prefazione
Oltre la linea gialla – romanzo di Marisa Papa Ruggiero – di prossima uscita
Oltre la linea gialla
di
Marisa Papa Ruggiero,
Edizioni Divinafollia, 2018
Prefazione di Ivano Mugnaini
Ci si meraviglia, a volte, del nostro allontanarci dalle cose che più ci appartengono e non si lasciano conoscere. Per non sentire le crude voci gridare il nostro nome da un pozzo senza fondo. Ci si meraviglia, ancora, di una cosa a cui non sappiamo dare nome, del nostro essere fuori da noi stessi, a cui non chiediamo più di tornare.
Brani come quello citato dimostrano il notevole livello di scavo e di indagine che sono connaturati a questo romanzo di Marisa Papa Ruggiero. Testimoniano il lavoro intenso sia a livello lessicale e strutturale sia nell’ambito dello studio psicologico. Il tutto si innesta nella trama con un amalgama frutto di elaborazione attenta che tuttavia non diventa macchinosa, ma, in virtù di un’immedesimazione empatica con i personaggi e le loro istanze, scorre fluida.
La narrazione non è mai asfittica o incolore. La sinuosità della frase è sempre finalizzata alle curve e alle ellissi della vicenda narrata, possiede l’agilità e lo scatto consoni ad un racconto che fa della tensione conoscitiva e della vividezza delle passioni il proprio fulcro e la propria sostanza. La specificità del rapporto fondamentale di ogni storia raccontata, quello tra il narratore e la dimensione temporale in cui si colloca e ci trasporta, è, qui, anch’essa originale e specifica: la vicenda del pensiero sembra venire allo scoperto e prendere corpo e voce non per evocazione memoriale, ma, potremmo dire, per processi psichici che vengono fuori nell’immediato del momento emotivo e intuitivo dell’io.
Al di là del piano presente, non a caso volutamente adottato dall’autrice nell’arco dell’intera storia, c’è quello (evidenziato dal corsivo) in cui il romanzo sembra dialogare con se stesso, come se la storia fosse a un certo punto evocata dalla scrittura. I corsivi non fanno riferimento ai ricordi ma rappresentano nella narrazione uno “sguardo interno” che illumina piani “virtuali”, ossia mentali, che prendono corpo nel momento della scrittura stessa, spostando la narrazione, con misura e gradualità, in direzione di un metaracconto, inserito, in certi punti, non per volontà esplicativa ma per intrinseca necessità. Questi piani “interni” sono uno dei meccanismi che maggiormente contribuiscono a conferire al racconto quella capacità di scavo e indagine ad ampio raggio a cui si è fatto cenno nel paragrafo iniziale.
Le escursioni “interne” o interiori sono intarsi brevi, quasi in trance, come dettati da una volontà autonoma. Agiscono entro loro piani paralleli, come se la scrittura narrasse se stessa, per rispecchiarsi nell’enigma stesso, il centro focale di tutta la narrazione. Adeguata sintesi di questo meccanismo e del concetto ad esso legato si trova in questa densa definizione che cito: “una storia che non conosco […] si sta ribaltando nella mia”.
Questi “doppi piani” in cui ha luogo il processo cardine dell’intera vicenda, la forte identificazione dell’autrice con “l’altra, si trovano in modo evidente in alcune pagine chiave, in modo diffuso, anche se ve ne sono altri frammenti di minore estensione in altre parti del libro. Sta al lettore il compito di dare un’interpretazione autonoma sul rilievo narrativo, simbolico e psicologico di questi “intarsi”.
Sussiste in queste pagine la volontà di mostrare ed esplorare l’intera gamma delle sensazioni e delle pulsioni. Il mistero che è alla base della trama diventa in tal modo uno strumento, una bussola per addentrarsi in un universo altrettanto misterioso, quello dei meandri del bene e del male, della mente e del corpo e di tutti quegli anfratti in chiaroscuro in cui le due dimensioni di incontrano, si scontrano e si stringono saldamente, uniti da un velo:
Lei posò il bicchiere. Con estrema naturalezza si sollevò di poco dai cuscini e si sfilò con tranquilla lentezza un solo guanto guardando tutti e nessuno davanti a sé. Le bastò slacciare con due dita l’unico gancio del corpino damascato che i seni, a lungo trattenuti, esplosero. Li tenne nelle mani per qualche secondo, poi aprì le dita. I seni, d’un rosa perlaceo alla luce tremolante delle torce erano gonfi e sodi, perfetti. Con lentezza immerse la punta delle dita nel bicchiere del compagno e si inumidì le labbra rovesciando il capo sui cuscini. Finalmente attirò il giovane a sé e si sollevò le ampie gonne.
Nessuno si mosse. Sprofondata nell’erba, completamente vestita, assecondava con tranquilla noncuranza i movimenti rapidi e vigorosi del primo partner finché cessarono; poi, quelli lenti e profondi dell’altro.
L’intensa curiosità e sensualità, trasmesse in modo elegante, senza approssimazioni, sono il tratto distintivo e il valore aggiunto del romanzo. Il brano qui sopra citato è uno dei moltissimi esempi possibili di descrizione visiva, in cui lo sguardo, condotto ad alternare panoramiche e primi piani di impianto quasi cinematografico, si arricchisce anche di ulteriori segni e segnali, un universo visivo che diventa all’istante immedesimazione, immersione completa nei gesti e nelle azioni, negli stati d’animo pensati e percepiti. Come se l’espressione adeguata delle sensazioni, delle pulsioni, delle esitazioni e degli slanci, non fosse un qualcosa in più, un mero abbellimento esornativo ma fosse essenziale al pieno godimento estetico e carnale. Tale denso connubio richiama l’intera gamma sensoriale e rende il romanzo accattivante, sia a livello narrativo che percettivo.
Nel libro la trama e il mezzo per esprimerla, il linguaggio, sono intersecati in modo assolutamente coerente. Lo stile influenza il contenuto e lo determina. Non è irrilevante in quest’ottica il fatto che l’autrice provenga da una lunga pratica di pensiero poetico e da una ricerca spesa sul campo, pluridecennale, per la parola e lo studio ad essa inerente e correlato. L’aderenza tra parola e pensiero, cari da sempre a Marisa Papa, e, aggiungo, l’interesse per i filtri linguistici, per l’essenzialità più che per la descrizione eccessiva o ridondante, vengono, nelle pagine di questo romanzo, messe in atto e ulteriormente confermate.
La linea gialla evocata nel titolo richiama in modo indiretto ma chiaro l’idea del confine, della barriera, topos della letteratura di ogni tempo e nella nostra epoca più che mai attuale, sia nel mondo virtuale che nella dimensione reale. Partendo da questi ingredienti e da questi dati di fatto, il romanzo gioca, con seria e appassionata costanza, a scardinare le regole e a mostrare come in una serie di rifrazioni progressive quanto le immagini e i ruoli, i volti e le maschere si sovrappongano. Torna e riemerge il caravaggesco rincorrersi delle luci e delle ombre, con i volti messi in evidenza nella loro imperfezione, umanissima, fragile e innocente ma anche avidamente perversa, assetata di scoperte, e, appunto, di passioni, altra parola chiave del tutto fondamentale.
Il romanzo è costruito con perizia, la trama è densa, i nodi richiamano altri nodi in un intreccio saldo, corposo. Ma come in ogni lavoro ben realizzato, il trucco non prevale, resta dietro, nella parte sottostante alla tela. Quello che emerge sono i grumi di colore e le ombre, la corposità non di rado ruvida dei destini, la tangibile concretezza della carne che si fa proiezione dei pensieri, dei desideri, dei dubbi, delle luci e del loro inesorabile contrario, ugualmente attraente, come un mistero di cui si cerca la soluzione, o almeno una soluzione possibile, compatibile con ciò che siamo e ciò che vogliamo.
Costruito con perizia lessicale e strutturale, il romanzo può ben richiamarsi, sotto certi aspetti, ad alcuni psico-thriller basati sulla descrizione visiva d’impianto cinematografico grazie all’impiego di “tagli” scenici, di “spaccati” caratteriali efficacemente essenziali, oltre che di inaspettate inquadrature d’ambiente dove è possibile intravedere, come in controluce, alcuni squarci della città cara all’autrice: Napoli.
Il racconto, come detto, ama rendersi ricco, esondare, fare invadere l’alveo della trama da mille rivoli di materia e sostanza diversa. Il risultato è un insieme denso e cangiante, un fluido in cui scorrono richiami intertestuali mai casuali, mai privi di senso e di risvolti. La cultura dell’autrice non è messa in mostra per puro narcisismo. Ogni riferimento ha un senso, o meglio una varietà sfaccettata che allo stesso tempo amplia il raggio visivo e ci conduce in svariate direzioni, e, dal canto opposto, illumina a poco a poco il mistero che è alla base del percorso e della ricerca, permettendoci di avvicinarci alla verità, o meglio alle verità, ai riflessi che cogliamo al di sopra e al di sotto della superficie, là dove sussistono i pensieri e i desideri che davvero contano e incidono sul nostro vivere.
Questo romanzo ci conferma, con libertà e rigore narrativo ottimamente abbinati, che niente è davvero come sembra e che per avvicinarci al luogo che cerchiamo e alla soluzione auspicata è necessario superare quella linea di demarcazione tra razionalità e immaginazione, realtà e fantasia, per giungere ad un luogo in cui dimora ciò che abbiamo perduto, quel nostro ego parallelo, il burattinaio di cui pensavamo di muovere i fili fino al momento in cui scopriamo che quei fili sono dentro di noi. Anzi, quei fili siamo noi. Accettando ciò ritroviamo finalmente la protagonista, Sara, e con lei “un altro piano della coscienza, su un altro schermo, da cui va prendendo forma una storia parallela ma sommersa che adesso emerge, imperiosa e tremenda, in tutta la sua vivida consapevolezza”. Questo romanzo ci conduce a percorrere, sulla pagina e dentro di noi, vicende “opposte e speculari”. La meta a cui si osa arrivare, aspra ma essenziale, è “l’inaspettato ritrovamento, tutto interiorizzato, di ciò che era perduto per sempre”.
Ivano Mugnaini
Marisa Papa Ruggiero, scrittrice, artista verbo-visuale, studi di formazione artistica compiuti a Milano e a Napoli. Inizia il suo percorso di scrittura creativa alla fine degli anni 80 affiancandolo all’attività pittorica e didattica nei Licei della città di Napoli dove vive. Ha pubblicato una dozzina di libri di poesia, in prosa e alcune edizioni d’arte. Tra i titoli più recenti: Le verità bugiarde, 2009; Passaggi di confine, 2011; Di volo e di lava, 2013, Puntoacapo; Jochanaan, 2015, Ladolfi; Un intenso venire, 2017, Passigli; Se questo è il gioco, 2018, Eureka. Promotrice culturale, le sono attribuiti diversi premi e segnalazioni di merito. Collabora con interventi creativi e critici in riviste, in rassegne d’arte, in siti web. Suoi testi poetici sono stati rappresentati come eventi scenici in siti archeologici in Campania e in Sicilia. É tra i fondatori di alcune riviste letterarie, la più recente è Levania, edita a Napoli, di cui è redattrice. Il suo romanzo OLTRE LA LINEA GIALLA è attualmente in corso di stampa.
Profumo di elicriso – stralci della prefazione
Pubblico qui alcuni stralci della mia nota ad un libro di recente uscita di Anna Moro edito da Edizioni Divinafollia. Una lettura adatta a chiunque voglia riscoprire il gusto di una narrazione di stampo “classico” ma non priva di richiami alla modernità e a sentimenti che restano attuali, vividi e necessari.
Il romanzo contiene una passione forte ma lucida, adeguata alla descrizione dei tempi e della società descritti, la Sardegna di alcuni decenni fa. Come l’autrice stessa ha dichiarato, Profumo di elicriso è stato scritto per conservare la memoria di un episodio realmente accaduto a un suo bisnonno, ultima vittima di una lunga faida, ucciso per la sua sete di giustizia e di legalità quasi mai presenti in quello scorcio di secolo in Sardegna.
La narrazione nasce dunque da una motivazione personale fortissima. Ma riesce ad andare oltre, assumendo, senza forzature, senza vane pretese didattiche e senza tirate morali, un valore più ampio, universale, evidenziando tramite gesti e sentimenti autentici, l’eterno contrasto tra la bassezza e la volontà di elevarsi, tra la violenza e l’aspirazione ad un’esistenza più umana e armonica.
Profumo di elicriso regala, anzi restituisce il gusto di una scrittura sobria ma non sterile e vuota, priva di acrobazie sintattiche e lessicali, numeri da circo ed effetti sbalorditivi, ma mai aliena all’emozione del racconto, la volontà e la necessità dell’affabulazione, qui ulteriormente accentuata dalla profonda motivazione personale, il desiderio di tener vivo il ricordo di un parente che è diventato simbolo della sete di pace e di giustizia di una famiglia.
Il tono è sobrio, controllato, come se un narratore onnisciente osservasse con disincanto i propri simili, in una sorta di coro, una coscienza collettiva tipica dei piccoli centri a qualunque latitudine. Ma a tratti lo sguardo si apre in un guizzo o in un sorriso, breve, fulmineo, ma in grado di illustrare con efficacia la crudeltà e la solidarietà, la disperazione e la tenacia, la miseria contrapposta alla grandezza dell’animo.
Alla pubblicazione del libro ho contributo in parte anch’io tramite la lettura, l’editing e la prefazione.
Chi volesse inviarmi in lettura manoscritti inediti di narrativa e poesia, o libri già editi, mi scriva a ivanomugnaini@gmail.com
DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE
LETTI SULLA LUNA (4)
Il quarto libro segnalato è Dalla canicola al blu, di Lorenzo Falletti. Si tratta di racconti, un genere che consente una gamma molto ampia di variazioni sul tema, voli panoramici e scavi psicologici. Schizzo e dipinto dettagliato, abbozzo e disegno accuratissimo. Ho apprezzato i racconti di Falletti, come ho scritto anche nella prefazione di cui pubblico uno stralcio. Assieme al parere di una scrittrice-lettrice, Viviana Albanese, che ha voluto e saputo manifestare con sincera schiettezza e nitida partecipazione le sue impressioni e le sue emozioni.
Anche in questo caso, per chi sarà incuriosito, buona lettura; che, è, alla fine, quello che conta.
IM
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“vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo.Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.
Lorenzo Falletti, DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE, puntoacapo Editrice, Pasturana 2016, pp. 100, € 12,00
Un estratto dalla prefazione
Una verve comunicativa generosa e barocca quella dei racconti di Lorenzo Falletti. Uno specchio della sicilianità delle sue origini, fatta di sole, leggende, verità, iperboli sospese tra ponti concreti e immaginari, grandezza e sofferenza. A lato di tutto, in posizione pigramente attiva, tra coinvolgimento e atavico distacco, lo sguardo osserva la vita che suda, sbraita, si agita, corteggia e si fa corteggiare, irride e si rende ridicola, una goccia di sudore che scalda e placa al contempo: l’ironia. E una forma agra di indagine sull’esistere che un siciliano di Girgenti, tra drammi e farse, a suo tempo teorizzò e mise in pratica: il sentimento del contrario.
L’umorismo, anche nei racconti di Falletti, è ancora di salvezza, rifugio e schermo contro i colpi e gli spari della verità, quel sangue troppo caldo e troppo vivo. Falletti erige una barriera protetta da un cancello di ferro, ma di un ferro particolare, robusto ma mai pesante, mai ingombrante e goffamente massiccio. La danza barocca della parola è fatta di volute rotonde e lente, ghirigori e arzigogoli: un’esuberanza di aggettivi posti ovunque, sparsi come semi in un campo, rosseggianti e maturi come fichi d’india. Ma la crescita non è mai caotica nelle narrazioni di questo libro. C’è, accanto e dentro al rigoglio espressivo, un altrettanto saldo controllo, un rigore geometrico che impedisce di strafare e “stradire”.
Ciò è reso possibile dall’altra inclinazione naturale dell’autore, quella che poi è sfociata nella sua occupazione professionale, la recitazione. Nell’arte teatrale, lo sappiamo, tutto è tempo e il tempo è tutto. La misura quindi, anche qui, nelle storie registrate nella memoria e raccontate con gusto, contrasta e regola la sovrabbondanza senza togliere nulla della freschezza e della follia, del profumo e dell’eco della vita vissuta. È come se Falletti si facesse regista di se stesso e dei suoi personaggi, delle vicende che mette in scena sulla pagina.
Il risultato di questo connubio è un insieme godibile e originale di affabulazione e sostanza. Le trame sono sempre ben ritmate, mai lente o apatiche. Ma non c’è spazio neppure per una frenesia approssimativa e affastellata. Le descrizioni sono ricche di dettagli e di colore ma mai meramente estetizzanti o poste lì per puro sfoggio.
“Il suo bagaglio magicamente s’aprì rovesciando una notevole quantità di piccoli oggetti: stelline, cilindri in metallo, palline, molle, marionette, tremule uova fritte in lattice, fazzoletti colorati ed altri aggeggi non catalogabili con nomi cristiani. Lo scroscio della pioggia di faville catturò l’attenzione di una bambina. Nei suoi occhi si specchiò la saettante follia dei balocchi.”
In questo esempio tratto dal racconto d’apertura, “Dalla canicola al blu”, si coglie in modo immediato la generosità espressiva a cui si è fatto cenno, quasi una volontà di dare al lettore non solo più dettagli possibili ma anche suggestioni, coordinate sensuali, odori, colori, sfumature visive, ed anche mentali. Come un pittore che aggiunge pennellata su pennellata, strato su strato, per giungere a rendere quasi tangibile quella “saettante follia dei balocchi”.
C’è anche un tocco di poesia, nelle trame di questo libro. Potrebbe sembrare fuori luogo, o apparire ridondante o puramente esornativa, se, a ben vedere, non fosse essa stessa sostanza, materia, o complemento mentale di quei riferimenti oggettivi, ed oggettuali, di cui le storie narrate abbondano.
Ivano Mugnaini
Lorenzo Falletti, DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE
Io non sono una lettrice di racconti, la narrazione breve non è la mia misura, soffro quando capisco che c’è del non detto e che quel non detto avrebbe potuto essere funzionale alla storia, magari donandole un po’ di forza in più, rendendola più completa. Questa mia convinzione è stata smentita dal primo racconto di questa raccolta Dalla canicola al blu, che dà anche il titolo al volume. Si tratta di un racconto abbastanza lungo e questo può sicuramente avermelo fatto apprezzare di più, ma ho trovato tra le righe una storia così potente e dei personaggi così profondi da farmeli amare e comprendere come quando si viene rapiti da un buon romanzo. Il protagonista Vincenzo Cassarisi è intenso, appassionato e pieno di contraddizioni e queste caratteristiche lo scrittore le fa assaporare tutte al lettore: la vita sregolata, fino alla fine, e la voglia di normalità, il tentativo di formare una famiglia a costo di falsificarne le fondamenta, il bisogno del pubblico e del successo ma anche la necessità di tornare a casa dalla madre, da quell’unica certezza che aveva dovuto abbandonare anni prima. Non mi sarei aspettata tanto; da un racconto e da un autore la cui professione è l’attore teatrale mi aspettavo più descrizione scenica, più gesti accentuati, plateali e invece ho trovato una profonda analisi dei personaggi ed emozioni palpabili che arrivano dritte al lettore.
Anche gli altri racconti sono intensi; qualcuno mi ha toccato più di altri, nonostante i temi trattati siano fondamentalmente gli stessi: diversità innanzitutto, fisica e mentale (Liberi dagli stracci e Solo per i bimbi) ma anche sociale (Il principe Walter) e la necessità di integrazione spesso negata a questi personaggi, una frustrazione che sfoga spesso in violenza indirizzata solitamente verso la direzione sbagliata, come succede in Cari vecchi jeans.
Ogni racconto potrebbe appartenere a un genere diverso, nonostante quel comune denominatore che è la diversità, ma uno su tutti mi ha colpito più degli altri ed è Il principe Walter. Qui l’autore infatti sorprende più volte il lettore, e non solo per ciò che accade, per la sequenza degli eventi, ma perché disorienta, trascina nella mente del narratore e ad ogni pagina ci si chiede chi sta narrando veramente e se chi sta narrando la storia è cosciente di quel che accade, se la dimensione è quella della realtà o quella onirica e, alla fine, si rimane con l’amaro in bocca e uno strano senso di circolarità degli eventi, della vita.
È un libro che consiglierei e a cui non riuscirei ad assegnare un genere. A mio parere in pochi racconti c’è tanta varietà da poter appassionare ogni tipo di lettore e tanta maestria da parte dell’autore nel raccontare storie e personaggi diversi tra loro, donando a volte speranza ma spesso solo un senso di predestinazione.
Viviana Albanese
Qui di seguito la parte iniziale del racconto che dà il titolo al libro:
DALLA CANICOLA AL BLU
Aprì la porta sporgendo cautamente il capo all’interno.
Si trovò faccia a faccia con un silenzio irreale. Non era successo niente. Bene. Non era venuto nessuno. Bene. Entrò cercando di non far rumore.
– Mamma… mamma… dove sei?
Prima piano con un soffio di voce poi, prendendo coraggio, sempre più forte.
– Mamma… ci sei? – Entrò in cucina a passo felpato. Era lì sua madre, seduta, assente, gli occhi infissi come chiodi sul muro bianco.
– Mamma, perché non rispondevi? –
Lei tacque imperturbabile. Aveva qualcosa di strano, di diverso dal solito in sè che per un attimo lo fece trasalire ma che non riuscì a cogliere.
-Allora…? Sono venuti?- Lei tacque ancora.
– Non sono venuti. – aggiunse lui ed esitò un attimo.
Ancora silenzio. Infine, la provocò:
-Insomma vorrei sapere cosa c’entri tu! Che se la prendano con me. E’ con me che devono veders…-
– Gli devi settanta milioni non è vero? Dimmelo. –
La voce atona di sua madre gli strappò il fiato, cadde di peso a sedere. Un colpo a tradimento. Silenzio. Greve di vergogna, di imbarazzo. Le carni che bruciano. E durò, durò a lungo quel silenzio, un tempo infinito. Poi lei riprese a parlare, gli occhi perduti nel vortice profondo di un ricordo.
-E’un maschio Maddalena! Vedrai, sarà la nostra consolazione -.
Era di lui che parlava sua madre.
Vincenzo Cassarisi, professione Mago-comico-illusionista. Età, venticinque anni. Stato civile, nessun vincolo, neppure con l’aria. Sempre in fuga da tutto e da tutti. Personaggio brillante, ma spesso in preda a uno stato nevrotico che ne vestiva l’esistenza. In quell’attimo, di fronte a lei, si sentì come trafitto dagli spilli alla schiena, ai piedi, dappertutto. S’alzò di scatto con le mani percorse da un tremito e raggiunse il soggiorno. Lei doveva averlo visto così un milione di volte ma probabilmente aveva smesso d’esserne emotivamente coinvolta solo alla millesima, una madre è sempre una madre.
Vincenzo aprì il portafogli. Scontrini, appunti, biglietti del bus, come grossi coriandoli planarono sul pavimento. Incollò le dita su una banconota nuova di zecca arrotolandola. Poi, svuotando un piccolo involucro di cellofan, formò sul comodino una striscia di polverina bianchissima. Applicò la banconota alla narice ed aspirò velocemente. Qualche secondo e si accorse che la stanza era a soqquadro. Con uno scatto si precipitò in cucina.
-Sono venuti allora! Mamma perché non mi hai detto che… –
Ma di nuovo si interruppe giungendo alle spalle di lei. Posò lo sguardo, per la prima volta, sui suoi capelli estirpati come gramigna. In un secondo immaginò la scena. Fluirono nella memoria presenze sinistre. Quando era accaduto? Un’ora? Due ore prima? Forse meno. Rabbrividì. Una contrazione allo stomaco lo aggredì deformandone i tratti del viso. A piccoli passi si pose di fronte a sua madre. Le si accovacciò accanto. Ne abbracciò le ginocchia scarne, muto.
– Vincenzo,Vincenzo…- un filo di voce, lucido e vibrante come quello di una ragnatela. Restarono così, secondi, forse minuti, di nuovo. Ma non c’era niente di nuovo in questo. Da giorni, da mesi, da anni. Vincenzo si alzò.
– Mamma, i tuoi capelli…-
– Che vuoi che mi importi dei capelli –
Nuovo lungo silenzio. Poi lei riprese.
– Dove vai stasera? –
Vincenzo rispondendo ad un irrefrenabile istinto istrionico, assunse un piglio professionale e malgrado la desolazione della casa per aria accennò ad una piroetta. Poi, con voce brillante, diede inizio al numero.
-Signori e signore, tra poco, su questo esclusivo palcoscenico, il grande Cassarisi mago-comico-illusionista, eseguirà per voi uno dei suoi spettacolari numeri. Nessun altro al mondo saprà infondervi la stessa suspance e lo stesso brivido! – S’avvicinò alla madre e sfiorandola con mano lieve fece apparire due coltelli tra le pieghe dei suoi abiti.
-Signore… ma cos’ha qui? Un armamentario! Siamo forse in presenza di un novello Jack lo Squartatore? Due coltelli? E questo cos’è? Un trancia polli? Ma che se ne farà mai di un trancia polli? –
Poi rivolto al pubblico immaginario con teatrale “a parte”:
– Ah, ho capito, con tutti i polli che ci sono in giro un borseggiatore che si rispetti deve circolare attrezzato. Bravo!
Lei lo osservava con un sorriso amaro sulle labbra. Era rimasto l’adolescente di sempre. A saper leggere scovavi ancora, nell’adulto, i tratti infantili, come sbavature di colore lasciate sulla tela da un pittore alle prime armi. Ripensò alla faccia seria con cui da ragazzino fregava tutti giocando coi tappi delle birre. Gli guardava le mani, abili come sempre. Quante volte aveva richiuso la porta alle spalle di lui che arrivava rincorso dai compagni inferociti, mentre qualche tappo ancora gli scappava dalle tasche rigonfie dei calzoni corti.
Con le scarpe pericolosamente slacciate e le labbra increspate da un sorriso, correva Vincenzo, all’impazzata, sul ventre tremulo di quell’afa pomeridiana che sorgeva dalla terra sfocando la campagna, laggiù, in fondo alla stradina polverosa. Lei se lo stringeva al petto, forte, con complicità. Che altro poteva fare davanti a quel sorriso? Quei denti bianchi come mandorle sgusciate finivano sempre per abbindolarla. Si sentiva ancora addosso il suo umore selvatico di furetto.
Non aveva mai voluto smettere di giocare Vincenzo ma non si aspettava che quelli se la prendessero con lei.
– Adesso, gentile pubblico, avrei bisogno di qualcuno uscito di fresco dall’ospedale. No, non lei… ho detto dall’ospedale non dalla galera. No, lei no… lei neppure… oh, santo Iddio!
Fu la voce di sua madre a distoglierlo dalla performance.
-Vincenzo, smetti per favore! – Vincenzo s’arrestò di colpo.
– Devi andartene. Lo hanno detto quelli.
“Quelli” ebbe l’effetto del vischio sulla pelle, una sensazione di caldo paralizzante. Solo dopo qualche secondo gli bastò l’animo per trascinare lentamente una sedia. Le sedette accanto. Poggiò il viso su ciò che restava dei suoi capelli. Lei socchiuse gli occhi. Con la mano diafana carezzò la sua pelle di bambino. Ne avvertì il profumo e non avrebbe voluto.
Fu il suono della voce di Vincenzo, questa volta, a giungere come rimedio ad un salto nel vuoto.
– Ce ne andremo insieme mamma .-
– No – Rispose lei decisa.
-Ma non posso lasciarti in balia di quella gente! Rifletti: oggi hanno fatto questo ma domani? –
-Non ci sarà nessun domani se dovessero tornare e trovarti in casa.
Devi sparire… solo così mi lasceranno in pace. Questo hanno detto. E’ una grazia, Vincenzo, l’ultima… per me e per te.-
Ancora una lunga pausa.
– Ma dove vuoi che vada mamma…? –
– Dovunque, purché tu vada, poi si vedrà. –
Lui non disse una parola di più. Attraversò lentamente il soggiorno e giunse in camera sua. Preparò il bagaglio. Solo una valigia, neppure troppo grande.
Il mago Cassarisi aveva ben poco da portare con sé. Un bagaglio fatto di giochi, di trucchi più che di indumenti. Importava assai a Vincenzo di coprirsi; il freddo era dentro. Un freddo che solo la risata del pubblico riusciva a dissolvere. A fine spettacolo puntava lo sguardo sulla gente, sulle sciarpe colorate, su trecce, cappelli, sul goffo barcollare dei bambini assonnati imbacuccati nei cappotti. Al diradarsi di quell’ordinaria umanità scompariva dietro le quinte. Gettava alla rinfusa nella valigia i ferri del mestiere per raggiungere col tremito in corpo il primo anfratto che gli capitasse a tiro per incontrare la sua compagna. Lei, impalpabile dama, gli si concedeva ormai per tempi sempre più fugaci, negli anni era diventata avara. (Certe amanti svaniscono all’improvviso lasciandoti in ricordo solo la scia di un profumo struggente.)
Sua madre ne avvertì la presenza alle spalle. S’era arrestato sulla soglia della cucina, valigia alla mano, bloccato da una dolorosa riluttanza.
Lei era di nuovo assente, come scissa in mille particelle sull’universo bianco di un muro. Vincenzo tornò indietro e s’avviò all’uscita. Senza rumore chiuse alle sue spalle l’uscio di casa. Due lacrime urlarono, scivolando sui solchi precoci del viso lei.
Un treno, uno qualsiasi- pensò il giovane prestigiatore avviandosi verso la stazione.-
Ma tu guarda- borbottò tra sé – un mago a cui tocca fuggire come un ladro! Ma, in fondo, tutti i ladri sono un po’ maghi. Solo che i ladri spesso, assieme alle cose, rubano anche i sogni delle persone. I maghi, almeno quelli, sono ben lieti di regalarteli.
Trovò, comunque, giusto fuggire. Non era stato molto furbo da parte sua far sparire “per gioco” un sacchetto di coca da una certa valigia. I sacchetti di coca non sono fazzoletti colorati e poi, dettaglio tutt’altro che trascurabile, quelli a cui lo aveva soffiato non erano certo tipi da apprezzare i lazzi dei fantasisti. Gli tornarono in mente, una ad una, le loro facce bovine.
Affrettò il passo guardandosi intorno. Camminò sui grossi granuli di pietrisco scuro dei binari avvertendone le sporgenze aguzze attraverso le suole sottili.
– Maledette gambe!- pensò – ti portano sempre dove non vorresti- ma meglio una multa o un taglio al piede che il frequentato sottopassaggio.
Il primo treno in partenza dalla stazione di Messina era sul binario tre.
“Messina – Milano” c’era scritto sulla tabella gialla. Poteva andare bene. Come posto gli parve abbastanza distante. Eccessivo fuggire in Brasile e quella sera stessa. Al biglietto e ai documenti non pensò minimamente, lui aveva i suoi. Era o non era un mago? Ma un momento… quello su cui stava per salire non era forse un vagone letto? – E allora? – si rispose – e subito si ridacchiò addosso valutando che non avere prenotazione fosse un problema altrettanto ridicolo.
Detto-fatto, si ritrovò a percorrere il corridoio riscaldato alla ricerca di uno scompartimento tranquillo. Ne scelse uno ma, mentre stava per varcarne la soglia, il suo bagaglio magicamente s’aprì rovesciando una notevole quantità di piccoli oggetti: stelline, cilindri in metallo, palline, molle, marionette, tremule uova fritte in lattice, fazzoletti colorati ed altri aggeggi non catalogabili con nomi cristiani. Lo scroscio della pioggia di faville catturò l’attenzione di una bambina. Nei suoi occhi si specchiò la saettante follia dei balocchi.
– C’è un mago! –
Un trillo, una sorta di richiamo che parve il dipanarsi di un festone tra le grigie pareti della vettura.
Al mago era capitato spesso di aprire la valigia davanti alla polizia locale (che lo conosceva bene) o negli angoli bui delle stazioni quando dimenticava in quale giocattolo aveva nascosto la roba di riserva. Gli fece piacere che, per una volta, qualcuno aveva pronunciato la parola giusta, semplice e magica, appunto. Troppo spesso passava per un rappresentante di giocattoli o per un piazzista qualunque. Che fosse un mago, insomma, nessuno lo aveva mai supposto, neppure per sbaglio.
Vincenzo allora, davanti alla sua minuta spettatrice, si produsse in un inchino sbilenco, un po’ per via dello sgangherato contrappeso che si ostinava a chiamare valigia, un po’ per via del corridoio stretto.
-Permette, signorina? Vincenzo Cassarisi, mago-comico-illusionista al suo servizio… –
Mentre lei lo fissava incuriosita, una donna s’inginocchiò, premurosa, a raccogliere i ninnoli. Vincenzo, allora, poggiò la valigia su uno dei posti letto. Si ritrovarono in tre a riempirla nuovamente, in preda ad una strana euforia.
Richiuso il bagaglio si presentarono. Il quarto viaggiatore, un uomo sulla cinquantina, distinto, dai capelli brizzolati, non aveva fatto una piega.
Il mago pensò ad un viaggiatore solitario. Dopo poco, senza scomporsi, l’uomo parlò.
– E’ proprio certo di avere un posto assegnato qui? –
Lui guardò la donna, osservò le sue curve, i suoi occhi verdi, i capelli corvini. Era molto bella. Come avrebbe potuto rispondere di no?
– Sì certo, vediamo, vediamo… questa deve essere la cuccetta numero 151. Si, è questa. Permette? – proseguì Vincenzo, avvicinandosi all’uomo con la mano protesa.- Vincenzo Cass… –
– Sì, ho sentito – fece quello, senza distogliere lo sguardo dal buio pesto del finestrino.
– Cordialità commovente.- sussurrò ritraendosi Vincenzo. Donna e donnina, accennarono ad un sorriso impacciato.
Il nome di lei, della donna, era Cecilia.
A lui parve proprio un bel nome. Anche le sue gambe gli parvero belle, perché erano belle: tornite, nervose, diritte come due sedani.
– Ma perché, i sedani sono diritti? – Si domandò, chiudendosi in una delle sue profonde digressioni. – Se aveva fatto questo pensiero, certo un motivo doveva esserci. Forse perché un bel sedano, oltre che cotto, va anche gustato crudo, fresco e croccante. – Sì, forse ci sono – pensò – in fondo ogni volta che mi piace una femmina mi dico sempre: “Questa me la cucino” no? –
– Guarda – disse, sedendosi, alla bimba – guarda cosa ti regalo. – e portò la mano in tasca – regaliamo a… come si chiama la piccola, scusi? –
– Marinella- rispose pronta Cecilia, che già gli indirizzava sguardi tutt’altro che di circostanza. Lui tirò fuori dalla tasca un agnellino di plastica che animò premendo una molla alla base. Lei rispose con un sorriso convalescente, come la traccia di luce sul volto di una bambola consunta dai giochi.
– Bello! –
– Sta attenta però, mi raccomando, il lupo è sempre in agguato!
– Io sono lo zio. – rispose a denti stretti l’uomo.
-Scusi tanto, sa. Dev’essere stato il suo pelo grigio a trarmi in inganno. Certo, se ora la bimba mi rassicura. Proviamo a chiederlo a lei. Questo signore è tuo zio non è vero ?
– Lei, giovanotto, è un po’ troppo impudente per i miei gusti! –
– Lei, invece, pare essere un lupo alquanto maleducato. Ops, scusi… volevo dire uno zio alquanto maleducato! –
Le donne soffocarono nuovamente una risata. L’uomo, dopo una lunga pausa, si alzò e contenendo il disappunto gli andò incontro con la mano protesa.
– In fondo non posso darle torto, sono stato un po’ scorbutico poc’anzi. Permette? Dott. Angelo Petralia – Presentazione fatta. Un contatto che però, al mago, non piacque affatto. Aveva la mano viscida il tipo. Ripensamento troppo immediato per essere vero. Un mago sa scrutare le facce e gli occhi della gente, è da lì che si affaccia il cuore degli uomini sulle cose del mondo. Suo malgrado non riuscì a capire quale genere di rapporto legasse i tre. Ma in fondo siamo tutti degli strani viaggiatori, concluse. Certo, vedere una donna così giovane in compagnia di un orso (anche se molto distinto) in viaggio con una denutrita nipote da ospedale da poveri, non poteva che destare perlomeno curiosità. Per non parlare dello sguardo della bambina velato di misteriosa malinconia.
Ma in quel momento ebbe altro a cui pensare: il freddo. Cominciò a sentirlo anche dentro. Infilò le mani in tasca finché non s’alzò col consueto scatto. Pensò alla toilette del treno. La raggiunse. Non che sperasse di trovarla libera ma quanto ci metteva quello ad uscire!? Nel corridoio s’era pure tolta la luce. In certi momenti pare che il tempo si fermi. Finalmente lo scatto della serratura. La luce che trafilò dall’uscio del bagno delle Ferrovie dello stato non temeva confronti con quella dell’eden. Entrò al volo. Girò più volte la maniglia sul rosso. Non s’apriva, bene. Tirò fuori la bustina di cellofan e la depose sul ripiano di vetro della specchiera. Ma fu un attimo; un violento cambio di binario sbatacchiò lui contro la parete del bagno e la bustina dentro il WC. Biglietti… biglietti da centomila zuppi fradici, purtroppo in forma di polvere e a cui non sarebbe certo bastato il calore di un phon per tornare alla vita.
Passaggi riflessi , libro di Anna Maria Benone, prefazione
Qui di seguito la parte iniziale della mia prefazione al libro di Anna Maria Benone Passaggi riflessi. Ulteriori notizie sul libro e sulle presentazioni previste possono essere reperite a questo link: http://sileleeditore.altervista.org/joomla/novita/148-passaggi-riflessi e su questa pagina https://www.facebook.com/AnnaMariaBenonePagina . IM
Passaggi riflessi, Anna Maria Benone, Edizioni Silele, 2015
Il senso del divenire reso esperienza, assimilato gradualmente fino a tramutarlo in ragionamento, senza mai perdere quell’emozione che lo genera e lo nutre. In questo percorso e questo progetto, sintetizzato anche nel titolo del libro, è racchiuso l’arco espressivo di questo volume di poesie di Anna Maria Benone. La poesia dell’autrice spazia tra memoria di istanti vissuti e proiezioni di idee, speranze, ideali onirici ma allo stesso tempo basati sulla concreta pratica dei rapporti umani, sulla convivenza, sul rispetto, su una idealità resa esperienza quotidiana, vissuta, o, più esattamente, sperata. Una delle possibili chiavi forse è collocata proprio nella poesia eponima, quella da cui è stato ricavato il titolo del libro, Passaggi riflessi: “Nella leggerezza il ricordo./ Ascolto eteree melodie./ Il dolore si allontana,/ abbrevia le distanze/ simmetrie parallele/ di/ passaggi riflessi”. Il ricordo è leggero. Ma questa leggerezza ha un peso specifico, un potere, una potenzialità complessa. Riesce ad allontanare il dolore. A tenerlo a bada, non a dissolverlo. Perché è proprio la coesistenza tra dolore e ricerca di serenità che gioca un ruolo determinante, in questa specifica poesia e nella totalità della raccolta.
La poesia di Anna Maria Benone è lineare, priva di orpelli barocchi o di metafore articolate. Non è tuttavia una poesia dedita ad una osservazione del mondo estatica ed anodina. C’è una consapevolezza, non di rado amara, delle imperfezioni del tempo e del destino, dei distacchi dolorosi, del divario tra sogni e realtà. Le distanze a cui fa cenno la poesia sopra citata, sono il fardello di cui tenere conto, la sfida da superare, il nodo da sciogliere come quelle “simmetrie parallele”, quasi un ossimoro spaziale e temporale, una di quelle contraddizioni di termini che la vita rende ineludibili.
SONETTI DOLENTI E BALORDI
“Presenze e paesaggi familiari emergono e si profilano lungo quel sentiero, ombre mute di guardia al vivo e straziato incanto di un universo dove ciò che è polvere riacquista corpo e voce e parla la lingua indivisa degli antri e delle fonti, della sabbia e della goccia che la fa rifiorire, del faro che smania luce dalla voragine oscura che si spalanca al richiamo del suo desiderio e la lascia sciamare libera nell’aria.”
Parto da questo brano della intensa e profonda prefazione di Francesco Marotta per parlare del libro Sonetti dolenti e balordi di Lucetta Frisa. Il sentiero è quello che l’autrice percorre con coerenza da anni nella sua attività letteraria: una lievità densa, una gravità percepita con consapevolezza ma senza mai cedere al gusto autolesionistico (anche nell’ambito della scrittura) del patetismo senza sbocco. E’ la parola che dà forma al dolore ma è la parola stessa che fa rifiorire questi sonetti. Dolenti ma non sconfitti prima di una danza di sfida, simile a quella dei Maori, tra forza e sberleffo, vitale, ironico, tenace. In questo senso forse i Sonetti sono anche “balordi”. Con quella follia che smania dalla voragine oscura ma è anche capace di sciamare libera nell’aria.
Il grido di Pessoa posto ad esergo della sezione Sequenza del dolore è esemplificativo: “sento il tempo come un enorme dolore”. Ma, poco oltre, due versi aprono una ferita che è anche feritoia, spazio aperto su prospettive altre: “Ma s’impara/ che [il dolore] ha mille nomi mille teste vive”. Ciò che si può nominare non diventa meno feroce, però diventa in qualche modo pensabile, oggetto di interazione, quasi soggetto vivo con cui dialogare.
Ho la possibilità di pubblicare la dettagliatissima prefazione di Francesco Marotta e lo faccio molto volentieri. Contiene riferimenti intertestuali ampi e precisi, ma anche una passione di lettore autentica e un apprezzamento non artefatto, non di maniera. Chi lo vorrà potrà trovare nella prefazione riferimenti puntualissimi in grado di approfondire svariati aspetti delle liriche che pubblico qui di seguito.
Follia, mistero, sogno.. ci sono in questo libro tutti gli ingredienti che costituiscono l’orizzonte espressivo di Lucetta Frisa. Miscelati in modo sempre nuovo, con ulteriori scoperte, passi lungo un sentiero che sembra identico ma muta, passo dopo passo. Questo rinnovamento nell’apparente immobilità rinnova la pena ma anche l’emozione, genuina. Quella che nella sequenza più privata viene sintetizzata dalle parole di René Char: “rido meravigliosamente con te/ ecco l’unica fortuna”. Nel dominio dei sonetti dolenti c’è spazio per il riso, se c’è ancora la sorpresa, la scoperta, la volontà di esplorare, perfino terreni bruciati dalla lava o spazzati da venti di uragano.
Scelgo alcune poesie. Anche se una lettura globale del libro, e, lo confermo, della sentita prefazione, parte integrante del testo stesso, forniscono una visione molto più adeguata del viaggio in forma di parole. Per confermare a noi stessi che leggere è “uscire da sé come un giorno/ chiudemmo la porta di casa dietro/ di noi senza le chiavi e il permesso/ dove vai – ci chiesero – non lo so./ Non contavamo i passi le parole/ degli altri credevamo nei numeri/ senza interruzione”. IM
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Sonetti dolenti e balordi
Aprendo i suoi sensi umani il dolore
si fece insopportabile come la gioia
lui volle proteggersi dalla rovina
degli eccessi e dal presente che costringe
azioni ed emozioni a recitare
qui il loro teatro e cominciò a salire
il colle sopra la città e comprese
tempo spazio ironia camminando
in salita respirando pensando
e non pensando più. Il corpo pensava
da solo i suoi occhi pensavano
tutte le direzioni: si fermò
a tradurre il suo grande sogno in libro
ma sapeva che l’amore non si legge.
***
Il dolore è lava di vulcani
colata a valle divenuta nera,
della polvere gli invisibili grani
sono sostanza dell’infinito nero
dei vulcani spenti. Ma s’impara
che ha mille nomi mille teste vive
moriranno insieme a te nel bianco
riflesso dell’occhio di chi ti vede
accartocciarti con il tuo dolore
senza nome e al tuo nome perduto
e a tutti i nomi degli amati giochi
– ferite e cicatrici disseccate –
e con le prime materne carezze
alle ebbrezze esplose ai primi fuochi.
***
La via Lattea non mi scivola sugli occhi
rivolti alla sua perlata scia.
Qui l’ombra di una formica la memoria
confusa del mondo con la sua storia
ottusa persa la sua antica follia.
Dicono i saggi che prima di noi
e dell’umano tempo saturnino
lei regnava indistinta dall’aria.
Ed io quando vado oscillando in bilico
tra pensieri e pensieri e poi slitto
su cose perfide infide e strappo
pelle pupille sesso mi possiede
follia di cullarmi nel suo grembo
snodata da tutti i qui e gli adesso.
***
Per vivere ho bisogno del mistero
occhi di un’altra specie sacre pietre
dipinte o incise nel buio delle grotte.
Scende tiepido dal polso alle caviglie
il mistero delle cerimonie
trattenuto e sfuggito al presente
perché anch’io m’inchino ancora e tendo
braccia mani gola e canto a chi non sente
e non mi vede ora che sono ombra
che vorrei sanguinasse come un corpo
stremato senza più metafore.
Vorrei credere un messaggio sacro
l’imprevista invasione della luce
sul mio scuro letto addolorato.
***
So che il congedo è solo mio solo io
posso gioire o piangermi addosso
solo io conosco il mio inferno lo strato
di terra l’ipogeo dell’inverno
lì mi stendo muta e nuda senza udito
né vista né storia né memoria
e lo specchio non c’è di maga che
mi ricordi chi ero se ero. Bellezza
intravidi da strappi, dai morsi
alle mele ho succhiato veleni,
sputai gli attimi e i lunghi respiri
tutto sembrava insipido da bere
e di tutto mi rimane il desiderio
che svuota e colma d’aria il bicchiere.
***
Non sento non sento nulla qui dentro
e si batte il petto secco con le dita
secche e l’occhio triste lei che sta
per morire vive l’incubo del cuore
svuotato come l’anfora che portò
l’acqua fresca e ora è riversa rotta
nel museo. Soffre di non più soffrire
nel dormiveglia del suo sonno futuro
non ama più né più domanda amore
mi guarda come la parete bianca
che ha davanti: unica cosa insensata.
E quando piango la penso e sentire
devo sentire sentirmi annegare
nell’acqua delle mie torbide lacrime.
***
Bisogna uscire da sé per entrare
negli altri nel loro dolore come
nella loro gioia entrare nell’erba
negli occhi dei cani nel cuore algido
dei metalli e dei sassi docilmente
entrare ovunque dicendo scusate
non siamo invadenti ma è per conoscenza
siamo divisi solo in apparenza
ad ognuno la sua parte e la sua voce
e la sua futura polvere. Sapete
chi siete e dove andate? Amateci
fate finta di parlarci compatirci
anche noi come voi siamo gli attori
di questa tragedia d’odio e d’amore.
***
Questi brandelli di sapienza astri
soli in mezzo al cielo vuoto apparsi
su pagine quasi tutte bianche
riempite da noi da chi ora vive
e li interroga qui tra vita e morte
cauterizzati come un’ustione
antica che ha perduto per sorte
la sua tenera pelle protettiva.
Si deve dire e intuire: ciò che è, è
perché può essere mentre il nulla non è,
allora noi non siamo o da un’altra riva
siamo o non siamo nulla ma potremmo
essere. Uomini ? Chiudo il libro
sotto questa perturbante luce
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Prefazione di Francesco Marotta
La passione dell’origine
In una pagina particolarmente significativa e premonitrice del Libro delle Interrogazioni, nel fervore di un dialogo serrato, estremo, con una parola che è vertiginosa coscienza del vuoto su cui il suo dire si staglia (il deserto che si profila in forma di risposta ad ogni domanda, l’assenza inesprimibile che il segno annuncia nell’attimo in cui depone sulla pagina la traccia febbrile del suo passaggio), Edmond Jabès annota, e ci lascia in eredità come una testimonianza gravida di futuro, una riflessione che è anche un preciso e inequivocabile indirizzo di poetica e di ricerca di senso: “Scrivere è avere la passione dell’origine; provare a toccare il fondo. Il fondo è sempre l’inizio. Anche nella morte, certo, una moltitudine di fondi costituisce l’abisso, tanto che scrivere non significa fermarsi alla meta, ma oltrepassarla senza fine”. La vocazione al superamento e all’oltranza, quantunque l’approdo finale del percorso, una volta varcata la soglia che la domanda dischiude come un precipizio, non sia altro che la certezza del silenzio, la memoria metamorfica di tutti i silenzi attraversati e da attraversare in un movimento infinito e circolare, si definisce nell’idea in atto di una sostanziale restituzione al pensiero della visione originaria, raccolta e addensata in tracce e in barlumi affioranti dal profondo, della caotica dismisura delle sue radici, ovvero nel disvelamento dell’enigma che la sua luce inglobante, ordinatrice e categoriale, riversa sulla superficie accompagnando gli esseri e le cose in tutto il tragitto della loro terrestre vicenda.
L’estrema tensione augurale del testo jabesiano, “alba e tramonto in una sola luce”, si materializza netta e inequivocabile davanti agli occhi della mente, con tutta la sua elementare progettualità di ethos nascente e la sua naturale inclinazione a definirsi in misura di paradigma estetico, ad ogni approccio a questi Sonetti dolenti e balordi di Lucetta Frisa, imponendosi come chiave gnoseologica ed ermeneutica privilegiata, disponendo ed orientando non solo la lettura e l’analisi dei testi, ma fornendo al contempo la mappa più precisa per collocare quest’opera in posizione di rilievo all’interno della produzione complessiva dell’autrice. Le liriche, infatti, non sono il frutto di una occasionale o momentanea e, quindi, immediatamente contestualizzabile accensione, quanto piuttosto “sogni” che “si sarebbero un giorno fatti carne”, il riaffiorare, in natura di lampi ed intuizioni erratiche, di frammenti lungamente covati nel corso degli anni, cresciuti sui margini in ombra di un disegno poetico che da La follia dei morti a Se fossimo immortali, da Ritorno alla spiaggia a L’emozione dell’aria, è venuto costruendosi nel tempo, con rigore, sapienza ideativa e padronanza crescente delle linee e delle strutture fondanti, come un’architettura intimamente e intellettualmente riconoscibile, solida e lineare nella sua voluta e ricercata esposizione ai punti cardinali della percezione e dello sguardo.
La passione delle origini, allora, quasi a sparigliare volutamente l’ordine del discorso, si ammanta in quest’opera di sfumature e colori affatto nuovi e li ricombina declinandosi in forme e modalità “balorde”, sottilmente e deliberatamente “sovversive”, refrattarie all’imperativo di poetiche organizzate unicamente in funzione della trasparenza e costrette, inevitabilmente, entro i reticoli e i codici escludenti di un orizzonte rappresentativo asettico e uniforme, monocromatico e monodico. Tutto ciò riesce possibile, e si realizza con esiti sorprendenti, in forza di scelte lessicali etimologicamente spurie e perturbanti, di un balzo nella penombra del non-detto e del non-ancora tanto sul piano dell’utilizzo sghembo e obliquo, disarmonico e dissonante, di strutture metrico-sintattiche consolidate (il sonetto richiamato dal titolo), quanto su quello di una suggestiva e spiazzante inversione del moto ascensionale che caratterizza, per tradizione o per consolidata convenzione filosofica, ogni processo consapevolmente e compiutamente conoscitivo. Un processo la cui progressione verticale viene rovesciata in una vertiginosa discesa nell’abisso, fino alle viscere ribollenti della materia e dell’essere (“Per vivere ho bisogno del mistero / occhi di un’altra specie sacre pietre / dipinte o incise nel buio delle grotte”): una metamorfosi tutta inglobata e interiorizzata, che comporta la rinuncia a ogni pregressa coordinata razionale e a qualsivoglia permanenza statica del soggetto nel cerchio di una verità e di un senso dati, capace di tramutare in mistero il chiarore, di farne avvertire tutta l’insostenibilità, tutto il peso della carica radiante che ci tiene indissolubilmente legati all’esistenza attraverso una rappresentazione astratta e geometricamente riproducibile del creato, attraverso la ricezione unilaterale della molteplice e polifonica cadenza dei nostri stessi passi (“un enigma per me / camminare in superficie”): da qui la necessità, pungente fino allo spasmo ultimo e alla dissoluzione, dello svelamento, l’urgenza della restituzione di ogni luce alla matrice oscura da cui promana (perché solo “il nero nel sottosuolo / tiene il seme del mondo”), di ogni orma sonora alla dimora da cui si parte, si diffonde e si fa eco e pensiero, mappa udibile e leggibile, plurale, di ogni possibile cammino.
Il poeta sa che il suo canto, parto ed erede della dicibilità del mondo e della progressione razionale della voce tra le maglie di un universo che si rende decifrabile solo nella persistenza inclusiva ed univoca dell’ordine e della luce, ha bisogno di sguardi altri (“occhi di un’altra specie”) ai quali sorreggersi e dai quali lasciarsi guidare in questa catabasi fino alla dimora abissale del principio: altri occhi che parlino, attraverso lo stupore ammutolito dei suoi, la lingua umbratile delle origini, il verbo oltraggioso e inafferrabile di un panteismo apocrifo e pagano, l’alfabeto ferito e sanguinante di chi ha lungamente sperimentato il dolore, la follia, l’esclusione, l’inesistenza, la morte pur di aprire una breccia, con lo stilo, la passione e il furore del suo “grido inascoltato”, nel “silenzio di dio”. Il dolore e il lutto cercano i suoi occhi e la sua bocca, finalmente liberi dalle catene di una luce che esclude il suo rovescio simmetrico, per farsi specchio e visione, per seminare nella nudità del giorno il loro carico di spine e di memorie, la loro sete inappagata di riconciliazione.
Il viaggio oracolare, ossimoricamente dissoluto e aggregante (“io dei balordi sono la vestale”), si articola in sequenze pulsanti come partiture di un coro senza requie, dove le parole si cercano, si allontanano, si rincorrono e si riafferrano come respiri vaporati dai pori di un unico immenso corpo danzante: in ognuna di esse si apre un vortice visivo, un centro immaginale che raccoglie e recupera voci e volti privi di ogni anteriorità e di ogni futuro, presenti da sempre come macchie invisibili d’inchiostro sui bordi levigati di testualità già precedentemente meditate e scritte, come stimmate che, ora, dalla pagina irraggiano nella carne la luce demente o saggia dell’attesa – che covano, all’insaputa dei giorni, il sogno inesauribile di una vita sul limitare di una nuova“’apertura”, la risalita dal caos informe della morte agli orizzonti della ricomposizione. Sono profili che parlano, da lontananze estreme, l’alfabeto familiare dell’insonnia, ombre protettive con le quali lungamente abbiamo dialogato perché le sapevamo, da sempre, portatrici di un verbo innominabile, di un dolore inesprimibile, l’unico capace di contenere e di rivelare “divinità nascoste” scorticandole “fino alla nudità”: sogni senza tempo di un’epifania suprema, lo squarcio tra le pieghe del reale che annuncia la risalita dagli abissi di Kitež, la città invisibile che dimora gli spazi inesplorati e incontaminati delle nostre esistenze.
Presenze e paesaggi familiari emergono e si profilano lungo quel sentiero, ombre mute di guardia al vivo e straziato incanto di un universo dove ciò che è polvere riacquista corpo e voce e parla la lingua indivisa degli antri e delle fonti, della sabbia e della goccia che la fa rifiorire, del faro che smania luce dalla voragine oscura che si spalanca al richiamo del suo desiderio e la lascia sciamare libera nell’aria. Qui si respira la follia di dio: un soffio che per la pupilla murata del presente, per la sua cecità “che costringe / azioni ed emozioni a recitare”, è canto balordo, illusione demente e distorta, ma che, per armonia e risonanza indicibile di poesia, si trasforma in matrice di stupori impensabili, stupori di un tempo senza tempo, di una terra senza nascita e senza morte. Qui Nadežda può ricomporre il volto dell’amato strappandolo agli artigli della storia, custodire il segreto del suo nome a “protezione dal male / della terra”, e col suo canto trasformare in preghiera il furore dei lupi che l’assediano; qui Andrea Salos, investito dalla stessa pazzia celeste, può riaprire la sua bocca, muta da secoli, che ha conservato e vegliato parole potenti e fraterne come un abbraccio, pronte ad accogliere l’ultimo volo dei perseguitati dal destino; qui la donna velata di Elea ancora ritorna a riprendersi la “luce sparsa” dal suo corpo sotterrato e la ridipinge “per chi resta”, ripetendo il miracolo della vegetazione, degli astri e delle stagioni, del disfacimento e della rinascita. Qui il lutto di Alejandra è il dolore taciuto di tutte le creature che trascorrono la loro esistenza “acquattate come bestie in allarme”, che “si dolgono di solitudine / incurabili, inascoltate”: volti perduti per sempre, ai quali può ridare voce solo chi stringe nelle sue mani il filo che tiene i vivi e i morti insieme: solo chi sa farsi lacrima che eternamente migra, di vita in vita, fino a lambire l’immobile riva degli occhi di dio.
Viaggio senza navigatore – METRO C
Niente sconti, nessuna scorciatoia, quella di Metro C di Alessandro De Santis. Una poesia lasciata decantare a lungo, con la consapevolezza che niente cambia. Nessuno ottimismo gattopardiano o da astuto camaleonte concede, ci concede e si concede De Santis. Questo suo libro è stato scritto in vari anni di accumulazione e limatura, osservazione e cancellazione, taglio delle immagini che entrano dentro a forza, sfondando le porte degli occhi. Non resta che aprirli ancora di più, trasformando le lenti in cannocchiali. Il filtro, la discriminante, resta la parola. Per mettere a fuoco, nel senso letterale del termine, la realtà. Farla stillare goccia a goccia, e poi arderla di coraggio, l’acqua, la benzina, il sangue, i liquidi mai puri, mai sterilmente limpidi, sempre sporchi di verità scomode. Perché lo sguardo sulle mani dei diversi, degli esclusi, dei randagi, urla e cola sangue scuro.
Sono i sensi a dare sostanza a questa poesia. L’olfatto, gli odori, i suoni animaleschi, lo sguardo accecato e mai fintamente cullato “tra polvere e zanzare”. Si ferma dal lato più esposto della strada, De Santis, lì dove l’ombra lacera e non carezza e dove perfino la pioggia “picchia forte pesa, fa male/ bussa con nocche robuste/ alla porta di chi si dovrebbe vergognare”.
Versi brevi, pennellate secche, perché niente di ciò che è annotato possa scivolare via con rapida inconsistenza. Tutto deve raggrumarsi, aggrappandosi alla tela, alla polvere e a quella luce densa di pulviscolo in cui accadono le cose vere, quelle tenacemente e ineluttabilmente intrise di umana imperfezione. Perché nelle stanze autentiche lontane da artefatti riflettori, “grugnisce l’emozione” e “anche le (…) sillabe puzzano”, là dove la verità sono “mesi che non si lava/ anni che non mangia dentro a un piatto”. Nei versi di questo libro “la lingua lastricata di stazioni di carne”, emerge, grida, sussurra con vigore penetrante. Una via crucis laica, come ha rilevato Lorenzo Mari in uno dei commenti ai testi tratti da Metro C pubblicato in Nazione Indiana. Gli stessi che ripropongo anch’io, qui di seguito. Il libro è arricchito dalla nota di Aurelio Picca, essa stessa poesia in forma di prosa, un’interazione profonda, uno spunto per riflettere e creare sullo stesso tema, gli stessi colori, le stesse istantanee viste con l’affinità dell’occhio, del tempo, della memoria del presente e del passato e di quel tempo indefinito che è lo spazio delle idee. Pubblico volentieri anche la nota di Aurelio Picca. Un invito ulteriore alla lettura di questo libro scomodo per necessità, non per sfoggio o per abile scelta. Scomodo per la volontà controcorrente di mostrare che dietro le pubblicità, al di là dei manifesti e delle strade asfaltate punteggiate da comodi distributori ci sono altre realtà, ci sono luoghi, e case, e occhi, e istanti in cui il gioco finisce prima di cominciare, “appena cala il sole” e “le donne vanno a casa/ in ritirata,/ attente a attraversare sulle strisce”. Il gioco degli sconfitti, eternamente perduto, senza nessuna speranza di rivalsa o di un nuovo inizio. Un solo palcoscenico, una sola scena, girata male, da chissà quale regista. Con la sola certezza che “si passa per la porta/ nel chiuso, uno alla volta/ ciascuno col suo groppo/ ciascuno il suo rancore/ (…) con la polo/ macchiata di sudore”. Un tour panoramico lento, senza pausa per lo shopping, senza barzellette, senza sfilata davanti alle vetrine dei negozi rutilanti e improbabili, questo libro di Alessandro De Santis. Un giro a piedi, con i sensi aperti, spalancati, nelle strade e nei quartieri in cui, in genere, passiamo solo in macchina, a tutta velocità, quelle volte in cui il navigatore non funziona e ci perdiamo. IM
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testi tratti da
METRO C
di Alessandro De Santis
Borghesiana
Ore 20,50. Nella folla. Spaurito. Pericoloso
Cammina senza sosta, Claudio
sempre la stessa musica
a cui hanno tolto l’audio
Grugnisce l’emozione, Claudio
anche le sue sillabe puzzano
mesi che non si lava
anni che non mangia dentro a un piatto
Suo padre ha scelto sua sorella
e sua sorella il padre
Sua madre invece non ha scelto proprio nulla
La pioggia su Claudio quando
picchia forte, pesa, fa male
bussa con nocche robuste
alla porta di chi si dovrebbe vergognare.
***
Giardinetti
Ore 16,30. Al sole tra polvere e zanzare
Su una panchina
nel parco a pochi passi
c’è la signora Ida
seduta, ferma immobile
Lenta come un pavone
muove l’unghia pittata ad indicare
com’è che vuole il taglio
allegra la romena
le apparecchia intorno al collo
le guance un po’ arrossate
La gita fuori porta è cominciata
la tavola imbandita, anche stirata
Si gioca a fare i ricchi, pomeriggio
ché appena cala il sole
il gioco finisce
le donne vanno a casa
in ritirata,
attente a attraversare sulle strisce.
***
Alessandrino
Ore 23,48. Sbeffeggiare Jonkind lo sciocco.
Profumi sofferti
La lingua lastricata di stazioni di carne
muta e da brodo
salate le lacrime, avvolte nello spago
spesso, vinto nel nodo
nell’abbaglio del fitto
che assale una rinvenuta
frontiera di punte di spillo e mosche.
***
Tomba di Nerone
Ore 08,20. Saliscendi. Velleità pensionabili
Al monte dei pegni
la fila esce dal muro
la conta non ha primi
ma ultimi a decine
Si passa per la porta
nel chiuso, uno alla volta
ciascuno col suo groppo
ciascuno il suo rancore
e Walter con la polo
macchiata di sudore.
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NOTA
Non so più cosa sia la poesia. Sarà che da ragazzo
l’ho cercata come una preghiera o una punizione che
mi facesse male. Oppure mi rendesse invisibile, non
per sparire ma per ripararmi da un mondo di anime
morte eppure provviste di forma, liquidi, pensieri.
Non volevo essere il migliore, non avevo ambizioni, se
non quella di scrivere il mio nome senza il tremore del-
la mano: in realtà la maggiore delle ambizioni. Però
quando la poesia c’è, nel senso che contiene quel poco
di vita che si fa poesia, non vorrei ma ci inciampo so-
pra perché in petto mi monta un frastuono di battaglia:
un urlo muto epperò di ossa frantumate e di sangue
scolato come piscio agli angoli dei muri.
Alessandro (De Santis, metto il cognome tra due
fette di pane perché un poeta, sì, tiene alla memoria,
ma di più ha urgenza del nome suo per costruire la
propria, irripetibile leggenda – assumendosi il rischio
della sconfitta) si prende amorevole cura di incendiare
le polaroid.
Le poesie da lui messe a mangiare dentro scatolette
di conserva, come se le parole fossero cadaverini paso-
liniani, pure spuntati da trincee ungarettiane, rassomi-
gliano molto a delle polaroid non pop, bensì sporche
di fango e ringhiere arrugginite che un tempo, tra i
Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, dividevano in
borgate (le famose Borgate!) la periferia di Roma che
sbatteva a Sud sotto le capocce dei Colli Albani chia-
mati anche Castelli Romani. Polaroid di conserva e fi-
lo spinato che, comunque, fanno i conti con un tempo
precipitato in un’eternità dove si aspettano e abbrac-
ciano sereni flagellati e flagellanti.
Alessandro conta i minuti e le ore per fare i suoi
scatti in mezzo a codesto territorio geologico, umano
e circense. Lo fa calmo. Senza ingerire psicofarmaci.
Scatta e strappa le polaroid che gli giungono in mano
con lentezza rituale, giacché indossa l’abito del sacer-
dote e la coroncina di fiori appassiti della vestale. La
mole di fango umano, urbano; lo schiattamento delle
culture; le scorregge dei nuovi dannati che non usano
più dentiere bensì impianti e perni di acciaio conficca-
ti nell’osso: sono ritratti con la calma di un poeta che
conta i secondi che ci separano dal nulla. Lo fa con la
grazia di un antico arrotino chino sulla mola, o con lo
zinale di un pizzicagnolo appena striato dalla bava ro-
sa di una pancetta di maiale fresco.
Alessandro scatta e strappa; strappa affinché la poe-
sia cali l’asso quando il sipario è giù. Ecco allora la fir-
ma del Poeta. Grazie ragazzo. Grazie per il “ventoso
vicolo di un tempo”.
Aurelio Picca
LA MUSA DI BLANCHOT
Silvia Denti mi segnala questo libro e questo autore. Lo ha pubblicato e ha scritto per lui una prefazione appassionata, intensa, sincera. Faccio volentieri da cassa di risonanza proponendo qui la prefazione e alcune liriche, alcune immagini in forma di parola di questa Musa di Blanchot che ha ispirato con fervida malia sia l’autore che l’editrice.
Buon Agosto, IM
SALVATORE FITTIPALDI
LA MUSA DI BLANCHOT
(IL VIAGGIO)
edizioni divinafollia
Dedicato ad Antonella Ruzzon
“Un viaggio in cui non è possibile inoltrarsi, immergersi in quella dimensione che protegge, non percepibile e che non rivela nessuna protezione, alcuna sicurezza che il viaggio abbia una destinazione, un muoversi a un passo più in là di quello che non si può afferrare, un movimento perenne dall’aspetto sacro di approssimazione all’irraggiungibile, all’irreale: un viaggio di anime in viaggio verso il punto avanzato del percorso voluto e desiderato dai viaggiatori”.
(L’Autore)
PREFAZIONE
Obliqua magia della luce.
È stata la definizione più immediata – obliqua ma- gia della luce- a darmi l’input per stendere la pre- fazione a questo primo Autore della neonata colla- na Micron.
Salvatore Fittipaldi, conosciuto per caso, letto an- cora più occasionalmente, all’inizio:
“ … ma tu guarda quest’uomo che proposta origi- nale, che verve e che stile visibile nell’invisibile, immenso nel piccolo scrigno chiuso dell’anima ….
guarda che dignità nell’espressione, che certezza di nervo ….”. Eh, sì, a quel punto divenni un’assi- dua seguace di questa penna e mai e poi mai avrei smesso di leggere – quotidianamente – le novità postate sul suo blog, tramutate in poesie, sì, quel- le di Salvo (come mi è venuto, da subito, sponta- neo, chiamarlo). Poi lo scambio immediato, la discussione costruttiva, l’affetto naturale.
Micron nasce per dare forma al mio sogno: quello di pubblicare, a mia firma, come editore, gente che meriterebbe l’Olimpo, che magari non ha avuto la fortuna di essere contattata dai grossi nomi dell’editoria, oppure incompresa, schiva, nascosta. Gente che invia a chi legge una obliqua magia di luce, quella luce che deve rimanere accesa e non esaurirsi nel trascorrere del tempo. Come la ma- gia, o il flash della luce, anche Micron è immedia- ta, breve, non perché la si debba decurtare per scelta di risparmio cartaceo, no. Micron ha tantissimo dentro ma è concentrato, la poesia (ma po- trebbe anche essere prosa) raccolta in pochi caratteri stampati perché il nervo non necessita di lun- gaggini, anzi, colpisce e fugge, fruscio che dilegua l’ombra subito dopo l’abbraccio pieno. E Salvatore Fittipaldi è certamente uno scrittore di nervo. Uno che non cede ai rigori delle regole, ai preconcetti, alla rigidità di schemi o canoni che puntualmente ritroviamo nei libri, nelle sillogi, nelle grandi opere della storia. Già tale concezione della scrittura viene evidenziata negli inquieti, e sicuramente anche il Nostro ne fa parte, ma qui, forse, si enfatizza laddove il dubbio sulla sintassi non esiste più, qui si parla di interpretazione, di analisi del contenuto e stilistica, che si contraddistingue e mai avrà uguali. Ma cos’avrà di tanto nuovo questo genere di far poesia? Mi nascerebbe dalla gola un solo gri- do, leggetelo, io ho già espresso tutto nel titolo, ma forse qualche breve spiegazione è doverosa. Credo sia la prima volta in cui mi trovo di fronte a un testo e ne ho soggezione: non so se riuscirò a dire, descrivere, quanto un pezzo di Fittipaldi possa smuovere a livello emotivo, di appagamento, a una come me che legge un sacco, e ormai quel sacco stupisce, incanta e coinvolge molto poco. Eppure, tra le “cose” scritte, infinite, del periodo in cui sono nata e vivo, “cose” che non posso definire diversamente, tra para-editori, para-scrittori, quel sembrare che non è e mai sarà …. ho tirato fuori voci meravigliose, davvero nuove, con corde taglienti e vibranti capaci di suscitare fremiti persino ai cadaveri di qualche grande ormai sepolto nella storia. Qualcuno. Appunto. Pochi. Magari bruciati in libercoli che sono rimasti lì a fare polvere. Ma perché? Perché gli addetti ai lavori, quelli (teoricamente) veri, hanno altre faccende di cui occuparsi, ci sono i titoli dozzinali da lanciare nella grande distribuzione, non c’è posto per la nicchia, per i numeri bassi, le minime copie. No. È un no che dico io, pur non essendo nessuno, soltanto un’appassionata di scrittura e di critica letteraria, di ricerca, una come tante che ha voluto realizzare un sogno piccolo dentro a un altro sogno grande. Così, con il modesto contributo che mi è possibile dare, pubblico una persona speciale, convinta che succederà quello che è giusto che accada: questo libro verrà visto da occhi non solo esperti ma an- che potenti, e sarà portato nel mondo, come merita. Fittipaldi è stato capace di assemblare un lin- guaggio che supporta davvero il suo pensiero, lo traduce in fonemi, grafemi, ne evidenzia la musi- calità insita, persino la mimica, il nervo, appunto, che è semplicemente l’anima. Giovane, svelta, immediata, viva, pulsante e irrorata di capillari ed arterie, sangue puro. E dite niente? Tutto questo è Salvatore, tutto questo è la sublimazione dell’In- quietantismo, ciò che è parso, per certuni, forse, la degenerazione (in senso positivo) dell’ansia, del- l’arte del nostro secolo, non certo la sussunta chiacchiera sociale secondo la quale l’artista è un pazzo o un deviato. Pensiamo a Baudelaire. Basti poi capire chi va ad ispirare Fittipaldi, da Joyce a Vico, Tolstoj. Nel mio seguirlo, e fu anche un det- taglio che mi colpì, notai che questo Autore aveva creato un circolo dedicato ad Edoardo Sanguineti. Grande. Ho sempre amato Sanguineti. Avrei volu- to conoscerlo, stringergli la mano, ma l’occasione non venne. E come dimenticare gli haiku di un poeta così singolare? Le Sessanta lune: i petali di un haiku nella tua bocca. Mi è venuta così come la ricordo, coi due punti, perché anche Fittipaldi ne fa un uso esagerato, come a precisare che il suo meraviglioso delirio non smette. Mai. Surreale come Maurice Blanchot, con ossimori, pensieri mi- stici, frammentari, separati, spesso dalla doppia interpunzione, appunto, il delirio nervoso ed esi- stenziale, il viaggio in cui non è possibile inoltrarsi. In Fittipaldi io ritrovo tracce di Bataille (come di- menticare la Storia dell’occhio?), la patologia crea- tiva di De Sade, la grandiosa filosofia di Rilke e di Nietsche. La malattia dell’esistenzialismo, comun- que, è cronica, insita in ogni vero scrittore, soprat- tutto poeta, che non manca neppure in Sanguineti. Così il Nostro è ispirato da tanto scenario, che sia benedetto, veramente, per darci modo di tuf- farci in classici che, riletti con cognizione moderna, posso darci ancora e ancora di più. Dice di lui il fi- glio maggiore di Edoardo Sanguineti: <<Facendo il verso al verso di mio padre/ quasi poscritto a tan- ta post-scrittura / post-novissimamente scrive e scrive/ Fittipaldi il cui stile è questo stile/ lo stile dico di non aver stile/ mosso da gentilissima richiesta /con un doppio così di doppio padre /per Salvatore pone Federico/incisa sulla carta questa epigrafe. (Federico Sanguineti). E Salvatore rispon- de, (da 19° di Stracciafoglio): <>.
Ecco, non aggiungo altro, vi presento La musa di Blanchot (Il viaggio), con l’obliqua magia d’una luce nervosa.
SILVIA DENTI
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LE POESIE
LA MUSA DI BLANCHOT
ci sono, in carne e ossa: in prefazione e in appendice: non solo per esigenza personale, di leggerti
e di scriverti, di vederti e di sentirti: sono al capitolo su
“La solitudine essenziale”, quella del mondo, ormai m’è andata
a noia: ci corre incontro: ci appare a luce densa, illumina l’assenza:
è sempre lei:
lusinga, ci fa apparire insieme, ci fa negare
di essere lontani: non ha forma, non è reale: ci mescola al giorno e il giorno ci rimane nella mano:
se proprio non ce la faccio, raccolgo un girasole e te lo lancio, oppure dipingo una luna e te la lascio,
dentro la tua notte:
ho saltato il capitolo su “La morte necessaria”: sono già morto:
vivo e vegeto nella “Terza terra” col profumo dei petali dei fiori:
BOLLETTINO DEI VIAGGIATORI
da un vicolo cieco, da un circolo vizioso andare verso Howth Castle
e dintorni: dal silenzio senza voce passa la strada che arriva alla contrada
attraverso il parco delle arance, il pantano dei rospi, il prato della ruggine:
ha pagato il pedaggio il vento con un passo avanti e uno indietro: adesso gira in tondo, attorno ai tronchi,
nella fatalità del cerchio:
si va, non si va: si torna, non c’è ritorno: non si può tornare:
tirano su le maniche:
l’illusione della speranza fa il viaggio ricco di cadute, di dubbi dove camminare:
“Qual’ è la strada”, ha chiesto Streben:
“Non esiste di tracciata, bisogna avventurarsi verso l’inaccessibile”,
gli ha risposto Genus:
dove si trascinano sono oscuri corridoi, ma il viaggio lo vogliono ricco
di gradini , di posti dove regna tristezza e solitudine, di boschi fitti fitti
per arrivare dove è difficile dirigere la slitta al morbido cielo di Tolstoj:
*Riferimenti:
-Brechunov e Nikita: Tolstoj -Vicus commodus: G.B. Vico
-Howt Castle: Incipit di Finnegans Wake: Joyce -Streben, Genus: Faust Goethe
Traduzione:
de une impasse, d’un cercle vicieux aller à Howth Castle
et ses environs: par le silence muet passe le chemin de l’arrondissement
dans le parc d’oranges, les crapauds des marais, la rouille verte:
a payé le péage, le vent avec un pas en avant et un pas en arrière: désormais tourne en rond, autour des troncs,
dan le sort du cercle:
y aller, ne pas y aller, il est retour, il n’y a pas retour: on ne peut pas revenir en arrière:
retroussent leurs manches: l’illusion de l’espoir rend le voyage plein de chutes, de doutes où marcher:
“Quel est le chemin» at-il demandé Streben:
“Il n’y a de tracé , vous devez vous aventurer dans l’inaccessible”
il répondit Genus:
où ils se glissent sont des couloirs sombres, mais le voyage qu’ils veulent c’est riche
des marches, des endroits où il y a la tristesse , la solitude, d’épaisses forêts denses
pour arriver là où il est difficile de diriger le traîneau au doux ciel de Tolstoï:
AVVISO AI VIAGGIATORI
svègliati serena, anima mia: inizia bene l’anno:
ce la faremo a vivere: il viaggio deve continuare -AVVISO AI VIAGGIATORI:
“Evitare luoghi dove la sosta è la seduzione dei miraggi”-: sopravvivremo,
vedrai: la dialettica dei passi non subirà arresto per debolezze o dolore:
avremo, anche, pure, certamente, paura: tanta
paura: e poi, ancora, paura
di avere paura, già all’inizio, da subito, dall’istante in cui la paura non sa
evitare l’ombra che sempre la segue e la precede: avremo una paura tale
che le parole tremeranno prima di parlare:
serena, anima mia: quella che ti fa bella a te, è la paura:
CASE E DIMORE
oltre la casa, quella con le finestre e i muri abbiamo altre abitazioni: esclusive, nascoste, riservate:
luoghi senza nome, senza stanze, soffitti, pavimenti:
solo la tentazione che attira e che trattiene: posti segreti dove dimorano il linguaggio del pensiero,
il fittizio che si consegna alla finzione, il silenzio senza riduzione, irriducibile, sottratto alla riduzione:
il posto dove entra l’esigenza chiara della luce
filtrata dalle crepe, oltre l’immensità del mare: abbiamo dimore nascoste, come tane, dove respira
l’anima dell’animale, dove il soggiorno trova un altro senso,
un sapore diverso che volevi e che cercavi: abbiamo posti tenuti nascosti: se li mostri, se li riveli, essente assente, te ne ritrovi fuori: abbiamo abitazioni senza mobilio, sedie, lampadari
che sono riserva di sopravvivenza, forma del vuoto:
FIORE IN ITINERE
solo una goccia d’acqua:
non ha altro, per la sete intima dei petali: pallidi, impalliditi di dolore,
per le stimmate dei pistilli e degli stami:
se la salvezza potesse avere inizio,essere veramente guadagnata: se riuscisse il compagno di viaggio,
iniziandosi a soffrire il corpo, a svelare la certezza nascosta
nell’orrore, a risvegliare la meraviglia dopo la distruzione,
a mettere la freschezza nei fantasmi che avvolgono le
cose:
se riuscisse ad accedere al buco, a lui precluso, del destino,
forse il viaggio si eleverebbe a più alta misura, il lavoro del giorno
diventerebbe davvero creatore:
se a quest’ora del viaggio manca la certezza del presente,
il passato guarda all’estremità dell’avvenire: se appare che è il solito scenario che si muove, forse
è la strada giusta: dicono che è la strada del dolore che scatena la storia:
IL GIORNO E LA NOTTE
che lungo giorno, amica luna, il giorno piegato dentro le sue stesse pieghe nelle sue stanche costole piagate
nei gesti e negli incastri dei minuti:
credevo di conoscere i tuoi occhi, di avere fra le mani i tuoi crateri: tu lumencristi e perigeo e lumiera,
tu notte di luna piena in piena notte:
tu lunario segreto e dies lunae tu remo e noema e fuso orario: capovolto ti aspetto fino a notte:
che lunga notte, amica luna, la notte piegata dentro le sue stesse pieghe: capovolto ti aspetto fino a giorno:
IL PESO DEL VIATICO
ne sera plus comme avant: il viatico pesa e
la notte illumina la strada, la mantiene oscura nel chiarore che l’oscurità rende visibile al buio chiaro della luna, all’oscurità della partenza da dove
inizia la distanza, l’allontanamento della vicinanza:
ne sera plus comme avant se è possibile vedere cosa si vede, come prende forma il cosa si vede
quando la lontananza si avvicina:
non c’è riparo sotto la maestà della distanza per l’inquietudine, per l’indecente evidenza del corpo:
guardamelo nudo, libero dal rimpianto miserabile di essere scampato all’istante del fulmine
prima della pioggia:
Lengh’ r’ terr’ / Lingua di terra
Presentazione in anteprima dell’ultimo libro della collana Radici (Le Voci della Luna), Lengh’ r’ terr’ / Lingua di terra di Salvatore Pagliuca, proprio all’interno della rassegna curata da Sergio Rotino Paesaggi di Poesia, che da quando è nata ha sempre dimostrato grande attenzione verso la poesia italiana “in altra lingua”. Ricordiamo nell’ambito della stessa rassegna, l’anno scorso, la seguita proposta del secondo volume della collana, Uccalamma di Dina Basso.
Introdurrà il corposo volume antologico di Pagliuca, Manuel Cohen, uno dei critici oggi più attivi e propositivi nell’ambito della poesia neodialettale, autore della densa prefazione al libro.
Giovedì 19 Aprile ore 18,00
Libreria Melbookstore Bologna | Via Rizzoli 18
T 051 220310 – F 051 6562578 | melbologna@melbookstore.it http://www.melbookstore.it
LE PAROLE AGRE
Qui di seguito la mia prefazione al libro LE PAROLE AGRE di Narda Fattori. I.M.
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Narda Fattori, Le parole agre, L’Arcolaio editrice, 2011
prefazione di Ivano Mugnaini
Molti passaggi significativi dei libri pubblicati da Narda Fattori sono dedicati al rapporto tra realtà e scrittura, al senso del fare poesia, al peso e al valore della parola scritta. In questo recente libro edito dall’editrice L’arcolaio, l’autrice, giunta ad una maturità letteraria compiuta e in possesso di strumenti espressivi consolidati, fa di questa ricerca di senso il perno stesso del suo lavoro, modulando toni e accenti, ma sempre dimostrando un’urgenza autentica, una sete di comprensione, rivolta sia ai destini individuali che alle dinamiche sociali, che non ha niente di retorico e posticcio ma risponde piuttosto ad un’esigenza vitale, sul piano letterario e non solo. Il titolo del libro, Le parole agre, è netto, deciso, perentorio. Non ammette, in apparenza, alcuna incertezza o esitazione. Ma la poesia, la lettura, la ricezione di questo libro specifico e di ogni altro volume di versi degno di tale nome, impongono e consentono sempre il beneficio del dubbio, e la fertile ricchezza che ne deriva. Il titolo di questo libro è adeguato e consono, esprime bene il percorso, il cammino, l’esplorazione di ambienti e stati d’animo oscuri ed amari che l’autrice ha scelto di attraversare, con lucidità e coraggio, passo dopo passo. Ma il gusto, il sapore del libro, non è univoco né monocorde. Domina, certo, l’asprezza delle immagini e delle situazioni. Al suo fianco però, tenace, quasi tenuta in vita controvoglia, come qualcosa che ci esprime e ci sostenta quasi nostro malgrado, c’è, a volte, ostinata, riconoscibile al di là di ogni crepuscolo, una forma di speranza, una luce che emerge dall’ombra.
L’esergo del libro è tratto dalle Poesie di Marina Cvetaeva edite da Feltrinelli: “Non farò da cardine/ agli zeri? Non è balorda la bilancia?/ E perché fra tutti i reietti/ non c’è simile orfanezza al mondo?” Di per sé è un grido di crudo e quasi stupito dolore. I punti interrogativi posti al termine di ogni frase tuttavia, al culmine di ogni verso, scavano nel corpo e nella terra, e, assieme al sangue e al fango, fanno sgorgare acqua, la tenacia del vivere, nonostante tutto. Del resto, come osservava Bertold Brecht, “tra le cose sicure la più sicura è il dubbio”, e il compito della poesia è quello di porre gli interrogativi giusti, evidenziandone il valore essenziale.
Questa capacità di far convivere l'”orfanezza del mondo” con una salvifica ironia, sapida, cosciente, è una delle costanti della produzione letteraria di Narda Fattori. Alcuni suoi volumi precedenti rivelano, a partire dai titoli, questa deliberata e istintiva coesistenza: “E curo nel giardino la gramigna” Ibiskos editore, 1995, è l’esempio più esplicito, ma anche il più recente “Cronache disadorne”, edito dalla Joker nel 2007, mette in evidenza una tendenza all’understatement, l’arte del togliere peso ai fatti e agli eventi, senza tuttavia sottrarre nulla della loro sostanza. Rendendo tutto, la luce e il buio, il piacere e il dolore, più umani, più sostenibili.
La terra di origine di Narda Fattori, la Romagna, per la precisione quella parte della Romagna a metà strada tra erba e sabbia, tra i campi e la spiaggia, contribuisce a creare il tono, l’atmosfera, lo sguardo dominante di questo libro. Il mare Adriatico, costantemente di fronte, là davanti, ineluttabile, è, a ben vedere, uno specie di lago dal colore incerto, spesso deprimente, non particolarmente limpido né brillante. Una sospensione della vita, un mare adeguato all’inverno. Preso atto di questo, subentra la capacità di osservazione, la pazienza dell’occhio. A furia di guardare ed aspettare si coglie quel riflesso di sole che arriva da chi sa dove, su angolazioni magicamente arcane. Ed in quel momento il lago bruttino rivela la sua potenzialità di bellezza. Completa l’opera, affiancandosi allo sguardo, la voce. L’attesa si fa parola, si inventano storie, tra verità e leggenda, e la sabbia si fa dorata, calda, accogliente. L’occhio romagnolo, per scelta, fa della malinconia un ingrediente essenziale del vivere, quasi una forma sublime di allegria. Il ricordo si fa racconto, con la libertà di sognare passaggi di transatlantici o semplicemente una moto dall’enorme cilindrata che sfreccia per un istante più potente del tempo e dell’angoscia. Narda Fattori porta con sé, in ogni suo lavoro letterario, questo sua terra di nascita e di elezione, la sua vivacità ma anche la tendenza a dissacrare, a smantellare gli edifici del già detto, scavando sotto la superficie per vedere quale sia davvero il colore del mare e quale sia il destino dell’uomo, la sua misera libertà ma anche la sua testarda “allegria di naufragi”.
Il mondo romagnolo è punto di partenza, radice preziosa, anche se poi, con la forza della propria personalità e con il sano individualismo proprio di ogni artista, la Fattori si è costruita una cifra autonoma, una dimensione più adatta a contenere anche la propria sete di misura, e a volte di quella sobrietà che fa sì che le passioni si sposino anche con il ragionamento, il corpo con la mente, l’euforia con la consapevolezza dei mali del mondo, con la volontà tenace di provare ad estirparli.
Come per ogni vero poeta l’orizzonte dell’autrice è quello del mondo, la sfida della realtà sognata e vissuta, il confronto tra l’ideale e la contingenza delle cose, la contabilità delle ferite e delle ingiustizie a cui, questo sottolinea l’autrice, si rischia di adattarsi perché non si ha tempo né forza per sottrarci e ripulircene. Le storie, le vicende rese e raccontate in forma di parole di questo libro, parlano di persone reali o immaginarie, fino al punto in cui le due dimensioni si confondono, rafforzandosi a vicenda. “Io gioco con le parole e con le parole/ canto e rido e faccio convito/ ballo la loro musica sempre variata/ a volte bene accordata su ampio fiato/ o dura e aspra come colpi di maglio/ che batte il tempo sulla roccia e la scaglia/ per regalarla al mare che la fa duna”, recitano i versi della lirica posta all’inizio del libro. È un quadro di paesaggi geografici ed interiori, roccia e sabbia, mare e duna. “Io mi riempio la bocca di parole sensate/ che dal ventre sono risalite alle anse/ di un cervello sconvolto di sinapsi”, prosegue la poesia d’esordio. La riflessione sul senso dello scrivere a cui si è fatto cenno trova qui un’esemplificazione adeguata. Ed è emblematica anche la sensazione, adeguatamente suggerita dall’autrice, che quell’aggettivo “sensate” abbinato al vocabolo “parole”, alla materia indocile di cui ci nutriamo e di cui siamo a nostra volta cibo e mensa, sia acutamente e deliberatamente ironico. Come a voler confermare a se stessa e al lettore che il vero senso delle parole, forse il solo senso possibile, è quello di provare a dare misura a ciò che è intimamente indefinibile, costantemente mutevole e sfuggente. A ciò che parte dal vero, dolorosamente autentico come una fitta d’amore o di dolore, arriva a colpire il cuore, inarrestabile, tagliente, e una volta giunto al livello razionale, a quel “cervello sconvolto di sinapsi”, è già un’altra cosa, una cosa altra, aliena, inafferrabile.
“Dalle parole accovacciate sulle labbra/ resta un ritmo aspro e scordato”. Questi altri versi confermano l’attenzione che la parola, in questo libro, rivolge alla sua essenza, a quella ricerca di un ritmo consono, adeguato. E alla sconfitta, puntuale, quello sbocco in echi discordi, scordati, aspri. Senza tuttavia la resa definitiva. C’è, nella dolcezza testarda dei versi e dei vocaboli che Narda Fattori sceglie e da cui è chiamata in causa, in quelle parole che ancora sono “accovacciate sulle labbra”, la forza per una nuova ricerca, a dispetto della consapevolezza, della sempre più solida “cognizione del dolore”. Perché è profondamente radicata l’espressione attraverso la parola, il verso, il cammino esistenziale coincide con quello letterario, il moto degli anni, delle realtà e dei sogni, è diventato “Il verso del moto”, per citare il titolo di un altro volume della Fattori, edito da Moby Dick nel 2009. È una caratteristica costante, e apprezzabile, dell’autrice, quella volontà-necessità di tener viva la memoria di quel mondo più autentico, di matrice contadina, quello in cui “l’ulivo era per l’olio e l’olio per il pane/ col salice si intrecciavano i panieri”. A differenza di altri autori tuttavia non si ferma alla dimensione oleografica da quadro macchiaiolo o da stornello intonato sull’aia al tramonto. La Fattori accosta sempre alla descrizione la riflessione, il ragionamento, su ciò che resta e ciò che è andato, sull’asprezza odierna ma anche sul sudore e le lacrime che si nascondono dietro le cartoline in bianco e nero del tempo che fu. Mette in relazione i punti di contatto e gli abissi, i pieni e i vuoti, e, come imprescindibile filo rosso, si rivolge alla parola, quasi chiedendole di riavvolgere il nastro, rimettendo in rapporto consequenziale e dialogico mondi ormai separati. Con il coraggio di dire e di dirci che non è possibile, che di ogni epoca resta il suo unico e solitario mistero: “Le parole scendono in gola trafiggono/ laringe e faringe s’aggrumano/ nell’inespresso dire/ nella sola parola che non viene a me a dire”.
Ma la voce dell’autrice non è incline alla mestizia fine a se stessa. Con le armi dell’ironia, del ricordo affettuoso e vivido, e dell’attaccamento passionale a tutto ciò che dà senso alla vita, emerge anche la tensione agonistica, il contrasto deciso verso lo sgretolamento del tempo e delle verità: “Il silenzio raccoglie l’impazienza/ di un cielo che corre e non svolta/ e non temo le tempeste/ che rubano il fiato ma assecondate/ regalano viatici come vela maestra”. È un’immagine di genuina potenza, un invito da tenere a mente, quello ad assecondare le tempeste. Poesia tutt’altro che elegiaca, quindi, quella de Le parole agre. Conscia della pena e del dissolvimento, certo, ma ancora ben distante dalla resa.
La forza per lottare l’autrice la attinge, come detto, dalle radici: la propria terra, i propri affetti. Non è un caso forse che nel libro alcune delle parole più ricorrenti siano proprio “padre”, “figlio”, “cari”, “nido”, “bambini”, “ritorno”, e molti altri termini appartenenti a questo ambito semantico. Ma significativi punti di riferimento sono anche gli angoli che si trovano alla confluenza, di incontro e di scontro, tra termini antitetici e in apparenza contrapposti: “parola” e “silenzio”, innanzitutto, correlate a vita e morte, amore ed odio, memoria e oblio. “Trovano pace i miei morti”, esordiscono i versi di una lirica, “in catacombe di memorie/ o cari o indimenticati”. Mettendo in tal modo in relazione il tutto e il niente, e rafforzando la speranza, anzi la certezza che, malgrado tutto, la parola possa restare, dando dimensione al dolore e al lutto.
“Ai bar i vecchi non bevono più/ non hanno di che pagare/ dopo aver svuotato magre pensioni/ ai nipoti che si fanno di frega soldi/ e qualche soft drink/ e si spiaccicano come insetti/ sul parabrezza d’asfalto”. C’è in questi versi, aspri, adeguati ad incarnare il titolo del libro, una capacità di adattare lo sguardo ed il medium espressivo anche al mondo attuale, tanto rapido da sfuggire al suo stesso cuore. Da poeta attenta a ciò che la circonda, la Fattori guarda e annota, ritrae con uno schizzo preciso e amaro il tempo che è cambiato, le nuove miserie e le guerre camuffate da benessere. Confermando che la poesia non ama parlare solo della “vispa Teresa”, ma sa anche farsi cronaca disadorna, dolorosamente sincera, della realtà.
Eppure, per sopravvivere, nell’atto di esistere e di fare poesia, bisogna aggiungere all’osservazione il sogno e alla verità una dose adeguata di menzogna: “non mi è rimasto più nulla da cercare/ – io la mentitrice – tra queste piatte/ terre padane orlate da tonde cime”. Quasi un autoritratto, amaro e sapido, come i racconti in forma di versi di Tonino Guerra, tra frequentatori di cupe osterie e progetti di cieli stellati. “Io – la mentitrice – torno sempre/ sui luoghi dei miei misfatti/ torno sempre a cercare ori dove stanno serpi”. Versi rivelatori, ricchi di chiavi di lettura, di messaggi nella bottiglia. I misfatti, termine volutamente pesante, fa pensare a crimini, azioni che infrangono regole e leggi. Forse le leggi del tempo, quello che si crede scorra in linea retta, con un presente, un passato e un’ipotesi di futuro. Alla mentitrice però poco importa di questo filo, è in grado di intrecciarlo a piacimento, o almeno, nell’atto di immaginarlo, lo dipana in modo diverso, individuale. Ed è così che le serpi diventano ori, e viceversa. E si ritrova, nonostante la fatica dei giorni, qualcosa da cercare.
“Io non ho un nido non una tegola un tetto/ esposta alle burrasche alzo la testa”, scrive la Fattori in una delle liriche della parte conclusiva del libro. È un modo emblematico, adeguatamente complesso e suggestivo, di confermare, negandoli, alcuni dei punti di riferimento di questo libro e della sua poetica. In realtà il nido, la tegola e il tetto, ci sono, negli affetti più autentici, la propria gente, i vivi e i morti, i familiari, la terra vissuta e ricordata. Solo che, per poter conservare tali affetti difendendoli dagli attacchi di un tempo alieno, è necessario tramutarli, tramite la parola, tramite la poesia. Proteggendoli da un tempo ostile, difficile da comprendere, e dal dolore, da quel sapore agro che assale perfino le parole più amate. Ecco allora che, proprio nell’istante del dolore, è concesso, ed anzi necessario, alzare la testa, dire che è ancora viva l’idea della poesia, nella sua essenza astratta e corporea.
Le parole agre è un libro non banale, non scontato, che non cerca facili consensi. Esplora piuttosto, con energia autentica e sincera, quello spazio che unisce e separa il ricordo dal presente, l’idillio dalle contingenze amare di un’epoca rapida e brusca. Parla di nidi, con pascoliane assonanze (seppure con la vasta distanza che deriva dal vigoroso e sentito adattamento dei temi ai nostri tempi e alla loro cruda essenza), ma anche di guard rail d’asfalto su cui si sfracellano i corpi e gli anni. Senza retorica ma anche evitando di indulgere in dettagli sterili e truculenti. Riassume, tramite una poesia attenta, ben curata e adatta a rappresentare ritmi e sentimenti di diversa natura, quella sensazione ambivalente che ci avvicina di qualche passo in certi istanti alla comprensione del mistero, a quella “melodia che urge in gola al sorgere/ del sole e al suo svanire”.
Ivano Mugnaini