Picasso
Il bestiario delle bestiacce
Il titolo del recente libro di Annalisa Macchia è attraente. Incuriosisce. Invita a scrutare all’interno per vedere cosa spunta, cosa compare. Magari ci troveremo di fronte un animale tra il mitico e il reale, tra verità e invenzione fantastica.
Coerentemente con lo stile di Annalisa, il libro è serio e giocoso allo stesso tempo. Ma in maniera sincera e profonda, non di maniera. Annalisa gioca sempre con grande attenzione al senso, soprattutto a quello ulteriore, a ciò che non si vede ma c’è, e magari ci fa pensare, mentre sorridiamo.
La leggerezza di questo libro è consistente. Calvino approverebbe. Le Cosmicomiche qui diventano Le Bestiacomiche. Ma l’impressione è che ciascun animale sia, a bene vedere, al di là della pelle e delle squame, al di là dei colori camaleontici e cangianti, un’immagine della bestia per eccellenza, l’animale selvatico e sospettoso, che siamo, a tratti, noi tutti.
C’è molto metodo nell’apparente lievità del libro, come direbbe Amleto. Si percepisce un’accurata preparazione “a monte”, si nota un’accurata suddivisione speculare delle varie sezioni, saltano all’occhio analogie e contrapposizioni per niente casuali. Vengono in mente Esopo, Alice, i suoi specchi e i suoi animali parlanti e pensanti, si rammentano Trilussa e Rodari, ma soprattutto si beneficia di un libro che si legge volentieri, che fa tornare bambini senza scordarci il gusto agrodolce, ma necessario, di guardare il nostro volto riflesso nello specchio di bestiacce che, non di rado, sono molto meno bestiacce di noi.
IM
Annalisa Macchia, Il bestiario delle bestiacce, Pagine, Roma 2020
A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.
Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.Saranno volta per volta le stesse domande.Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.IM
5 domande
a
Annalisa Macchia
1 )Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
Certamente e grazie per questo invito. Mi chiamo Annalisa Macchia, abito a Firenze, dove vivo da tanti anni, ma sono nata a Lucca; ho studiato a Pisa (Lingue e Letterature straniere) e frequento da sempre l’area livornese, luogo d’origine della mia famiglia. Dunque sono d’identità toscana, seppure variegata, dettaglio non trascurabile, perché credo che la mia scrittura sia rimasta “contaminata” da tutte quante queste frequentazioni. Sono un’autrice tardiva, se mi passate il termine. Dopo gli studi universitari e una prima pubblicazione (Pinocchio in Francia, edito dalla Fondazione Nazionale Carlo Collodi di Pescia), ho dedicato molti anni alla cura della mia numerosa e onerosa famiglia, scoprendo solo alla fine quanto avessero reso preziosa la mia formazione di persona, anche se mi avevano apparentemente allontanato dalla scrittura. Prepotente è però tornata la voglia insopprimibile di comunicare con la parola scritta. Sono nati così i primi lavori, storie in rima per l’infanzia (con l’assurda speranza che le parole scritte fossero più efficaci di quelle dette a voce…). Da allora, però, lettori o non lettori, non ho più smesso, cercando di conciliare i miei impegni familiari e di insegnante – ho insegnato lingua e letteratura francese in vari istituti fiorentini – con la mia nuova attività. Sono seguite raccolte poetiche e narrative, frequentemente dedicate all’infanzia, all’avviamento della parola poetica anche tra i più piccoli (un mondo a me familiare, dal momento che ho avuto quattro figli ed ora ho quattro nipotini), ma anche qualche testimonianza critica e traduzione. Attualmente collaboro con qualche racconto e soprattutto con recensioni, con la rivista “Erba d’Arno” e sono redattrice della rivista Gradiva, ammirevole ponte di poesia e letteratura tra l’Italia e gli Stati Uniti. Ho anche diretto una collana di poesia per l’infanzia con la casa editrice Poiein, occupazione purtroppo di breve durata per la prematura scomparsa del suo direttore Gianmario Lucini, un carissimo amico, a cui devo molto e che ancora oggi rimpiango. Nella città in cui vivo, compatibilmente con il mio tempo libero, ho cercato di seguire i movimenti letterari che l’hanno animata in questi ultimi anni. Con presentazioni di autori e varie attività collaboro strettamente con l’Associazione Pianeta Poesia (www.pianetapoesia.it ), a cura di Franco Manescalchi. Un’attività che ha contribuito non poco alla mia formazione, aprendomi a mondi poetici altri, talvolta d’insospettabile interesse e bellezza.
Il Centauro esiste
Il Centauro esiste: la poesia di Claudia Manuela Turco, tra immaginario e reale
Le parole con cui veniamo accolti sulla soglia d’ingresso di questo libro sono un’indicazione spaziale, le coordinate di un luogo, “Nella Vallata dei Mughetti”, e una dedica in lingua inglese “A Mughy, Lily of the Valley, from glen to glen”. È un esordio adeguato, lo si capisce leggendo il libro ma anche pensando ad altri lavori di Claudia Manuela Turco, alias Brina Maurer. Dire (e dirsi) che, a dispetto di tutto, esiste ancora in qualche luogo del mondo e del tempo una simile Vallata, non vuol dire chiamarsi fuori dagli slings and arrows of outrageous fortune, per dirla in modo amleticamente sintetico, né cercare un’Arcadia tanto bella quanto improbabile. Piuttosto, come una tenace Alice, significa sapere guardare al di là di tutti gli specchi, i trucchi, gli enigmi, gli inganni, i conigli e i cappellai, per cercare ancora lo stupore di ciò che è semplice e naturale, la meraviglia, immensa, che a volte è racchiusa nelle piccole cose.
Il titolo del libro, Il Centauro malato, è, di per sé, un segnale che non solo indica una strada ma conferisce il sapore e la sostanza di ciò che troveremo lungo il cammino. Mitologia, fantasia, immaginazione, ma anche realtà, dolore, e, dall’interazione di tutti gli elementi, la tenacia di volere scrivere di sé, tramite una poesia che si estende nell’arco di una vita intera. Il sottotitolo del libro è secco e sintetico: “Poesie 1998-2010”. Una parola e due cifre. Scorrono via in un fiato o con uno sguardo. Ma se si scrutano bene, danno il senso di un rapporto ininterrotto con il proprio fare ed essere poesia. Ossia tra l’immedesimazione costante e schietta, senza infingimenti, tra il proprio mondo e il mondo esterno, visto, percepito e registrato tramite lo strumento della parola.
Si inizia con una silloge scritta lo scorso millennio, nel 1999, quando imperava non solo il terrore dei bug in grado di bloccare i computer ma anche di qualcosa che fermasse qualcosa di ben più ampio, l’esistenza stessa del genere umano. Una paura atavica, eppure presente. Si inizia, quindi, e forse non è un caso, con una fine. Una fine potenziale, una sorta di bacillo del pensiero, una paura globale, diffusa come un contagio, una malattia. Ma la danza degli ossimori è tempistica e altrettanto puntuale. Il titolo della prima Sezione (o silloge) è “Frecce di luce”. Una possente, vitalistica sinestesia. Linguistica e tematica. La vita, nonostante tutto, sfreccia oltre, supera i confini, anche dei millenni. E, poiché nulla sembra casuale in questo libro e nelle tessere che ne compongono il mosaico, le prime parole sono una sorta di chiave ulteriore, per il passaggio specifico e per il volume nel suo insieme: “La scienza può spiegare il meccanismo che regola la natura/ ma non il fascino che essa emana”. Poco oltre, al lato opposto della stessa pagina, versi che, nell’atto di negare l’assunto, in realtà lo confermano, o confermandolo lo negano, aggiungendo una nota umanissima, schietta e rivelatrice: “Sorprendimi cuore/ lascia che io erri./ Non temo i tuoi tetri misteri”. Leggi il seguito di questo post »