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PASOLINI TRA FAME DI VITA E ARCHETIPI DI LUOGHI

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La terza tappa della rubrica VIAGGIO AL CENTRO DELL’AUTORE approda sull’idroscalo di Ostia, dove, quasi quarant’anni fa, trovò la morte uno degli artisti italiani più complessi ed eclettici. Questo excursus prova a seguire passo dopo passo il suo percorso in alcuni dei luoghi che hanno segnato profondamente il suo vissuto personale e professionale.

Viaggio rubrica Dedalus

Pasolini tra fame di vita e archetipi di luoghi

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In principio era Pasolini, Pier Paolo Pasolini, poi divenne pasoliniano. Un pò come Fellini è, ineluttabilmente, felliniano.
L’aggettivazione toglie o aggiunge connotati identitari all’autore? Pasolini il cui pensiero si è spinto a guardare oltre l’immanente si muove su dicotomie proprie esclusivamente del suo tempo oppure ancor oggi valide e attuali? In questi tempi frenetici in cui si twitta e si tagga è facile ridurre la complessità di una persona ad un aggettivo. E’ il caso però di chiedersi se e come Pasolini diventò pasoliniano.
Un tentativo di risposta può essere fornito proprio dall’accostamento con Fellini, per analogia e per contrasto. Entrambi hanno rappresentato il proprio tempo, gli anni in cui l’Italia ha provato a scrollarsi di dosso secoli di miseria culturale e di soggezione a censure, condizionamenti, frustrazioni camuffate da sani e canonici principi. Sia Pasolini che Fellini utilizzano, seppure in modo molto diverso, le armi del pensiero divergente, onirico, e la forza dirompente del sesso, inteso come impulso liberatorio, propedeutico alla conoscenza, mai come mero voyeurismo o surrogato della pornografia. Un mutamento di portata epocale non poteva tuttavia non avere conseguenze, anche e soprattutto a livello psicologico. Fellini si protegge rivestendo le radici della propria terra, geografica e mentale, con l’alone di una visione onirica, un film nel film, pellicola nella pellicola in grado di tramutare un posto in un luogo della memoria e del sogno, al di là di ogni connotazione spaziale e temporale. Pasolini, sul fronte opposto, rende i luoghi così netti, scabri, scavati nei contorni, sottolineati mille volte nella loro dimensione primigenia fino al punto in cui, seppure per vie diversissime, giunge anche lui allo straniamento, alla dissoluzione delle variabili reali e ineluttabilmente mutevoli, le assi della cronologia e della topografia.

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I luoghi diventano topos, siti della mente, coordinate del pensiero. Diventano posti che si sottraggono a qualsiasi connotazione concreta, qualsiasi realtà. Vengono inglobati e assimilati nella categoria specifica dei “luoghi pasoliniani”. Luoghi dove la vita brucia come le giornate d’estate. Tra borgate e marane si accendono attimi scarni d’esistenza e lo sguardo del poeta vaga e indaga alla ricerca di quella purezza e forza genuina delle cose, privando i luoghi di ogni monumentalità, di ogni cifra stilistica, attraversando, con la mente e con il cuore, il degrado delle periferie, delle borgate, gli spazi vuoti della campagna desolata e improduttiva, paradigma di autenticità amara.
Pasolini, per coerenza filosofica e ideologica, per rivalsa contro il mondo, forse anche per un impulso a metà tra eroismo e autolesionismo, guarda nell’abisso, lo scruta, e, ineluttabilmente, ne viene attratto.
Il poeta subisce il conflitto tra i residui di una cultura borghese e cattolica assimilata suo malgrado e la volontà di negarla, ristrutturando il suo orizzonte, il mondo artistico e umano che vive. Per questo desiderio di azzeramento e riscrittura, Pasolini sceglie come specchio oscuro e icona ideale il rudere, la casa fatiscente, gli spazi inurbani non raggiunti dal cemento della città. E’ questa la scabra essenza in cui Pasolini fa muovere i suoi personaggi e i suoi racconti. Scriveva Pasolini: “Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile.
Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.

MOSTRE: DA FONTANA A BAJ, GLI IRRIPETIBILI ANNI '60
E ancora:
“Sono scandaloso. Lo sono nella misura in cui tendo una corda, anzi un cordone ombelicale, tra il sacro e il profano”.
Sacro e profano, passato e presente, realtà e sovrastrutture. Sono questi gli estremi tra cui si muove il Pasolini uomo e artista. Se Fellini ha trasformato la sua Rimini in un fondale della memoria e Roma in un set per un film che dichiara costantemente la sua natura fittizia, Pasolini sceglie il tragitto contrario: toglie il velo di retorica, fa a pezzi i dépliant turistici e i cliché creati ad hoc dalla sottocultura dominante, dalle Pro Loco e dagli enti locali e statali che promuovono il moderno come progresso e l’asfalto come via privilegiata del benessere.
Pasolini percorre con la macchina da scrivere e la cinepresa l’Italia e il mondo. Bologna, città colta ma ancora soggetta a compromessi e miserie di stampo “paesano”. Il Friuli contadino, Casarsa, paese natale della madre, Susanna Colussi, così crudo e chiuso, duro di pettegolezzi che annientano tutto ciò che è “diverso”. Terra di solitudine che spinge alla fuga. Matera, città di pietra, così simile ai luoghi della crocifissione, al Golgota sempre presente della miseria vera, spietata, disumanante. Spazio per una verità che vive ogni giorno la dimensione del dolore, l’essenza quasi preistorica che sembra perduta, eppure esiste, ai margini di tutto, perfino della possibilità di concepirla, di immaginarla come esistente.
Il mondo poi, i viaggi in compagnia di Moravia, della Maraini, della Callas, per abbinare la cultura all’asprezza della verità. Lo Yemen, l’Africa, il fascino di un’arte fatta di terra e fango, costruzioni mirabili nella cruda nudità del deserto. L’arte nel silenzio e nello spazio assoluto della riflessione. Al ritorno da ogni viaggio, Roma, la città “madre”. Mamma Roma, così diversa dal suo figlio, così distante eppure imprescindibile. La città che gli dona la gloria e il pane, ma anche, con un patto non scritto ma chiarissimo per tutte le parti in causa, la morte. Quella effettiva, sulla spiaggia di Ostia, in un sudario fatto di granelli di sabbia. Scenario crudelmente reale e allo stesso tempo del tutto simbolico. Metafora di sangue. La Roma di Pasolini è quella delle borgate, degli accattoni, dei personaggi che vivono sul filo di un rasoio affilato. Gente con un fascino atavico e fatale: una fonte inesauribile di inchiostro e di immagini dotate di una crudele, poeticissima fame. Così diversa e così uguale alla sua. Pasolini se ne ciba, se ne sazia, sapendo che si tratta di sostanze estranee al suo corpo, qualcosa di lontano dalla sua natura colta e in fondo aristocratica, nonostante tutto, a dispetto di ogni scelta e volontà. Un avvelenamento deliberato e sistematico, non per rendersi immune, ma, semmai, sperando di morirne in modo adeguato, diventando ciò che ha raccontato, la sostanza delle proprie parole e delle proprie inquadrature.
Per colmare il divario tra la dimensione effettiva e il proprio ideale, Pasolini, come detto, tende a riportare i luoghi della sua esistenza alla dimensione originaria, scevra da tutto ciò che li ha tramutati e standardizzati, resi moderni nell’accezione più becera. Per Pasolini l’artista deve, attraverso la sua opera, custodire e proteggere un paesaggio culturale. In questa prospettiva, il paesaggio non è solo ambiente geografico e naturale, ma anche e soprattutto ambiente storico e umano: un territorio stratificato nel tempo, che è insieme universo linguistico, identità di luoghi, e patrimonio d’immagini artistiche che questo ambiente trasmette. Ciò spiega perché, in un frammento d’autoritratto en poète, Pasolini veda se stesso come una “forza del passato”:

Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro sulla Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopo storia,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. (B, I, 619)

Il primo intreccio tematico che si presenta all’attenzione del giovane Pasolini, filologo e poeta, è il legame tra paesaggio, memoria e lingua. La lingua, nella sua pluralità di tradizioni e di volti, esprime una realtà molto più ricca e multiforme rispetto a quella del territorio “ufficiale” di un paese. Pasolini lo scopre con il dialetto friulano, da lui utilizzato per la sua prima raccolta di versi, le Poesie a Casarsa (1942), poi ampliato come La meglio gioventù, (1954). Casarsa, il paese materno, è una “intatta provincia dell’atlante neolatino”: un atlante, dunque, non tanto geografico quanto soprattutto storico e linguistico.

…Ciasarsa
– coma i pras di rosada –
di timp antic a trima.

(…Casarsa
– come i prati di rugiada –
trema di tempo antico.) (B, I, 17)

Imparare a usare il dialetto come “strumento di ricerca” implica un passaggio preliminare: imparare il dialetto. Ciò è significativo, se si tiene presente che il friulano non era normalmente parlato dalla madre di Pasolini: la media borghesia, infatti, si esprimeva in veneto. Il friulano di Casarsa, invece, è una lingua materna, poiché arcaica, contadina, una sorta di mistero pre-istorico: di qui l’idea di un percorso a ritroso “lungo i gradi dell’essere”. Il dialetto, per Pasolini, coltissimo scrittore dotato di un italiano nitido e ricco, diventa un paradossale quanto significativo atto di riscoperta ma anche di ribellione, quasi un atto di disobbedienza civile. La realtà che Pasolini decide di rappresentare ha anch’essa un volto poeticamente provocatorio. Un primo gesto di coscienza politica.
In opposizione agli spazi scabri del Friuli, il ricordo di Bologna, gli anni della formazione e della lettura, gli anni in cui assimila bellezza e scrittura, portici magnifici e libri fondamentali: “Il Portico della Morte è il più bel ricordo di Bologna. Mi ricorda l”Idiota’ di Dostoevskij, mi ricorda il ‘Macbeth’ di Shakespeare, i primi libri. A quindici anni ho cominciato a comprare lì i miei primi libri, ed è stato bellissimo, perché non si legge mai più, in tutta la vita, con la gioia con cui si leggeva allora”. E’ ironico, comunque, notare, in questo frammento autobiografico, un’ironia amara nei nomi: perfino negli anni in cui il poeta respira serenità, la Morte, da quel Portico, sembra inviargli un monito, un appuntamento per un futuro prossimo.
Roma, dunque, il terzo grande polo dell’esistenza di Pasolini. Il luogo che gli fece conoscere il cinema di Renoir e Clair, che gli consentì di avvicinarsi all’arte di Giotto e Masaccio e di avviare fondamentali esperienze letterarie come la rivista “Officina”.
Il mondo di Pasolini diventa Roma. Anche qui, il primo approccio è un approccio linguistico. L’ingresso nella lingua è una lettura creativa del reale, un’operazione determinante per inquadrare e “fotografare” un luogo e il suo paesaggio socio-culturale. E il romanesco affonda nella vita delle borgate, esattamente come il friulano saliva dalla vita del mondo contadino. Ma per Pasolini Roma è, in sé, l’icona del linguaggio delle cose. È la vitalità urlata dei ragazzi di vita; è la grandezza del passato che convive con la miseria delle periferie sottoproletarie; è la città del cinema, della cultura, dello squallore; del potere temporale e di un “Gesù corrotto nei salotti vaticani”, una città papalina e atea, insieme nel tempo e fuori del tempo.

Con una tecnica che è già cinematografica, Pasolini realizza lunghe carrellate storico-geografiche sull’Italia, che gli permettono la “continua, attentissima resa di una serie di quadri di paesaggio”. Qui però torna, ineludibile, la domanda da cui siamo partiti: si tratta di quadri realistici o astratti, in qualche modo filosofici? La seconda opzione prevale, alla luce di quanto si è detto e osservato in questa breve escursione sulle tracce di uno dei più complessi e irrequieti artisti italiani del Novecento. Pasolini, nei suoi libri e nei suoi film, ritrae sempre il suo paesaggio interiore, l’idea del mondo che avrebbe voluto, che amava, e che lo inorridiva, ma che sentiva essere la sola fonte di autenticità a cui attingere. A costo di annegare nel pozzo delle verità scomode e taglienti come i coltelli e le urla e le vitalissime pazzie dei ragazzi di strada. Pasolini diventa se stesso nel momento esatto in cui si nega, nega ciò che davvero era. Si accosta al contrario di sé, copula con il lato opposto della sua natura intrinseca, per esprimere ciò che concepiva come la sola arte degna di tale nome: quella scabra, giottesca, lontana da qualsiasi elaborazione inessenziale.
Il paradosso, è che in questa sua ricerca di un’Italia come era, come autenticamente fu in un passato distante e incontaminato, ha finito per parlare con un’accuratezza documentaria di un’Italia attuale, di una parte del paese che si tendeva e in fondo si tende a nascondere, a ignorare, rimuovendola dalla coscienza e dai manifesti pubblicitari.
L’Italia “pasoliniana”, cruda, essenziale, così vicina alla dimensione primigenia, ha fatto intravedere, per contrasto, come in una fotografia sovraesposta, ciò che realmente esiste, al di là dei confini della rispettabile patina accattivante cara ai turisti.
Pasolini ha avuto in sorte il compito di narrare una dimensione tanto pura e ideale, così connotata secondo il suo modo di vedere e di pensare, da poter apparire incorporea, astratta, filosofica. Eppure, alla fine, il suo mondo primigenio, sognato, creato, recuperato, mondato da ogni orpello, ha fatto apparire appena dietro l’orizzonte delle palazzine una realtà più vera del vero, forte e disperata come la sua sete e la sua fame di vita. Quella stessa vita, che, guardata dritta negli occhi, lo ha condotto ad una morte, che è stata ed è, emblematicamente, assolutamente reale e tuttavia già mitica, avvolta in mistero di urla e silenzi, risa e ghigni ottusi e crudeli. Tanto vera da sembra immaginaria. Assolutamente “pasoliniana”.
Ivano Mugnaini

Roma ricorda Giorgio Caproni

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GIORGIO CAPRONI
Roma, la città del disamore

23 maggio – 28 giugno 2012
biblioteca Guglielmo Marconi via G. Cardano, 135

Un omaggio della città di Roma al poeta che l’ha abitata
Il 2012 è il centenario della nascita del poeta Giorgio Caproni (Livorno 1912 – Roma 1990), una delle figure di maggior rilievo del Novecento poetico europeo. In questa occasione la biblioteca, che conserva la preziosa raccolta dei suoi libri, vuole onorarne la memoria con diverse iniziative: una mostra e un incontro per raccontare il profondo legame del poeta con la città di Roma, letture per ascoltare i suoi versi, documentari che ce ne rimandano un’immagine viva e laboratori di poesia per i più piccoli.
Progetto ideato e curato da Elisa Donzelli.

mercoledì 23 maggio ore 17.30 Inaugurazione della mostra, incontro e letture
venerdì 25 maggio ore 17.30 VIDEORICORDO

mercoledì 23 maggio ore 17.30
Inaugurazione della mostra

saluti di Francesco Antonelli – Presidente Biblioteche di Roma
introduce Stefano Gambari – Biblioteche di Roma
presenta il progetto Elisa Donzelli – Università di Roma La Sapienza

con la partecipazione di
Biancamaria Frabotta – Università di Roma La Sapienza
Fulvio Stacchetti – Biblioteca Nazionale di Firenze
Pamela Di Lodovico – Scuola Primaria Giovanni Pascoli
Jacopo Ricciardi – artista e poeta
e la testimonianza di Attilio Mauro e Silvana Caproni

letture di
Annelisa Alleva e del Laboratorio dei Lettori ad Alta Voce
della biblioteca Guglielmo Marconi condotto da Paolo Pasquini

venerdì 25 maggio ore 17.30
VIDEORICORDO

Il congedo del viaggiatore cerimonioso 35 ‘ regia di Giuseppe Bertolucci
Il video è il risultato di un laboratorio sulla rappresentabilità del linguaggio poetico

Giorgio Caproni. Il seme del piangere 42’ di Gabriella Sica, regia di Gianni Barcelloni
produzione Rai Educational; presenta Gabriella Sica – Università di Roma La Sapienza
Il video segue Caproni attraverso i suoi libri che non perdono mai l’incanto della poesia anche quando il poeta pare più disincantato dalle vicende della storia

Per i più piccoli
IN BIBLIOTECA… CHE POESIA
troviamo “parole preziose” fra suoni ritmi e colori
laboratori di poesia e musica per bambini
a cura di Rosella Robertazzi e Luca Tilli
a maggio con le classi della scuola Giovanni Pascoli
a giugno con i giovani lettori della biblioteca
per informazioni e prenotazioni sezione ragazzi tel. 06 45460306

I Quick Response Code inseriti nei pannelli della mostra sono
a cura di Roberto Raieli per il progetto poesia Quick Response dell’associazione Terre Vivaci

Il Fondo Giorgio Caproni nella biblioteca Guglielmo Marconi

Dal 2006 la Biblioteca Guglielmo Marconi ospita il Fondo Giorgio Caproni in un’area riservata dedicata alle raccolte d’autore. I circa 5000 volumi rappresentano la quasi totalità della biblioteca originaria del poeta, sono stati inventariati e catalogati in SBN, quindi accessibili al pubblico a livello nazionale. Il fondo, oltre che visitato da cultori del poeta, viene consultato anche indipendentemente dall’interesse per Caproni per il valore e la rarità delle opere contenute.

La generazione entrante

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Dal blog “UniversoPoesia” riporto qui di seguito la recensione di Elisa Vignali al libro “La generazione entrante” a cura di Matteo Fantuzzi. La recensione, già apparsa sul numero 65 della rivista Atelier, pone in evidenza alcuni aspetti interessanti di questo libro. Non si tratta solo di un’antologia o di una selezione di testi. È anche e forse soprattutto un modo per ragionare sulla nuova poesia italiana, e sulla poesia in generale. Per confermare ai tenaci e agli ottusi detrattori che la poesia non è mero e vano esercizio di stile per cacciatori di farfalle e di vispe terese, ma necessità, urgenza di mutamento, percepibile, genuinamente concreto. Le voci degli autori presenti nel libro dimostrano un impegno reale, non di facciata, non artefatto, non giovanilisticamente impalpabile ed utopico. I loro versi dimostrano a chi ritiene di poter basare il potere su silenzi e parole innocue che non è così, non sarà così, non potranno avere sempre vita facile. La speranza, l’auspicio è che, assieme alle nuove generazioni, entrino anche, senza bussare, tempi nuovi. I.M.
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Recensione a La generazione entrante di Elisa Vignali da Atelier n. 65, Marzo 2012.

Ponendosi in sostanziale linea di continuità con l’iniziativa promossa da Giuliano Ladolfi nel 1999 con l’Opera comune. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta, sempre per «Atelier», il volume La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta, a cura di Matteo Fantuzzi, a sua volta poeta ed editor, si propone di “mappare” le esperienze poetiche più sicure e riconoscibili tra gli autori che oggi abbiano vent’anni. Qualche dubbio è lecito muovere proprio sul ricorso al criterio anagrafico, osservato un po’ rigidamente, per la selezione degli autori, quando un allargamento del campo avrebbe magari attivato connessioni più proficue, consentendo di verificare l’effettiva presenza di certe linee vitali (per esempio, la vivacità della poesia neodialettale o la ricezione di determinate tradizioni, anche straniere). Senza contare che proprio in virtù di un simile approccio rimangono esclusi autori nati a cavallo tra i due decenni, ma afferenti per indole e temperamento forse più agli anni Ottanta che al decennio precedente.

Anche se motivato da criteri di gusto individuale e da ragioni editoriali, appare tuttavia un poco limitato anche il numero delle voci campionate, che registra qualche assenza o che nel complesso appare ristretto rispetto all’orizzonte di possibili altre inclusioni. Nondimeno il volume mantiene una sua validità di fondo nel documentare una realtà per molti versi sommersa, una produzione in versi sovente più affidata alla circolazione in rete che alla carta stampata, consentendo così di misurarsi con un pubblico di lettori che, se nel caso della poesia non può mai dirsi davvero largo e attento, tanto più necessità di un diretto confronto con la parola del testo, fosse anche precaria e in via di necessaria definizione come nel caso di questi giovani autori. Ma non è tanto ora sul criterio generazionale o anagrafico che si vuole qui soffermare la propria attenzione, oscurando la qualità, il quid specifico degli autori selezionati. Su almeno uno degli elementi rilevati da Fantuzzi nella sua introduzione si può, infatti, quasi generalmente concordare: «E proprio dalle opere dobbiamo ripartire se vogliamo risuscitare lo stato della poesia italiana contemporanea, l’unico antidoto […] sono i testi». E sono poi anche altri gli elementi evidenziati dal curatore tali da configurare quest’antologia, al di là di certi limiti in parte inevitabili, come uno strumento di qualche utilità per il lettore che volesse accostarsi ad alcuni dei poeti d’oggi più interessanti: un ritrovato «senso dell’urgenza» del dire, l’intenzione di una «poesia sociale (piuttosto che civile)» che appunto rinsaldi il rapporto un po’ sfilacciato tra letteratura e società (un’esigenza tra l’altro viva anche in altri campi, dalle riviste letterarie a certe piccole e medie case editrici), una differenziazione anzitutto geografica, specchio di una «frammentazione di percorsi che non indebolisce, piuttosto rende possibile una lettura condivisa delle pulsioni che rendono vivo il fare poetico», e infine la ricerca, tutt’altro che pacificata, di una propria identità, come a dire di un proprio stile, non ancora del tutto affinato ma dai tratti già riconoscibili e, nei casi migliori, persino maturi. E ancora, tra gli elementi non rilevati nell’introduzione: la configurazione del rapporto maschile/femminile in termini rinnovati e meno stereotipati, per la disponibilità della voce maschile ad assumere entro di sé quella femminile e viceversa, in accordo con un’identità fluida; e ancora l’allargamento di orizzonti geografici e interculturali, con significative aperture a tradizioni letterarie e lingue sovranazionali, tali da produrre interessanti stratificazioni anche a livello linguistico.

Circa la «necessità sempre più pressante di farsi comprendere, di utilizzare figure, immagini, espressioni, dialoghi vicini al linguaggio comune», procederei invece con maggiore cautela, perché se è vero che la qualità di una scrittura poetica consiste anzitutto, per usare una metafora del grande poeta irlandese Seamus Heaney, in un’operazione di scavo che tramite il pensiero consente di tradurre una percezione interiore in una trama di parole, un eccessivo scadimento del linguaggio a livello della comunicazione quotidiana rischia di abbassarne notevolmente il potenziale espressivo. Anche se poi, in verità, non sono pochi gli autori inseriti nell’antologia, ancorché all’inizio del loro percorso, a mostrare di avere recepito la lezione anche formale dei nostri maggiori poeti, maestri di stile prima ancora che abili costruttori di immagini, non limitandosi a riprodurne stancamente i modi, ma riassorbendone gli echi entro la propria officina verbale. Allo stesso modo, non sempre l’oltrepassamento di un novecento “sperimentale”, di cui si vorrebbe trovare conferma nel volume, si è prodotto o è bene si produca, almeno se s’intende il termine “sperimentale” in accezione più produttiva di quella che vorrebbe confinarlo negli angusti confini dello sperimentalismo, e non lo s’intenda invece, come forse si dovrebbe, come inesausta capacità di sprigionare sempre nuove risorse vitali dalla lingua poetica. Si pensi a un poeta come Porta, peraltro assunto a punto di riferimento da più d’uno di questi poeti nati negli anni Ottanta, capace di superare le secche del neoavanguardismo per riconquistarsi uno spazio di autenticità, verbale, oltre che esperienziale. Certo l’aggancio al reale, (con il suo portato anche traumatico) nelle sue varie declinazioni, il «rifiuto di una lirica concepita come intuizione e libera effusione della soggettività o come espressione poetica di un’individualità assoluta», sottolineati da Giuliano Ladolfi nella lucida e a un tempo appassionata postfazione che chiude il volume, sono il dato che più accomuna gli autori antologizzati, rendendo in fondo ragione di una loro appartenenza a una medesima sensibilità, se non comunità. Se è vero, poi, che a fronte di un futuro fattosi sempre più incerto, non più veicolo di speranza, ma «fonte di apprensione», la generazione dei anni Ottanta ha maturato un senso di smarrimento profondo, di cui è emblematica, in molti testi selezionati, la costante della figura paterna, spesso assente o problematica, è pur vero però che si assiste a un tentativo ininterrotto di dialogare con i padri della tradizione, entro un rapporto più mobile e dunque in parte più libero, senza pretese di autoinvestiture o l’assunzione posticcia di pose compiaciute.

Proviamo allora a predisporci all’ascolto di queste “nuove” voci del panorama poetico italiano, liberi per una volta da pregiudizi e dall’ingombro di categorie interpretative precostituite, lasciandoci guidare nel percorso dalle note di critici e studiosi che nel firmare l’introduzione a ogni singolo autore antologizzato contribuiscono in qualche misura a riannodare i fili con una storia più consapevole e matura. Si avrà allora anzitutto la sensazione, magari un po’ ingenua ma pur sempre stimolante, di trovarsi di fronte a una sorta di cantiere aperto, di laboratorio in atto, secondo un principio del fare poesia che segue non astratte regole esterne, ma una ritmica e una metrica anche interiori. Per ognuna di queste voci non sarebbe improprio ricorrere all’immagine sereniana assai efficace della poesia come «stella variabile»: la raccolta di Vittorio Sereni (una delle presenze sicuramente più certificabili nelle pagine di quest’antologia, insieme ad altri poeti della quarta generazione) usciva proprio nel 1981 e fin dal titolo intendeva riferirsi alla poesia e al suo rapporto col mondo, alla sua condizione, appunto, di stella non fissa, non più in grado di fornire certezze o dispensare verità assolute, e invocata senza che possa promettere nessuna salvezza, nessun risarcimento del vuoto personale e storico. Essere nell’oggi significa appartenere al male: «Oggi si è – e si è comunque male/ parte del male tu stesso tornino o no sole e prato coperti». Nei versi di Sereni, animati da un senso tragico dell’esistenza, eppure ancora resistente di fronte alla forze regressive operate dalla Storia, la violenza e i segni del massacro si nascondono in ogni gesto; la vita quotidiana e ripetitiva del lavoro non fa trasparire alcuna ipotesi di comunicazione umana, ma solo un logoramento che penetra nelle persone e nei luoghi, privandoli di forza vitale. Tra insicurezze e senso lacerante della precarietà, si sperimentano così limiti e insufficienze della condizione umana, mentre il passaggio del tempo rivela il suo fondo amaro nell’immagine di un «gran catino vuoto» che chiede ora di essere riempito con nuove figure di speranza.

Si parte con il compatto manipolo di testi di Dina Basso, che ha esordito appena ventenne con la promettente raccolta Uccalamma (Le Voci della Luna, 2010), in cui l’impasto neodialettale dell’idioma naturale, quello catanese, si piega alla narrazione, spesso in chiave autoironica e già dal piglio sicuro, di accadimenti quotidiani, di esperienze concrete, filtrate da una memoria capace di rimandare tanto a un preciso senso del luogo quanto a un ricco repertorio culturale. Ed è proprio questa naturalità del dire, legata a una concreta «lingua del fare» – come nota nella sua persuasiva introduzione Manuel Cohen –, a una trama di gesti e di parole, il tratto forse più preciso in cui si può far consistere il verso tutto materico di quest’autrice, fisico e mentale insieme.

A seguire, la voce di Marco Bini, nella cui raccolta d’esordio Conoscenza del vento (Ladolfi Editore, 2010), la costante tematica dello smarrimento generazionale è resa mediante un’equilibrata oscillazione di linguaggio colto e linguaggio quotidiano, tra intonazione lirica e cadenze del parlato, nel quadro di una dialettica io/ noi che finisce per intrecciare i fili della storia individuale con quelli della storia collettiva. Ed ecco tornare di nuovo, in uno dei versi selezionati, l’immagine astrologica di Sereni, anche se declinata in altra forma: «Solo che non si ferma là davanti/ come una supernova ciò che accade/ ma più simile a una cometa ostenta/ alle spalle una storia”, perché “il futuro certo non è lì che aspetta». Il senso della scrittura, per questo giovane autore, andrà dunque rintracciato nella ricerca inesausta di un orizzonte in cui consistere, di una misura capace di garantire una giusta prossemica, nel tentativo di mappare il reale, ridisegnandone i confini: «Averla questa forza di accorciare/ le distanze, indicare gli orizzonti/, nuovamente raccogliere le facce/ disparate in un’unica medaglia». E ciò varrà sia nella vita che negli spazi della poesia, dove stile e ritmo spesso sono tutto. Anche il percorso compiuto da Carlo Carabba nei suoi Canti dell’abbandono (Mondadori, 2011) è mosso da un’analoga volontà di ricerca, non necessariamente finalizzata al raggiungimento di una meta, se è vero, come si legge nell’introduzione firmata da Roberto Carnero, che «il miraggio della felicità non consiste nell’arrivare al traguardo ma nel non arrivare, “consumando” esperienze sempre nuove in luoghi, sensazioni, incontri, illuminazioni interiori», secondo una dinamica incessante di fughe e ritorni, partenze e abbandoni. Solo così forse è possibile ritrovare il rapporto perduto con la memoria dei nostri padri, metaforici o reali, rinnovandone lo sguardo nel presente: «Da qui sono partito/ qui dove non arrivo», recita un verso in tal senso emblematico tratto dalla raccolta Gli anni della pioggia (PeQuod, 2008).

E ancora troviamo la dimensione itinerante di un homo viator, il cui peregrinare assume la forma di un cercare senza sosta, nei versi di Giuseppe Carracchia il quale, nei passi estratti dalla silloge La virtù del chiodo (L’arca felice, 2011) esplora il reale con intento anzitutto conoscitivo, per misurarne distanze e traiettorie: «Il piede che calza la terra è centro/ profondo, e ovunque si sposta dentro/ universo tracciato a ogni passo/ baricentro del mondo e compasso».

La poesia di Tommaso Di Dio, autore della plaquette Favole (Transeuropa, 2009), propone seppure con accenti del tutto personali alcuni motivi comuni a molti di questi poeti: la dimensione del poeta viandante, da cui deriva un senso profondo di precarietà e di incertezza del futuro, tra paura e attesa per un avvenire dai contorni oscuri, la dialettica tra mente e materia, fra tradizione e apertura al nuovo, secondo una dinamica in questo caso mediata dall’esempio fondativo di Antonio Porta, rappresentante di una lirica «della memoria» e della «carne», come annota efficacemente Stefano Raimondi nella sua introduzione. Il progetto poetico di Tommaso Di Dio appare già delineato nei suoi tratti fondamentali ed è capace in molti casi si produrre buoni esiti, come nella sequenza poematica seguente, tra le più sicure dell’intera raccolta: «Ti voglio credere vera e impossibile/fuga sotto il ventre dell’ariete. La pietra che chiude./ La forza del gigante. Chiudi la fatica degli occhi e abbassa/ l’arma dello sguardo; lascia tu aperto il passaggio». Di Francesco Iannone, autore della plaquettePoesie della fame e della sete (Ladolfi, 2011)andrà rilevata, come annota intelligentemente Massimo Morasso, la «ricerca di uno spazio condiviso», che convive con la percezione di una «coscienza ferita». La poesia è capace di produrre senso anche tra i tagli e le slabbrature del reale, nel segno di un realismo riportato a ragioni quasi “elementari”, laddove tra i primari impulsi della fame e della sete si misura anche il potere di sopravvivenza della parola: «La resistenza al nulla è una lotta/ che lascia ferite e tagli/ è un labbro squarciato da un pugno/ è un figlio espulso da un utero contuso».

Nella sua partecipe introduzione Antonella Anedda coglie bene i tratti distintivi della poesia di Domenico Ingenito, poesia dalle tante e diverse “grammatiche” possibili: quella del corpo, anzitutto, per l’oscillazione costante di polo maschile e polo femminile, non rigidamente separati ma dialetticamente cooperanti nel processo conoscitivo; il dialogo con la tradizione, qui più che mai intesa anche come traduzione in atto di «linguaggi distanti», tra italiano, persiano e portoghese. E infine la grammatica, per così dire, dell’immaginazione, capace, come accade nell’ultima poesia riportata, di far parlare due autrici separate da due secoli e da quattromila kilometri. Come nel caso di altri poeti qui antologizzati, la poesia vale come strumento per accorciare le distanze, mantenendo aperto il dialogo tra entità lontane nello spazio e nel tempo. La poesia di Franca Mancinelli, che ha già al suo attivo una raccolta, Mala Kruna, uscita da Manni nel 2007, si connota per la capacità di tradurre il senso di precarietà comune, del resto, a un’intera generazione, in interrogazione universale sul senso dello stare al mondo, con ciò rinsaldando le ragioni dell’io con quelle del noi, mediante un linguaggio poetico che dietro la scorza lirica dei versi nasconde le ferite del reale, «in un codice di nervi e sangue, di corpo e mente interiore», per usare le parole del sottile prefatore Gualtiero De Santi. Come avviene in questi versi: «Ora l’infante potrà camminare/ con l’equilibrio che porta le braccia/ a sollevarsi inermi dalla terra./ È un giorno strabico, e le persone/ s’affacciano sul proprio sangue fermo/ chiedendo dove sbuca la corrente/ che spinge rossa e perfora gli occhi».

La poesia di Lorenzo Mari, presente con un campione da Minuta di silenzio (L’arcolaio, 2009), è pronta a cogliere scarti e zone liminari del reale, con affinata sensibilità percettiva e una sottesa intenzione ironica, offrendo altre emblematiche immagini del senso di sospensione e incertezza esistenziali. Ne è significativo esempio la figura «dell’uomo che cadeva» al centro di una delle sequenze più riuscite dell’intera raccolta: «Di tanti posti, in riva al mare/ è dove conta meno il minuto/ di silenzio, stretto tra onda/ e risacca, accanto alla figura/ fetale, a ossa rotte, dell’uomo/ che cadeva. Scrivere sulla sabbia/ è gesto romantico, meglio le glosse:/ tatuate dal sole con certezza,/ e più direttamente, sulla minuta/ di silenzio». Ed è tutta da condividere la nota iniziale di Andrea Gibellini che di questi versi coglie «lo stigma irrevocabile della parola poetica detta in sincerità prima della tecnica e di un sentimento stilistico». I versi di Davide Nota, tratti dalle tre raccolte finora pubblicate e preceduti da un’accurata postilla critica a firma di Giuliano Ladolfi, descrivono una condizione di orfanezza assunta a metafora quasi ossessiva di una condizione esistenziale comune, tra percezione lacerante della colpa e desiderio di rimozione. E anche il dettato poetico, “sporcato” da espressioni gergali e tic verbali, si fa specchio dell’onesta rinuncia a dire verità risolutive: «Così come orfani del mondo/ incatenati nella febbre a vita/ del giorno: è così, sì, va bene…», cui fanno eco i versi «Anch’io sono colpevole del male/ che regna vomitevole e banale».

Nell’introdurre i testi di Anna Ruotolo, Maria Grazia Calandrone ne sottolinea con efficacia la vocazione a innestare un produttivo dialogo tra dimensione celeste e dimensione umana, seguendo la rotta indicata dalle «stelle comuni, evidenze della bontà di ognuno» che «proprio a causa di questa loro presenza ubiqua» fanno segno al «rapporto tra uomo e uomo – e tra uomo e natura». Cifra specifica della scrittura di questa giovane autrice è la tendenza a iscriversi entro costellazioni dialettiche – tra interni ed esterni, solitudine e «tuttitudine», singolare e plurale –, secondo uno sguardo capace di farsi davvero plurale: «I singolari sono plurali/ dico casa e ne dico mille/ perché se guardo fuori da qui/ tante ce ne sono,/ pulsano da non finire […] ma chiama, chiama tutti/ con centomila nomi esatti/ si esce, così, infine, dalle dimore/ e camminiamo in stormi/ si prova a fare bene/ tutto e forte, tutto al plurale/ per una volta tra le altre volte».

Ancora una volta è l’emblema della figura paterna, in senso tanto metaforico quanto reale, a fare la sua comparsa nei versi di Giulia Rusconi, una delle voci sicuramente più originali del panorama poetico attuale per la capacità di combinare psicologia del profondo, «con punte di orrore quasi onirico», per usare le esatte parole di Anna Maria Carpi, con un ordito prosodico semplice, deprivato di orpelli stilistici. Ecco un passo estratto dalla serie L’altro padre: «Mio padre numero quindici/ corregge la mia postura./ Precaria mi aggrappo al suo braccio/ lo conosco a memoria./ Mio padre — l’altro — non lo tocco/ mai neanche per sbaglio./ «È questo che cerchi, il contatto?»/ Il contatto sì il pezzo mancante/ della “casa”, delle cose».

Elementi di originalità presenta anche il percorso poetico di Sarah Tardino, di cui vengono proposti alcuni testi dall’ultima raccolta I giorni della merla (Lietocolle, 2011), preceduti da una nota esegetica di Rosita Copioli che ne rileva i tratti distintivi: la «fascinazione arabizzante», una «passione per il racconto instancabile» e la «pronuncia androgina». Nel segno di un fiabesco quasi stregonesco e del meraviglioso si collocano, per esempio, i versi seguenti: «Sono la merla e i suoi giorni,/ la maga e l’ombra della rosa,/ l’aprile della vendetta sotto mentite spoglie,/ la vita che assalta con un segno,/ il baro salvato dall’ironica sorte,/ la ruota da cui nessuno ha scampo:/ sono la fedele assassina!».

Si può senz’altro concordare con Gian Ruggero Manzoni, secondo il quale la poesia di Francesco Terzago si connota per la dinamica ossimorica di una «presenza-assenza» volta alla messa in scena di figure recuperate a una memoria insieme individuale e storica, secondo una modalità anche teatrale: «Mia nonna mi chiamava tesoro, lipscén/ diceva e mi appoggiava una mano sulla testa/ e mi diceva che era stanca. Vedi lipscén le stelle/ che sono sopra di noi, il cielo, – l’universo che/ non ha confini pensa – a tutte le cose che ci sono/ dentro pensa agli anni che ci separano e pensa/ a quante persone, in questo preciso momento,/ ed è possibile che sia così».

Chiudono l’antologia alcuni testi selezionati da L’estraneo bilanciato (Stampa, 2009), l’ultima raccolta pubblicata di Matteo Zattoni (1980), tra gli autori senza dubbio più maturi della sua generazione, in virtù di uno stile ben calibrato e di una materia poetica mossa da intenti conoscitivi. Attraverso una ricezione attenta della lezione dei grandi poeti del secondo Novecento, la scrittura poetica è investita di una valenza etica, oltre che estetica, riconquistando così la sua originaria funzione sociale. Quella di Zattoni è poesia «in uno stato di attesa» – come scrive nella sua densa introduzione Alberto Casadei – , sospesa in precario equilibrio sul filo dell’esistente. Una situazione ben riflessa da alcuni versi di Trapezisti: «c’è sempre qualcuno che rinuncia a qualcosa/ di certo, alla tranquillità di una casa/ per inventarsi un equilibrio nuovo/ io guardo e non guardo, poi l’applauso/ sorrido; loro non cadono».

A chiusura di questa panoramica, ecco un invito finale: lasciamole sedimentare, allora, queste voci, concediamo loro il tempo – e gli spazi – per tornare a parlarci, prima di sottoporle a nuova e più onesta verifica.

Mille modi di cucinare la signorina Richmond

Postato il

Comune di Milano Expo Days
Museo del Novecento – sala Fontana
venerdì 4 maggio ore 18 – 18.30 – 19

Mille modi di cucinare la signorina Richmond
performance di Valeria Magli
testo di Nanni Balestrini
Cucina, danza e poesia gli ingredienti di questa storica
performance (1984) di Valeria Magli, tra nonna Papera e un film
horror.
Il testo di Nanni Balestrini, composto con diversi manuali di arte
culinaria ricombinati e mescolati, si snoda come una lunga ricetta
per un elaborato e raffinato menù di alta cucina.
Metafora del lavoro artistico. Stesse sono le azioni per arrivare
all’opera d’arte compiuta: manipolare, usare, sminuzzare,
ricomporre e dunque trasformare.
Valeria Magli con la voce e con il corpo crea un un’altro gioco
sopra quello linguistico di Balestrini: partire dagli scarti, disfarsi dei
materiali della tecnica e lasciare danzare la fantasia.