morte

STELLEZZE di Paola Febbraro

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Una mia nota di lettura a STELLEZZE di Paola Febbraro. Un libro atipico, arcano, solare, crudo e dolce, lieve e intenso. I.M.
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Nota di lettura a Stellezze di Paola Febbraro, a cura di Anna Maria Farabbi, Lietocolle, Faloppio, 2012

Leggendo i lavori di un poeta scomparso spesso si ha l’impressione di percorrere le stanze di un museo, prendendo visione degli armadi e degli archivi, delle catalogazioni attente, precise, definitive. Tutto questo non accade con il libro Stellezze di Paola Febbraro. Non accade in virtù di quell’esuberanza irrefrenabile che nasce dall’incontro alchemico tra l’ebbrezza infantile, conservata avidamente e golosamente da Paola fino in fondo, e il pensiero, autenticamente libero, filosofico senza rigori sterili a cui dava vita e da cui riceveva la curiosità, l’impulso ad esplorare, nonostante tutto. La parola “vita” è quella che emerge alla mente e riecheggia dentro con più frequenza e nitore leggendo questo volume curato da Anna Farabbi ed edito da Lietocolle. La vita nel suo insieme, in quella totalità complessa, multiforme, composta di ossimoriche misture, moltitudini e solitudini, pazzie e ragioni, piaceri e dolori. Non si tratta di un paradosso né di un guanto di sfida lanciato in faccia al destino da un’artista che ci ha lasciato troppo presto. La sua vittoria sulla morte è spontanea, naturale, non cercata né voluta. È resa possibile, lo si percepisce pagina dopo pagina, dal modo in cui l’autrice ha saputo percorrere il mistero, il suo, individuale, e quello di tutti. Con un modo sincero di attraversare la strada che le è toccata e che ha scelto: guardando negli occhi il sole e la pioggia, cantando con amore perfino alla morte, alla solitudine, alla pena. Senza astio. Con la dolcezza di chi sa di possedere il dono ed il peso della parola, la condanna meravigliosa e terribile chiamata poesia.
Si può permettere allora di trasformare il tempo in una serie di disegni abbozzati, quasi fumettistici, quelli riprodotti sulla copertina del libro. Per sfuggire alla ripetitività routinaria degli obblighi e della solitudine, l’ironia si fa schizzo, sarcasmo difensivo, una terra di nessuno tra la gioventù e l’età adulta. Estrema serietà e solida leggerezza. Il volo di una farfalla trasforma un volo effimero in un segno, una traccia di simboli e richiami tracciati nell’aria, invisibile solo a chi è cieco dentro. I versi di Paola Febbraro parlano della sua esperienza esistenziale, sono l’eco dei suoi gesti, i suoi incontri, i passi del suo cammino. Eppure questo apparente egocentrismo in realtà è ampia, vigilata, deliberata richiesta ed offerta di condivisione. L’altra parola chiave rilevabile è, accanto a vita, condivisione. Il libro stesso è una forma di dialogo continuativo, ininterrotto, con Anna Farabbi e con coloro che hanno saputo leggere i versi di Paola quando era in vita, spartendo con lei lo spazio abitabile di questo tempo e questa terra. Ma anche per chi scopre l’autrice per la prima volta grazie a questo libro lo scambio è “immediato e irrimediabile”, come si annota adeguatamente nella nota introduttiva al volume. Si tratta di baratto, giustamente: la voce di Paola Febbraro chiede in cambio un’altra voce, un confronto. Non accetta una neutra e comoda moneta, pretende che chi riceve offra altrettanto, metta in gioco se stesso, qualcosa di ugualmente lieve e imprescindibile: “il canto si offre da solo, da solo con l’ascolto di chi gli va incontro”, non a mani vuote. Non è un caso che l’autrice avesse l’abitudine di trascrivere estratti da opere altrui; la poesia affonda le proprie radici in un terreno fertile, le radici ed i rami si sfiorano e si intrecciano.
Alcune lettere dell’autrice, pubblicate nella parte iniziale del libro, mettono a nudo gli elementi, la chimica essenziale del suo processo di creazione e ricerca, nel senso di esplorazione e di moto verso un luogo, e verso una presenza, auspicata, anelata. La base primaria è l’immediatezza, la riscoperta delle componenti naturali: in primis le sensazioni in apparenza semplici, in realtà complesse e ardue come terreni di conquista. La fiducia, ad esempio: “nessuno niente niente e nessuno è stato così rivoluzionario per me quanto avere fiducia in un’altra donna”, annota. Ed è rivelatore, emblematico, scoprire che questa conquista nasce da un gesto piccolo, quotidiano: un abbraccio, un contatto istantaneo tra due corpi, due entità. Poco dopo, puntuale, nella lettera in questione così come nei versi dell’autrice, all’emozione profonda, primordiale, subentra la riflessione, il pensiero, il rovello della mente. Ma anche la filosofia della Febbraro è personale e leggera, umana, vitale, danzante. Il trucco è, per usare le sue parole, “accogliere in maniera diversa/ la pazzia”. Sì, perché come ogni artista che sente la sostanza del suo agire nel mondo, l’autrice sa bene che “le parole fanno”. E altrettanto bene è conscia della distinzione tra “un poeta che canta e un poeta che scrive”. Non ultima, consequenziale, la consapevolezza estrema, la coincidentia oppositorum: “gli indiani sanno vivere la costruzione e la distruzione. Mi piacciono molto”. Quasi a presagire, ad anticipare. Ma anche come atto consapevole di speranza concreta: la voce e la musica resistono e persistono. Anche nel silenzio apparente della fine. Da qui l’auspicio, il progetto, vibrato nell’aria più che redatto: “io voglio andare dove cinguettano/ ogni tanto non per sempre”. Là dove quel “non per sempre” è autentica, duratura libertà.
Nei suoi versi, nelle sue lettere, nella sua biografia esistenziale e letteraria, Paola Febbraro ha saputo e voluto distinguere bene la sua storia, quella con cui ha desiderato ricongiungersi, con la storia esterna, quella che alcuni scrivono con la s maiuscola, quella che “è veramente un’altra cosa”. Lei, come poeta, non ha soltanto cercato di andare incontro alla sua fortuna, ma ha saputo “portarla, esserlo. Come se questa fosse una forma di maternità”. L’elemento femminile, il liquido amniotico dell’essere e del percepire è stato per lei intima ispirazione e forza.
Ciò le dona la certezza che la consunzione ha un suo scopo: “brucio per diventare asciutta”. Per ritrovare la forma primaria dell’essere, quella commistione connaturata di principio e di epilogo, di isolamento e di immersione totale nella globalità del senso e dell’assenza di senso, nel tempo e nella sua assenza. In tale ottica può permettersi di osservare che “per fortuna che c’è la morte per fortuna/ Altro non si possono inventare e non ci tocca”. E, sulla base di questa riflessione, può dire, e dirci, con sobrio sorriso, che il mondo “è solo […] qualche chilometro di strada asfaltata”. Esclamando, un verso dopo, “Meglio!/ Mondo? Ma è solo una giornata!”.
Così, senza retorica, senza forzature, consci delle reciproche ferite e delle braccia che ancora sanno fare schermo e barriera, possiamo dialogare con i versi di Paola Febbraro, e comprendere per un istante, non solo con la ragione, quando ci invita, lirica dopo lirica, pagina dopo pagina, a “spogliarci nudi alla gentilezza/ quella danza a fil di sonno che tutto allarga schiara/ di una luce sola”. Da onesto e benevolo giocatore, Paola, strizzandoci l’occhio, ci lascia sbirciare per un attimo anche le sue carte, mostrandoci che “non c’è da riflettere/ le onde del mare sono mamme solitarie”. Qualche verso più avanti la rivelazione è ancora più ampia e generosa: “la calligrafia non si leggerebbe/ tanto è sottile ora quello che divide il capo dal sole”. Qui tuttavia la vista non basta. Le carte messe a nudo vanno anche interpretate. Tocca a ciascuno di noi dirci cos’è che davvero divide il capo dal sole. In cosa consiste per l’autrice che ci chiama in causa, e in cosa consiste per noi, per i versi e i pensieri che da lei nascono e portano con loro. “La poesia scritta ha qualcosa di triste perché toglie/ alla vita chi la scrive”, dichiara con schiettezza Paola Febbraro. Potrebbe sembrare una pietra, una macigno che nessuno può neppure sognare di spostare, nessun Lazzaro è ipotizzabile. Ma c’è un ma, è quel ma si chiama poesia, veleno e antidoto: “ma ecco che senti anche tu come la parola vita sia quella che ci toglie/ a noi stessi noi stesse/ quasi la ragione”. In questa dicotomia, in questo contrasto, c’è la ricerca di senso ulteriore, il fascino arcano, lieve e profondo di questo libro che ci invita, con possente lievità, a scoprire il segreto delle sue “stellezze”, quelle luci immaginarie e reali, percepibili ed immaginabili, che costituiscono l’enigma dell’esistere, del bruciare nel vento, senza smettere mai di cantare, al mondo e del mondo.
Ivano Mugnaini