la vita felice
Andare per salti
Una mia nota di lettura sul libro Andare per salti di Annamaria Ferramosca.
La nota è già stata pubblicata in versione integrale, comprendente anche una selezione di testi scelti dalla stessa autrice, sul portale Viadellebelledonne, a questo link https://viadellebelledonne.wordpress.com/2017/05/05/andare-per-salti-di-annamaria-ferramosca/ .
L’invito, ai dedalonauti interessati è quello di sempre: incuriosirsi, leggere, cercare il libro e altre belle cose. Le stesse che auspico per tutti voi. IM
Andare per salti presuppone la volontà e la necessità di staccarsi dal suolo, seppure per un breve tratto. Implica un volo, uno spazio ed un tempo in cui si perde il contatto con il terreno. Annamaria Ferramosca ha percepito nei versi di questo volume un moto interno, una dinamica del sentire, ma, coerentemente con quanto ha scritto nei suoi libri precedenti e soprattutto in piena concordanza con il suo modo di percepire e di vedere, ha corretto il tiro, lo ha ampliato e modulato. Andare per salti è composto da tre sezioni: la prima, eponima, ricalca il titolo del libro, la seconda prosegue con “Per tumulti” e l’ultima va ”Per spazi inaccessibili”. Si ha l’impressione di una progressiva volontà di recuperare il legame con la superficie terrestre, imperfetta, pietrosa ma imprescindibile. Il tumulto richiama l’effetto di un sommovimento tellurico. Un terremoto, sia del suolo che del cuore. Gli spazi inaccessibili sono quelli intricati di una giungla, una boscaglia, non certo quelli sgombri ed eterei del cielo. La Ferramosca, anche in questo libro, percorre con coerenza i cerchi e le curve del percorso letterario ed esistenziale che le è proprio. Cammina in punta di piedi ma con forza e tenacia sul filo esile e vitale sospeso tra il corporeo e l’incorporeo, il carnale e l’etereo, tra la paura e la necessità di sporcarsi le mani con la sabbia e con il fango, con il sudore e con il sangue, con la feroce attrazione dell’imperfezione.
In quest’ottica, partendo da questa prospettiva, anche il linguaggio va adattato, ristrutturato e rimodellato, reso strumento duttile e duplice, atto a tracciare sottili linee azzurre nell’etere ma anche all’occorrenza lettere rosse, dense di sangue, piene della goffa e umanissima sostanza del dolore. “Questa sera ruota la vena/ dell’universo e io esco, come vedi,/ dalla mia pietra per parlarti ancora/ della vita, di me e di te, della tua vita/ che osservo dai grandi notturni”. Sono questi i versi, tratti da Incontri e agguati di Milo De Angelis, scelti dall’autrice, con una cura e un’attenzione che non è difficile immaginare, come epigrafe, come stanza d’ingresso per questo suo libro. Esco dalla mia pietra, recita uno dei versi. Da una pietra si esce come, in quale modo, con quale forza e quale strumento? Annamaria Ferramosca in questo libro sembra dirci che dalla pietra si può uscire vivi, senza essere diventati pietra noi stessi, almeno non del tutto. Si esce, forse, se si è capaci di comprendere che non c’è una sola vita da raccontare. C’è anche la vita altrui da dire, da rendere verso, parola. Dalla pietra di una tomba che è già realtà all’atto del nascere ci si salva parlando agli altri della propria vita e della loro, simultaneamente, cercando di andare oltre il confine, superandolo con il tumulto di un cuore che si spezza e rischia di spegnersi da un attimo all’altro ma che, nonostante questo, non smette di camminare e sorridere, a dispetto di tutto, esplorando e rendendo propri gli spazi inaccessibili del significato, di un significato possibile, giusto o sbagliato ma umano, il luogo dove il senso diventa sentimento. “Schizzo via dalla giunglamercato/ obliquando rallento prendo fiato/ rispondo alla domanda muta/ del venditore ambulante/ – è da un po’ che mi fissa perplesso -/ sai la fine mi tiene d’occhio e voglio/ andare senza direzione/ come un bambino fare splash nelle pozzanghere/ se vuoi se hai tempo appena/ il tiglio smette di gocciolare/ ti racconto una stupida vita/ come stupisce come istupidisce”. In questi versi della lirica d’esordio del libro l’autrice, con i mezzi, gli utensili a lei più cari, tesse un filo che unisce passato e presente, la sua produzione precedente e questo suo libro attuale, lo specchio del momento. Un collage tra parole che vengono agglutinate, come in “giunglamercato”, conservando ciascuna un proprio senso che tuttavia diventa nuovo nell’attimo dell’accostarsi, nel gusto mai spento della voluttà del dire. Stesso discorso per i vocaboli creati ex novo, come con i pezzi di un Lego colorato e dalle infinite possibilità, come nel caso di “obliquando”. Ma il gioco della Ferramosca è sempre serissimo, nella forma e nella sostanza. Viene fatto di immaginare un taglio dolce ma severo perfino nel sorriso che le si apre sulla bocca quando fa “splash nelle pozzanghere”. È una delle caratteristiche che rendono riconoscibile la poetica dell’autrice: la serietà nel gioco e la giocosità nella serietà. La commedia della vita che racconta con i suoi versi alterna, potremmo dire “obliqua”, attimi di levità in cui tuttavia non smette di percepire che il mondo è storto, sbilenco, fuori asse, e istanti di ragionamento che non vuole mai rendere del tutto agri. L’ironia, in questo libro, ha sempre un fondo di amarezza per la deriva umana, osservata, percepita, descritta.
Questo libro è, in parte, una sorta di canto notturno della Ferramosca, scritto con la percezione di una ferita, con la minaccia di un buio incombente. Ma l’autrice anche qui, perfino nella penombra del corpo e dei pensieri, riesce a non dimenticare le voci altrui, e la sua “bambina delle meraviglie” che dorme, serena. Comprende, e ci fa comprendere, che la bambina è altra da sé, vive una vita propria, indipendente da lei. Ha il suo luminoso tempo dell’infanzia, Nicole, e avrà un futuro anche quando non potrà e non potremo più guardarla, proteggerla con lo sguardo e con i pensieri. La bambina è altra da sé ma è anche lei, Annamaria Ferramosca, in grado di conservare uno spiraglio di stupore, e la forza di un salto, illogico e salvifico, perfino al di sopra del “terribile che infuria”, del “solito sgomento” che rende illusoria la speranza.
Il trucco è semplice, tutto sommato: dimenticare, volutamente, ricordarsi di scordare lo “zaino zavorra”. Sapendo che dentro quello zaino c’è tutto ciò che conta e che in realtà quello che c’è conta poco o niente. Non contano le “de-finizioni”, ciò che pone termine alle potenzialità infinite dell’essere e dell’esprimere. Non conta ciò che minaccia e chiama a sé, nel mistero dell’oltre. Non contano perché la bambina è ancora splendidamente “irrubata” dal mondo, è un luogo del tempo in cui il tempo stesso non può arrivare, non può irrompere e non può infrangere. Questo è il fuoco del libro, l’essenza, il succo spremuto da giorni di ascolto e visione, di paura e di attesa. Ed ha un sapore lieve al palato, nonostante la speranza che si fa sempre più esile, che parla come una Sibilla chiusa in un’ampolla. “Nessuno è reale piove sempre/ nella pioggia sbavano i segni/ ma le pagine accidenti quelle sono/ insperate di bellezza/ disperante bellezza irraggiungibile”, scrive. In questo gioco oscillante di ossimori, quasi danza su un filo sospeso, c’è il richiamo mai spento, determinante, imprescindibile: quello di Nicole, la bambina, alunna e maestra, la sua luminosa infanzia, intatta e intangibile, e ci siamo che, pensandola, amandola, salviamo lei in noi e noi in lei.
Da qui, da questa fragile solidità acquisita con un moto d’affetto assoluto, può finire il salto e iniziare il tumulto. La seconda sezione del libro si apre con una danza, un movimento del corpo che si disegna nell’aria con il suo legame attraverso i passi, con la terra: “Tu non lo sai ma questa tua danzaturbine/ ha parole paradossali d’invito ‘nturcinate”. Il turbine sconvolge, scompagina, descrive e genera forme nuove: il coraggio di affidare al corpo la libertà di creare ancora, nonostante tutto, ancora una volta. Il paradosso è sempre fertile, per sua natura, per la capacità di mettere a contatto materie diverse, entità e respiri. Ne deriva un amplesso, corporeo e astratto, etereo e sanguigno, in grado di rendere le parole ‘nturcinate’, intrecciate, avviluppate fino a smarrire il discrimine, l’io e il tu, il presente e un tempo indefinito, la coscienza e il sogno. Da qui, la scena d’amore, nasce, erompe, come “le onde-salento che lampeggiano” e “il soffio greco del timo sullo scoglio”, con la consapevolezza di avere già i piedi nella corrente. La solidità si è fatta fluida, scorre, e ad ogni istante muta. Non è tuttavia morte per acqua alla Eliot. Semmai qui, nell’ebbrezza del tumulto, è vita per acqua, eros esistenziale, dialogo intimo di braccia, occhi, dita, parole.
Fortificati, consci e smarriti quanto basta, possiamo intraprendere l’esplorazione dei luoghi inaccessibili, ultima tappa del viaggio. Ma il tragitto è sempre circolare, ci si muove sempre in circoli, cerchi, Circles, circonferenze e sfere: la tappa finale è anche la prima. Ci si rivolge ad un destinatario ben identificato e al contempo indefinito. Si parla, in questa sezione, ma in fondo in ciascuna pagina di questo libro, della fine personificata che incombe: “Procedi per allusioni/ per sotterfugi sottili ti sottrai/ e intanto lievita/ questa bella estate di frutti e led/ ora so di aver vissuto solo per stanarti/ un’intera vita a decrittare invano/ i cartelli che pianti sulle svolte/ le scritte pallide le frasi/ lasciate qua e là smozzicate/ (per discrezione o forse/ per una più veloce eutanasia) ma/ sai bene quanto intollerabile sia/ conoscere i dettagli del viaggio”.
Un consuntivo, una sorta di giornale di viaggio, un diario di bordo scritto per se stessa e per chi lo leggerà, dopo, in un tempo ancora da venire e definire. Lo è nello specifico la sezione conclusiva del libro ma anche l’intero libro, nella sua sfaccettata unitarietà. Annamaria Ferramosca in questo suo Andare per salti ha scritto un sobrio, addolorato e gioioso inno alla vita, insieme ad un ascolto dell’effimero che siamo. La forza di questo libro è nella capacità di scrivere di sé senza egotismo, senza pretendere di essere il Nord magnetico e la stella polare. L’autrice parla di sé rispondendo al silenzio di un venditore ambulante con il racconto della sua vita. Parla di sé smarrendosi in una danza o nell’ebbrezza di frasi fulminee scambiate sullo schermo di un computer. Parla di sé osservando la bellezza di una fanciulla che prosegue da sola il suo cammino portando però con sé frasi, discorsi, pensieri e sogni che ha raccolto da lei in modo spontaneo, immediato, naturale come il ciclo delle stagioni.
Al lettore, alla fine, viene spontaneo dire che l’attività del decrittare cartelli sulle svolte e frasi smozzicate non è stata inutile. Non è stato invano, il salto, il tumulto, la ricerca costante, ininterrotta. Il fascino, del libro, e della poesia in termini più ampi, è quello di sapere cantare il viaggio, le luci e le ombre, le danze e gli inciampi, senza conoscerne i dettagli. Dando voce e canto al mistero che ci finisce e ci dà vita. Se troviamo, chissà dove, chissà come, la forza di non smettere di saltare con la forza visionaria e danzare con la forza umana, vitale. Anche nel buio.
Ivano Mugnaini
Andare per salti
Annamaria Ferramosca, Andare per Salti – Casa Editrice Arcipelago Itaca di Osimo (An), 2017
Introduzione di Caterina Davinio.
2a edizione Premio “Arcipelago itaca” per una Raccolta inedita di versi.
Pagg. 80, € 13,00 – ISBN 978-88-99429-16-4
Andare per Salti di Annamaria Ferramosca
dalla sezione PER SALTI
esterno con pioggia interno con acquario
è l’ora delle prove distratte di attraversamento
senza attenzione a strisce pedonali
zigzag sul bagnato senza ombrello
senza documenti né borsa né portafoglio
schizzo via dalla giunglamercato
obliquando rallento prendo fiato
rispondo alla domanda muta
del venditore ambulante
– è da un po’ che mi fissa perplesso –
sai la fine mi tiene d’occhio e voglio
andare senza direzione
come un bambino fare splash nelle pozzanghere
se vuoi se hai tempo appena
il tiglio smette di gocciolare
ti racconto una stupida vita
come stupisce come istupidisce
sai non si vede non si vede nessuno
nessuno è reale piove sempre
nella pioggia sbavano i segni
ma le pagine accidenti quelle sono
insperate di bellezza
disperante bellezza irraggiungibile
poi i lampi i lampi
dall’oltre indecifrabili martellano le tempie
e l’umano l’umano nausea fa barcollare
ma non mi arrendo
calpesto limiti recinti codici
e non mi perdono ché anch’io sono umana
così mi lascio vivere
un vivere piccolo semplice che almeno
un po’faccia coesione
un rimpicciolirmi come
di seme tra i semi
***
ora che mostro viso e braccia aperte
s’accendono i corpi le voci
più libero il pianto più intense le carezze
apro armadi nel petto e
vado per salti
dimentico zaino zavorra
virgole punti de-finizioni
tanto so che l’altrove
mi tiene d’occhio e
dorme la mia bambina delle meraviglie
ancora irrubata dal mondo
intatta nel suo pianeta
cosa devo farci io con questo spudorato pianeta
cosa devo farci con il terribile che infuria
con le solite frasi il solito sgomento
con quella spes ultima illusione
cosa devo farci pure con la poesia
tanto so che la nave
sta trascinando al largo
nel muto acquario dove ci ritroviamo
come all’origine nudi
finalmente originali miseramente
splendidi nel nulla
***
raccontarti
della distesa muta che circonda
nessuna vibrazione
trascorsi millenni dal diluvio
solo rovine
no messaggi no mails
a chiedermi perché sola e risparmiata
conservata per quale nuovo mondo
quale senso
poi dirti della vestizione
per il viaggio che smuove le pianure
oltre ogni confine
e il fiume largo il fiume
e del risveglio e del segno ancora
che mi scrive m’inarca
ancora linfa a corrermi nei fianchi
richiami che tornano a squillare
quaderno a registrare
***
a Nicole del mattino
bello vederti bere l’aria
mentre salti sul mondo
s’accendono le arance
ti svegliano ti svelano
una terra d’incanti di festa
senza ombre né memoria
ammutolisco sulle frasi che lanci
verso la mia disfatta geometria
mi indichi il segno del silenzio
io tua piccola alunna tu maestra
mi metti seduta spossessata di storia
sotto l’arco del tuo tempo abbagliante
vedo con le pupille lunari dei gatti
torcersi i meridiani unirsi i continenti
sotto i tuoi passi di conchiglia
brillano nel tuo mare
isole che non raggiungo
***
dalla sezione PER TUMULTI
dal monte al mare concordi le soluzioni della natura sull’amore
lungo i fianchi del monte il silenzio
scuote appena la notte
in alto prendono consistenza
i fili invisibili che tengono fisse le stelle
questa concavità di valico ristora
il mio respiro in corsa
l’erba mi attraversa smagliante
mi fa scivolare a valle con l’entusiasmo
potente di valanga
ti raggiungo
il tetto della tua casa ha canali d’aria
vi passano suoni del tempo trascorso nelle stanze
ma appena entro il rimpianto ammutolisce
sa che posso scaldarti già guardandoti
ti performo la scena d’amore
le onde-salento che lampeggiano
il soffio greco del timo sullo scoglio
la carezza del tufo ecco
abbiamo già i piedi nella corrente
***
bla bla bla è urgente
capovolgere i suoni
alba alba alba capite?
se si sovvertono se le stanze
si mettono in subbuglio
dietro la porta può affacciarsi
la sempre sfuggente poesia
può rinascere
incurante del rumore intorno del brusio
crescere con la sua fame adolescenziale
di cose vere sia pure materia rarefatta
di parole vive dai corpi
lungo tutti i meridiani pure
da territori dubbi come atlantide
o aldebaran o l’isola di ogigia
insomma – accidenti – da spazi
inaccessibili
provare solo deliri di sfioramento
farsene una ragione
***
dalla sezione PER SPAZI INACCESSIBILI
posto di pietra
cerca – ad esempio – il profilo di un vecchio
seduto sulla pietra al sole siediti accanto
inizia con un’inezia parlagli di vigne o di mare
accogli la sua lingua spezzata che trasforma
la piazza in fantastico teatro
di strampalati racconti
fanne ricordi fermi per l’inverno
vento caldo di favole ai tuoi figli
ritorna a fargli visita
ogni volta prima di partire
il suo posto di pietra così simile
al tuo vecchio banco a scuola
erano voli di parole-rondini
a lasciarti sigilli sulla fronte
nel becco rami che rifondano paesi
dove i profili tutti si somigliano
a mezzogiorno passarvi il pane
e insieme tornare a casa
come stringendo al petto il mondo
prima della prossima tempesta
***
elogio del futuro senza tabù
dove cade l’ultima luce
là sulla terra della riservatezza
dove non oso accostarmi
avanza il suo profilo drammatico
ha occhi penetranti matematici
mentre continua la sua caccia
lucida già decisa
senza ombra di premeditazione
mi lancia nel tempo
i suoi eureka ritmati
come note di fisarmonica
quando improvvise scoppiano
durante i matrimoni
donna che hai accolto nutrito conservato
il seme la bella carne e ti sei liberata
ecco sei stata
ora ti sospingo stralunata
in questa tua chiara stanza del sonno
uomo da sempre dominus fiero
in perentorio avido pensiero
pugnale innestato a ordinare
vincere eliminare
ecco a te il buio che illumina
ogni vittoria presunzione errore
ai vivi resta in mano
incorrotto un ramo
aspirazioni e sogni da sfogliare
restano tracce di linguaggi
di manufatti di macchinari
con la loro usurata grammatica
a dire la speranza e pure l’irreparabile
(a volte il destino già occhieggia nei nomi)
***
Annamaria Ferramosca
nata a Tricase (Lecce), vive a Roma. Fa parte della redazione del poesia2punto0 portale, Dove e ideatrice e curatrice della rubrica Poesia Condivisa. Ha all’attivo collaborazioni E Contributi creativi e Critici con varie riviste e siti di Settore. Vincitrice del Premio Guido Gozzano e del Premio Astrolabio e recentemente del Premio Arcipelago Itaca, e finalista ai Premi Camaiore, LericiPea, Pascoli, Lorenzo Montano. Ha Pubblicato in poesia: Andare per salti, Arcipelago Itaca 2017, trittici – Poesie Il segno e la Parola, DotcomPress 2016, Ciclica, La Vita Felice 2014, Altri Segni, Altri Circles– Selected 1990-200 8, collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti , Chelsea Editions, NY 2009, Curve di Livello a le, Marsilio 2006, Pasodoble, Empiria 2006, la Poesia Anima Mundi, Puntoacapo 2011, Porte / Doors, Edizioni del Leone 2002 Il Versante Vero, Fermenti 1999. Ha curato la versione italiana del poetica libro del poeta rumeno Gheorghe Vidican 3D-Poesie 2003-2013, Edizioni CFR 2015 e’ voce ampiamente antologizzata e inclusa nell’Archivio della voce dei Poeti, Multimedia, Firenze. Testi Suoi sono stati Tradotti, Oltre Che in inglese, in francese, Tedesco, Greco, albanese, russo, rumeno. Suo sito Personale: http://www.annamariaferramosca.it
Letti sulla luna (8): NEL SECOLO FRAGILE
“vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.
Filippo Ravizza, Nel secolo fragile, La Vita Felice, Milano, 2015
Il titolo di questo libro avrebbe potuto essere “Il secolo fragile”: un quadro, un dipinto, un immenso poster ricco di dettagli e di particolari ma tutto sommato rassicurante, o almeno neutro, impersonale, come un bilancio aziendale, il grafico di date e dati già acquisiti, in perdita certo, ma in ogni caso da archiviare; resoconto fine a se stesso, risultanza aritmetica incontrovertibile, rassicurante nella sua logica. Ma il titolo è “Nel secolo fragile”, e la differenza è minuscola solo in apparenza. Ravizza con queste sue liriche ci conduce all’interno, nella parte più intima e viva, là dove le cose accadono, nell’istante che separa e unisce il passato e il presente dandoci la consapevolezza di essere composti di quella stessa materia, di quell’innesto, quello snodo del tempo fatto di ieri, di oggi e di un’ipotesi necessaria di domani.
Non indulge in amarcord troppo facili e consolatori, Ravizza, né scivola sul versante opposto, quello della flagellazione indifferenziata o della critica ai tempi e ai costumi. Evita la pratica del pianto ipocrita, l’abitudine a dire è tutto sbagliato e abbiamo sbagliato tutti, quindi, in fondo, non ha sbagliato nessuno. Sceglie il cammino più scomodo: pone ciascuno nella condizione di poter e dover dire, e dirsi, che la Storia con la s maiuscola è fatta di scelte individuali, è la somma di gesti di singoli individui, e il discrimine è proprio nella volontà di tramutare la fragilità, propria e del proprio secolo, in capacità di creare e trasformare.
Ora è di tutti la vacanza l’acuta ritmata
povertà: c’è un non oltre guarda manca
per sempre il vivere veloce del destino…
[…]
uno scorrere pieno…
il lembo o forse la parola
di un grande fiume.
In questi versi sono contenute alcune delle “coordinate” di questa esplorazione crono-spaziale. C’è, anche, una fotografia fedele del nostro paese, quell’alternare vacanze e povertà, sogno e crisi, la limitatezza dello sguardo incapace di andare oltre barriere da noi stessi imposte, la necessità di lottare ogni giorno per le cose concrete e quel dialogare balbettante con un destino che è sempre o troppo veloce o troppo lento. C’è, poi, l’elemento da cui tutto parte e tutto ritorna, la parola. Quella quotidiana, stesa assieme alle tovaglie sui tavoli delle cucine e dei bar, ma anche la parola che nonostante tutto tenta di trovare un senso che vada oltre, che sappia riassumere in un verso, in un concetto e in una sensazione, il sapore agrodolce di un destino personale e collettivo, come in una commedia degli anni Sessanta in cui un ballo accompagnato da una semplice canzone riesce ad alternare in tre minuti riso e pianto, allegrie di naufragi e inestirpabili malinconie.
Sono gli oggetti concreti, coerentemente, a fornire gli spunti di maggior rilievo, anche metaforico, diventando materia tangibile per riflessioni, pensieri e considerazioni:
volando fino a Torino fino a
quel ristorante alle antiche
dolcezze di un vino denso forte
esempio di cenere e moralità.
Europa Europa campagne e picchi
neve e case bianchi tetti
Europa Europa perché solo io
ti canto?
Non passano più popoli e poeti
non guardano più nell’orizzonte
non vedono speranza non vedono
futuro?.
Il vino forte contiene, mescolate, cenere e moralità, tutte le miserie e i compromessi dei nostri luoghi, delle nostre province, fisiche e mentali. Ma c’è anche un ricordo antico di moralità mai spente, mai del tutto annegate nel liquido sporco e in gran parte avariato e artefatto. Ravizza alterna immagini simboliche ad espressioni lineari, dirette, a viso aperto. Non esclude neppure il ricorso ad espressioni dirette, un’ode, o forse un’epistola immaginaria, un’invocazione cantata, con tutta la forza che deriva dalla forza atavica del modello. All’Europa chiede perché i popoli e i poeti non guardano più nell’orizzonte. E anche qui c’è il bisogno di penetrare all’interno, di esplorare i tessuti autentici, i gangli vitali. Non dice “verso l’orizzonte”; preferisce “nell’orizzonte”, di gran lunga più diretto e impegnativo. Quasi un invito ad osare nitore e coraggio, ad esplorare la verità concreta delle cose.
e voi invece miei simili miei pochi
voi dove siete? dove dove? Ada
ricordo, e poi Valeria ricordo…
anche tu Gianni e quella professoressa
che mi voleva bene che ci guardava
con tenerezza presentendo quello
che poi è stato: un destino modesto
per quei suoi ragazzi che volevano
cambiare il mondo, rovesciarlo
come si rovescia un guanto.
Ci sono i nomi, nei versi di questo libro: le parole assumono questo ulteriore peso e questo compito, testimoniare identità, confermare esistenze, progetti e percorsi vitali. I nomi di persona si sommano e si intersecano con i nomi di luogo. Milano, innanzitutto, punto di partenza per il poeta ma anche luogo concretissimo che incarna miti fatti di gesti veri, di fatica, perfino la fatica dei sogni. E poi le città europee, e quelle al di là dell’oceano, viste e immaginate per la prima volta, e spesso per la sola ed unica, nel bianco e nero dei televisori. Dall’abbraccio, spesso confuso, goffo, sgraziato ma vero di tutti questi nomi e questi stimoli, nasceva nei giovani la consapevolezza della necessità di rovesciare il mondo come un guanto. Ravizza registra tutto questo fervore nei versi di questo libro. E lo fa sempre senza chiamarsi fuori. Lo fa sentendosi volta per volta ciascuno di quei nomi di persona che furono amici ed amori, e ognuno di quei luoghi del mondo che furono e che sono paradigmi di ideali e speranze, cognizione del dolore e desideri di fuga e bellezza.
bisogna dirlo bisogna scriverlo
è questa o poesia o mia poesia l’unica
forza il vero amore che tutto abbraccia
riesce ad abbracciare con occhi lucidi,
grandi di quanta dignità è possibile
nel nostro essere uomini.
Lo sguardo di Ravizza è schietto e sincero: non cerca l’estetica che attrae e stupisce né la frase retorica che attira i consensi. Dice e descrive con occhio attento ciò che era e ciò che è. Elenca senza compiacimento ma anche senza false edulcorazioni ciò che c’è e ciò che manca a questo secolo fragile dentro cui abbiamo vissuto e viviamo. Il tono è diretto, lo sguardo fermo in costanti chiaroscuri. Ma alla fine, da tutto, emerge una scelta che appare in qualche modo necessaria: continuare a cantare il mondo per quello che è, restando ancora incantati, e con lo sguardo che si accende, per parole che sono cose, gesti, e vita. Per quell’amore vero e quella dignità possibile, che, in ogni secolo, anche nel più fragile, sono la sola prova inconfutabile del nostro essere uomini. IM
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Prefazione
di Gianmarco Gaspari
Una poesia che non surroga né si sostituisce alla realtà, dunque, ma che esiste in quanto parola, e che proprio nella parola trova la propria giustificazione e il proprio senso. Una poesia che si propone esplicitamente un fine, nel senso che crea e definisce, attraverso la percezione dei realia che appartengono alla parola, la conseguente costruzione di una propria realtà: e attraverso questo percorso Ravizza – non senza consapevolezza, posso immaginare – va a incontrare la teorizzazione romantica del verso che comporta conoscenza, che è conoscenza in sé…
[…] anche di questo si dovrà dire, di come cioè la lucida partitura che ci mette innanzi Nel secolo fragile costruisca anche un percorso vitale, oltreché cognitivo, nel quale la verità della parola incrocia il destino privato e individuale dell’autore, degli altri da sé che quel destino hanno attraversato con la loro presenza, e della stessa grande storia, in pieghe che offrono al lettore intensi aperçu di poesia civile attualizzati e personalizzati al punto da reciderne con assoluta nettezza ogni concessione retorica (…) E da qui ancora, da questo intersecarsi del tempo individuale con la storia – la Storia –, la moltiplicazione altrettanto vertiginosa delle geografie, con una sottolineatura dell’epos atemporale dell’appartenenza europea.
[…] Ma non sarà il disorientamento dello spazio né la sottrazione immedicabile del tempo a togliere alla poesia di Ravizza il senso salvifico che si genera dalla presenza di un interlocutore, un interlocutore che venga a restituire senso ai nomi e alle cose attraverso la forza della parola.
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Postfazione
di Mauro Germani
[…] questa nuova raccolta segna una tappa importante e decisiva nell’ambito del percorso poetico di Ravizza, perché i versi non solo si arricchiscono di valenze ulteriori e di un’espressività più incisiva, diretta e appassionata, ma anche perché si aprono a memorie, immagini e riflessioni che rivelano un’urgenza esistenziale, etica e civile al tempo stesso, un bisogno di autentica consapevolezza per scoprire in noi stessi e nel tempo che ci è dato i nostri limiti e le nostre possibilità.
L’energia sprigionata dai versi si irradia dal presente al passato, e viceversa, in una relazione continua tra parola e pensiero, con estrema lucidità, tra domanda e ricordo, tra nostalgia e senso della realtà attuale, per decifrare con sguardo acuto e disincantato la fragilità del nostro secolo.
C’è il tempo della storia in Filippo Ravizza, c’è la memoria della vicenda umana in tutto il suo peso ed il suo enigma, c’è il vortice del tempo che consuma e annienta, la coscienza del nostro destino senza destino, ma c’è anche la forza della parola che insiste sulla storia, la voglia di non smarrire i segni del nostro passaggio, di trattenere il respiro, la voce di noi…
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poesie tratte da
Nel secolo fragile, La Vita Felice, Milano, 2015
dalla sezione I volti della piazza
Sorridere
Sorridere sui volti della piazza
questo è tempo è acuto scendere
verso una sera che non pensavi: ora
è di tutti la vacanza l’acuta ritmata
povertà: c’è un non oltre guarda manca
per sempre il vivere veloce del destino…
sarà seguire un ponte senza uscita
cammineremo nelle dorate care luci
affacciate nella notte sopra
le acque distanti sopra
uno scorrere pieno…
il lembo o forse la parola
di un grande fiume.
*
dalla sezione Persino la memoria
Geografia
Poca speranza unica generazione
luci luci di Lione passo dopo
passo un viaggio della mente
volando fino a Torino fino a
quel ristorante alle antiche
dolcezze di un vino denso forte
esempio di cenere e moralità.
Europa Europa campagne e picchi
neve e case bianchi tetti
Europa Europa perché solo io
ti canto?
Non passano più popoli e poeti
non guardano più nell’orizzonte
non vedono speranza non vedono
futuro?
Davvero questa è la fine della tua
Storia? Mai più canzoni o corse
abbracciati tutti verso un futuro
ampio?
Ora si è chiusa la voce tacitata
per sempre in questo luogo
qui dove tramonta il sole? Cade
l’avvenire?
Tutto è spento tranne qualche
nostro cuore…
si è fermato il movimento
delle cose immobile è la vittoria
del mercato… ogni atto si avvita
piega se stesso… poche allora
le parole rare troppo rare le poesie
tristi troppo tristi e poche e grigie
le giornate oscena la perdita cosciente
di queste nostre vite.
*
dalla sezione I popoli e le classi e il niente che non è niente
Nel niente di popoli e di classi
Le controversie del tempo ritornano
dentro le mattine tutte uguali
spalancano al cuore al volto agli occhi
le mani le chiavi degli uffici
sono aliti di luce sono volontà
antica consuetudine in questi momenti
rallentati rallentati gesti al confine
tra silenzio e verità…
non è stato dato…
dunque non erano queste generazioni
nate a costruire nate per aprire…
tutto è in questa ripetuta e lieve
andatura immobile… tutto è
nel niente di popoli e di classi
senza più storia senza più
destino… sappiamoci così sappiamoci
piegati all’incessante cadere
di giorni tutti uguali tutti soli
tutti come noi siamo ora adesso
compresi nel racchiuso spazio
del movimento insieme come un gesto.
*
dalla sezione Io, tu, noi: il nome
Moltitudini
Una mattina come tante
una mattina senza ponti
all’orizzonte… pronti pronti
a muoverci nel niente capaci
ancora di raggiungere pacati
e fermi nella mente le porte
curve e opache degli uffici…
questa mattina ancora ancora
un’altra nell’epoca più grande
della Storia che si è arresa si è
trovata lontano da noi lasciandoci
soltanto bordi di memoria…
rivedi le belle bandiere! come
si correva come si correva come
si muovevano salde nelle mani mentre
saremo finalmente tutti uguali pensavamo
frantumando il vento!
nelle mattine che verranno è difficile
lo sai molto difficile che la Storia
riprenda il suo cammino…
potente è la forza e vuole che tutto
resti così così com’è nel disegno
che tolse a noi la città più bella
là dove corrono insieme le voci
si fondono ai rumori ai passi
sincroni delle moltitudini.
A tutti quei ragazzi che – come me – vissero attivamente l’anno 1968 e i 5 o 6 anni a seguire.
* * *
Altre liriche tratte dal libro :
Rovesciarlo
Non torneranno in quel modo
non saranno mai più così le luci
che accompagnavano il tempo in quei
corridoi nudi e alti nelle ricreazioni…
così non ci sarà no non verrà più
alcuno di quegli antichi compagni
che del resto allora io sentivo
da me già nella rassegnazione
a diventare grandi così diversi…
e voi invece miei simili miei pochi
voi dove siete? dove dove? Ada
ricordo, e poi Valeria ricordo…
anche tu Gianni e quella professoressa
che mi voleva bene che ci guardava
con tenerezza presentendo quello
che poi è stato: un destino modesto
per quei suoi ragazzi che volevano
cambiare il mondo, rovesciarlo
come si rovescia un guanto.
.
Tra le tempie
La strada come un paradigma
lì nella sera nella pioggia
gialle foglie capovolto cielo
di Milano…
La strada che ancora una volta
scandisce questo enigma
quel non sapere chi siamo…
là tra le tempie là nel battito
assente dei metronomi come
un ricordo una mossa aria
di pericolo e di valore
una corolla che scende
una bambina che sale laggiù
quelle scale oltre le luci
dei condomini…
tutto così tutto fermo
nell’eterno movimento tutto
incerto faticoso vicino alla fine…
saremo mai stati veramente?
saremo mai arrivati rimasti
andati?
Veramente ci siamo stati?
restano le zattere, gli affetti,
resta una parola tenue e incerta
resta la voglia di toccare l’aria
sentirla cosa viva cosa vera…
restano le luci di Milano
in questa verità che non esiste
questo tenue destino a cui
nessuna pena è sentirsi per
caso sentirsi nella pura verità
illusione che cresce ferma
nell’amore, immobile davanti
alla rovina dell’amore.
.
Nel ritmo del passare
Nel gioco incessante della vita
e della morte, nel senso nel ritmo
del passare, non c’è – amico mio
che ascolti, amico mio che leggi –
non c’è consolazione… non
possiamo credere alle illusioni
della mente e a chi ci dice che tutto
rimane… che si resta… neppure
i monti neppure i fiumi con il loro
scorrere e le alte cattedrali con le loro
cupole, neppure loro sono destinate
a restare… bisogna dirlo bisogna scriverlo
è questa o poesia o mia poesia l’unica
forza il vero amore che tutto abbraccia
riesce ad abbracciare con occhi lucidi,
grandi di quanta dignità è possibile
nel nostro essere uomini.
.
Lieve possa esserti il passo
Lieve possa esserti il passo
in quel che resta (poco ormai)
della corsa… quello che rimane
lo guardano gli occhi e provano
conforto nella verità che tiene
in piedi oggi anche la pietà
che inizia la strada aperta e lunga
di un nuovo candore…
baciarsi oggi baciare il tempo
che ormai già guarda altrove…
baciare le cose che tocchiamo…
questi alberi, queste case…
forse perfino queste automobili…
anche loro ormai sorelle
nello spazio/tempo che ci è
dato… mentre vorresti dire
ai popoli e a chi ascolta…
alzatevi, alzatevi… prendetevi
la vita, essa è tutto è nulla è niente
è un sogno intero e pieno…
alzatevi ora adesso è solo questo
il vostro giorno… poi nulla resterà,
nulla: nemmeno il ricordo…
saperlo è giusto, saperlo è l’enigma
che noi siamo.
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Note biografiche
FILIPPO RAVIZZA
Filippo Ravizza è nato a Milano, ove risiede, nel 1951. Ha partecipato intensamente alla vita delle riviste a partire dai primi anni Ottanta ricoprendo, nel corso del tempo, la condirezione del semestrale di poesia «Schema», di quello di scrittura, pensiero e poesia «Margo», del semestrale di poesia, arte e filosofia «La Mosca di Milano». Ha pubblicato saggi e poesie su numerose altre riviste letterarie, tra le quali «In folio», «La clessidra», «L’Ozio letterario», «Materia», «Poesia», «La Corte», «Quaderno», «Iduna», «Atelier», «Poiesis», «Capoverso», «Gradiva». Ha già pubblicato sei raccolte di versi: l’ultima in ordine di tempo è la plaquette «La quiete del mistero» (Amici del Libro d’Artista, 2012), preceduta da «Turista» (LietoColle, 2008), «Prigionieri del tempo» (LietoColle, 2005), «Bambini delle onde» (Campanotto, 2000), «Vesti del pomeriggio«»(Campanotto, 1995), «Le porte» (Schema Editore, 1987). Nel 1995 ha ideato, insieme al poeta Franco Manzoni, il «Manifesto in difesa della lingua italiana», oggi parte del programma orale (Cours de production orale) per il conseguimento del dottorato specialistico del Dipartimento di Italianistica dell’Université Paris 8 (Paris – Saint Denis, docente Laura Fournier). è stato chiamato a rappresentare la poesia italiana contemporanea alla XIX Esposizione Internazionale della Triennale di Milano (1996). Dal giugno del 2011 è presidente di 50&Più Università Milano, espressione del sistema universitario di 50&Più Confcommercio. Dal 2012 è membro eletto del Consiglio Nazionale Universitario della Confcommercio.
Milo De Angelis all’Accademia di Brera
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BRERA
DIPARTIMENTO ARTI VISIVE
SCUOLA DI GRAFICA D’ARTE
transizioni arte__poesia
Milo De Angelis
reading, immagini di Viviana Nicodemo
lunedì 21 maggio 2012 ore 16.30
Accademia di Brera, sala napoleonica
Il laboratorio transizioni arte__poesia ospita lunedì 21 maggio alle 16.30 un reading di Milo De Angelis, presentato dal poeta Italo Testa. Nell’occasione sarà presente l’artista Viviana Nicodemo, e saranno proiettate immagini dal suo libro fotografico Necessità dell’anatomia, e dal video Cantica, realizzati in collaborazione con l’autore.
Tra le voci più significative della poesia italiana contemporanea, Milo De Angelis vive a Milano. Ha pubblicato le raccolte Somiglianze (Guanda, 1976), Millimetri (Einaudi, 1983), Terra del viso (Mondadori, 1985), Distante un padre (Mondadori, 1989), L’océan autour de Milan et autres poèmes, traduit de l’italien par J.-B. PARA, M.E.E.T., Saint-Nazaire, 1993, edizione bilingue comprendente la prima versione del poemetto L’oceano intorno a Milano, inedita sia in francese che in italiano), Biografia sommaria (Mondadori, 1999), Tema dell’addio (Mondadori, 2005), Quell’andarsene nel buio dei cortili (Mondadori, 2010). Con
Tema dell’addio ha vinto il Premio Viareggio 2005. Le sue poesie sono raccolte nelle antologie Non solo creato (Crocetti, 1990), Dove eravamo già stati. Poesie 1970-1999 (Donzelli, 2001), Poesie (Oscar Mondadori, 2008, introduzione di Eraldo Affinati). Sue poesie sono state tradotte in volume in lingua inglese e francese. Scrittore di racconti e saggi, è stato anche traduttore dal francese di Racine, Baudelaire, Maeterlinck, Blanchot, Drieu La Rochelle, e dal greco e dal latino di Eschilo, Virgilio, Lucrezio, dell’Antologia Palatina e di Claudiano. Ha scritto il romanzo La corsa dei mantelli (Guanda, 1979). è autore del saggio Poesia e destino (Cappelli, 1982), dell’Introduzione a Gli epistolari (Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1995), e Introduzione e scelta di Ogni parola ha un suono che inventa mondi: poesie e racconti (Arpanet, 2002). Ha diretto la rivista di poesia “Niebo” e la collana omonima delle edizioni La Vita Felice, per la quale ha presentato numerosi poeti contemporanei, fra cui Marco Molinari, Angelo Lumelli, Dario Capello, Michelangelo Coviello, Maria Attanasio, Andrea Leone, ed altri. Suoi interventi e saggi si trovano anche in riviste, fra cui Altri Termini, Vel, Nuova Corrente, Schema, Poesia, I Quaderni del battello ebbro, Nuovi Argomenti, Gradiva.
Alcuni artisti, fra cui Giovanna Caimmi e Paolo Cervi Kervischer, hanno dedicato loro opere alle sue poesie. Nel 2010 Viviana Nicodemo ha esposto presso la Galleria Civica di Palazzo Ducale a Pavullo nel Frignano (Modena)
Via dell’inizio, mostra di opere fotografiche e video in dialogo con 27 liriche inedite dell’autore (successivamente
pubblicate in Quell’andarsene nel buio dei cortili).
transizioni arte__poesia
a cura del poeta Italo Testa e dei docenti Paolo Di Vita, Chiara Giorgetti,
Rosanna Guida, Margherita Labbe, e Anna Mariani
Ingresso libero
info:
daverso.brera@gmail.com