parigi
Luoghi d’autore. A spasso con Calvino
L’intento della rubrica Luoghi d’autore è descritto qui sotto: provare a vedere alcuni luoghi, borghi o città, reali o immaginari, con gli occhi di scrittori fondamentali del secolo scorso e non solo.
Le tappe fondamentali di questa “esplorazione” a metà strada tra documento e immaginazione, verranno ospitate dalla rivista L’Ottavo, a cura di Geraldine Meyer, che ringrazio per l’ospitalità.
Pubblico qui la prima “passeggiata” letteraria, quella con Italo Calvino. E vi invito a leggere l’articolo completo, assieme ad altri scritti in prosa e poesia, a questo link:
https://www.lottavo.it/2020/03/luoghi-dautore-oggi-a-spasso-con-calvino/?fbclid=IwAR21c5ka0Q4ORwJsA_FcHn-kIgGEN6vJkkSuPwx3afBEa_WBXszePAXe-E0
IM
Luoghi d’Autore contiene esplorazioni, esercizi di lettura e rilettura, brevi ma appassionate escursioni “informali” in abiti lievi e colori accesi su fondamentali sentieri panoramici. Indaga sul rapporto tra alcuni scrittori e poeti del Novecento e i loro luoghi di residenza ed elezione, le città e i borghi in cui hanno vissuto e lottato per il diritto di esistere e resistere, per la necessità, il fardello e il privilegio dell’espressione.
Rubrica a cura di Ivano Mugnaini
A spasso con Calvino: nei luoghi, oltre i luoghi fino dentro la realtà
Se una notte d’autunno un lettore….
Se una notte d’autunno un lettore si trovasse a pensare a Calvino, alla sua fama, alla sua controversa ma innegabile attualità, alle polemiche a tratti aspre e in altri casi leziose che ne fanno comunque oggetto di dibattito come se avesse pubblicato oggi stesso un nuovo libro… ebbene, il suddetto lettore si troverebbe, alla fine, a riflettere su delle nuove o vecchie cosmicomiche.
Italo Calvino (Foto da illibraio.it)
Calvino è stato un “pianista” della parola. Ha saputo adattarsi con elasticità alle esigenze, ai temi, alle corde e agli accordi del suo essere e a quelli del mondo. Ecco, probabilmente è questa una delle possibili parole chiave: mondo. In primis per l’internazionalità autentica, genetica, che gli era propria. Non solo per la nascita nella caraibica Cuba, ma soprattutto per la capacità di esplorare continenti, lingue e mentalità diverse e farle proprie. Estremamente ligure in questo, con un piede sulla terraferma e uno proteso verso il mare, calmo o in tempesta, limpido o denso e scuro. Ma Calvino è stato e ha scritto del mondo perché ha rifiutato di collocarsi nella proverbiale torre d’avorio. Ha percorso e abitato città reali, estremamente visibili, con quello sguardo attento e astuto da marinaio, tra sorriso ironico e amaro.
Di New York, Parigi, Roma e di mille altre luoghi visti e vissuti, ha colto il mito senza abdicare alla realtà, proponendo e rielaborando, mattone su mattone, una forma di verità che facesse pensare senza lacerare, conservando la capacità di spaziare tra presente e passato, tra la dimensione concreta e una giocosa, profondamente umana, filosoficamente infantile.
Di questi ossimori e questi paradossi si nutre la sua scrittura e l’attrazione che esercita. Talmente ampia da includere anche la sua controparte, le prese di posizione di alcuni detrattori che comunque fanno riferimento ai suoi testi, li analizzano e li dissezionano, dimostrando immancabilmente una conoscenza approfondita dei tessuti e delle arterie di quel corpo così multiforme. Calvino ha il dono e il castigo di generare giudizi divergenti. La mia esperienza personale non ha alcun rilievo sul piano statistico, chiaramente, ma può servire, almeno qui e ora, a confermare che i giudizi sullo scrittore molto di rado sono serenamente anodini. Un mio amico molto colto e preparato, formidabile bevitore poco santo e parecchio logorroico, non molte sere or sono mi ha bloccato al tavolo di una cena per oltre un paio d’ore per dirmi, tra le altre cose, che a suo avviso tutta la produzione di Calvino non vale niente (anche se lo ha detto in termini più coloriti, abbondanti di lettere zeta) e che si salva solamente “Se una notte d’inverno”, proprio in quanto testo atipico, quasi un non-romanzo, una specie di ibrido alla Frankenstein, oppure un divertissement, insomma una “roba strana”, fuori schema. Pochi giorni dopo, in virtù della logica dell’alternanza, una mia amica scrittrice e giornalista mi ribadiva con foga, al contrario, il suo amore, non per me ma per il suddetto Calvino. Più che di amore si trattava e si tratta di vera e propria fede, laica, d’accordo, ma del tutto assoluta, quasi integralista. La giornalista dalle grandi doti comunicative aveva creato addirittura un club, un Circolo Pickwick di giovani scrittori di belle speranze, i quali, ispirandosi allo stile e ai temi cari a Calvino, avevano scritto un’antologia di racconti dal titolo “La consistenza”, con un’eco lunga e appassionata che riportava alle Lezioni americane da lei idolatrate e recitate brano dopo brano come versetti biblici o coranici.
Tutto questo per ribadire che il viaggio di Calvino prosegue, con costanza, sempre di buona lena, e che la sua forza con ogni probabilità è in quella capacità di generare consistenza nell’inconsistenza e varietà nell’uniformità: giudizi contrapposti ma attenzione identica. Leggi il seguito di questo post »
Un marziano del mondo e della parola
Leggendo e osservando sui giornali e in televisione il teatro della politica e della vita attuale, mi è venuto spontaneo chiedermi cosa avrebbe detto Flaiano dei mirabolanti eventi e mutamenti e dei memorabili tweet con i controtweet. Probabilmente avrebbe detto “Coraggio, il meglio è passato”. O magari avrebbe taciuto, osservando con occhio da realistico sognatore “con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole”.
Una cosa è certa: mi è venuta voglia di ripubblicare un vecchio pezzo su Flaiano, in cui, tra l’altro, viene citata anche questa sua frase: ““Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere”.
Il mio auspicio è che, a dispetto di tutto, anche in questi giorni non si smetta di pensare.
E magari anche di scrivere.
Se poi vi va di farmi leggere le vostre parole, edite o inedite, lo faccio volentieri.
Il mio indirizzo è sempre lo stesso: ivanomugnaini@gmail.com.
Così come è sempre lo stesso il mio sito: www.ivanomugnaini.it/ . Non è un panettone, ma anche il sito è artigianale. Garantito e senza canditi.
———————————————————————————————–
ENNIO FLAIANO:
UN MARZIANO DEL MONDO E DELLA PAROLA
Ci manca Flaiano. Manca a questi tempi incerti e confusi, in questo autunno del mondo tra crisi globali e perdite d’identità, tra opportunismi e nuove barbarie, ma manca soprattutto agli italiani, un popolo ingegnoso e disincantato, forse troppo, tanto da scambiare ancora o troppo spesso la furbizia per intelligenza.
Con la sua arguzia e la sua dissacrante ironia, Flaiano ci avrebbe confortato a suo modo dicendoci “Coraggio, il meglio è passato”, e avremmo forse ricordato a noi stessi che il meglio va immaginato e costruito e non semplicemente aspettato.
Parlare di Ennio Flaiano, sceneggiatore, scrittore, giornalista, umorista, critico cinematografico e drammaturgo, è come raccontare l’Italia e gli italiani nelle loro molteplici sfaccettature. Come un diamante la sua scrittura ha tagliato, sviscerato, sferzato e irriso i nostri vizi e le nostre virtù e lo ha fatto in nome di una fede profonda e assolutamente personale nella parola. “Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere”.
Per Flaiano la parola non è mai solo espressione sonora o grafica di un concetto, è prima di ogni altra cosa essa stessa spettacolo, commedia, tragedia, farsa, una menzogna che contiene innumerevoli verità. Rappresentazione costante e tuttavia sempre nuova e imprevedibile, allestita dalla Compagnia Quasi Stabile della Vita.
GUARDARE LE FORMICHE, Luigi Malerba “Consigli inutili”
Guardare le formiche
Divagazioni semiserie su Luigi Malerba e i suoi Consigli inutili, Quodlibet, 2014
Un consiglio se non è inutile non è buono. Non è un paradosso, o, almeno, non lo è quando si parla di letteratura e di tutto ciò che vi è correlato, filosofia, ragione, follia, forse perfino la vita. Un consiglio è buono se ti conduce a riderne, per poi, un istante dopo, ripensarci sopra, con un riso modificato, quasi geneticamente, concludendo che forse, tutto sommato, non è vero, certo, ma potrebbe anche essere vero, anzi, forse è vero proprio perché non lo è, perché non dovrebbe essere così. Su quel terreno fertile e friabile, quella terra vulcanica e pericolosa che sa di zolfo e di humus, di secoli antichi ma anche dell’urgenza del presente, si è sempre mosso Luigi Malerba. Su quel versante vulcanico costantemente sospeso tra il rischio della deflagrazione e il gusto del ragionarci sopra, magari quando si vedono già lapilli rosso fuoco. Malerba si muove tra gli ossimori, danza con studiata lentezza tra pareti di diversa natura che fanno da specchio le une alle altre creando sempre un’immagine altra, una prospettiva aliena, un punto di vista ulteriore. L’ossimoro per eccellenza è quello celato nell’intento del consiglio: ci avvisa del rischio, dell’assurdo, sapendo di non essere ascoltato, essendo perfettamente a conoscenza dell’inutilità del messaggio. Il vulcano esploderà, anzi, è già esploso e i più non se ne sono neppure accorti. Ma allora perché dispensare la parola, l’esercizio vitale del comunicare? Per quei pochi che ascolteranno, per consolarci, per ridere insieme dei vivi e dei morti, dei sordi e di quelli dotati di udito? Forse perché il consiglio deve essere dato a prescindere, fa parte del gioco, anzi, è il gioco, senza il gioco della parola, crudele ed essenziale, non esisterebbe la terra, il vulcano, il pomodoro e la vite, l’assurdo e il sublime.
Malerba è un prestidigitatore. Uno che avrebbe potuto mettersi a un tavolo e spennare tranquillamente tutti i polli. Avrebbe potuto mostrare agli occhi degli altri solo quello che gli faceva comodo, mani rapide, ma anche uno sguardo serio e monotono, tutto sommato rassicurante. Avrebbe ottenuto un’attenzione ammirata ma serena. E invece no. Ha voluto mostrare il trucco, la finzione che è insita nel meccanismo stesso, nell’utilizzo della carta come codice, oggetto simbolico. Ci ha mostrato che ogni seme in realtà contiene altri segni, solo in apparenza invisibili. Ogni carta ha due facce, e, dal raffronto di esse, deriva una figura differente, o un numero che varia a seconda dei contesti e delle situazioni. Ecco perché, descrivendo episodi apparentemente banali o comunque “normali”, intrisi di quella ordinaria follia a cui siamo assuefatti, ci consiglia di diffidare, delle luci del locale, di chi ci siede a fianco o sopra, e, soprattutto di noi stessi.
L’uomo è l’oggetto dello studio, anche quando l’attenzione si concentra “sugli alberi e sui suoni da essi prodotti”. L’uomo è l’eterno interrogativo, senza risposta o con innumerevoli risposte. Lo sguardo è diretto, crudo, mai connivente. Eppure, alla fine, se si ritiene qualcuno degno di ricevere un proprio consiglio, forse lo si considera ancora salvabile, oppure, semplicemente, si vuole ragionare sul perché della sua traiettoria, quella specie di “inchino schettiniano” che sarebbe stato bello poter vedere commentato da Malerba, lui che subiva il fascino senza tempo dell’anomotecnicon, l’esperto dei venti.
In fondo Malerba stesso ha condotto in ogni suo scritto uno studio su quella materia immateriale eppure imprescindibile che è la parola. Ne ha colto la natura essenziale, quel suo fare la differenza tra la fluidità dell’acqua e il rischio letale dello scoglio, tra comunicazione e rumore, comprensione e fallimento del dialogo. Ha sempre scelto rotte difficili, volutamente. Si è sempre mosso lungo direttrici che richiedono mappe nautiche molto dettagliate. Ma non ha mai lasciato a terra nessuno. Come hanno osservato più volte vari critici, tra cui Umberto Eco, l’utilizzo del double coding, pone in gioco la possibilità di una doppia lettura. Malerba “non invita tutti i lettori a uno stesso festino, […] li seleziona, e predilige i lettori intertestualmente avveduti, salvo che non esclude i meno provveduti. Il lettore ingenuo, se per caso l´autore mette in scena un turista ingenuo che, sbarcando al Charles De Gaulle, dice Parigi a noi due!, non individua il richiamo balzacchiano, e tuttavia può appassionarsi ugualmente alla spavalderia di quella figura comica. Il lettore informato “becca” invece il riferimento, e assapora la citazione che in quel caso produce un effetto di abbassamento”.
Nessuno scrittore degno di tale nome sceglie di lasciare immobili sul molo con la valigia in mano tre quarti dei suoi potenziali passeggeri. Si tratta solo di immaginare e creare preventivamente percorsi differenziati, oggi le agenzie parlerebbero di “itinerari personalizzati”. L’importante è che tutti i passeggeri, di qualsiasi genere, qualunque sia la cabina in cui si vanno a collocare, sappiano bene prima di salire a bordo che il viaggio c’è ma in realtà non c’è, o forse che non c’è ma in verità è reale. Se solo potessimo stabilire cos’è la realtà. Si tratta di rendere chiaro, tramite tutte le complicazioni possibili e immaginabili, tramite gli arabeschi di tragitti circolari e panoramici, che è tutta una menzogna, una menzogna geniale, per dirla ancora con Eco, ma sempre e soltanto una finzione. Pirandello riflettendo su questa consapevolezza si sarebbe toccato la testa dolente e avrebbe chiuso mezzo occhio con un profondissimo tic. Malerba sulla medesima presa d’atto ci fa toccare la testa surriscaldata mentre ci osserva fumando la pipa e scrutando la nostra sorpresa per tutto ciò che abbiamo compreso e tutto ciò che crediamo di avere compreso. Ghigna, e ridiamo anche noi, con un riso amaro ma sapido.
Un resoconto inattendibile, una verità che sfocia nella menzogna, una barzelletta senza finale o con un finale volutamente anticipato o deliberatamente spiazzante. Oppure, appunto, un consiglio inutile. Ma, in quest’ottica, se il resoconto rende conto di altri numeri e altri segni, se della verità si svela la natura ambigua e bifronte, allora, beh, come non detto: il consiglio non è inutile un bel niente! Diventa utilissimo, il consiglio. Per evitare di ascoltare nel nostro sdrucciolevole presente accorati consigli dall’arringatore di turno che vorrebbe darci a bere che di consiglio valido ce n’è uno solo, il suo. Per tenerci alla larga da quel tipo che vichianamente riappare sulla scena italiana, quello che ne I Neologissimi, pubblicati di recente dai Quaderni dell’Oplepo, Malerba definisce con un’acrobazia linguistica aspra, divertita e tagliente, “ammalùcco”, “andreòtto” o, all’occorrenza, “bugiàdro” e “personàccio”.
Ecco, forse questo stravolgimento della parola, mai causale, mai fine a se stesso, è di per se stesso la chiave, o forse una delle chiavi possibili. O magari contiene l’unico consiglio vero, quello di non tenere conto delle cose così come sono, o meglio di tenerne conto ma con un salvifico mélange di serietà e distacco, attenzione e disincanto. Come un bambino che osserva il giocattolo con uno sguardo tanto intenso da lasciar presagire che il gesto successivo, ineluttabile, necessario, sarà quello dello smontaggio. Ne nasce qualcosa di nuovo, un occhio diverso, un nuovo modo di osservare e raccontare. Con queste rinnovate pupille si impara di volta in volta, grazie a Malerba, l’arte di indagare su “L’utilità del treno”, oppure sul modo più o meno congruo di usare “La pipa”, oggetto caro all’autore, non solo nella sua funzione simbolica. Ma soprattutto, accanto alle “Biografie immaginarie”, in cui ci beffa dell’esattezza dei dati e dei moduli, delle anagrafi e dei resoconti di vite, morte e presunti miracoli, si giunge al sacro atto di “Guardare le formiche”. La ricchezza della costante ambivalenza di senso e contenuto propria di Malerba ci fa intuire, mentre ancora una volta sorridiamo, che in effetti in quell’attività apparentante vana c’è tutto il senso possibile. Quell’animaletto nero e scuro come un segno d’inchiostro porta tenacemente sulle spalle un carico di un peso identico al suo: il senso del suo agire e la sua assurdità, la sua minuscola e tenace verità e il fardello della sua inutilità.
Ivano Mugnaini
Sulle tracce di un siciliano europeo
“C’era una volta un principe…” colto, fiero, siciliano doc e al contempo cittadino del mondo. Difficile dire dove inizi il Principe di Lampedusa e dove finisca quello di Salina. Per tutti è il Gattopardo, il romanzo icona che continua ad affascinare generazioni e le cui orme sono impresse nel nostro DNA.
Ma l’uomo, lo scrittore, il letterato e il viaggiatore possono essere riassunti nella sola figura del “Principe”?
Il punto interrogativo è d’obbligo quando si tratta di discernere tra l’uomo e il personaggio letterario e ancor più allorché si cerca di trovare una chiave di lettura di un autore celebre per un unico, grande romanzo.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa è una figura a tutto tondo che non può essere letta solo alla luce del suo celeberrimo libro o per la sicilianità che incarna e descrive. Egli fu molto di più, e, attraverso l’esplorazione delle sue rotte storiche, geografiche e biografiche, si tenterà di tracciare un ritratto diverso dell’autore, lontano dalle cornici di maniera, barocche ma tarlate e inconsistenti. Ne risulteranno i tratti di uno scrittore e di un uomo ricco di sfaccettature.
Lampedusa, dunque. Non è forse casuale rilevare che quello che per lui fu il punto di partenza, oggi per molti è un punto di arrivo, il traguardo di una speranza. Lampedusa è una propaggine d’Europa nel cuore del Mediterraneo, terra di confine e di approdo nota per sbarchi, annegamenti e traffici di vite umane dalle coste della vicina Africa. La storia cambia ma restano, pur nelle differenze, delle costanti, le caratteristiche immutabili degli esseri umani, gli stati d’animo, le miserie e le grandezze, il bisogno di un suolo di certezze e sul fronte opposto il fluire del mutamento che sradica e sconvolge.
Per queste e per altre misteriose ragioni, per questo miscuglio di antico e moderno, poetico e razionale, antropologico e filosofico, Tomasi rimane a tutt’oggi un autore attuale, ancora in grado di far coesistere caratteristiche differenti generando punti di vista, influenze e dibattiti tra i lettori e i critici. Il suo Gattopardo è diventato con il passare degli anni molto di più di un romanzo di successo e di una popolarissima pellicola. Si è trasformato in un’icona, uno spunto infinito per citazioni. È diventato un modo di dire, il simbolo di un’epoca e di un modo di pensare, identificabile quasi con il marchio del copyright, come l’aspirina o la coca cola.
Come spesso accade però, nella letteratura, nella vita e lungo quel punto ventoso e oscillante che le unisce e le divide, tra le parole e la verità, tra l’uomo e l’opera, c’è un bel tratto di mare. Nel caso specifico di Tomasi, le onde in questione sono quelle tra Scilla e Cariddi, tra la Sicilia e il Continente, inteso anche e soprattutto come Europa.
Come accadde ad un altro siciliano dal carattere complesso e multiforme, Luigi Pirandello, anche Tomasi fa rotta verso il nord.
In cinque anni di intensi viaggi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa ebbe modo di conoscere a fondo alcune delle principali capitali europee. Cercava lo spirito autentico dei luoghi e dei popoli, il volto vero da confrontare con quello del suo Mediterraneo. Scoprì la bellezza mite di Parigi e si trovò particolarmente a suo agio a Londra, città che trovò ricca di bonomia. Esplorò però anche il fascino più cupo e intrigante di Berlino. Visitò musei, ma anche le vie trafficate dal popolo e i tracciati già resi mitici da grandi libri del passato. Frequentò salotti alla moda ma anche locali di ricreazione e fu attratto da tutto, assimilando con vivida curiosità. Viaggiava con un repertorio di citazioni e scriveva lettere di rigogliosa fantasia in cui confermava la sua sete di conoscenza. Anche lui, seppure molto distante da un altro affabulatore immaginifico quale fu D’annunzio, ci teneva a dare di sé un’immagine spettacolare. Questa sua insaziabile verve ha trovato una sintesi efficace nel suo “Viaggio in Europa. Epistolario 1925-1930” .
Tomasi di Lampedusa, schivo, raffinato, studioso vorace di letterature comparate, dà l’impressione di viaggiare per scelta, per divertimento e per arricchimento interiore, per il bisogno di staccarsi da radici profonde che lo nutrono e lo bloccano allo stesso tempo. Viaggia per la volontà di rendere la sua cultura effettivamente europea. Per essere un uomo di mondo prima ancora di essere scrittore. Non per sfoggio o per aristocratico orgoglio, ma per un’esigenza sincera.
Duca di Palma di Montechiaro e principe di Lampedusa, Giuseppe Tomasi nasce a Palermo il 23 dicembre 1896. Frequenta il liceo classico a Roma dove si iscriverà anche alla facoltà di Giurisprudenza, senza però laurearsi perché chiamato alle armi. Partecipa alla disfatta di Caporetto e viene fatto prigioniero dagli austriaci. Conosce quindi l’orrore della guerra, la più cruda e spietata, quella che annulla il divario tra nobili, borghesi e uomini del popolo. Quella che rende crudelmente vera la fragilità della condizione umana, la ferocia del tempo e della Storia ma anche la forza di restare aggrappati ad una Bellezza che rappresenta la sola fonte di sopravvivenza.
Tomasi di Lampedusa fu spesso ospite del cugino, il poeta Lucio Piccolo. Grazie a lui ebbe occasione di frequentare ambienti letterari di alto livello, come nel 1954 in occasione di un convegno letterario a San Pellegrino Terme in cui conobbe, tra gli altri, Eugenio Montale e Maria Bellonci.
Al ritorno da quel viaggio, come un vulcano giunto al livello di pressione ideale, Tomasi inizia a scrivere Il Gattopardo, ill romanzo di una vita, di molte vite reali e possibili. Verrà terminato due anni dopo, nel 1956.
Il suo romanzo viene definito come un esempio di “poesia in forma di prosa”. Perché la forma poetica possiede la capacità di mettere in contatto e sintetizzare istanze e sensazioni contraddittorie tramite la coincidentia oppositorum. L’ancorarsi al passato era un gioco di specchi per parlare del presente e del futuro.
Fu proprio questa sua strana ambivalenza tra moderno e antico che provocò il rifiuto del libro da parte di molte autorevoli case editrici a cui era stato presentato. Respinto prima dalla Mondadori e poi da Einaudi sempre ad opera di Vittorini che era il selezionatore delle opere, il romanzo fu scoperto e apprezzato da Bassani. Fu proposto alla Feltrinelli che lo pubblicò. E fu un successo strepitoso. Purtroppo Tomasi di Lampedusa era già morto nell’amarezza e nello sconforto di non aver potuto vedere pubblicata la sua opera. Un episodio questo che getta ombre non del tutto archiviabili ai tempi d’oggi.
Il Gattopardo è un caso più unico che raro. Tomasi di Lampedusa era un outsider per quanto riguarda il mondo letterario ufficiale, nel quale permaneva in vizio antico della chiusura al nuovo, non importa di quale provenienza.
Ma qui ed ora, dopo che la vicenda si è comunque conclusa con il successo del libro di cui l’autore non ha potuto beneficiare in vita, è possibile forse tentare di cogliere elementi dello scrittore e dell’opera di più ampio respiro.
Tomasi di Lampedusa è stato sì, per dirla con Montale, “l’autore di un solo libro”, ma in questo volume ha racchiuso una vita intera di esperienze di respiro europeo, assorbite senza preconcetti, con passione autentica. Il Gattopardo è la risultante di un lavoro di accumulazione di note e sensazioni durato anni, scritto con una forma espressiva capace di coniugare la sintesi metaforica della poesia e l’esattezza documentaria del romanzo storico. Il libro era allo stesso tempo imbevuto di stilemi classici e proiettato verso forme e prospettive nuove. Era in anticipo sui tempi, pur parlando di un’epoca già passata. Collocato in questa terra di confine, ebbe bisogno di una lenta assimilazione prima di essere percepito dai critici come opera di assoluto valore. Il resto è storia della letteratura e della cinematografia.
Il Gattopardo è il frutto di un innesto in gran parte inusitato: la cultura europea impiantata sui rami nodosi della Sicilia, il vento nordico sui silenzi e l’aria ferma di troppi secoli di inazione, come sottolineava in Principe di Salina in un celebre passaggio: “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali”.
Nel Gattopardo il romanzo trascende il romanzo. Il libro è così ricco di contenuti da prestarsi a molteplici e parallele chiavi di lettura: storica, filosofica, psicologica, sociale, geo-politica. Ma è anche un libro coraggioso, in cui lo sguardo sui retaggi culturali che hanno creato l’humus mafioso è assolutamente schietto.
Come nelle stratificazioni geologiche, questo libro va ben oltre l’affresco storico, oltre il racconto, oltre i personaggi, i luoghi, i costumi. In questo contesto si inserisce la citazione per eccellenza, lo stemma che campeggia sul romanzo e lo identifica in modo immediato:
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Il Gattopardo racconta l’umanità, i dubbi e le speranze di uomini e donne del proprio tempo di fronte ad un mondo che cambia e ridefinisce valori, canoni e stili. Racconta come gli uomini si pongono di fronte al cambiamento e come le identità, le storie e la cultura si misurino col tempo.
Considerare Il Gattopardo un libro conservatore è un atteggiamento in gran parte miope: c’è, viva e presente, la consapevolezza dei mali storici della Sicilia. Vista non come microcosmo a sé stante ma come emblema di un modo di vivere e di pensare antico che si trova nella necessità di guardare con occhi diversi a tempi nuovi. C’è una forma di critica sociale forte e costante nel libro. L’amore per la propria terra non è cieco.
I personaggi del romanzo sublimemente avvolti di umanità, sono cesellati nella loro ambivalenza. Questa con ogni probabilità è la parola chiave: ambivalenza. Il romanzo si colloca ad un punto di snodo fondamentale della storia italiana e non solo. Quel momento in cui ci si rende conto che una certa società, un determinato sistema di vita e di pensiero è destinato ad essere superato dai tempi, dalla storia. Tomasi tuttavia non lo vive con un atteggiamento passivo e rassegnato. Non è un cantore acritico del passato, non esalta incondizionatamente les neiges d’antan. Il fulcro del suo pensiero è la volontà di portare nei nuovi tempi quanto di meglio c’è nella tradizione e nel legame autentico che deriva dalla terra d’origine. È anche grazie a Tomasi di Lampedusa se gli italiani hanno coscienza del loro grande dono e della loro condanna.
Lo sguardo distante, malinconico e nostalgico del Principe di Salina da un lato, lo stile narrativo dell’Autore-Principe, non devono trarre in inganno. Il libro urla verità senza tempo, svela le illusioni, le trappole e i miraggi dei cambiamenti repentini, i pericoli dei furbi e dei voltagabbana, denuncia l’immobilismo, insegna a guardare oltre l’apparenza, oltre il contingente, in un’ottica per dirla alla Leibniz, sub specie aeternitate.
Il Gattopardo è un’opera dall’altissimo valore educativo intergenerazionale, perché ogni epoca, così come ogni uomo, è sospeso tra due estremi, un presente che muta ad ogni istante e un passato che sfugge, scivola via, tendendo a diventare irriconoscibile. “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”. In questa dichiarazione, all’interno di questa presa di coscienza, si trova forse la chiave del successo e del fascino del romanzo e del suo autore: il senso della finitezza umana non esclude ma semmai rafforza e vivifica il tentativo di ritagliarsi uno spazio autonomo, individuale e riconoscibile all’interno del disegno imperscrutabile del tempo e del destino.
Ivano Mugnaini