racconto
SUONALA ANCORA SAM – For new times’ sake
Un mio omaggio al cinema e alla sua imperscrutabile magia.
Suonala ancora Sam.
Magari, in questo nuovo anno, con una nota diversa. Una nota in più.
For new times’ sake.
Buona lettura, IM
Lo ricordo benissimo. Lo ricordo, e, ne sono certo, porterò con me quelle immagini per sempre. Per me “Casablanca” non è un film. O meglio, non è solamente una vecchia pellicola. “Casablanca” per me è la gioventù, alzarsi alle cinque di mattina e non sentire un filo di stanchezza, correre per le strade con la fame di voci, suoni, odori, il coraggio e la voglia di guardare la vita dritto negli occhi. “Casablanca” è il mio lavoro di ragazzo, la finestra da cui mi sono affacciato per la prima volta per vedere come gira il mondo. Avevo sì e no diciassette anni. Un colpo di fortuna straordinario per me trovare un posto di lavoro a quell’età e con la guerra che metteva a ferro e fuoco il mondo intero. Mio padre grazie ad un amico impiegato della casa cinematografica era riuscito a farmi assumere con la qualifica di “trovarobe”. In realtà ciò che facevo era molto più vago e confuso. Un po’ di tutto e un po’ di niente. Un giorno ero costretto a galoppare senza tregua da un posto all’altro, quello successivo mi trovavo con le mani in mano a guardare la troupe e gli attori come uno spettatore qualsiasi. Ero una specie di fattorino del regista, un cameriere, un servitore muto. Se lui mi urlava “C’è bisogno della luna, Jim! Vammela a prendere”, io, senza aprire bocca, partivo e andavo. Tornavo con un enorme riflettore preso a prestito dalla caserma dei pompieri, oppure, quando non avevo voglia di faticare nel trasporto, mi ripresentavo trionfante con in mano un dollaro d’argento lucidato a dovere. Al regista andava bene in ogni caso. Piazzando la cinepresa in un certo modo riusciva a ricavare da ogni oggetto ciò che voleva. All’inizio credevo fosse una sorta di mago. Poi ho capito: è tutta questione di prospettiva.
Il regista di “Casablanca” era attento, preparato. Sono convinto tuttavia che anche lui, come l’intero set, gli attori, le maestranze, gli autori e gli sceneggiatori, fosse in qualche modo soggetto alla direzione di un regista ulteriore, invisibile ma estremamente abile. La sorte, il caso, il colpo di vento giusto che sposta la macchina da presa di quel centimetro necessario a trasformare un film potenzialmente mediocre in qualcosa da ricordare.
Il film della mia gioventù è nato come una scommessa, un azzardo, una sfida al buon senso, ed anche, per certi versi, al buon gusto. Qualcuno ha pensato che, con un budget misero, ridotto all’osso, si potesse ricostruire in uno studio hollywoodiano di seconda schiera il più trafficato dei porti nordafricani. Qualcuno ha ritenuto che si potessero ricreare le atmosfere di una città fascinosa e maledetta spandendo sul set un po’ di vapore acqueo a mo’ di nebbia. Qualcuno, temerario e fortunato più di Marco Polo, si è detto convinto che Humphrey Bogart, sì, proprio lui, fosse in grado di recitare un ruolo romantico.
THE COLOR OF SUNSHINE – Il colore del sole
Questo mio racconto, uscito sull’Almanacco PUNTO, https://www.almanaccopunto.com/single-post/ivano-mugnaini-il-ponte-dei-suicidi, ha per titolo “Il ponte dei suicidi”, ma in realtà il titolo originale è “The color of sunshine”.
Inizia parlando del volo da un ponte e finisce parlando del colore di un bikini. Giallo. Come il sole.
Spero sia beneaugurante. IM
A TU PER TU – Chiara Rossi
A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
Inauguro oggi la rubrica A TU PER TU – Una rete di voci.
L’obiettivo della rubrica è riportato qui sotto.
L’intento è quello di porre cinque domande fisse ad artisti e letterati provenienti da ambiti, nazionalità ed esperienze diverse ma accumunati dalla capacità di dialogo, dalla tendenza a “fare rete” creando connessioni e interazioni, quanto mai preziose nel tempo che stiamo vivendo.
Inauguro la rubrica con Chiara Rossi, di cui riporto in calce all’intervista anche un racconto e alcune note biografiche che ho ricavato dalla sua pagina di LinkedIn.
Chiara è giornalista, lavora nell’ambito dei progetti editoriali e di comunicazione, e scrive, tra l’altro, ottimi lavori teatrali. La lettura dell’intervista, del racconto e della nota biografica, forniranno un quadro più completo delle sue attività professionali e creative che, chi vorrà, potrà approfondire tramite i link riportati nell’intervista.
Presto pubblicherò le risposte di altri autori ed autrici.
Buona lettura, IM
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.
Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.
Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.
Saranno volta per volta le stesse domande.
Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.
5 DOMANDE A
Chiara Rossi
1) Il mio benvenuto, innanzitutto. Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
Grazie per l’ospitalità squisita e pregiata, prima di tutto. Sono molto onorata di stare in compagnia di tanti Autori importanti e stimolanti.
Di me. ‘Longobarda’ di nascita, ligure di adozione: vivo a Santa Margherita Ligure, elegante borgo lambito dai lampi blu e dalle lingue verdi del mare, che ho il privilegio di ammirare dalle finestre di casa.
Sono giornalista pubblicista dal 1992, laureata in Esperto nei processi formativi e in Scienze dell’Educazione degli Adulti e della Formazione continua. Le mie esperienze professionali sono legate a progetti editoriali e di comunicazione, oltre che di consulenza e coaching nell’ambito della redazione di tesi di laurea in Scienze umane e psico-sociali e di writing coaching. Curriculum professionale e artistico completo su LinkedIn, www.imaginabunda.it
Appassionata di scrittura (in tutte le sue declinazioni, ghostwriting compreso) & musica, viaggi & fotografia (adoro incrociare gli sguardi di persone che vivono in paesi lontani), sociologia delle religioni & cultura del mondo islamico, nonché di molte altre cose… credo fermamente nel LifeLong Learning e nell’utilità dell’Inutile, ossia dei saperi (meglio se contaminati e connessi) che, pur non producendo guadagno, migliorano l’Uomo. Nella mia ottica, sono più importanti le domande che le risposte e imparare che sapere; lo stupor è la molla di ogni conoscenza. È questo, che spesso mi fa trovare ciò che non sto cercando, facendomi sentire viva.
Soprattutto scrivo. Ritengo che scrivere storie – che a mio parere affondano sempre le loro radici nella Mitologia, in quanto rivelatrice di senso – sia un complesso progetto di ingegneria & architettura narrativa, in cui l’accuratezza intellettuale debba fondersi in curiosità, entusiasmo e competenze necessariamente trasversali: per concepire narrazioni occorre essere immaginatori di professione.
Gatti rossi / Red cats
Un racconto, spero abbastanza folle e abbastanza “felino”, con la versione in inglese “fatta in casa”.
Buona lettura e buona estate,
IM
GATTI ROSSI
Fummo svegliati da un canto urlato, quella notte. Così angelico, quasi asessuato, che rimanemmo incantati, prima di alzarci di scatto inferociti. Quell’attesa, caseggiato dopo caseggiato, era sufficiente a quel corpo e a quella voce per allontanarsi.
Andai al lavoro più rintronato del solito. Non fino al punto da non notare un particolare: i gatti che incrociavo erano tutti rossi. Soffici, grassi e dal pelo fulvo. Tutti di buon umore. Mi guardavano e ridevano, sotto i lunghi baffi, come per dirmi “Non capisci niente, vero?”.
Frammenti di ipotesi
Pensando alla chiave rafforziamo la galera ?
Alcune personali ipotesi sui possibili Sì e sui possibili NO.
IM
Frammenti di ipotesi
These fragments I have shored against my ruins, Questi frammenti che ho eretto a protezione delle mie rovine.
La traduzione del verso de La terra desolata di Eliot è libera. Ed è forse la sola cosa libera che posso permettermi in questi giorni di gabbie invisibili e inesorabili. O forse no. È libero, a suo modo, anche il pensiero che mi porta ad erigere con la mente frammenti di parole e di pensieri a protezione della mente stessa, e del corpo, ad essa inesorabilmente e mirabilmente collegato.
La prima decisione, da quando è iniziato il contagio e la quarantena, è stata strana: mettermi a rileggere, con l’aggravante della lettura in lingua originale, La peste di Camus. Strategia autolesionistica, la definirebbe qualcuno. È forse è vero. Eppure, in quelle parole crude e sincere, scelte con precisione chirurgica dallo scrittore-filosofo francese, ho trovato il veleno ma anche le gocce dell’antidoto. Leggi il seguito di questo post »
OSTERIA NUMERO ZERO – racconto di un Ferragosto di periferia
OSTERIA NUMERO ZERO – racconto di un Ferragosto di periferia
Un vecchio racconto, anni Settanta. La periferia della periferia di Milano, e dell’umanità. Alla ricerca di un telefono a gettoni, di un bicchiere di vino bevibile, e, forse, la sorpresa della poesia.
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OSTERIA NUMERO ZERO
Martedì, quindici agosto. No, non c’erano dubbi, né concrete speranze di essermi sbagliato. Il mio efficientissimo strumento di tortura cronologica giapponese squittiva sibili elettronici da oltre dieci minuti. Tra i vari numerini gialli e quadrati che proiettava nella semioscurità della stanza c’erano un quindici e un otto che non mutavano come tutti gli altri. Restavano lì, fissi, immobili, e mi guardavano, sparandomi tra le pupille gonfie e intorpidite un immutabile interrogativo: « E adesso…? ». Dalla posizione sud-sud-est del letto, in cui mi avevano condotto i sussulti e i contorcimenti di un sonno sconfinato di cui non ricordavo più l’inizio, tenevo l’ordigno nipponico sotto tiro. L’alluce del piede destro fungeva da mirino. Se avessi voluto avrei potuto sciogliere le briglie ai tendini della gamba, e fracassare l’arnese, una volta per tutte, con un calibrato, orientalissimo colpo di karate. Ah, quale gratificante e beatificante contrappasso!
Non sarebbe servito a molto. Non potevo fare a pezzi con un identico calcio anche quell’altro scatolone, verniciato di giallo fosforescente e inchiodato lassù, in alto, dal quale colavano raggi bollenti che si infiltravano attraverso le fessure delle serrande. Fu così che usai il piede solo per compiere, come sempre, l’unico esercizio ginnico della giornata: allungamento dei muscoli del quadricipite, torsione laterale del piede, e schiacciamento del pomello della sveglia con il tallone. Il brutto cominciava dopo, appena terminato di appoggiare il medesimo piede sul pavimento della camera. Già, e adesso…? Che faccio?
Come una specie di Robinson Crusoe, naufrago sulle sponde desolate dell’isola di Ferragosto, decisi di procedere ad un rapido resoconto mentale dei « pro » e « contro » della situazione. Per ragioni di praticità iniziai dai pro: il fatto di aver rifiutato i canonici inviti mortadel-balneari di due o tre colleghi con tanto di moglie-canotto e figli-mosconi, e l’aver rinunciato a priori a seguire le peregrinazioni autostra-disco-sessual-velleitarie di un gruppuscolo di amici, mi poneva nell’idilliaca condizione di chi non deve lambiccarsi il cervello per ponderare e scegliere. Nessuna alternativa, nessun dubbio. Alé! Tutta gioia, tutto bene!
Lo squillo del telefono mi evitò, con mio enorme sollievo, di affrontare le lande sterminate dei « contro ». A tutt’oggi non ho ancora ben capito se la voce di Erica sia naturale e genuina, o se invece sia prodotta da un complesso sistema di sintetizzatori e amplificatori opportunamente piazzati all’interno del suo corpo soffice e opulento da luccicante bambola sintetica. Quel giorno però mi fece talmente piacere udirla, che non mi posi neppure per un attimo il rituale interrogativo. Mi limitai ad ascoltare, a ridacchiare ogni tanto, fuori tempo e fuori luogo, e a dire di sì, in continuazione. Quando riappesi mi resi conto che avevo appena accettato un invito a dir poco scomodo. Si trattava di partire dalle mie campagne, e percorrere, sotto il sole ottuso del primo pomeriggio, l’oceano di asfalto che mi separava da un punto sconosciuto, sperduto nel vasto arcipelago della periferia di Milano. Il tutto in cerca di quale isola, e di quale tesoro? La risposta sarebbe evidente, e del tutto scontata, se non si dovesse tener conto di un particolare. Io Erica la conoscevo da anni, e la conoscevo fin troppo bene. Anzi no, non la conoscevo abbastanza. Nonostante i periodici incontri ai party, alle ricorrenze varie e alle celebrazioni pagane e pallose di qualche comune amico, continuavamo ad essere due cordialissimi estranei, due punti interrogativi collocati alle estremità opposte di una riga bianca.
Le nostre rare e telegrafiche conversazioni avrebbero fatto la gioia di Beckett, di Kafka, e forse anche di qualche psicanalista ficcanaso e un po’ sadico. Non sono mai riuscito a capire se fosse lei a prendere in giro me o viceversa. Fatto sta che ogni singola volta che io, attratto dalla sua sfavillante carrozzeria metallizzata, entravo nella sua sfera d’azione, lei mi ascoltava ghignando ripetutamente in modo quasi impercettibile, poi, puntualmente, mi metteva KO con un’osservazione, o con una domandina tanto innocente quanto micidiale. Un congegno automatico nascosto dentro di me allora si ribellava, e mi catapultava nella spirale strangolante del sarcasmo corrosivo, che in breve trasformava il dialogo in un incontro di scherma, un continuo alternarsi di impeccabile etichetta e di sciabolate fulminee e rabbiose. Fin qui niente di male né di straordinario: per quel nobile sport ero già ottimamente allenato. Il grave è che le stoccate scambiate con Erica ad ogni riflessione a mente fredda mi lasciavano dei dubbi colossali. E se dopotutto con quel suo atteggiamento scostante non avesse voluto sfottere niente e nessuno? E se in fin dei conti quelle sue uscite da palmipede inacidito fossero state ispirate solamente da legittima indifferenza e sacrosanta noia? Sì, insomma, che diritto avevo di pretendere a tutti i costi di essere qualcosa di più interessante e piacevole di un cortometraggio bulgaro sulla vita dei salmoni dell’Alaska, per lei?
Non c’era dubbio. A ben pensarci il suo comportamento era sicuramente degno del più assoluto rispetto e della più profonda comprensione.
Anche quel giorno lontano, imprigionato tra le branchie dell’aria che annaspava in cerca di ossigeno, dovetti di nuovo ribadire questa solenne quanto vana conclusione. Certo, era tutto vero… ma. allora… la telefonata…? Mai e poi mai avrei pensato che lei, in quel particolarissimo giorno, avrebbe chiamato me.
Per quale ipercomplicata serie di circostanze si era ritrovata, anzi ridotta, a dover chiamare uno con il quale aveva rapporti tiepidi come iceberg? Lei, che nella mia immaginazione era perennemente circondata da stormi di calabroni in cerca di polline, forse era rimasta completamente sola, come una stella alpina tra rocce squamose e infuocate. Già, forse. Il nodo della questione era tutto in quel forse. Conoscendo il tipo non era del tutto da escludere la possibilità che mi facesse attraversare mezza Italia, per poi confessarmi candidamente, una volta arrivato a casa sua, che aveva bisogno di qualcuno con la macchina che la accompagnasse da un suo amico a Riccione.
Mentre toglievo dal parcheggio la mia eroica Renault Cinque anni settanta questo dubbio era una specie di chiodo conficcato tra i nervi del piede destro: una sorta di freno di emergenza che non ero in grado di disinserire. In ogni caso avevo ben poco da scegliere, e, inoltre, sentivo nelle orecchie anche il bisbiglio, debole ma persistente, di una speranzucola.
(Il racconto completo è a questo link: http://www.ivanomugnaini.it/osteria-numero-zero-racconto-di-un-ferragosto-di-periferia-2/ )
DI QUELLA PIRA
La vita non prevede uno spartito. Ma impone di cantare, ciascuno come può.
Un racconto, forse sul tempo, sia cronologico che musicale.
Di sicuro su due romanze, un tubo marrone e un mare verde.
Buona lettura, e buon “ascolto” del mistero dei misteri.
IM
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DI QUELLA PIRA
storia di due romanze, un tubo marrone e un mare verde
Ogni volta che nella casa di riposo per musicisti si celebrava una festa di compleanno, Edoardo si premuniva di viveri e generi di conforto, si barricava in camera, e si preparava a sostenere la più strenua ed eroica resistenza. Il rituale che accompagnava quei pomposi ritrovi periodici gli ricordava la cerimonia di presentazione dello scheletro di un dinosauro, rimesso insieme osso dopo osso ed esposto nel padiglione di paleontologia di un museo. Quella sera però non poteva eclissarsi nella sua stanza, come suo costume e come avrebbe desiderato: il compleanno in questione era il suo. Si vestì in modo decente, fece un lunghissimo respiro, allargò a forza i muscoli della bocca fino a far apparire qualcosa che somigliasse a un sorriso e uscì fuori dalla camera, quasi di corsa, pronto ad affrontare il tremolio delle candeline, pietosamente simboliche in quanto a numero, e il tremolio delle voci dei suoi anziani colleghi che intonavano un «Happy birthday» pietosamente simile ad un sospiro.
Passando davanti a uno specchio Edoardo gettò un’occhiata a quel vetro lucidato di fresco che rifletteva con crudele fedeltà la sua immagine. Il suo fedelissimo sorriso amaro non tardò a scavare un solco di un colore più tenue sul suo viso. Immediatamente, per ironico contrasto, si fece strada nella sua mente l’immagine di una foto che sua madre gli mostrava sovente, inorgoglita, nella quale appariva come un paffuto neonato sdraiato nudo su un letto matrimoniale, col volto ilare e con la stessa consapevolezza del motivo del proprio sorriso della vecchia bambola di plastica, solenne e grottesca, posta a sedere tra i due cuscini.
Edoardo ricordò che sua madre ogni volta che tirava fuori quella fotografia mezza scolorita gli diceva: «Com’eri bello! Bello come il sole! E pensare che eri nato alla rovescia. Eri girato dalla parte sbagliata, come se volessi tornare indietro, come se avessi paura o non fossi pronto… o come se ci avessi ripensato, chi lo sa… ma l’ostetrica era brava e cocciuta, e l’ebbe vinta lei, e venisti fuori, bello e sano, gridando forte come non s’era mai sentito prima».
Forse per il dolore – pensò Edoardo con un nuovo ghigno di sarcasmo – o forse perché, ancora prima di nascere, avevo già perduto una battaglia.
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Il racconto completo si può leggere a questo link:
OSTERIA NUMERO ZERO – racconto di un Ferragosto di periferia
Un vecchio racconto, anni Settanta. La periferia della periferia di Milano, e dell’umanità. Alla ricerca di un telefono a gettoni, di un bicchiere di vino bevibile, e, forse, a sorpresa, della poesia.
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OSTERIA NUMERO ZERO
Martedì, quindici agosto. No, non c’erano dubbi, né concrete speranze di essermi sbagliato. Il mio efficientissimo strumento di tortura cronologica giapponese squittiva sibili elettronici da oltre dieci minuti. Tra i vari numerini gialli e quadrati che proiettava nella semioscurità della stanza c’erano un quindici e un otto che non mutavano come tutti gli altri. Restavano lì, fissi, immobili, e mi guardavano, sparandomi tra le pupille gonfie e intorpidite un immutabile interrogativo: « E adesso…? ». Dalla posizione sud-sud-est del letto, in cui mi avevano condotto i sussulti e i contorcimenti di un sonno sconfinato di cui non ricordavo più l’inizio, tenevo l’ordigno nipponico sotto tiro. L’alluce del piede destro fungeva da mirino. Se avessi voluto avrei potuto sciogliere le briglie ai tendini della gamba, e fracassare l’arnese, una volta per tutte, con un calibrato, orientalissimo colpo di karate. Ah, quale gratificante e beatificante contrappasso!
Non sarebbe servito a molto. Non potevo fare a pezzi con un identico calcio anche quell’altro scatolone, verniciato di giallo fosforescente e inchiodato lassù, in alto, dal quale colavano raggi bollenti che si infiltravano attraverso le fessure delle serrande. Fu così che usai il piede solo per compiere, come sempre, l’unico esercizio ginnico della giornata: allungamento dei muscoli del quadricipite, torsione laterale del piede, e schiacciamento del pomello della sveglia con il tallone. Il brutto cominciava dopo, appena terminato di appoggiare il medesimo piede sul pavimento della camera. Già, e adesso…? Che faccio?
Come una specie di Robinson Crusoe, naufrago sulle sponde desolate dell’isola di Ferragosto, decisi di procedere ad un rapido resoconto mentale dei « pro » e « contro » della situazione. Per ragioni di praticità iniziai dai pro: il fatto di aver rifiutato i canonici inviti mortadel-balneari di due o tre colleghi con tanto di moglie-canotto e figli-mosconi, e l’aver rinunciato a priori a seguire le peregrinazioni autostra-disco-sessual-velleitarie di un gruppuscolo di amici, mi poneva nell’idilliaca condizione di chi non deve lambiccarsi il cervello per ponderare e scegliere. Nessuna alternativa, nessun dubbio. Alé! Tutta gioia, tutto bene!
Lo squillo del telefono mi evitò, con mio enorme sollievo, di affrontare le lande sterminate dei « contro ». A tutt’oggi non ho ancora ben capito se la voce di Erica sia naturale e genuina, o se invece sia prodotta da un complesso sistema di sintetizzatori e amplificatori opportunamente piazzati all’interno del suo corpo soffice e opulento da luccicante bambola sintetica. Quel giorno però mi fece talmente piacere udirla, che non mi posi neppure per un attimo il rituale interrogativo. Mi limitai ad ascoltare, a ridacchiare ogni tanto, fuori tempo e fuori luogo, e a dire di sì, in continuazione. Quando riappesi mi resi conto che avevo appena accettato un invito a dir poco scomodo. Si trattava di partire dalle mie campagne, e percorrere, sotto il sole ottuso del primo pomeriggio, l’oceano di asfalto che mi separava da un punto sconosciuto, sperduto nel vasto arcipelago della periferia di Milano. Il tutto in cerca di quale isola, e di quale tesoro? La risposta sarebbe evidente, e del tutto scontata, se non si dovesse tener conto di un particolare. Io Erica la conoscevo da anni, e la conoscevo fin troppo bene. Anzi no, non la conoscevo abbastanza. Nonostante i periodici incontri ai party, alle ricorrenze varie e alle celebrazioni pagane e pallose di qualche comune amico, continuavamo ad essere due cordialissimi estranei, due punti interrogativi collocati alle estremità opposte di una riga bianca.
Le nostre rare e telegrafiche conversazioni avrebbero fatto la gioia di Beckett, di Kafka, e forse anche di qualche psicanalista ficcanaso e un po’ sadico. Non sono mai riuscito a capire se fosse lei a prendere in giro me o viceversa. Fatto sta che ogni singola volta che io, attratto dalla sua sfavillante carrozzeria metallizzata, entravo nella sua sfera d’azione, lei mi ascoltava ghignando ripetutamente in modo quasi impercettibile, poi, puntualmente, mi metteva KO con un’osservazione, o con una domandina tanto innocente quanto micidiale. Un congegno automatico nascosto dentro di me allora si ribellava, e mi catapultava nella spirale strangolante del sarcasmo corrosivo, che in breve trasformava il dialogo in un incontro di scherma, un continuo alternarsi di impeccabile etichetta e di sciabolate fulminee e rabbiose. Fin qui niente di male né di straordinario: per quel nobile sport ero già ottimamente allenato. Il grave è che le stoccate scambiate con Erica ad ogni riflessione a mente fredda mi lasciavano dei dubbi colossali. E se dopotutto con quel suo atteggiamento scostante non avesse voluto sfottere niente e nessuno? E se in fin dei conti quelle sue uscite da palmipede inacidito fossero state ispirate solamente da legittima indifferenza e sacrosanta noia? Sì, insomma, che diritto avevo di pretendere a tutti i costi di essere qualcosa di più interessante e piacevole di un cortometraggio bulgaro sulla vita dei salmoni dell’Alaska, per lei?
L’ATTESA
In occasione del centenario della Prima Guerra Mondiale, un mio racconto, un piccolo frammento, uno degli innumerevoli punti di osservazione dell’assurdità disumana della guerra e di ogni tentativo, ancora attuale, di farla apparire un male necessario.
L’ATTESA
La canna del fucile sfiorava, a tratti, la testa dell’uomo seduto per terra. In piedi al suo fianco da oltre un’ora, reggevo saldamente l’arma con entrambe le mani. Ogni tanto la spostavo di lato, con rapide oscillazioni, per poi riportarla, invariabilmente, di fronte alla tempia livida sovrastata dall’elmetto. Cercavo, in tal modo, di dare sollievo alle braccia, facendo scorrere un po’ di sangue nuovo. Sapevo che avrei dovuto rimanere a lungo in quella posizione. Era tutto molto chiaro. Finché lui restava lì, accasciato al suolo come uno straccio bagnato, io dovevo sorvegliarlo attentamente e non muovermi.
A poche decine di metri da noi le due trincee contrapposte si vomitavano contro torrenti di piombo infuocato. Gli interminabili istanti della “strategia del logoramento”. Ci scambiavamo gragnole di colpi con la stessa rabbia gelida e sorda e con il medesimo intento. Ognuno sperava che fossero i nervi degli altri a cedere. Ciascuno in cuor suo pregava che fosse il comandante nemico ad ordinare per primo ai suoi soldati di uscire dalla trincea e lanciarsi all’attacco. Ciò avrebbe consentito di fronteggiare i drappelli avversari restando al coperto, falciandoli e decimandoli con la mitraglia, prima dell’ineluttabile corpo a corpo, prima della furia bestiale degli scontri all’arma bianca.
Ciascuno pregava che fossero gli altri a muoversi per primi, ma, allo stesso tempo, ciascuno avrebbe voluto che fosse il grido del proprio tenente a squarciare assieme all’aria quel frastuono di metallo più cupo e irreale del più tetro silenzio. Sì, perché l’attacco sotto il fuoco nemico è terrore, follia che penetra nel cervello come fumo, nebbia e fiamma, ma l’incertezza di quegli attimi è ferro scaglioso di baionetta che rosicchia le ossa fino a spezzarle e strappa le vene una ad una.
Ogni volta restavamo con un piede esitante, quasi sollevato per aria, pronti a volare al di là dei reticolati oppure ad incollarci a terra, dietro i sacchi di sabbia posti a protezione delle trincee.
Era così ogni santo giorno, ma non quel giorno, per me. Avevo un compito diverso. L’ordine che avevo ricevuto era netto e preciso. Rimanere accanto al prigioniero, tenerlo sotto tiro, non perderlo di vista neppure un istante, e attendere.
Osservavo le sue braccia abbandonate al suolo e il rincorrersi delle smorfie sulla sua faccia. Le palpebre erano chiuse dal torpore di un sonno tanto profondo quanto aereo, incorporeo. Non era né vivo né morto. Dormiva. Dormiva e sorrideva. Era lontano. Lontano dal fango vischioso della trincea, lontano dalle granate e dalle mitraglie che frantumavano la carne e i timpani, lontano persino dal fucile che gli tenevo a pochi centimetri dagli occhi.
Sognava, probabilmente. Sicuramente russava. Chiazze di liquido profumato rendevano più scura, in certi punti, la sua divisa. Per il resto era identica alla mia.
Era rientrato la sera prima da una breve licenza portando con sé una compagna clandestina, una bottiglia di liquore che si era scolato fino all’ultima goccia. L’ufficiale che lo aveva scoperto in quella condizione, ubriaco fradicio a poche ore da una battaglia, non aveva avuto alcuna esitazione sul da farsi.
Aveva immediatamente indicato un soldato a caso, affidandogli l’incarico di avvisare chi di dovere appena il prigioniero tornava in sé.
“Lo voglio punire di persona – mi aveva detto. Ma non adesso. Lo farò fucilare quando sarà in grado di capire qualcosa”.
Già. Capire qualcosa. Mi guardavo intorno e risentivo quella frase. La sentivo scoppiare nelle orecchie assieme ai proiettili, ai brandelli di roccia e alle grida. E ad ogni schianto mi veniva da pensare che se qualcuno in quel luogo e in quel momento fosse stato capace di capire qualcosa bisognava dargli una medaglia, altro che fucilarlo.
Non era la prima volta che ero costretto a puntare un fucile contro un mio compagno. Un giorno avevano urlato il mio nome assieme a quello di altri sette soldati scelti a casaccio. Ci avevano fatti schierare di fronte ad un muro. Davanti a noi tre ragazzi accusati di diserzione, o qualcosa del genere. Feci fuoco tenendo gli occhi chiusi, cercando deliberatamente di sbagliare mira senza dare troppo nell’occhio.
Quasi tutti gli altri componenti del plotone avevano avuto la mia stessa idea. Fummo minacciati e costretti a ripetere l’esecuzione. Puntai guardando i piedi del ragazzo di fronte a me. Piedi deformati da scarponi incrostati di terra.
Premetti il grilletto in modo automatico, senza pensare e senza vedere niente. La mano era rimasta ferma, ma le palpebre si eran serrate di nuovo, nell’attimo in cui una voce estranea mi urlava di sparare.
In quel momento però gli occhi chiusi non erano i miei. Erano quelli del ragazzo ubriaco che dovevo sorvegliare. Le mie pupille erano spalancate, invece, e il cervello macinava una farina grigiastra e soffocante. L’ordine di fucilarlo non era mio, neppure quella volta. Toccava a me però stabilire l’attimo, il momento opportuno. Dovevo decidere io quando sarebbe stato in grado di intendere, e di soffrire. Era una scelta che spettava unicamente a me.
Non aveva scampo. Era già morto. Ma la mente era ancora libera. Finché era avvolta dalle braccia calde e sinuose di quella vaporosa euforia non c’era pallottola che potesse penetrare al suo interno, non c’era gelo di metallo scheggiato che potesse farla rabbrividire.
Non potevo salvare il suo corpo. Sarei riuscito solamente a far fare a pezzi anche il mio. Però potevo sbagliare i calcoli. Sì, per una volta potevo essere io a fregare il tempo, giocando d’anticipo. Potevo far sì che lo zelante capitano riuscisse ad impartire la sua punizione esemplare ad un fagotto ciondolante ed irridente come un clown. Il cervello del fantoccio sarebbe stato da qualche altra parte, chissà dove. Fuori tiro, in ogni caso.
Con l’aiuto di un paio di compagni riuscii a tenerlo in piedi fino all’ultimo. L’ufficiale era troppo infervorato. Non si accorse di niente. Gli occhi del prigioniero erano aperti quel tanto che bastava. Quando la scarica gli si abbatté addosso non cambiò espressione. Il sorriso che gli si allargò sulla faccia non era meno lieve, non era meno assurdamente e stupendamente tranquillo di quello che avevo osservato a lungo, tenendo il mio fucile puntato contro di lui.
Mentre portavano via il cadavere ripetevo a me stesso che in fondo la sua unica colpa era stata quella di imitare la morte. Aveva osato indossare la sua maschera orrida e grottesca. Sì perché solo una morte follemente e ciecamente ubriaca poteva scorrazzare sulle rocce e sul fango di quelle montagne, menando colpi a caso, con un riso isterico che le squarciava la faccia. Solo una morte in preda ai vapori di un alcool stordente poteva mietere le sue vittime senza alcuna logica, fregandosene beatamente di ogni merito, di ogni prudenza, di ogni abilità. Un dito traballante guida una pallottola contro il torace di un uomo, e risparmia, per un semplice capriccio, il petto del soldato che cammina spalla a spalla con lui. Una granata strazia le carni di un uomo che corre verso le linee nemiche, e si limita a far volare come un fuscello il compagno che avanza al suo fianco, lasciandolo incolume.
Si era trattato solo di una forma di recitazione. Il soldato passato per le armi si era travestito per non farsi riconoscere. Tutto qua. Aveva indossato la divisa della morte per non farsi catturare. E ce l’aveva fatta. La morte non era riuscita a prenderlo vivo.
Aveva affondato i suoi denti di metallo solo nel fantoccio che due soldati trascinavano via tenendolo per i piedi e per le spalle. Un fantoccio che non poteva sentire gli schianti dei proiettili e l’interminabile fracasso di certi silenzi falsi e straniti. Era distante. Intangibile. Sordo al vuoto di ogni frase che potevi dire o pensare, immune alla lama tagliente di certe risate forzate che un’eco beffarda tramutava sistematicamente nel tremore gelido della paura.
Ho sempre desiderato scrivere tutto questo alla famiglia del soldato fucilato. Ho pensato dozzine di volte ad una lettera. Una lettera più vera e sincera della comunicazione burocratica spedita dal Ministero della Guerra. Una lettera per rendere chiaro e lampante che il loro caro è morto conservando integro il suo onore. E forse anche qualcosa di più importante dell’onore stesso. Non ha commesso alcun delitto né alcuna azione indegna. Ha solo esercitato il sacro diritto alla legittima difesa.
Non sono mai riuscito a spedire la lettera alla famiglia del mio compagno. Non ho mai trovato il coraggio. Forse aspetto anch’io qualcosa. Forse attendo anch’io una sentinella. Una sentinella che mi scuota, mi svegli e mi trascini via, quando sarò in grado di capire qualcosa.
UN GEROGLIFICO
UN GEROGLIFICO
racconto di Ivano Mugnaini
Avevo resistito, in qualche modo, alla vita. Avrei saputo resistere anche alla morte? Come l’avrei guardata nell’attimo in cui sarebbe entrata da quella porta? Di cosa avremmo parlato? Come avremmo passato il tempo insieme?
Me l’ero chiesto, per anni, come se fosse una questione lontana, puramente teorica. Una visita medica di routine, poi, un pomeriggio come tanti. Un dottorino dalla faccia tetra, sincera. L’ora per me era arrivata, senza strepito, affamata e con un discreto anticipo. Una morte annunciata, con il lusso, il privilegio, del preavviso. La data di scadenza comunicata in modo ufficiale, ma anche civile, quasi lieve, quasi umano. Nell’arco di pochi mesi giungerà l’epilogo per me.
Il pianto e il riso acquistano d’un tratto un sapore diverso, una consistenza strana. Saziano presto, e, altrettanto rapidamente, stancano. Baratri di tempo svuotano le braccia, lo stomaco, le vene. Si tratta solo di stabilire, a questo punto, per sopravvivere, per non morire prima del tempo, come trascorrere i giorni che mi restano. Il primo impulso, meta eletta, china naturale verso cui scivolano le idee, è il lago gelato dei bilanci. Le cose fatte e non fatte, i successi e i fallimenti. Destinazione da evitare ad ogni costo. Sorridere e ghignare sul tempo andato, perso, ritrovato mai, sarebbe un gioco sterile, con il rischio ulteriore di piombare in gorghi di ghiaccio. Un’alternativa possibile è meditare su possibili vendette: cogliere rivincite, finalmente, ora che non ho davvero più niente da perdere. Ma costa troppe energie, fisiche e mentali. Inoltre, viste dalla prospettiva nuova, molte montagne di rabbia mi sembrano mucchietti di melma e letame. Così, contro ogni attesa, mi ritrovo a concentrarmi completamente su un capitolo inedito: Ringraziamenti e Ricompense. Corro a ritroso lungo il sentiero degli anni andando a recuperare quelle rare persone che, inaspettatamente, hanno dato senza chiedere, senza pretendere qualcosa in cambio.
La prima che mi viene in mente è Rina Giromini da Livorno, classe 1975. Una compagna dell’Università, una delle poche di cui non mi ero mai innamorato. Sbagliando. Più che mai, nel suo caso. Giromini, solo ora riesco a concentrarmi sulla magia giocosa del suo cognome: il giro opposto, l’altro lato degli uomini, delle persone. Uomini a rovescio, o giù di lì. Diversi, differenti per sorte e per natura. Di sicuro diversa era lei.
Provo a ricontattarla tramite un vecchio numero di telefono ripescato in un’agenda impolverata. Mi risponde subito. È fedele negli anni anche a quella serie di numeri. Ha la stessa voce misurata, cortese. Parla degli anni trascorsi con tranquillità, come se descrivesse l’acqua bruna di un temporale già assorbita da un sole nuovo. Accetta di incontrarmi. A Pisa, in via Santa Maria, davanti all’ingresso dell’Università, come se dovessimo andare ad un’ennesima lezione. È più bella, più matura, sofferta e quieta come non mai. Dopo brevi e frettolose frasi di circostanza, le dico, come se fosse la cosa più naturale del mondo, che mi resta poco da vivere. Lei, ugualmente serena, con un volto imperscrutabile, mi parla di una leggenda egizia: “Quando nasce un bambino sette dei decidono della sua morte…”. La ascolto e la osservo, sorpreso, spiazzato. Nuovamente quieto, anch’io. Ha i capelli ancora corvini, lucenti come aspidi. È una maga forse, discendente della stirpe di Cleopatra.
“Quando nasce un bambino sette dei decidono della sua morte: se nasce il ventitre muore per un morso di coccodrillo, se nasce il quattro muore di febbre, se nasce il quindici muore d’amore…”. La interrompo. “Io sono nato il quindici”.
La guardo negli occhi, nelle labbra carnose. Rido. Con incantata amarezza. È tardi. È tardi per tutto, ormai.
Ma Rina è nota, e infinitamente cara, a me, ai miei ricordi più nascosti, soprattutto per una frase. Un mattino si sedette al mio fianco, sul banco screpolato dell’Aula Magna, si accostò fino a sfiorami e mi sussurrò: “Sorprendili!”. Poche sillabe, il senso di una vita. Con leggerezza, senza riso, senza il macigno compatto di un’imposizione. “Sorprendili!”. Sorprendi loro, il luogo comune, il cliché, il marchio impresso a fuoco sulla schiena. Sorprendi te stesso, le idee, le paure, le convinzioni, i dubbi, le certezze. Mi incitava Rina, accarezzandomi quasi per caso, come per errore, a fare qualcosa di inatteso, scoprendo il coraggio della volontà, l’arte di mettersi in gioco. Perdersi nella sete del volo senza pensare allo schianto, alla polvere.
La osservo ancora. A lungo, con cura, come non avevo mai fatto. È bella. È questa la prima e la più grande conferma. Bella senza se e senza ma. Vorrei dirglielo finalmente, con le mani e con le labbra. Ma mi blocca l’eco cristallizzata nella memoria, la voce del medico: “Qualche mese, nel migliore dei casi. Non di più”. Già. Nulla di più della morte può e deve piacermi ora.
Rina intuisce. Non ha bisogno di parole, non ne ha mai avuto bisogno. Si congeda. Senza odio, senza rabbia, con una stretta di mano lieve. È solo più cupa, adesso. Sa che la prossima lezione di filosofia che ascolteremo insieme, seduti allo stesso banco, è distante anni luce, collocata in galassie future che devono ancora nascere. La vedo allontanarsi di qualche passo, lenta, esitante. La disperazione mi dà la forza per concentrami su un unico imperativo: “Sorprendili!”. Ho l’occasione, l’ultima, la prima, per sorprendere chi mi ha fatto il dono prezioso e ingombrante di quel consiglio.
“Sai Rina, io in Egitto non ci sono mai stato. Lo so, è assurdo, ma… se venissi con me, io, ora, ci andrei”.
Si gira piano, Rina. Tutta la sua pacatezza non riesce a nascondere la luce di un sorriso. Cerca frasi importanti, adatte alla circostanza. Alla fine riesce ad infrangere il silenzio solamente con una battuta.
“Ma tu non eri quello che ha paura di volare? Se vuoi possiamo andare in nave, come nel romanzo di Agatha Christie!”.
“No, andiamo in aereo, dai. Questa volta mi sa che non avrò paura. La cosa peggiore che potrebbe capitarmi… sarebbe… morire!”.
Non ridiamo, né io né lei. Siamo così vicini che le labbra trovano di meglio da fare. Il bacio è dolce, corposo. Come un vino che ha respirato e assorbito il segreto del buio.
L’abbraccio ci porta a stringerci nudi. Ripassando in infiniti nodi i capitoli di una lezione che nessuno può imparare da solo. Seguiamo i punti, le linee soffici di carne e respiri. Le sottolineiamo infinite volte con le dita. Frasi mute, impossibili da dimenticare.
Mi guarda di nuovo, Rina. Tenera ora, non più oppressa da quell’angolo di pietra che impedisce alle labbra di distendersi liberamente. Mi sfiora i capelli, cerca i miei occhi ancora accesi. Mi bisbiglia nuove parole.
“Sei fortunato, sai! Di tutte le morti, la morte per amore è la migliore. Quando si muore davvero, non si muore per niente”.
Non sono certo di avere capito del tutto. Forse sì e forse no. La mente e il corpo preferiscono perdersi in un altro dilemma: se il cuore che sento battere nella carne soffice e calda che stringo e che mi tiene stretto è il mio o quello di lei. Ascolto, in silenzio, per lunghi istanti. Non so decidere. Resta un enigma, un geroglifico arcano, un eterno mistero. So solo dire ora, con certezza assoluta, che è un cuore vivo.