La sarta, o meglio la sua ideatrice ed autrice, Marilena La Rosa, cuce con i fili della letteratura la vita. O forse la ricama e rammenda con la fantasia, nella terra di nessuno tra verità e immaginazione.
Ho letto con piacere questo libro e altrettanto volentieri ne ho scritto.
Ci conduce lungo un sentiero poco battuto, una favola per adulti disillusi ma non abbastanza da non sapere sorridere quando si ci immagina “con una M gigante sulla maglia” o con la voglia di ascoltare ancora, nei recessi della mente, “versi che si baciano”.
Buona lettura, IM
5 domande
a
Marilena La Rosa
1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
Questa è senz’altro la domanda più difficile. Provo a rispondere.
Sono nata e vissuta ad Acireale, che non è un fatto da poco, perché la mia è una città colta, elegante, di una bellezza struggente ma è anche la patria del cavolo trunzo la cui caratteristica principale pare sia legata indissolubilmente al dna degli abitanti (e quindi anche al mio): è duro come è dura la loro e la mia testa. Quindi, sono testarda e ho modo frequentemente di mostrare questa “dote” – che misteriosamente non tutti sembrano apprezzare – , nelle scelte, nelle relazioni familiari e sociali, nel raggiungere gli obiettivi. Nel bene e nel male, insomma. Mi sono poi trasferita a Palermo e qui ho incontrato un altro tipo di bellezza, quella sfrontata, maestosa, abbagliante del barocco o cupa, possente e austera del gotico-normanno. E nelle contraddizioni di Palermo mi sono persa e poi ritrovata e Palermo è riuscita così a diventare metafora piena della mia vita. Posso giurare, quindi, che l’ambiente condiziona l’esistenza. Anche quello familiare, ovviamente. Sono cresciuta con una mamma che mi raccontava i miti e le tragedie greche, ho conosciuto Dafne, Polifemo e Medea prima di Cappuccetto Rosso o Cenerentola. E quindi ho sempre letto e sono cresciuta fra i libri e le conversazioni a tavola avevano il sentore di un’interrogazione agli Esami di Stato: “Chi ha scritto le poesie a Casarsa?”, chiedeva mia madre mentre faceva scivolare una cucchiaiata di purè nel piatto.
“vademecum” della rubrica Letti sulla luna: L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”. Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera. Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.
Potrebbe apparire fuori tempo, e perfino fuori luogo, oggi, nelle tragedie e nelle farse di quest’epoca aspra e disarmonica, una canto così classico, elaborato, fatto di vocaboli e suoni che aspirano ad una forma e ad una grazia drammatiche, pronte per essere recitate sul palcoscenico di un teatro greco. Potrebbe, se, per fortuna nostra e per merito dell’autrice, tale ricercatezza non apparisse come una scelta deliberata, un gesto, una presa di posizione. “E s’avvera l’azzurro teso, /la sua pagina infinita”, recita un distico, e, poco oltre, “dimentica la specie che sono/ la cucitura eccellente/ sulla veste di festa -/ vivere ti è consentito/ senza il mio nome”. La pagina è il cielo, lo spazio teso che ci sovrasta e al contempo è dentro di noi; la parola è specie, modo di essere e di esistere. Ed è opzione estrema, quasi alternativa posta a discrimine dell’essere o del morire, quella di vivere con o senza il nome di qualcuno, senza di ciò che ne costituisce l’essenza, la natura più intima e preziosa.
Il titolo scelto da Geo Vasile per la prefazione che ha scritto per questo libro è “Trattato sulla beltà scandalosa della parola”. Di per sé contiene già un trattato, o, almeno, una fonte di spunti di riflessione e di ispirazione. Soprattutto per chi vorrà leggere il libro, che poi, l’ho già detto ma lo ripeto volentieri, alla fine è ciò che conta. La beltà, la bellezza, in primis. Così scandalosa, certo, in quanto rara, controcorrente, opposta alla marea lenta e non di rado stagnante dell’ordinario, dello scontato, del banale.
Vengono in mente vari riferimenti, prosa, poesia, aforismi. Si pensa al titolo di un racconto di Maupassant del 1890,La bellezza inutile(L’Inutile Beauté). Oppure riemerge alla mente la prosa poetica di Oscar Wilde: “Parole! Semplici parole! Quant’erano terribili! Quant’erano chiare, vivide, crudeli! Ad esse non si poteva sfuggire. E tuttavia quale sottile magia contenevano. Sembravano capaci di dare forma plastica a cose informi, sembravano possedere una musica loro propria, dolce come quella della viola o del flauto. Semplici parole! C’era qualcosa di altrettanto reale quanto le parole?”. Oppure, davvero non ultimo, Fernando Pessoa, “Perché è bella l’arte? Perché è inutile. Perché è brutta la vita? Perché è tutta fini e propositi e intenzioni”.
Le citazioni potrebbero essere decine, l’argomento, il tema, la ricerca e la meta della bellezza sono costanti, nell’arte e nella vita. Lo sono anche in questo libro. Ne sono prova le note scritte dall’autrice stessa, la recensione di Antonio Devicienti e le note critiche di Geo Vasile e di Flaminia Cruciani.
Soprattutto però ne sono prova le poesie tratte dal libro e qui riportate. Non di agevole assimilazione. Richiedono di entrare gradualmente nel loro tono, nell’atmosfera, ma soprattutto nell’approccio che evocano. L’immersione nel passato tuttavia non prescinde dal presente, dal reale, dalla ferita e dalla cura del vero. La compenetrazione è lenta, progressiva. È il tempo, ancora una volta, più che mai, il nodo, il cardine, il mostro, l’avversario. Il tentativo di arrivare a farlo distendere, anche in senso fisico, nei territori, negli spazi vissuti e pensati, vivibili e sognabili, tra realtà, memoria e sogno, equivale alla volontà-necessità di cantarlo, sempre con gli strumenti utili, consoni: simboli, metafore, leggende, storie, racconti e danze di parole al suono di una musica.
Cantare il tempo con strumenti che lui stesso ha creato. Questo appare il tentativo di Adriana Gloria Marigo. Cantare il tempo, sperando, magari, che ad un certo momento, sulla nota giusta, si metta a cantare anche lui, o interrompa per qualche istante il suo grido muto e insondabile. IM
La poesia contenuta in Senza il mio NOME si connota con un forte substrato di pensiero, poiché il problema ontologico è una costante fin dalla prima pubblicazione. Il tema della parola come tramite tra il pensiero e l’azione si perfeziona in questa silloge in quanto si accoglie che il fine della poesia sia di condurre alla conoscenza attraverso il manifestarsi della Bellezza. Se le movenze del verso nascono dal vissuto personale, dalla finezza del sentire e dell’ascoltare, dal turbamento che il reale suscita e dunque implicando il sentimento, la scrittura di una poesia riguarda anche la ragione, o meglio, il “pensiero poetante” di cui parla Antonio Prete.
La raccolta presenta anche le inferenze della psicologia del profondo e il linguaggio diventa simbolico e rimanda agli archetipi da cui non possiamo prescindere in quanto l’uomo è esso stesso simbolo. Il paesaggio, ad esempio, è un elemento che vive in quanto paesaggio, con i connotati delle stagioni, ma al tempo stesso è il corrispettivo del paesaggio archetipico in cui avvengono le trasformazioni alchemiche e il riconoscimento dell’Essere. Senza il mio NOME dovrebbe rappresentare la conferma di questo canone in cui il tema dell’Essere incontra il Tempo come dimensione in cui è possibile declinare l’identità senza l’imposizione di essa su nessun altro vivente.
[…] Ho l’impressione che la scrittura di Adriana Gloria Marigo, che già moveva da un’aspirazione alla luce e alla chiarezza, all’armonia e all’equilibrio sia d’arte che d’intelletto, approdi qui e in questo libro alla formulazione ancor più esplicita di un tale processo.
[…] per forza di stile s’impone un equilibrio espressivo poco comune, ma l’incandescenza che è ogni esistere umano non viene dimenticata, né rimossa – la poesia è, per l’Autrice, anche un modo per prendere la necessaria distanza dal magma psichico e dagli accadimenti, per dominarli, comprenderli e dar loro forma d’arte.
Per ritornare poi sul tema del mito, la composizione che fa esplicito riferimento alla Morte della Pizia di Friedrich Dürrenmatt conferma, a mio parere, come l’accenno frequente al mito da parte di Gloria nulla abbia a che vedere con un passatista e inutile neoclassicismo, ma, invece, sia consapevole scelta e prospettiva sia culturale che storico-antropologica (consideriamo il fatto che l’opera dürrenmattiana non sia tanto un ironizzare sul e uno “s-mitizzare” il mito, ma, invece, un riproporre e riaffermare l’enigma come centrale nella cultura greca antica e delfica in particolare) – per Marigo la morte della Pizia è anche un venir meno al senso più autentico della sapienzialità, cioè della capacità (tenendo conto della porzione di buio e d’enigma) di guardare nell’abisso dell’animo umano […]
Un dialogo: un ininterrotto dialogo è la terza sezione del libro che si conclude con un atto di radicale privazione, ponendo la poesia sulla faglia (per richiamare un termine importante per l’Autrice) tra il nominare e l’allontanarsi del nome (detto altrimenti: tra l’andare verso l’origine e il perdere l’origine, tra il cercare la fonte e lo smarrirla – leggasi, per esempio, Hölderlin), tra il dire e il silenzio totalizzante. Si ribadisce in via definitiva, così, proprio la tensione (si pensi alla tensione elettrica o a quella che si genera tra due forze che agiscono in direzioni opposte) tra forma espressiva elegante e sorvegliatissima e condizione esistenziale, per cui sotto la forma perfetta guizza l’inquietudine (viene in mente la pantera di Rilke), i nomi del mito famoso rivelano spalancandolo l’abisso della psiche umana.
dalla Prefazione di Geo Vasile
Senza il tuo nome attesta un rigoroso costruttore di improbabilità, che sa procedere per paragoni e analogie, e la cui intelligenza si rivela dans un ordre insensé, che sa improvvisare da trovatore senza smettere di pianificare o di pensare. Improbalità implicite od eventualità fornite da una memoria potenziale o funzionale proprio in opposizione alla memoria storica, legata cioè ai ricordi personali. Quel luziano «conoscere per ardore» è una scelta dei versi della Marigo tra la presenza estrema dell’istante e la presenza estrema del possibile, favorendo quest’ultimo affinché dia la sensazione di vivere di più.
Volendo far emergere il clima generale del libro, ma anche i dettagli delle interferenze gravitazionali dei versi, c’è da notare sin dai primi testi un’aria quasi sovrumana, irrespirabile per il comune lettore, che mette a fuoco l’uomo e la sua attesa nel tempo, «innumeri enti dell’attesa» e soprattutto la “parola” che non appena «sciogliamo le ombre» dobbiamo farla sorgere «per numinoso nominare». Dell’eccelsa icastica fanno parte espressioni rarissime tipo D’Annunzio, Montale, Sanguineti Zanzotto: «sfrigolio sabbiale della clessidra, la pugna di Saturno, incline a smorirsi, abissi oceanidi, intuizione aligera, erba frugifera, corsa vessillifera, infeudarsi, materia trina ecc., antinomie: chiarore – cupezza erbosa, ecc.», sinestesie: «il suono o il grido della luce, il gioco costellato dell’ombra, magnete ultimo d’intima fibra, sfolgorii correnti di fiume, ecc. ».
Da sottolineare nella poesia della Marigo c’è anche la non comune potenza intuitiva che sappia vedere immagini sensibili come simboli. La sua ricerca poetica sembra sia destinata alla purificazione per mezzo dei misteri della bellezza pura della parola, dell’esistenza degli umani che affrontano il paradigma postmoderno della loro sorte: la fine.
Estratto dalla nota di Flaminia Cruciani
La natura, di sacralità pagana, è uno dei cardini di questa poetica, ma appare incorporea, trasfigurata, che non lascia incantata l’autrice ma rappresenta il porto da cui salpare per giungere al suo segreto, per mettere in evidenza il chiasma, l’intreccio fra orizzonte esterno e interno, il rapporto fra visibilità e invisibilità, verso cui la poetessa ha un atteggiamento da fenomenologo, come conferma la dedica: All’invisibile che schiude la parola. È così che si attua l’esperienza trascendente della natura e dei suoi fondamenti, in cui la tensione è superare la phýsis e saldarsi al suo mistero, alla sua meta-phýsis, al suo significato preesistente e originario.
E come procede l’autrice in questa rappresentazione? Attraverso il dire sibillino, la parola profetica e una poesia colta con un verso alto e luminoso di una trasparenza transitiva, che unge l’esperienza dall’alto come una benedizione implacabile, e con una visionarietà che la avvicina al giovane William Blake. Agisce “mettendo la forza in riserva nei segni” nella capacità evocativa d’immagini dell’abisso simbolico. Il verso di Gloria giunge come folgore a spalancare l’universo del pensiero mitico, di una logica non determinata, in cui si attuano uno sfondamento della natura e la sua lucida compenetrazione. Qui le aporie sono celebrate da una voce nitida che autorizza la coesistenza e l’affidabilità di soluzioni antitetiche e svela antinomie che non attendono di essere risolte, secondo un procedimento letterario che trova un parallelo musicale nella melodia infinita wagneriana. In questa logica di non contraddizione la poetessa ci orienta e ci disorienta in un tempo/spazio sincronico, in un’ontologia essenziale in eccesso di significato, che trova in se stessa l’abbattimento del limite e della distinzione fra l’altro e l’infinitamente altro.
Come in un prontuario oracolare, questa poesia ha la forza delle antiche sentenze sibilline, dei pronunciamenti profetici che vogliono risvegliare il lettore dal sonno del Logos e ridestarlo al Mythos. La consacrazione della sfera naturale, che viene sciolta dalla sua destinazione umana, avviene attraverso l’uso sapiente della parola che, come nelle antiche cosmogonie, qui ha potere creatore. Il nome è concepito come suono creatore, che dà origine alla vita, il suono primordiale, chiamato dagli egizi “risata” o “grido” del dio Toth, o come le sillabe mistiche, presenti nel Libro della Genesi che inizia con le parole «In principio era il verbo» o nell’Enuma Elish, la più antica cosmogonia conosciuta della Mesopotamia antica. Anche la tradizione vedica ci informa su un mondo creato che origina da un essere ancora immateriale che dalla quiete del non essere risuona.
Nota biografica
Adriana Gloria Marigo
Poetessa, critica, curatrice della collana di poesia Alabaster per Caosfera Edizioni, vive a Luino. Dopo gli studi universitari in pedagogia a indirizzo filosofico, ha insegnato nella scuola primaria. Nel 2015 ha curato insieme con il poeta filologo italianista romeno Geo Vasile l’antologia Elegie del poeta romeno Valeriu Andreanu e la prefazione della raccolta di poesie Profusioni – Fusibilia Editore – della poetessa Anna Bertini.
Ha pubblicato le sillogi Un biancore lontano – LietoColle, 2009; L’essenziale curvatura del cielo – La Vita Felice, 2012; Senza il mio NOME, Campanotto Editore, 2015; Impermanenza, plaquette per le edizioni Pulcino Elefante, 2015.
Dal 2012 è tra i poeti invitati all’annuale rassegna FlussidiVersi sulla poesia mitteleuropea che la Regione Veneto promuove nella città di Caorle. Su invito dell’Associazione Scrittori Sloveni nell’aprile 2014 ha presentato a Lubiana L’essenziale curvatura del cielo e a Capodistria incontrato gli studenti della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università del Litorale per un dialogo sulla poesia e sul significato di essere poeti.
Predilige la diffusione della poesia in una dimensione multidisciplinare e all’interno di altre espressioni artistiche, quali pittura e fotografia: a giugno 2014 ha presentato a Castelfranco Veneto il lavoro poetico Della natura nostra sulle fotografie di viaggio di Imaire De Poli nell’evento “Di Terra e Arte” del Centro di Ricerca Artistica Immaginario Sonoro.
Cura per Samgha la rubrica “Porto sepolto”. [a.g.m]
Nella visione del professor Andrea Salvini, Leonardo, dal “vertice assoluto della società ove si trova collocato, lucido e implacabile scrutatore di uomini e cose, senza nascondere le proprie bassezze e nefandezze scivola dall’onnipotenza in una sostanziale impotenza”. Una visione corredata da riferimenti a vari libri fondamentali del Novecento.
Una nuova “lettura allo specchio” di sicuro valore e spessore di cui ringrazio. IM
Andrea Salvini su
“Lo specchio di Leonardo” di Ivano Mugnaini (Eiffel edizioni, 2016)
L’idea della fuga dalla vita quotidiana grazie ad un doppio di se stessi non è nuova nella letteratura, più o meno recente. Chi non ricorda “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello? Mattia Pascal si trova libero da se stesso e da tutta la congerie oppressiva degli assilli quotidiani grazie ad un doppio perfettamente docile, al cadavere di uno sconosciuto che, ufficialmente, lo fa scomparire per sempre dalla scena del mondo rendendolo libero di inventarsi una vita tutta nuova. In effetti ci è sembrato di trovare, quasi all’inizio del romanzo del Mugnaini, un preciso riferimento all’universo pirandelliano: “E, una buona volta, avrei potuto vedermi vivere, o, ancora meglio, osservare come gli altri mi vedevano o credevano di vedermi: le falsità, i commenti velenosi, le pugnalate appena voltata la schiena. Avrei finalmente scrutato con calma e con agio le facce e i cuori degli altri. Pensando anche, con enorme applicazione, a una vendetta adeguata, prima di morire: un’invenzione decisiva, risolutiva, un micidiale cavallo di Troia per questo mondo malato” (p. 23). Non sarà sfuggito al lettore, verso la fine del passo che abbiamo riportato, anche un richiamo al noto finale della “Coscienza” sveviana. Un primo omaggio al Novecento è dato, ma ne troveremo altri, come avremo modo di osservare in questo nostro tentativo di lettura. Avvertiamo, infatti, sin da ora che ci sembra ben difficile dire qualcosa di esaustivo su questo testo, su cui altri sono già autorevolmente intervenuti. Solo il tempo e ulteriori riflessioni critiche potranno portare più luce su un testo davvero complesso e che è stato sicuramente scritto dopo approfonditi studi storici e artistici.
Intanto vediamo che la narrazione è condotta da un “io narrante” che si propone praticamente come onnisciente riguardo alla realtà; e non poteva essere altrimenti, dato che si tratta dell’«io» del grande Leonardo: egli appare in grado di comprendere tutto ciò che lo circonda, tutto ciò che si trova nell’animo di chi incontra, si tratti di Lorenzo il Magnifico o di una semplice ragazza veneziana, maldestra avventuriera. Un altro «io narrante» di tale spessore lo possiamo incontrare solo là dove il protagonista ha uno spessore culturale elevatissimo, come, ad esempio, nelle “Memorie di Adriano” della Yourcenar: anche qui il protagonista ci racconta se stesso dal vertice assoluto della società ove si trova collocato, lucido e implacabile scrutatore di uomini e cose, senza nascondere le proprie bassezze e nefandezze, consapevole infine del proprio declino, del proprio scivolare dall’onnipotenza in una sostanziale impotenza. Lo stile ovunque prezioso, quasi fastoso, del romanzo, che troviamo tanto simile a quello della Yourcenar, rafforza nel lettore l’impressione di onnipotenza dell’io narrante.