve di una foto che cattura un bagliore di eternità.

http://rebstein.wordpress.com
Αναρτήθηκε από Konstantinos Kokologiannis στις 12:38 π.μ.
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Ετικέτες Greco e Greco Editori, Ivano Mugnaini, L’algebra della vita
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Esistenze e resistenze

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LETTERATURA NECESSARIA – ESISTENZE E RESISTENZE

AZIONE N° 15

Martedì 22 Maggio ore 18.00

Mood Libri & Caffè
Via Cesare Battisti 3/e
TORINO

con

Jacopo Ninni, Silvia Rosa, Max Ponte
Salvatore Sblando, Tiziano Fratus,
Ada Gomez Serito, Ivan Fassio & Diego Razza

presentazione del progetto e introduzione
Enzo Campi


LETTERATURA NECESSARIA – ESISTENZE E RESISTENZE

Per una co-abitazione delle distanze:
Letteratura Necessaria – Esistenze e Resistenze
In un’epoca dove ritornano a galla sempre più prepotentemente l’urgenza e il bisogno di rispolverare e ridefinire i concetti di comunità e condivisione, nasce il progetto di aggregazione letteraria LETTERATURA NECESSARIA – ESISTENZE E RESISTENZE.
Lo scopo del progetto è essenzialmente quello di far CIRCOLARE i libri e le cosiddette “risorse umane” creando dei momenti di aggregazione, scambio e confronto che possano abbattere qualsiasi tipo di divisione ideologica, editoriale, di mercato, ecc., mettendo in comunicazione tra loro diverse e svariate realtà che operano nel settore o che sono impegnate in tal senso.
In parole povere si tratta di costituire una serie di poli geografici di riferimento disseminati lungo tutto l’arco del territorio nazionale. Ogni polo avrà un referente che si occuperà dell’organizzazione in loco e con il quale concordare gli autori (locali e nazionali) da coinvolgere e le modalità di realizzazione dell’evento.
Il progetto è diviso in varie fasi; ad una prima fase quasi esclusivamente performativa seguirà una seconda fase dove gli autori – per rendere ulteriormente “concreto” il concetto di aggregazione – verranno chiamati a leggere e presentare criticamente altri autori.
Visto che il progetto intende caratterizzarsi come un qualcosa di itinerante e ad ampio respiro si cercherà di organizzare e rendere fattiva una terza fase in cui gli autori che intendono contribuire alla realizzazione del progetto ma che si trovano territorialmente distanti e/o impossibilitati a partecipare direttamente agli eventi, potranno rendersi presenti anche nella loro assenza attraverso contributi fonici e visivi.
La quarta fase del progetto prevede la realizzazione di uno o due volumi antologici “comunitari” con contributi letterari e critici di diverse decine di autori che collaborano all’iniziativa. Nella fattispecie, ogni autore antologizzato si impegnerà a realizzare un evento nella propria città e, attraverso le risorse individuate dalla rete, inviterà autori territorialmente vicini a partecipare all’evento. Durante questi eventi, oltre a “spacciare” i contenuti del progetto e l’antologia cosiddetta comunitaria, gli autori coinvolti potranno eventualmente presentare le loro opere e eventualmente altri autori.
Quello che conta qui è una vera e propria “messa al lavoro” della letteratura. Semplificando e riducendo, si potrebbe dire che se le “esistenze” sono riconducibili ai libri, in quanto oggetti fisici, le “resistenze” rappresentano le “azioni” di quei “soggetti” fisici che producono i libri. Aggiungendo una sola caratterizzazione: il fatto di ostinarsi, per esempio, a produrre e a “spacciare” poesia, oggi come oggi, deve essere considerato come un vero e proprio “atto politico”. In tal senso ogni azione di questo tipo viene a rivestirsi di un plusvalore sociale. “Letteratura necessaria” è un progetto che vuole rendersi pratico, concreto e tangibile. Qui si tratta di far sì che la necessità di mettersi in gioco in prima persona diventi l’aspetto preponderante della diffusione della letteratura come atto corporeo, politico e aggregativo. L’idea di fondo è quella di ovviare alla sempre più imperante DISPERSIONE che caratterizza, in negativo, l’attuale panorama letterario nazionale e di creare una sorta di rete che permetta la costituzione e la ripetizione di eventi (“marchiati” e catalogati progressivamente in “azioni”) collegati tra loro ove far interagire realtà letterarie e realtà editoriali, in un regime non competitivo, ma collaborativo.
“Letteratura necessaria”, beninteso, non vuole essere un movimento tematico, ma pluritematico, volto a certificare la propria “esistenza” e a diffondere una sorta di “resistenza”. Resistenza a chi e a cosa? A tutto ciò che è privazione, restrizione, negazione, omologazione, ghettizzazione, a tutto ciò che lede i propri diritti, che ripropone gli stessi, triti e ritriti canoni letterari. In poche parole il progetto, almeno in fase concettuale, nasce “in costruzione” e crescerà sempre “in costruzione”, assorbendo e consolidando, di volta in volta, necessità, urgenze, tematiche e facendosi portavoce di messaggi che possano rientrare nei concetti di necessarietà, esistenza e resistenza.
***
Finora, tra Bologna, Milano, Parma, Reggio Emilia, Roma, Capua (CE), Sasso Marconi (BO), Mantova, Verona sono state realizzate 14 azioni live che hanno coinvolto : Marco Giovenale, Mariangela Guàtteri, Ranieri Teti, Alessandro Assiri, Francesco Marotta, Enrico De Lea, Jacopo Ninni, Agnese Leo, Dina Basso, Nadia Agustoni, Giorgio Bonacini, Ermanno Guantini, Silvia Molesini, Patrizia Dughero, Nina Maroccolo, Alessandra Cava, Anna Maria Curci, Cristina Annino, Vincenzo Bagnoli, Loredana Magazzeni, Luca Ariano, Viola Amarelli, Lucia Pinto, Marco Bini, Alessia D’Errigo, Annamaria Ferramosca, Ada Gomez Serito, Lorenzo Mari, Anila Resuli, Carmine De Falco, Simonetta Bumbi & Orlando Andreucci, Stefania Crozzoletti, Antonella Taravella, Silvia Rosa, Roberto Ranieri, Marinella Polidori, Luca Artioli, Michele Mari, Sergio Pasquandrea, Marco Palasciano, Daniele Ventre, Gianluca Corbellini, Valentina Gaglione, Enea Roversi, Martina Campi & Mario Sboarina, Valentina Gaglione, Fernando Della Posta, Vittorio Tovoli, Francesca Del Moro, Meth Sambiase, Patrizia Rampazzo, Marco Ruini, Claudio Bedocchi.
Le attività proseguiranno a maggio con altre 3 azioni: Milano, Verona e Bologna. Sono in fase di costruzione altre azioni tra Marche, Veneto, Emilia Romagna e Lombardia.
***
Pagina del gruppo su facebook
http://www.facebook.com/groups/179852888755635/
***

Letteratura Necessaria – Esistenze & Resistenze

Postato il

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LETTERATURA NECESSARIA – ESISTENZE E RESISTENZE
 
AZIONE  N° 11
 
Domenica 22 Aprile ore 20.30
 
Modì Caffè
Via S. Giorgio 4
MANTOVA
 
 
reading letterario multimediale
 
con
 
Luca Artioli, Anila Resuli, Michele Mari,
Jacopo Ninni & Agnese Leo, Enzo Campi
 
 
Pagina Evento su facebook
 
 
***
 
 
 
 
Luca Artioli
 
È nato a Mantova nel 1976, dove tuttora vive.
Dal 2001 scrive su riviste on-line e siti a carattere letterario, curando rubriche dedicate a scrittori affermati ed esordienti.
Attualmente dirige il blog “Il Divano Muccato”, uno spazio dedicato a recensioni e interviste ad autori (http://ildivanomuccato.wordpress.com).
Fa parte del “Movimento dal Sottosuolo”, gruppo per l’unione delle arti, con sede a Montichiari (BS).
Presente in varie antologie sia di prosa che di poesia.
Ha all’attivo pubblicazioni monografiche.
In ambito poetico: “Fragili Apparenze” (TCM, Mantova 2005), “Suture – La poesia come resilienza” (Ed. Fara, marzo 2011) . Per la narrativa: “Come ladri di vento” (Ed. Albatros – Il Filo per la collana “La trama e l’ordito”, Roma 2012).
Il suo sito internet ufficiale è http://www.lucaartioli.it
 
 
Anila Resuli
 
È nata in Albania nel 1981, pubblicata su numerose riviste nazionali e internazionali, è presente in raccolte collettive quali: Nella borsa del viandante. Poesia che (r)esiste a cura di Chiara De Luca, 2009; nell’antologia di poesia ceca ed italiana Dammi la mano, gioia mia. Podej mi ruku, radosti moje Praha, Vicenza 2010; Sempre ai confini del verso. Dispatri poetici in italiano, Éditions Chemins de tr@verse, Francia 2011. È stata tradotta in portoghese per la rivista di San Paolo “Celuzlose N°5”, dalla poetessa Prisca Agustoni. Collabora a progetti di poesia con diversi poeti contemporanei ed è traduttrice di poesia albanese contemporanea. Nel 2009 fonda la prima editrice di ebook online Clepsydra Edizioni. Nel 2010 scrive la prefazione al libro Sulla via del labirinto di Alessio Vailati, edito da L’Arcolaio.
 
 
Michele Mari
 
È nato a Volta Mantovana nel 1986.
Scrive racconti, canzoni e poesie in italiano e in dialetto lombardo.
La domenica si occupa di cronache di calcio minore.
Ha un sito denominato www.lattadelbardo.it e realizza spettacoli.
Un suo racconto ha vinto l’edizione 2011 di Coopforwords.
Ha partecipato, sempre nel 2011, a RicercaBO.
 
 
Agnese Leo
 
Romana, classe ’77, cresce ad Ancona dove muove i suoi primi passi nel teatro di ricerca, proseguendo poi il percorso a Bologna, dove si forma e collabora con varie realtà teatrali regionali (ERT-EmiliaRomagnaTeatro Fondazione, Teatro Ridotto, Teatro San Martino, ecc) affinando soprattutto le tecniche d’emissione ed espressione vocale.
Dal 2010 inizia la sua collaborazione con il poeta-performer Jacopo Ninni e con il Collettivo Self Poetry, in qualità di lettrice ed organizzatrice di laboratori e performance. Partecipa lo stesso anno all’evento “eaux d’artifice” all’interno del Reggio Film Festival, a seguito del quale si apre la collaborazione con Enzo Campi nella creazione di letture collettive con alcuni poeti della casa editrice Smasher e, a seguire, nel progetto “Letteratura Necessaria – Esistenze & Resistenze”.
Intanto prosegue la sua attività d’organizzatrice d’eventi letterario-musicali in collaborazione con diverse realtà associative bolognesi
È vocalist del gruppo soul ADM e fa parte del coro di canto sociale Hard Coro de’ Marchi di Bologna
 
 
Jacopo Ninni 
 
È nato a Milano, vive a Vicchio (FI), dove scrive per il settimanale locale, suona e collabora con la biblioteca.
Ha pubblicato diversi racconti in antologie (Perrone editore) e in riviste come Toilet e Prospektiva.
Alcune sue poesie sono state selezionate per alcune antologie e segnalate o premiate in alcuni concorsi.
Collabora con l’attrice Agnese Leo ed è redattore del blog collettivo Poetarum Silva.
Diecidita (Smasher, Messina, 2011) è la sua opera prima.
 
 
Enzo Campi
 
È nato a Caserta. Vive e lavora a Reggio Emilia. Autore e regista teatrale. Critico, poeta, scrittore.
È presente in alcune antologie poetiche edite, tra gli altri, da LietoColle, Bce Samiszdat, Liminamentis. È autore del saggio filosofico Chaos – Pesare-Pensare, scaricabile sul sito della compagnia teatrale Lenz Rifrazioni di Parma. Ha pubblicato per Liberodiscrivere edizioni (GE) i saggi Donne – (don)o e (ne)mesi (2007) e Gesti d’aria e incombenze di luce (2008); per BCE-Samiszdat (PR) il volume di poesie L’inestinguibile lucore dell’ombra (2009); per Smasher edizioni (ME) il poemetto Ipotesi Corpo (2010) e la raccolta Dei malnati fiori (2011). È redattore dei blog La dimora del tempo sospeso e Poetarum Silva. Ha curato prefazioni e note critiche in diversi volumi di poesia. Dal 2011 dirige, per Smasher edizioni, la collana di letteratura contemporanea Ulteriora Mirari e cura l’omonimo Premio Letterario. È ideatore e curatore del progetto di aggregazione letteraria “Letteratura Necessaria – Esistenze e Resistenze”.
In fase di pubblicazione per Smasher edizioni: Il Verbaio – Dettati per (e)stasi a delinquere (terzo classificato Premio Giorgi 2010, finalista Premio montano 2011).
 
 
LETTERATURA NECESSARIA – ESISTENZE E RESISTENZE
 
 
Per una co-abitazione delle distanze:

In un’epoca dove ritornano a galla sempre più prepotentemente l’urgenza e il bisogno di rispolverare e ridefinire i concetti di comunità e condivisione, nasce il progetto di aggregazione letteraria  LETTERATURA NECESSARIA – ESISTENZE E RESISTENZE.

Lo scopo del progetto è essenzialmente quello di far CIRCOLARE i libri e le cosiddette “risorse umane” creando dei momenti di aggregazione, scambio e confronto che possano abbattere qualsiasi tipo di divisione ideologica, editoriale, di mercato, ecc., mettendo in comunicazione tra loro diverse e svariate realtà che operano nel settore o che sono impegnate in tal senso.
In parole povere si tratta di costituire una serie di poli geografici di riferimento disseminati lungo tutto l’arco del territorio nazionale. Ogni polo avrà un referente che si occuperà dell’organizzazione in loco e con il quale concordare gli autori (locali e nazionali) da coinvolgere e le modalità di realizzazione dell’evento.

Il progetto è diviso in varie fasi; ad una prima fase quasi esclusivamente performativa seguirà una seconda fase dove gli autori – per rendere ulteriormente “concreto” il concetto di aggregazione – verranno chiamati a leggere e presentare criticamente altri autori.

Visto che il progetto intende caratterizzarsi come un qualcosa di itinerante e ad ampio respiro si cercherà di organizzare e rendere fattiva una terza fase in cui gli autori che intendono contribuire alla realizzazione del progetto ma che si trovano territorialmente distanti e/o impossibilitati a partecipare direttamente agli eventi, potranno rendersi presenti anche nella loro assenza attraverso contributi fonici e visivi.
La quarta fase del progetto prevede la realizzazione di uno o due volumi antologici “comunitari” con contributi letterari e critici di diverse decine di autori che collaborano all’iniziativa. Nella fattispecie, ogni autore antologizzato si impegnerà a realizzare un evento nella propria città e, attraverso le risorse individuate dalla rete, inviterà autori territorialmente vicini a partecipare all’evento. Durante questi eventi, oltre a “spacciare” i contenuti del progetto e l’antologia cosiddetta comunitaria, gli autori coinvolti potranno eventualmente presentare le loro opere e eventualmente altri autori.

Quello che conta qui è una vera e propria “messa al lavoro” della letteratura. Semplificando e riducendo, si potrebbe dire che se le “esistenze” sono riconducibili ai libri, in quanto oggetti fisici, le “resistenze” rappresentano le “azioni” di quei “soggetti” fisici che producono i libri. Aggiungendo una sola caratterizzazione: il fatto di ostinarsi, per esempio, a produrre e a “spacciare” poesia, oggi come oggi, deve essere considerato come un vero e proprio “atto politico”. In tal senso ogni azione di questo tipo viene a rivestirsi di un plusvalore sociale. “Letteratura necessaria” è un progetto che vuole rendersi pratico, concreto e tangibile. Qui si tratta di far sì che la necessità di mettersi in gioco in prima persona diventi l’aspetto preponderante della diffusione della letteratura come atto corporeo, politico e aggregativo. L’idea di fondo è quella di ovviare alla sempre più imperante DISPERSIONE che caratterizza, in negativo, l’attuale panorama letterario nazionale e di creare una sorta di rete che permetta la costituzione e la ripetizione di eventi (“marchiati” e catalogati progressivamente in “azioni”) collegati tra loro ove far interagire realtà letterarie e realtà editoriali, in un regime non competitivo, ma collaborativo.

“Letteratura necessaria”, beninteso, non vuole essere un movimento tematico, ma pluritematico, volto a certificare la propria “esistenza” e a diffondere una sorta di “resistenza”. Resistenza a chi e a cosa? A tutto ciò che è privazione, restrizione, negazione, omologazione, ghettizzazione, a tutto ciò che lede i propri diritti, che ripropone gli stessi, triti e ritriti canoni letterari. In poche parole il progetto, almeno in fase concettuale, nasce “in costruzione” e crescerà sempre “in costruzione”, assorbendo e consolidando, di volta in volta, necessità, urgenze, tematiche e facendosi portavoce di messaggi che possano rientrare nei concetti di necessarietà, esistenza e resistenza.

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Finora, tra Bologna, Milano, Parma, Reggio Emilia, Roma, Capua (CE), Sasso Marconi (BO), sono state realizzate 11 azioni live che hanno coinvolto : Francesco Marotta, Enrico De Lea, Jacopo Ninni, Agnese Leo, Dina Basso, Nadia Agustoni, Ermanno Guantini, Silvia Molesini, Patrizia Dughero, Nina Maroccolo, Alessandra Cava, Anna Maria Curci, Cristina Annino, Vincenzo Bagnoli, Loredana Magazzeni, Luca Ariano, Viola Amarelli, Lucia Pinto, Marco Bini, Alessia D’Errigo, Annamaria Ferramosca, Ada Gomez Serito, Lorenzo Mari, Simonetta Bumbi & Orlando Andreucci, Stefania Crozzoletti, Antonella Taravella, Silvia Rosa, Roberto Ranieri, Marinella Polidori, Sergio Pasquandrea, Marco Palasciano, Daniele Ventre, Gianluca Corbellini, Valentina Gaglione, Enea Roversi, Martina Campi, Fernando Della Posta, Vittorio Tovoli, Francesca Del Moro, Meth Sambiase, Patrizia Rampazzo, Marco Ruini, Claudio Bedocchi.

Le attività proseguiranno ad aprile con un’altra azione a Verona e a maggio con altre 6 azioni tra Torino, Milano, Verona e Bologna. Sono in fase di costruzione altre azioni tra Marche, Veneto, Emilia Romagna e Lombardia.

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E’ stato costruito un blog per documentare le attività del gruppo, per segnalare altri eventi e per pratiche di divulgazione letteraria.

 
 
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