libro edito
Recours au Poeme – poesie da “La creta indocile” in versione bilingue
Alcuni miei testi tratti dal libro “La creta indocile” sono stati tradotti in francese, una lingua che amo.
Qualcuno potrebbe obiettare che se mi avessero tradotto in un dialetto eschimese direi che è il mio dialetto preferito.
Vero!
Però il francese mi piace veramente.
Specialmente nella traduzione accurata ed empatica che Marilyne Bertoncini, che ringrazio molto, ha curato per Recours au Poeme
https://www.recoursaupoeme.fr/ivano-mugnaini-extraits-de-l…/
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Ivano Mugnaini, extraits de La Creta indocile
Par Marilyne Bertoncini| 4 juin 2019|Catégories : Essais & Chroniques
Poèmes extraits de La Creta Indocile (L’argile indocile),
choix et traduction par Marilyne Bertoncini
La speranza di settembre
Ora che sono finiti gli spunti antichi
e le idee adeguate annotate con cura
hanno ridisceso scale di ferro
senza ringhiera, ora che l’afa
lascia spazio alla sera, sarebbe tempo
di scrivere solo del tempo,
come un naufrago che si innamora
dell’acqua che lo strangola e si abbandona
a un abbraccio infinito.
Sarebbe tempo di percorrere le strade
dei perché lasciando a casa le borse
dei come, cercare una voce, una chiave
nelle ossa spezzate dei cani, nella carne
di ghignanti puttane. Sarebbe tempo,
se il tempo non fosse fragile, imperfetto,
regolato da cronografi tarati male, ancora
soggetti a salti e arresti, orgogli e terrori,
costretti a fare algebra dell’aritimetica,
sbagliando i teoremi più elementari,
contenti, in fondo, di fallire gli schemi,
le basi, le proporzioni, felici
di sprecare un’altra estate fingendo di studiare
o lavorare, per poi tornare
al primo giorno di scuola, assetati,
immutabilmente, finché sussiste
la speranza
di settembre
Espérance de septembre
Désormais finis les antiques goûters
et les bonnes idées notées soigneusement
ils ont redescendu des échelles de fer
privées de rampe, maintenant que la canicule
laisse sa place au soir, il serait temps
de n’écrire qu’à propos du temps,
comme un naufragé qui s’éprend
de l’eau qui l’étrangle et s’abandonne
à une étreinte infinie.
Il serait temps de parcourir les rues
des pourquoi laissant à la maison les sacs
des comments, chercher une voix, une clé
dans les os brisés des chiens, dans les chairs
de putains ricanantes. Il serait temps,
si le temps n’était fragile, imparfait,
réglé par des chronographes mal calibrés, encore
sujets à des sauts, des arrêts, orgueils et terreurs,
contraints à faire de l’algèbre avec l’arithmétique,
mélangeant les théorèmes les plus élémentaires,
satisfaits, au fond, de rater les projets,
les bases, les proportions, heureux
de gâcher un autre été à feindre d’étudier
ou de travailler, pour retourner ensuite
au premier jour de classe, bien mis,
immuablement, tant que demeure
l’espérance
de septembre.
Il non amore
Forse proprio quando comprendi meno
scorgi una fessura, ed è consolazione
sapere che niente si apre, nessuno
squarcio di luce ; di nuovo tace il corpo
e solo il tempo si muove assieme al sangue
intravisto in fotogrammi ingurgitati
assieme a un piatto di cibo che scordi
prima di averlo metabolizzato.
Tra foga e vomito, fame e apatia,
diventi silenzio che ti strozza senza rabbia,
passato che non sai scacciare.
E perdi il senso dello sguardo, la mano,
il sudore, la voce che si insinua nella gabbia
e la frantuma, bocca spalancata, schiuma
di folle che sa bene quanto sia amaro
il non amore.
Le désamour
Peut-être justement quand tu comprends le moins
surgit une fissure, c’est une consolation alors
de savoir que rien ne s’ouvre, aucun
rai de lumière : le corps de nouveau se taît
et seul le temps se meut avec le sang
entrevu dans des photogrammes avalés
avec un plat de nourriture que tu oublies
avant de l’avoir métabolisé.
Entre fougue et nausée, faim et apathie,
devenu silence qui t’étrangle sans colère,
passé que tu ne sais chasser.
Et tu perds le sens de la vue, la main,
la sueur, la voix qui s’insinue dans la cage
et la fracasse, bouche béante, écume
de folie qui sait combien amer
est le désamour.
Il grado zero
Arriva un momento in cui tutto ciò
che rimane è attesa, sospensione,
grado zero della vita. Diventa colpa,
allora, perfino muovere le dita goffe
della speranza, dirigere il cuore verso
l’idea di un cielo arioso, un morso
di pane, una briciola, un sorso residuo
di vino.
Ma più colpevole e più tenace è
l’udito, fisso sul legno della porta,
inchiodato, crocifisso, appeso
a un battito, un tocco ansioso,
incerto, furtivo : forse il tonfo,
l’incedere cieco del destino ;
forse il calore, sincero, di una mano.
Le degré zéro
Il arrive un moment dans lequel tout ce qui
reste est attente, suspens,
degré zéro de la vie. Et devient une faute,
alors, même bouger les doigts maladroits
de l’espérance, diriger le coeur vers
l’idée d’un ciel dégagé, une bouchée
de pain, une miette, le reste d’une gorgée
de vin.
Mais plus coupable et plus tenace
l’ouïe, fixée au bois de la porte,
clouée, crucifiée, suspendue
à un battement, un coup anxieux,
incertain, furtif : peut-être le bruit sourd,
l’aveugle démarche du destin :
peut-être la chaleur, sincère, d’une main.
Un raggio più tenace
Perfino l’aria, elemento vitale,
si fa scommessa, rischio,
peccato mortale. È il giorno
dell’attesa, sospende il battito
tra attrazione e paura. Andare
alla finestra, alla luce del sole, dovrebbe
essere impulso, palpito delle vene.
È diventato dubbio, riflessione :
il bilancio del dare e dell’avere,
la distanza tra il divano e il davanzale.
Si siede la pena al mio fianco, ed è
gentile, quasi gioviale. Mi copre
con un abbozzo di abbraccio la vista
del vetro assolato. Resto seduto,
comodo, stordito. Il gelo nella carne
è carezza, la stanchezza è dolce :
sapere di non volersi muovere,
restare alla portata delle sue dita.
Ma c’è un raggio più tenace, diretto
da trame arcane di mura e rami.
Arriva a toccare la gamba, l’avvolge,
la scalda, la sfiora. Riesco ad alzarmi,
a camminare, verso i voli del cuore.
Un rayon plus tenace
Même l’air, élément vital,
devient pari, risque,
péché mortel. C’est le jour
de l’attente, suspendu le battement
entre attraction et crainte. Aller
à la fenêtre, à la lumière du soleil devrait
être impulsion, palpitation des veines.
C’est devenu doute, réflexion :
le bilan du donner et avoir,
la distance entre divan et fenêtre.
La douleur s’assied à mon côté, elle est
gentille, presque joviale. Elle me couvre
d’une ébauche d’étreinte la vue
du verre ensoleillé. Je reste assis,
à l’aise, étourdi. Le gel dans ma chair
est caresse, la fatigue est douce :
savoir qu’on ne veut pas bouger,
rester à la portée de ses doigts.
Mais il y a un rayon plus tenace, venu
de trames archaïques de murs et de rameaux.
Il parvient à toucher la jambe, l’entoure,
la chauffe, l’effleure. Je parviens à me lever,
à marcher, vers les envols du coeur.
Folli e strani castori
Facendo due rapidi conti, se diamo
al cupo albergatore tutto il denaro
messo da parte per l’affitto mensile
della casa oggi lontana, e gli consegniamo
con gesto ilare e breve le nostre carte
di credito legate a conti correnti
già quasi sfiatati, potremmo restare
qui, sulle sponde di questo lago
incantevole e sperduto, per un totale
di giorni ventidue, stanza con balcone,
colazione e vista compresi nel prezzo.
Staremmo qui, abbracciati nel letto,
guardando il sole e il cielo, il mistero
che si insegue sfiorando il verde del bosco
e l’azzurro dell’acqua. Saremmo nuvole,
e coglieremmo forse in un istante
il codice del vento, la corrente che ferisce
e sostiene, l’aria muta che osserva e passa,
come un alito, un brivido, la vita.
L’ultimo giorno scivoleremmo silenziosi,
ancora abbracciati, dal fresco della camera
al profondo del lago. Solo un rapace ci vedrebbe,
e capirebbe il senso, il cammino, o forse
ci scambierebbe per folli e strani castori,
prima di virare, indifferente, verso
il suo tratto libero di cielo.
Castors étranges et fous
Faisons deux comptes rapides, si on donne
à l’aubergiste sombre tout l’argent
mis de côté pour le loyer mensuel
de la maison lointaine aujourd’hui, si on lui donne
d’un geste hilare et bref nos cartes
de crédit liées à des comptes courants
déjà presque épuisés, on pourrait rester
ici, sur les rives de ce lac
enchanteur et perdu, pour un total
de vingt-deux jours, chambre avec balcon,
collation et repas compris dans le forfait.
On resterait ici, embrassés dans le lit,
à regarder le soleil et le ciel, le mystère
qu’on poursuit effleurant le vert du bois
et l’azur de l’eau. On serait nuage,
et on saisirait peut-être en un instant
le code du vent, le courant qui blesse
et soutien, l’air muet qui observe et passe,
comme un souffle, un frisson, la vie.
Le dernier jour on glisserait silencieux,
toujours embrassés, de la fraîche chambre
au profond du lac. Seul un rapace nous verrait,
et comprendrait le sens, le cheminement, ou bien
nous prendrait pour des castors étranges et fous,
avant de virer, indifférent, vers
le bout de ciel où il est libre et seul.
Un altro giorno
Ti amo quando sei semplice,
quando ti sai stupire per il sorriso
di un gatto, il riflesso di un raggio
di sole, un colore, le luci di Natale,
tutto ciò che io non so e non voglio
vedere. Perso nella mia ragione, resto
a bocca aperta ogni volta che il tuo sguardo
arriva là dove mai sarei potuto entrare,
senza di te, senza gli occhi e le mani
di una donna che ha la mia stessa età
e sa ancora essere bambina, sognando
i Re Magi e la Befana, la neve e il sole,
la stella e una fiaba di mille notti
indiane strette in un abbraccio senza fine.
Una bambina che al momento giusto
sa darmi lezioni di saggezza e di filosofia,
quando mi getto ad occhi chiusi tra i sassi
di un pensiero senza linfa. E non c’è
stella cometa che mi possa salvare
o indicare la strada. Solo il tuo corpo,
le tue dita, il tuo sguardo d’amore
che chiede al giorno solo un altro giorno,
e alla vita la nostra stessa vita.
Un autre jour
Je t’aime quand tu es simple
quand tu sais t’émerveiller du sourire
d’un chat, du reflet d’un rayon
de soleil, d’un couleur, des lumières de Noël,
de tout ce que je ne sais ni ne veux
voir. Perdu dans mes pensées raisonnables, je reste
bouche-bée chaque fois que ton regard
arrive là où jamais je n’aurais pu entrer,
sans toi, sans les yeux et les mains
d’une femme qui a mon âge
et sait encore être une enfant, rêvant
des Rois-Mages et de la Befana, la neige et le soleil,
l’étoile et une fable des mille et une nuits
indiennes serrées dans une étreinte infinie.
Une enfant qui au bon moment
sait me donner des leçons de sagesse et de philosophie,
quand je me jette aveuglément entre les cailloux
d’une pensée dépourvue de sève. Et il n’est
étoile comète qui me puisse sauver
ou indiquer la route. Seul ton corps,
tes doigts, ton regard amoureux
qui demande au jour seulement un autre jour,
et à la vie seulement notre vie.
.
Marilyne Bertoncini
Marilyne Bertoncini, co-responsable de la revue Recours au Poème, docteur en Littérature, spécialiste de Jean Giono, collabore avec des artistes, vit, écrit et traduit de l’anglais et de l’italien. Ses textes et photos sont également publiés dans des anthologies, diverses revues françaises et internationales, et sur son blog : http://minotaura.unblog.fr.
La parola e il sogno
Ripubblico volentieri un articolo originariamente uscito su Carteggi Letterari, rivista on line a cui altrettanto volentieri collaboro, https://www.carteggiletterari.it/2019/06/12/sogniloqui-di-stefano-taccone-iod-edizioni-2018-recensione-di-ivano-mugnaini/
Parla di un agile ma interessante libro che con divertita e serissima lievità si avventura nel regno dell’onirico, del bizzarro, dell’improbabile ma assolutamente vero, o verosimile: la vita, o la sua immagine riflessa in uno specchio.
Buona lettura, se potete e volete.
Buona estate a tutte e a tutti, IM
SOGNILOQUI di Stefano Taccone, IOD Edizioni, 2018 – recensione
Esiste un tipo di narrativa che, sul modello della filosofia, ma anche della musica e di altri ambiti artistici che mettono in connessione la ragione e l’immaginazione, esplora le zone di confine e si nutre di contrasti, ambivalenze ed ossimori oggettivi e concettuali, in seguito ristrutturati e restituiti, mutati, trasformati nel senso e nell’essenza.
Ciascuno ha in mente modelli rappresentativi e in qualche modo emblematici di questa tendenza espressiva che spazia dalle arti figurative a quelle in apparenza disgiunte dalla materia tangibile. Nei racconti di questo suo recente volume, Stefano Taccone ha avuto il merito, o forse l’istinto, di seguire la propria strada, un sentiero autonomo e sui generis, nel senso migliore del termine. Ha dosato gli “ingredienti” di questa mistura senza seguire alla lettera le dosi indicate nelle ricette e senza preoccuparsi troppo dei tempi, delle quantità e delle indicazioni di massima contenute nei volumi di riferimento.
Il prodotto di tale “esperimento”, condotto con divertita ma attenta cura, è un volume agile e godibile, gradevolmente spiazzante, come certe facciate barocche, lievi e tuttavia solide, giocose e in qualche modo cupe e solenni, come la vita. L’impressione è che l’autore abbia scritto questo libro con un sorriso serissimo. Come uno studioso che cerca modi per stupire, o almeno per spiazzare il proprio referente, ma allo stesso tempo è concentrato affinché tutto, anche l’incredibile e l’assurdo, anzi, soprattutto l’incredibile e l’assurdo, risultino assolutamente credibili. Veri, o talmente fittizi da essere o sembrare (che differenza fa?) più veri del vero.
Il titolo, come spesso accade, è una potente calamita, e, in una certa maniera, una prima chiave, seppure anch’essa volutamente storta, sghemba, al punto che non si comprende bene quale sia il lato giusto, o se vi sia un solo modo per adoperarla, o nessuno, o tutti insieme. “Sogniloqui” è una parola complessa e composita, adeguata vetrina, questo è certo, per i racconti a cui fa da titolo. Sogni ed eloqui, o soliloqui, o semplicente “loqui”, ossia, forse, un modo con cui dare voce ai sogni, parlarne, o lasciarli parlare. I sogni, intrinsecamente irrazionali, sfuggenti, incoercibili, vengono messi a confronto, incasellati, incanalati tra le pareti del linguaggio che, di per sé, per poter avere un senso e una funzione deve al contrario seguire schemi, regole, codici univoci. Da questo attrito, da questo costante braccio di ferro tra le due istanze contrapposte, nasce il carattere bizzarro e tuttavia lineare delle tranches de vie descritte da Taccone.
Se fossero quadri, questi racconti, verrebbe fatto di pensare a Dalì, a quegli orologi molli, liquefatti, a quei numeri tanto precisi da rimanere leggibili anche dopo il dissolvimento dei colori e dei contorni. Identici in apparenza ma in un tempo altro, in una logica altra. Sarebbe interessante calcolare quante volte, nei racconti di Soliloqui, compaiono riferimenti, diretti o indiretti ai numeri, al calcolo di distanze, misure, quantità. Siamo di fronte ad una specie di aritmetica della follia, o della bizzarria, del sublime irrazionale che tuttavia pretende di essere misurato al millimetro, come per un vestito sartoriale, o per una solenne e sarcastica cassa da morto. E il funerale non si sa bene di chi sia: se della logica o della pazzia, del tempo, della pretesa dell’uomo di trovare un senso, una direzione, una formula riassuntiva e risolutoria del caos di cui è parte integrante ma forse neppure essenziale.
I numeri ci accompagnano passo dopo passo, come ombre ghignanti, dalla prima all’ultima pagina. Fin dal primo racconto, dal titolo umoristicamente raggelante, “Tagliatelle millimetrate”. Una vicenda in cui il protagonista ha come grido di battaglia “Misuro tutto!”. Lo confessa o forse se ne vanta, o, anche in questo caso, entrambe le cose simultaneamente. Forse è il personaggio che l’autore teme di essere o di diventare, oppure, semplicemente, come Dante, opportunamente citato nel racconto, è il primo adeguato Cerbero di se stesso che subisce la pena del contrappasso per la colpa ineluttabile dei suoi personalissimi “sogniloqui”.La letteratura si fa specchio di uno specchio che forse è la vita. E resta il dubbio, essenziale, fondamentale, riguardo alla deformazione di quella superficie riflettente. Se sia connaturata, ossia propria delle cose osservate, o se abbia origine nella mente e negli occhi di chi osserva il mondo, pensandolo, potremmo dire generandolo attraverso il pensiero.
Il pensiero e la parola. Il racconto iniziale del libro si conclude con “La prova è finita!”, e poco più oltre “Il supplizio è finito! Sospiro di sollievo!”. Vengono alla mente Pirandello, Beckett, e tutta la schiera di scrittori e drammaturghi che hanno usato la parola per esprimere lo scardinamento mentale e sociale, l’emergere dell’assurdo non come occasionale emergenza ma come condizione costante e immutabile. La parola dunque è supplizio, ma anche il solo modo per esprimere tale oppressione e forse perfino per uscirne, osando guardarsi vivere, avendo tale coraggio.
Il linguaggio utilizzato in questo libro riflette adeguatamente le antinomie a cui si è fatto cenno: a brani elegantemente fluidi e cadenzati fanno da contrappunto passaggi scabri, come se l’urgenza espressiva aggredisse i personaggi, le loro voci e i loro pensieri. L’umorismo aggiunge alla dicotomia ritmica quella del senso e del significato, la connotazione e la denotazione, il sentimento del contrario. Tutto, senza irriverenza, ma con giocosa serietà, entra nel vortice dell’umorismo: ilterzo racconto ha per titolo “Girella cumana” e la Sibilla, a suo modo, sorride anche lei. Ed è interessante l’ingresso dell’arte figurativa nell’ambito della scrittura e della dimensione autobiografica nella finzione. Lo spunto e il mezzo sono le interazioni, i filtri e le modulazioni necessarie per rendere il tutto allo stesso tempo reale e fittizio, cronaca e metafora. “La scena a cui ho appena assistito – scrive Taccone – mi ricorda un’opera, Fermare il loop, realizzata da un mio amico artista – Luigi Urso, in arte Ur5o – quasi dieci anni fa per una mostra collettiva che curai a Milano”. Sia il titolo della mostra a cui si fa riferimento sia l’unione tra arte e vita risultano in qualche emblematici, o almeno ampiamente rappresentativi, non solo del sapore del racconto specifico ma dell’intero libro.
Molti racconti hanno un che di kafkiano, in senso ampio ma non meno aspro. Il racconto “Girella cumana” si chiude anch’esso con una fuga e con il sollievo che si prova quando tutto ha fine, quando l’incubo finisce: “Non mi resta che alzarmi del letto, prepararmi e scendere giù al palazzo, affinché possa mettere fine, forse, a tutta questa sequela di misteri”. Probabilmente la sequela di misteri è il succo del discorso, forse dell’esistenza stessa, la ricerca di un senso che senso non ha. Siamo già scarafaggi; e il processo, per cose che non conosciamo e che non sappiamo di avere commesso, non ha un inizio e neppure una fine. Ci si risveglia da un incubo e in realtà è lì che il vero incubo inizia.
Forse (ed è necessario sottolineare ancora una volta la natura ipotetica dell’affermazione), una chiave, una sintesi, uno squarcio interpretativo potenziale, è racchiuso nel secondo paragrafo del racconto “Rete negli occhi”. In una serie di domande e in una descrizione oggettiva: “Cosa è successo? Mi stropiccio gli occhi ma non va via! Quel piano ottico rimane intonso! Che fare? Ben presto mi accorgo che c’è anche una freccetta, come quella che azionerebbe un qualsiasi mouse da computer, e con la forza del pensiero posso portarla dove desidero”. Un efficace ritratto del nostro tempo, della condizione attuale. Nessuna risposta se non la possibilità di spostare il fulcro dell’informazione, o meglio della ricerca di informazione, quell’intertestualità che non di rado è immensa varietà senza alcun porto certo, interminabile viaggio circolare in un mare di mondi possibili tutti veri e tutti fittizi. Al punto che, poco più avanti, un paio di pagine oltre, la voce narrante ci confessa di non essere più certo neppure di avere una testa, delle braccia e delle mani. L’incubo è accorgerci di essere noi stessi una rete nella rete, soggetti a virus che, agevolmente, da informatici diventano fisiologici, attaccano direttamente i nostri tessuti, la nostra presunta essenza reale. E sempre di più, se noi assomigliamo ai nostri computer, le macchine assomigliano a noi. “Il suo portatile è stranissimo”, si osserva a pagina 39, e la sovrapposizione tra la persona e il personal computer è assoluta. I tessuti corporei e i circuiti diventano una cosa sola, arrivano a corrispondere.
Le soluzioni, o almeno le vie di fuga e di potenziale salvezza, sfociano nel mare immaginario, futuro e futuribile, di un’eventuale evacuazione collettiva, o nel rifugio estremo, quello della consapevolezza di essere sull’orlo di un baratro che è allo stesso tempo ecologico ed etico. La presa di coscienza che “Edenlandia” in realtà è un nome grottesco dato ad un potenziale Inferno può condurre ad una reazione salvifica, in senso stretto e in senso lato.
Una delle caratteristiche di maggior rilievo di questo libro è la capacità di far riflettere su temi importanti con una deliberata leggerezza, senza pedanterie e senza proporre panacee più o meno miracolose o miracolistiche. Taccone esplora il surreale per parlare del reale, il grottesco per far sì che dallo specchio, magari nel bel mezzo di un riso, ci compaia un’immagine del degrado in cui rischiamo di adagiarci, compiaciuti, ilari e smarriti. Questi racconti affabulano, spiazzano, deliberatamente, spostando il focus su dettagli e situazioni in apparenza irreali, o improbabili, dietro cui in realtà ci è dato di cogliere una concreta e autentica istantanea di ciò che siamo e che rischiamo sempre di più di diventare se non interrompiamo la tendenza, se non apriamo varchi differenti nella rete che tessiamo e dai cui siamo fagocitati, se non ricreiamo spazi vivibili, sia fisici che mentali, più autenticamente umani.
Non è un caso forse che le ultimissime parole del libro siano: “mantenere intatto il suo autentico significato: quello di un sacrificio compiuto per amore dell’umanità”. Tra realismo e fantasia, tra il sogno e il vero, in un realismo che si espande nei territori del grottesco ma resta sempre vivido e attuale, Taccone si pone, e ci pone, le domande che contano. Compie la scelta, tra diritto e necessità, di non rinunciare a temi essenziali e vitali, ad un “idealismo” che non è mai, qui, tediosa teoria né astratta utopia. Nei Sogniloqui sorridiamo, divaghiamo, ma, alla fine, cogliamola nostra autentica immagine.
Ivano Mugnaini
Stefano Taccone (Napoli, 1981) è dottorato in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica presso l’Università di Salerno. Dal 2013 al 2015 ha insegnato storia dell’arte contemporanea presso la RUFA – Rome University of Fine Arts. Ha pubblicato le monografie Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (2010); La contestazione dell’arte (2013); La radicalità dell’avanguardia (2017). Ha curato il volume Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità(2014). Collabora stabilmente con le riviste “Segno” ed “OperaViva Magazine”. Sogniloqui è la sua prima raccolta di racconti.
PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA GRADIVA-NEW YORK – III edizione
STATE UNIVERSITY OF NEW YORK
PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA GRADIVA-NEW YORK – III edizione
______________
La rivista GRADIVA bandisce la terza edizione del Premio Gradiva – New York. Al Premio si concorre con un libro di poesia in lingua italiana, pubblicato fra gennaio 2013 e dicembre 2014. I libri partecipanti al concorso non saranno restituiti. Non è prevista alcuna quota di partecipazione, ma i partecipanti sono gentilmente invitati a iscriversi, in forma di donazione, all’Associazione Gradiva International Poetry Society, Inc. *
Al vincitore sarà assegnato un premio di $1000 (mille dollari), il rimborso delle spese di viaggio aereo (economy class) e il pernottamento per due notti presso il prestigioso Danford Marina Hotel. Una selezione del libro sarà tradotta in inglese e pubblicata da “Gradiva”, o in una plaquette per le edizioni Gradiva. In caso di ex-aequo i vincitori condivideranno il premio in danaro. Case Editrici e/o singoli autori devono spedire una copia del loro libro, in cartaceo, ENTRO IL 30 MARZO 2015 ai seguenti componenti della Giuria, con l’indicazione, su ogni copia, dell’indirizzo completo dell’Autore, telefono ed e-mail. Una copia va spedita in PDF all’indirizzo elettronico della Segreteria del Premio sotto indicato.
Nicola Crocetti, c/o “Poesia”, Via E. Falck 53, 20151 Milano, Italia.
Milo De Angelis, Via degli Imbriani 31, sc. F., 20158 Milano, Italia.
Alessandro Carrera, Modern & Classical Languages, Univ. of Houston, Texas 77204, USA.
Luigi Fontanella (Presidente), Dept. of European Languages and Literatures, Humanities Bldg, State University of New York, 100 Nicolls Rd., Stony Brook, New York 11790, USA.
Irene Marchegiani, 303 Mountain Ridge Drive, Mt. Sinai, New York 11766, USA.
Elio Pecora, Via Paolo Barison 14, 00142 Roma, Italia.
Segreteria del Premio, Sylvia Morandina (con diritto di voto): gradivasunysb@gmail.com
La Giuria selezionerà gradualmente i libri finalisti. Una successiva consultazione determinerà la cinquina finalista, della quale un’ultima votazione determinerà il vincitore del Premio. La cerimonia di premiazione avrà luogo nell’autunno 2015 presso il Center for Italian Studies della State University of New York, con sede a Stony Brook, e sarà preventivamente comunicata al vincitore, che è tenuto a presenziare alla cerimonia. Non si ammettono deleghe. Per ulteriori informazioni: Tel. 001-631-6327448 (martedì e giovedì) o inviare email.
* Per l’associazione alla non-profit Gradiva International Poetry Society, Inc., che dà diritto a partecipare al Premio, effettuare donazione, con spese bancarie a carico dell’ordinante, tramite bonifico internazionale (bank transfer) di $65 sul conto di GRADIVA, Apple Bank di Setauket (N.Y.), gestito dalla Morgan Chase Bank, Routing n. 226070584, account 444-3030970, Swift: CHAS US 33; oppure tramite bonifico italiano di € 50, specificando che si tratta di donazione, con spese bancarie a carico dell’ordinante, presso Banca Popolare di Milano, Ag. 240, sul conto intestato a Luigi Fontanella, IBAN: IT50 I 05584 02800 000000010982, swift: BPM iit MM240. Spedire la ricevuta all’indirizzo della segreteria del Premio: PO Box 831, Stony Brook, New York 11790, USA.
PREMIO GRADIVA-NEW YORK II edizione
Un premio con un’ottima giuria. Internazionale in senso stretto e reale. Buona scrittura e buona partecipazione. IM