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THE COLOR OF SUNSHINE – Il colore del sole

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Questo mio racconto, uscito sull’Almanacco PUNTO, https://www.almanaccopunto.com/single-post/ivano-mugnaini-il-ponte-dei-suicidi, ha per titolo “Il ponte dei suicidi”, ma in realtà il titolo originale è “The color of sunshine”.
Inizia parlando del volo da un ponte e finisce parlando del colore di un bikini. Giallo. Come il sole.
Spero sia beneaugurante. IM

bellissimo - Recensioni su Sunshine Skyway Bridge, Tampa - Tripadvisor

The color of sunshine

Lo Skyway Bridge.
Tampa, Florida.
Il mare è di un blu da cartolina. Come se milioni di nani schiavi della bellezza lo dipingessero ogni istante per renderlo più bello di quello di Toronto o di Adelaide, più patinato, più americano. In fondo è solo un ponte. Anzi no: è la via del cielo. La strada che porta altrove, dove il blu non ha bisogno di essere dipinto e lucidato ogni giorno con il sudore della fronte e delle braccia.
Lì vicino abita la mia bellezza americana.
Lei adora l’Italia, e io adoro lei.
Dice che ha radici siciliane. Ma è come la Statua della Libertà: viene dall’Europa ma nessuno lo ricorda. Ride, con quei denti eternamente giovani e quella mente lontana dai miliardari egocentrici con gatti gialli al posto dei capelli. Ride e corre, ogni giorno, tra i suoi gatti neri e sani e i suoi prati lisci, senza muri, senza recinzioni. Oggi è corsa all’aeroporto, a prendere me, il bradipo italiano portato da lei, dal suo pensiero in carne ed ossa, in questo enorme parco giochi dove ogni passo è stupore. Dove perfino il mattino è più grande, assetato, e la sera è un prato liscio di paura.
Parla e ride, con quella voce che ondeggia come una canzone sulla pelle ed entra nelle vene. Ride, e prima che riesca ad abbracciarla, mi ha già raccontato la sua vita, i cugini, i parenti, il lavoro, i bicchieri di bevande sempre più colorate e alcoliche, gli amici, le palestre, i massaggi, i passaggi di una vita tra afa e vento, riso e pianto, costanza e sogno.
Salgo sulla sua macchina gigantesca. Mi dice che lì, da loro, è un’utilitaria, quella che da noi è una Panda, di quelle vecchie e squadrate, non ancora del tutto estinte. È stata in Italia, con un suo amore ora lontano. Ha visto San Pietro e San Siro, il sole e il gelo. Ha portato valige e ricordi pesanti, rimpianti di ghisa e serate di piombo. Ma non ha smesso di amare questo folle e strano paese che è il nostro. Ma è adesso è qui, nel suo mondo. Gioca in casa, è favorita. È il capitano della squadra di soccer, come dicono loro, dei miei sogni d’oltreoceano.
Guida, senza quasi mai guardare la strada, lungo strade larghe e diritte. Io guardo con un occhio davanti e con uno lei, e mai strabismo fu più pieno di paura e eccitazione. Mi porta, per prima cosa, a vedere il loro più bel monumento: l’Oceano. Un enorme installazione su cui nessun uomo ha messo mano.
Attraversiamo lo Skyway Bridge. Ed è come volare. Rapidi e instabili, lontano dal suolo. Vicini alle parole della storia di cui, con un riso più intenso, mi fa dono.
Mi racconta di Kathy Freeman. Il nome è simile a quello dell’ex atleta australiana specializzata nella velocità. Ma la nostra Kathy è un’altra. Lei camminava lenta. Solo nel finale ha accelerato.
La nostra Kathy Freeman una mattina, quella mattina, ha preparato dei biscotti fatti in casa, ha fatto il bagnetto alla bambina di una sua amica, ha amabilmente chiacchierato con i vicini nel primo pomeriggio, poi, qualche ora dopo, ha sparato una decina di colpi di pistola al suo ex marito, un avvocato di successo.
Subito dopo ha tentato di strangolare la compagna del suo ex marito, poi, all’alba del giorno dopo, è salita sulla sua Cadillac del 99 e si è diretta al Sunshine Skyway Bridge. Sì, il Ponte del Sole. Proprio questo, infinito, ineluttabile, che stiamo percorrendo. Sì è gettata nel vuoto dalla campata centrale.
È sopravvissuta. Kathy ha voluto fare un’opera completa: ha violato anche le leggi della fisica.
Secondo gli esperti della polizia i forti venti della baia hanno rallentato il salto nel vuoto dei suoi 63 chili e mezzo.
Era ancora cosciente quando, dopo essere stata in balia dell’Oceano per 40 minuti, è stata ripescata come un relitto dai vigili del fuoco di St. Petersburg. Un primo controllo delle sue condizioni fisiche ha rivelato la frattura delle gambe e della zona pelvica. È stata portata al Centro Medico di Bayfront e sottoposta ad un intervento chirurgico. Le sue condizioni erano critiche per le ferite interne.
Il pomeriggio seguente, meno di ventiquattr’ore dopo, lo sceriffo di Hillsborough ha accusato la casalinga, ex broker finanziario, di omicidio di primo grado, furto a mano armata e aggressione aggravata.
Gli eventi hanno sconvolto i suoi amici e i vicini. Secondo la testimonianza di una sua cara amica, Michelle, Katherine Freeman era una persona gioviale che si prendeva cura amorevolmente di sua figlia ed aveva mantenuto un rapporto amichevole con il suo ex marito nonostante il loro divorzio nel 1996 dopo dieci anni di matrimonio. Lei e suo marito erano due migliori amici che si erano sposati. Michelle ricorda che a volte Kathy diceva che suo marito le mancava. E aggiungeva, riferendosi a lui, “adesso mi accorgo di quanto mi piacesse come persona”.
Katherine era entrata a casa di suo marito alle undici e mezza di sera, e gli aveva sparato numerosi colpi.
Poi dopo aver lottato con la sua attuale moglie, era fuggita.
Non era tornata a casa dalla figlia, che adorava e nei cui confronti era estremamente protettiva. Secondi alcuni era stato proprio un litigio tra la figlia e la moglie del suo ex marito a far scattare la furia di Kathy.
L’accaduto ha sorpreso tutti coloro che sapevano bene quanto Kathy e il suo ex sposo fossero un esempio da additare a tutti di separazione amichevole.
Dagli atti del divorzio si è ricavato che dopo la separazione al marito è stata assegnata la casa, del valore di 650.000 dollari, vari appartamenti, macchine sportive, e numeri conti bancari e azioni. A Kathy erano toccati 110.00 dollari in contanti e 96.000 dollari di alimenti, più metà del mobilio e delle fotografie. Grover Freeman, avvocato di successo, si era risposato sei mesi dopo con Constance (Costante) Elaine King. Era il dì 12 Ottobre. La scoperta dell’America.
Noi italiani c’entriamo sempre. Non ne possiamo fare a meno.
Comunque, ciò che conta è che gli amici della ex coppia affermavano in coro che se Kathy avesse in qualche modo sofferto della separazione, e della spartizione, non dava modo di farlo notare. In fondo era solo una delle tante sfide che ha aveva dovuto affrontare, e superare, nella vita.
Nel 1983 il fidanzato di Kathy era stato ucciso a colpi di pistola. Un anno dopo era stata presa in ostaggio e malmenata durante una rapina nella sua gioielleria di E Busch Boulevard a Tampa. Nell’86 Kathy era stata aggredita da uno sconosciuto che era entrato un casa sua mentre suo marito era fuori città. Nonostante tutto questo, dicono ancora gli amici, Kathy non era aggressiva né piena di risentimento.
“La vita va avanti”.
Era questa la sua filosofia.
Recentemente, continua la sua amica Michelle, era molto piena di ottimismo, ed aveva pianificato di portare sua figlia alle Hawaii.
Quando parlava del suo ex marito, sostiene Janine Rosen, lo faceva con rispetto. Anzi, con ammirazione, per i successi che era riuscito ad ottenere grazie al suo lavoro. Ma forse, sostiene Janine, Kathy nascondeva dietro i suoi scherzi, le battute che diffondeva alle amiche via mail e le festicciole che organizzava per i ragazzi del quartiere il suo dolore.
Il Ponte è quasi finito.
Di sicuro è finita la storia di Kathy che la mia amata amica americana (splendida allitterazione) mi ha raccontato nei dettagli.
Aggiunge alcune immagini. Lo fa sempre. Lo fa come solo lei sa fare: con dolce cattiveria, come l’Oceano sotto di noi, che ci culla e ci vorrebbe ingoiare.
Mi fa riflettere sul processo per direttissima. Qui li fanno presto sul serio, forse perfino troppo. A volte meglio di un diretto sarebbe un accelerato. Mi dice di provare a visualizzare Kathy completamente ingessata e immobilizzata che presenzia come una statua tragica e ridicola al processo in cui si fa pezzi e si rimonta la sua vita.
Mi informa che lo Skyway Bridge è il ponte dei suicidi.
Ogni giorno c’è la fila di aspiranti uccelli senza ali.
Aggiunge che in alcuni giorni, soprattutto la notte di Natale, ci sono ronde di volontari antisuicidi che presidiano il ponte per provare a dissuadere i depressi dal compiere il gesto estremo.
Mi dice che anche lei, spesso, ha pensato allo Skyway Bridge.
Con amore.
Io ora, non la sopporto, non la riesco neppure a guardare.
Ho un crampo allo stomaco.
Vorrei tornare in Italia.
Passando però per vie aeree ed acquatiche.
Vorrei buttarmi in quel mare più grande del mare.
Poi la mia amica-amore apre di nuovo la bocca.
Mi invita a pensare come dovevano essere belli i capelli rossi di Kathy nel vento del suo volo.
Prima dell’impatto.
Quando lei era ancora aria e libertà.
Io, ora, la voglio baciare.
Non vedo l’ora che il Ponte sia alle spalle. Non vedo l’ora di arrivare alla casa di Alice con il suo patio, la sua piscina, il suo letto rosso sempre pieno di gatti, libri e telefoni. Sempre caldo, sempre da rifare.
Io, ora, la voglio abbracciare.
Skyway Bridge mi perdonerà.
Magari al ritorno ci faccio un pensierino, al salto.
Ora no.
Devo pensare cosa dire per convincerla a indossare per me quel suo bikini giallo. The color of sunshine, anche lui. Come il ponte.
Ivano Mugnaini
 

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A TU PER TU – Brina Maurer

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A TU PER TU

UNA RETE DI VOCI

A TU PER TU ospita oggi Claudia Manuela Turco alias Brina Maurer, poeta, romanziere e diarista, biografa e critico letterario.
Al di là delle qualifiche, sarà interessante, anche in questo caso, cogliere le peculiarità, le specifiche caratteristiche, le passioni, le lotte, le battaglie, le prese di posizioni, coraggiose, sincere, non solo in ambito letterario.
Quindi anche stavolta invito volentieri i “dedalonauti” alla lettura integrale dell’intervista da cui, in modo esplicito e tra le righe, emergono alcuni tratti intensamente rivelatori degli autori e delle loro opere, che poi sono un tutt’uno.
Buona lettura, IM

L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio. Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine. Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira. Saranno volta per volta le stesse domande. Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.

VOCABOLARI E ALTRI VOCABOLARI_COP

5 domande

a

Brina Maurer

 

1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

  • Ti ringrazio per l’invito e per l’ospitalità.

Mi chiamo Claudia Manuela Turco, ma da diversi anni ormai mi sono impossessata del nome di un personaggio da me inventato per un romanzo – Brina Maurer  -, dopo aver riflettuto a lungo su nomi di poeti, scrittori, attori, artisti e protagonisti di libri o film che mi piacevano. Adottando un nome d’arte, volevo prendere distacco dalla mia vita reale, o meglio, crearmi una seconda vita. C’erano pure problemi di omonimia, tra l’altro.

Il nome “Manuela” (senza la E iniziale) mi piaceva, ma non ero certa che fosse davvero mio. Infatti, da un certo momento in avanti sembrò che mio padre se ne fosse scordato al momento dell’iscrizione all’anagrafe. Il mio secondo nome ricomparve soltanto quando mi trasferii nel 2000 a Torino. “Claudia”, invece, non mi piaceva. Forse perché era stato scelto il nome “Claudio” nel caso fossi stata un maschio, e “Manuela”, se femmina. Alla fine, però, fu deciso che fossi “Manuela” ma soprattutto “Claudia”: nomen omen. Un nome importante nella nostra tradizione, penso alla gens Claudia, ma soprattutto alla parola “claudicante”. Scherzando, amo dire di essere “un autore Rizzoli”… essendo ortopedia una delle mie “passioni”!

La scelta del nome “Brina” è stata del tutto istintiva, soprattutto mi pareva sposarsi bene con

“Maurer”, un cognome abbastanza famigliare nella mia terra, il Friuli, e avendo sempre gradito come suona il cognome “Marler”, a un certo punto per me fu naturale ideare questo personaggio e, in un secondo momento, adottare questo pseudonimo. Inoltre, adoro la lettera erre (morde, mi ricorda il vetro che si infrange e taglia, è una lettera particolare, penso al rotacismo, alla sua importanza, per esempio, nella lingua latina… e un altro cerchio si chiude con Appio Claudio Cieco…) e “Brina Maurer” ne contiene ben tre.

Solo di recente ho scoperto che “Maurer” significa “muratore” in tedesco (proprio grazie a un tuo articolo, pubblicato sulla rivista “Il sarto di Ulm”). L’avevo sostituito al cognome “Turco” anche a causa del rapporto piuttosto conflittuale con mio padre. Ma alla fine mi sono ritrovata con un “cognome d’arte” che significa proprio quello che mio padre faceva per vivere!

Ho cercato a lungo di tenere separata la sfera creativa da quella privata e dal mio essere donna. Volevo scrivere opere che potessero far pensare a una voce maschile, come nel caso di Architetture Poesie Tridimensionali. E volevo una parola pura, pulita, che mi proteggesse dalla realtà. Per un certo periodo provai a destinare la poesia alla “bella parola” e la prosa allo squallore del mondo. Ma non funzionò a lungo.

Tra me e gli altri ho sempre avvertito la presenza di uno iato, come di una invisibile e sottile lastra di vetro. Per descrivermi brevemente, potrei usare parole di Luce d’Eramo: Io sono un’aliena.

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Geometrie creative

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Torre di Pisa a rischio, i cambiamenti climatici potrebbero ...

“E se avesse ragione la Torre di Pisa?” 

La frase non è mia. L’ho trovata su Facebook e mi congratulo con chi l’ha ideata e scelta.

Forse l’interrogativo se lo è posto anche Leopardi, durante il suo soggiorno pisano.

Su Leopardi e Pisa ho scritto un articolo ospitato da “L’Ottavo”, che ringrazio: Leopardi vs Leopardi .

Lo ripropongo qui.

Buona lettura e buone “geometrie creative”.

IM

LEOPARDI VS LEOPARDI

Pisa, il Lungarno e l’appetito del “giovane favoloso”

Ci sono luoghi che ti entrano dentro, e senza accorgertene, ti trasformano. Fu così anche per Leopardi che a Pisa si trovò a vivere un periodo del tutto nuovo, un’epoca diversa, sia a livello creativo che sul piano esistenziale. Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare ad occhi aperti, scriveva il poeta.

Una distanza minima quella di Pisa rispetto a Firenze, la città dove risiedeva in precedenza, ma resta comunque grande la distanza tra il Leopardi fiorentino e quello pisano. La domanda è pertanto la seguente: fu la città di Pisa a trasformare il poeta, oppure, semplicemente, gli consentì di manifestare ciò che aveva sempre avuto dentro, una componente essenziale del suo modo di essere e di sentire, una sua natura alternativa, se non, addirittura, preponderante? Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto un collega di Leopardi. Il problema è che noi, hic et nunc, ampiamente posteri, siamo anche ampiamente incerti riguardo ad una possibile risposta. Parafrasando Montale potremmo dire che tutto ciò che sappiamo è quello che non abbiamo, quello che non è.

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Estinzione

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Estinzione

di Marco Capponi
Edizioni Divinafollia, 2016

Risultati immagini per estinzione marco capponi

Nella copertina del libro campeggia un quadro di cui è autore lo stesso Capponi. Il quadro in apparenza è rassicurante. In apparenza, appunto. Ed è in questo aspetto esteriormente quieto, geometrico, razionale, che si nascondono profondità e ombre, spazi per riflettere sul lato oscuro della scienza, della mente umana, del presente che anela a diventare futuro diverso, manipolato, geneticamente modificato, potremmo dire. 

Capponi unisce nei suoi libri le sue due grandi passioni: la ragione e il raccontare, la logica e l’immaginazione, o meglio l’ipotesi delle conseguenze della variazione di alcuni dati e parametri di riferimento che sembrano fissi su quel microcosmo complesso e fragile che è il genere umano.

Estinzione immagina un futuro senza tempo, perfino senza morte.

Dovrebbe essere un quieto paradiso. Non è così. Perché ogni azione impone una reazione, un cambiamento nella struttura di un intero sistema, una mutazione nel suo equilibrio instabile e precario che è allo stesso tempo la sua fragilità e la sua unica forza.

L’idea alla base del romanzo è originale e coraggiosa. Capponi la esplora aggiungendovi elementi essenziali e variabili di portata assoluta: l’amore, l’odio, l’orgoglio, la ferocia, la sete di distruzione, il realismo, l’idealismo, l’eros, la poesia…

Un quadro a tutto tondo, nei cui chiaroscuri si intravede la figura umana messa a nudo, analizzata con occhio di scienziato ma anche di letterato. Conservando, a dispetto di tutto, la speranza che non si estingua del tutto la bellezza, la sua possibile, essenziale, viva presenza.

Non guasto con anticipazioni il gusto della scoperta della trama ai lettori interessati.

Mi limito a fare riferimento ad alcuni passaggi del libro, basandomi su due paragrafi della recensione di Rossella Frollà pubblicata sulla rivista Pelagos, a questo link: 

http://www.pelagosletteratura.it/2016/09/15/estinzione-di-marco-capponi/ .

«Un gruppo di scienziati lavora sotto la guida del prof. Franzinelli all’intuizione di uno di loro, Filippo Landi. Si scopre un’ «interazione ordinante» che non disperde energia e informazione ma le organizza e le concentra. Franzinelli si rende conto della possibilità di bloccare ogni processo degenerativo dei sistemi biologici oltre che raffreddare quasi gratuitamente ogni sistema termodinamico. L’«interazione ordinante» va oltre il principio classico dell’aumento dell’entropia dell’universo. Il risultato scientifico sarà quello di trattare la morte, la degenerazione della vita non più come inevitabile. Si renderà possibile la stabilità straordinaria del materiale biologico, superando l’ibernazione e addirittura favorendo il processo di riparazione delle cellule.

Alla applicazione metodologica di tale intuizione seguirà negli anni la mutazione genetica della specie umana. L’interazione ordinante si estende attraverso onde elettromagnetiche che viaggiano nella rete telematica per raggiungere tutti coloro che sono collegati ad essa. Si tratta di un cambiamento epocale che muta il rapporto degli uomini col territorio, con la loro stessa esistenza. Il fine non è più pensabile, né la fine né il tempo se non nella perpetua angoscia del possibile incidente che limita e penalizza l’evitabilità della morte naturale. Questa paura folle costringerà la nuova specie ad abbandonare completamente i mezzi di locomozione aerei e terrestri. Si apre un nuovo eterno pericoloso senso di angoscia».

Qui di seguito il link di un brano del libro letto da Ivano Marescotti.

Di nuovo buona estate a voi, razza non ancora estinta di lettori.

IM

Gradiva

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Gradiva

 

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In ottima compagnia, un mio testo di cronaca “sportivo-esistenziale” sul numero 50 di Gradiva.

È un numero speciale dedicato a: CINQUANTA POETI ITALIANI PER GRADIVA. Nel fascicolo, oltre ai testi dei vari autori, un editoriale del direttore Luigi Fontanella che percorre la storia della rivista.

* * * * *

Riporto qui sotto, per chi fosse interessato, alcune informazioni sulla rivista

 

GRADIVA

International Journal of Italian Poetry

Editor-in-Chief: Luigi Fontanella ~ Associate Editor: Michael Palma

Quote di abbonamento: 2016 | 2017

«Gradiva» è una delle più longeve riviste di poesia italiana, dedicata in particolare allo studio e alla diffusione della poesia contemporanea. Rivolta a un pubblico internazionale, pubblica testi sia di poeti italiani (con o senza traduzione in inglese) che di poeti stranieri di origine italiana, saggi, note, traduzioni, recensioni e interviste. Oltre a sezioni dedicate a testi inediti e interventi critici, comprende rubriche specifiche curate da singoli studiosi e poeti. Arricchisce la rivista una «Fototeca», archivio fotografico che documenta i principali eventi della poesia italiana, passata e presente.

«Gradiva» is one of the oldest journals of Italian poetry, and is particularly devoted to the study and promotion of contemporary literature. Addressed to an international audience, it publishes texts by Italian poets (with or without accompanying English translations), or of Italian descent, as well as essays, notes, translations, reviews, and interviews. Beyond its regular sections, with original poems and critical contributions, it includes special sections developed by scholars and poets. Among the latest features of the journal is a «Fototeca», a photographic archive documenting the most important events of the Italian poetical scene.

(L’articolo completo si trova a questo link: http://www.ivanomugnaini.it/gradiva/ )

Trent’anni di Testuale

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Trent'anni di Testuale

Biblioteca Comunale Centrale

Sala del Grechetto, Palazzo Sormani – Via Francesco Sforza 7

e Milanocosa

invitano alla serata

Trent’anni di TESTUALE

critica della poesia contemporanea

24 gennaio 2014 – ore 17,30

coordina

Adam Vaccaro

con contributi e testimonianze di:

Gilberto Finzi, Cesare Viviani, Flavio Ermini, Milli Graffi,

Adam Vaccaro, Vincenzo Guarracino, Gio Ferri

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TESTUALE, rivista fondata nel 1983 da Giuliano Gramigna, Gilberto Finzi e Gio Ferri,

è un corpus ineguagliato di ricerca critica sulla poesia contemporanea,

cui vogliamo dedicare una serata di festa e di memoria.

—————————————

Vedi e commenta anche su:
http://www.milanocosa.it/eventi-milanocosa/trentanni-di-testuale

E sulla pagina Facebook: http://facebook.com/milanocosa

Info:
Associazione Culturale Milanocosa – http://www.milanocosa.it – c/o A. Vaccaro, Via Lambro 1 – 20090 Trezzano S/N
T. +39 02 93889474; +39 347 7104584 – E-mail: info@milanocosa.it; adam.vaccaro@tiscali.it
Ufficio Conservazione e Promozione Biblioteca Comunale Centrale – C.BiblioPromozione@comune.milano.it

TESTUALE 52

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TESTUALE
critica della poesia contemporanea
rivista di saggistica fondata nel 1983 da
Giuliano Gramigna Gilberto Finzi Gio Ferri

è uscito il numero
52 / 2013

puoi visitarlo, leggerlo, scaricarlo, stamparlo
al sito

http://www.testualecritica.it

saggi di
Sergio Noia Noseda, Adam Vaccaro, Rosa Pierno
Enzo Minarelli, Paolo Badini, Giuseppe Ferrara, Gio Ferri,
Miguel Muñoz (errata corrige su n.51)

analisi sui testi e le performances di
55° Biennale Arte Venezia, Antonio Porta, Giulia Niccolai, Roland Barthes,
Roberto Capuzzo, Brunella Antomarini, Ida Travi, Monica Palma,
Roberto Dall’Olio, Matteo Bianchi, Stefano Iori, Piergiorgio Paterlini,
Paola Mastrocola, Marosia Castaldi, Antonio Spagnuolo, Giovanni Fontana
Francesco De Napoli, Roberto Pazzi, Italo Calvino

chi desidera ricevere una o più copie cartacee
potrà rivolgeri alla redazione
testualecritica@gmail.com
inviando l’importo di Euro 10,00 per ciascuna copia

Premio Internazionale GRADIVA-NEW YORK

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STATE UNIVERSITY OF NEW YORK
PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA
GRADIVA-NEW YORK
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La rivista internazionale GRADIVA, congiuntamente con la IPA (Italian Poetry in America), bandisce la prima edizione del Premio di Poesia Gradiva – New York.

Al Premio si concorre con un’opera di poesia di autori italiani pubblicata in Italia nel periodo compreso tra il primo gennaio 2011 e il primo dicembre 2012.

Al vincitore, designato dalla Giuria, sarà assegnato un premio di $1000 (mille dollari), il rimborso delle spese di viaggio e un soggiorno di due giorni a New York. Una selezione del libro premiato verrà tradotta in inglese e pubblicata, per uso scolastico, in un’edizione bilingue presso l’editrice Gradiva Publications.

Le Case Editrici o gli autori interessati devono far pervenire una copia del loro libro ENTRO IL 10 GENNAIO 2013 ai seguenti componenti della Giuria, con l’indicazione su ogni copia del proprio indirizzo, comprensivo di telefono e di posta elettronica:

Luigi Bonaffini, Dept. of Modern Languages, Brooklyn College, Brooklyn, New York 11210-2889, USA.
Alfredo de Palchi, Presidente Onorario, Chelsea Editions, PO Box 125, Cooper Station, New York, N.Y. 10276-0125, USA.
Luigi Fontanella, Presidente della IPA, PO Box 831, Stony Brook, New York 11790, USA.
Irene Marchegiani, 303 Mountain Ridge Drive, Mt. Sinai, New York 11766, USA.
Sylvia Morandina, Managing Editor di Gradiva, Dept. of European Studies, SUNY, Stony Brook, New York 11794-5359, USA.
Anthony J. Tamburri, J. D. Calandra Institute, 17th floor, 25 W. 43rd Street, New York, New York 10036, USA.

La Giuria selezionerà i cinque libri finalisti nel corso della sua prima consultazione collegiale, prevista durante l’ultima decade di aprile. Una seconda riunione, prevista entro il 15 maggio, determinerà il vincitore del Premio Gradiva – New York.

La cerimonia conclusiva avrà luogo nell’autunno 2013 presso l’Auditorium della State University of New York, Stony Brook, sede di Manhattan (401 Park Ave South) e sarà preventivamente comunicata al vincitore, che è tenuto a presenziare alla cerimonia. In caso di mancata partecipazione si perde qualsiasi diritto. Non si ammettono deleghe.

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PER INFORMAZIONI: Segreteria Premio Gradiva – New York, Ms. Sylvia Morandina
Dept. of European Studies, SUNY, Stony Brook, N.Y. 11794-5359, USA.
Tel. 001-631-6327448. Email: gradivasunysb@gmail.com

La Mosca di Milano , numero 24

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Con il patrocinio dell’ l.C.
“Casa del Sole” di Milano
vi invita
Lunedì, 28 maggio 2012 – h. 18.00
Auditorium ex Chiesetta del Parco Trotter
con ingresso gratuito
Presentazione del
n. 24 della Rivista
la Mosca di Milano Intrecci di Poesia, Arte e Filosofia
Sguardo e Visione
con la partecipazione di
Corrado Bagnoli, Giusi Busceti, Luigi Cannillo,
Gabriela Fantato, Angelo Lumelli, Ottavio Rossani
leggeranno i propri testi inediti
Zefferina Castoldi e Angela Passarello
L’ingresso principale del parco è in Via Giacosa, 46 – Milano – M1 Rovereto. Con una passeggiata di due minuti tra gli alberi sul viale di sinistra,
si avvista il campanile della Ex-Chiesetta. Sarà sempre aperto l’accesso diretto dal cancellino di Via A. Mosso, 7 (Angolo Via Padova).

versincanto@gmail.com – tel. 02/26822533

La generazione entrante

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Dal blog “UniversoPoesia” riporto qui di seguito la recensione di Elisa Vignali al libro “La generazione entrante” a cura di Matteo Fantuzzi. La recensione, già apparsa sul numero 65 della rivista Atelier, pone in evidenza alcuni aspetti interessanti di questo libro. Non si tratta solo di un’antologia o di una selezione di testi. È anche e forse soprattutto un modo per ragionare sulla nuova poesia italiana, e sulla poesia in generale. Per confermare ai tenaci e agli ottusi detrattori che la poesia non è mero e vano esercizio di stile per cacciatori di farfalle e di vispe terese, ma necessità, urgenza di mutamento, percepibile, genuinamente concreto. Le voci degli autori presenti nel libro dimostrano un impegno reale, non di facciata, non artefatto, non giovanilisticamente impalpabile ed utopico. I loro versi dimostrano a chi ritiene di poter basare il potere su silenzi e parole innocue che non è così, non sarà così, non potranno avere sempre vita facile. La speranza, l’auspicio è che, assieme alle nuove generazioni, entrino anche, senza bussare, tempi nuovi. I.M.
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Recensione a La generazione entrante di Elisa Vignali da Atelier n. 65, Marzo 2012.

Ponendosi in sostanziale linea di continuità con l’iniziativa promossa da Giuliano Ladolfi nel 1999 con l’Opera comune. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta, sempre per «Atelier», il volume La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta, a cura di Matteo Fantuzzi, a sua volta poeta ed editor, si propone di “mappare” le esperienze poetiche più sicure e riconoscibili tra gli autori che oggi abbiano vent’anni. Qualche dubbio è lecito muovere proprio sul ricorso al criterio anagrafico, osservato un po’ rigidamente, per la selezione degli autori, quando un allargamento del campo avrebbe magari attivato connessioni più proficue, consentendo di verificare l’effettiva presenza di certe linee vitali (per esempio, la vivacità della poesia neodialettale o la ricezione di determinate tradizioni, anche straniere). Senza contare che proprio in virtù di un simile approccio rimangono esclusi autori nati a cavallo tra i due decenni, ma afferenti per indole e temperamento forse più agli anni Ottanta che al decennio precedente.

Anche se motivato da criteri di gusto individuale e da ragioni editoriali, appare tuttavia un poco limitato anche il numero delle voci campionate, che registra qualche assenza o che nel complesso appare ristretto rispetto all’orizzonte di possibili altre inclusioni. Nondimeno il volume mantiene una sua validità di fondo nel documentare una realtà per molti versi sommersa, una produzione in versi sovente più affidata alla circolazione in rete che alla carta stampata, consentendo così di misurarsi con un pubblico di lettori che, se nel caso della poesia non può mai dirsi davvero largo e attento, tanto più necessità di un diretto confronto con la parola del testo, fosse anche precaria e in via di necessaria definizione come nel caso di questi giovani autori. Ma non è tanto ora sul criterio generazionale o anagrafico che si vuole qui soffermare la propria attenzione, oscurando la qualità, il quid specifico degli autori selezionati. Su almeno uno degli elementi rilevati da Fantuzzi nella sua introduzione si può, infatti, quasi generalmente concordare: «E proprio dalle opere dobbiamo ripartire se vogliamo risuscitare lo stato della poesia italiana contemporanea, l’unico antidoto […] sono i testi». E sono poi anche altri gli elementi evidenziati dal curatore tali da configurare quest’antologia, al di là di certi limiti in parte inevitabili, come uno strumento di qualche utilità per il lettore che volesse accostarsi ad alcuni dei poeti d’oggi più interessanti: un ritrovato «senso dell’urgenza» del dire, l’intenzione di una «poesia sociale (piuttosto che civile)» che appunto rinsaldi il rapporto un po’ sfilacciato tra letteratura e società (un’esigenza tra l’altro viva anche in altri campi, dalle riviste letterarie a certe piccole e medie case editrici), una differenziazione anzitutto geografica, specchio di una «frammentazione di percorsi che non indebolisce, piuttosto rende possibile una lettura condivisa delle pulsioni che rendono vivo il fare poetico», e infine la ricerca, tutt’altro che pacificata, di una propria identità, come a dire di un proprio stile, non ancora del tutto affinato ma dai tratti già riconoscibili e, nei casi migliori, persino maturi. E ancora, tra gli elementi non rilevati nell’introduzione: la configurazione del rapporto maschile/femminile in termini rinnovati e meno stereotipati, per la disponibilità della voce maschile ad assumere entro di sé quella femminile e viceversa, in accordo con un’identità fluida; e ancora l’allargamento di orizzonti geografici e interculturali, con significative aperture a tradizioni letterarie e lingue sovranazionali, tali da produrre interessanti stratificazioni anche a livello linguistico.

Circa la «necessità sempre più pressante di farsi comprendere, di utilizzare figure, immagini, espressioni, dialoghi vicini al linguaggio comune», procederei invece con maggiore cautela, perché se è vero che la qualità di una scrittura poetica consiste anzitutto, per usare una metafora del grande poeta irlandese Seamus Heaney, in un’operazione di scavo che tramite il pensiero consente di tradurre una percezione interiore in una trama di parole, un eccessivo scadimento del linguaggio a livello della comunicazione quotidiana rischia di abbassarne notevolmente il potenziale espressivo. Anche se poi, in verità, non sono pochi gli autori inseriti nell’antologia, ancorché all’inizio del loro percorso, a mostrare di avere recepito la lezione anche formale dei nostri maggiori poeti, maestri di stile prima ancora che abili costruttori di immagini, non limitandosi a riprodurne stancamente i modi, ma riassorbendone gli echi entro la propria officina verbale. Allo stesso modo, non sempre l’oltrepassamento di un novecento “sperimentale”, di cui si vorrebbe trovare conferma nel volume, si è prodotto o è bene si produca, almeno se s’intende il termine “sperimentale” in accezione più produttiva di quella che vorrebbe confinarlo negli angusti confini dello sperimentalismo, e non lo s’intenda invece, come forse si dovrebbe, come inesausta capacità di sprigionare sempre nuove risorse vitali dalla lingua poetica. Si pensi a un poeta come Porta, peraltro assunto a punto di riferimento da più d’uno di questi poeti nati negli anni Ottanta, capace di superare le secche del neoavanguardismo per riconquistarsi uno spazio di autenticità, verbale, oltre che esperienziale. Certo l’aggancio al reale, (con il suo portato anche traumatico) nelle sue varie declinazioni, il «rifiuto di una lirica concepita come intuizione e libera effusione della soggettività o come espressione poetica di un’individualità assoluta», sottolineati da Giuliano Ladolfi nella lucida e a un tempo appassionata postfazione che chiude il volume, sono il dato che più accomuna gli autori antologizzati, rendendo in fondo ragione di una loro appartenenza a una medesima sensibilità, se non comunità. Se è vero, poi, che a fronte di un futuro fattosi sempre più incerto, non più veicolo di speranza, ma «fonte di apprensione», la generazione dei anni Ottanta ha maturato un senso di smarrimento profondo, di cui è emblematica, in molti testi selezionati, la costante della figura paterna, spesso assente o problematica, è pur vero però che si assiste a un tentativo ininterrotto di dialogare con i padri della tradizione, entro un rapporto più mobile e dunque in parte più libero, senza pretese di autoinvestiture o l’assunzione posticcia di pose compiaciute.

Proviamo allora a predisporci all’ascolto di queste “nuove” voci del panorama poetico italiano, liberi per una volta da pregiudizi e dall’ingombro di categorie interpretative precostituite, lasciandoci guidare nel percorso dalle note di critici e studiosi che nel firmare l’introduzione a ogni singolo autore antologizzato contribuiscono in qualche misura a riannodare i fili con una storia più consapevole e matura. Si avrà allora anzitutto la sensazione, magari un po’ ingenua ma pur sempre stimolante, di trovarsi di fronte a una sorta di cantiere aperto, di laboratorio in atto, secondo un principio del fare poesia che segue non astratte regole esterne, ma una ritmica e una metrica anche interiori. Per ognuna di queste voci non sarebbe improprio ricorrere all’immagine sereniana assai efficace della poesia come «stella variabile»: la raccolta di Vittorio Sereni (una delle presenze sicuramente più certificabili nelle pagine di quest’antologia, insieme ad altri poeti della quarta generazione) usciva proprio nel 1981 e fin dal titolo intendeva riferirsi alla poesia e al suo rapporto col mondo, alla sua condizione, appunto, di stella non fissa, non più in grado di fornire certezze o dispensare verità assolute, e invocata senza che possa promettere nessuna salvezza, nessun risarcimento del vuoto personale e storico. Essere nell’oggi significa appartenere al male: «Oggi si è – e si è comunque male/ parte del male tu stesso tornino o no sole e prato coperti». Nei versi di Sereni, animati da un senso tragico dell’esistenza, eppure ancora resistente di fronte alla forze regressive operate dalla Storia, la violenza e i segni del massacro si nascondono in ogni gesto; la vita quotidiana e ripetitiva del lavoro non fa trasparire alcuna ipotesi di comunicazione umana, ma solo un logoramento che penetra nelle persone e nei luoghi, privandoli di forza vitale. Tra insicurezze e senso lacerante della precarietà, si sperimentano così limiti e insufficienze della condizione umana, mentre il passaggio del tempo rivela il suo fondo amaro nell’immagine di un «gran catino vuoto» che chiede ora di essere riempito con nuove figure di speranza.

Si parte con il compatto manipolo di testi di Dina Basso, che ha esordito appena ventenne con la promettente raccolta Uccalamma (Le Voci della Luna, 2010), in cui l’impasto neodialettale dell’idioma naturale, quello catanese, si piega alla narrazione, spesso in chiave autoironica e già dal piglio sicuro, di accadimenti quotidiani, di esperienze concrete, filtrate da una memoria capace di rimandare tanto a un preciso senso del luogo quanto a un ricco repertorio culturale. Ed è proprio questa naturalità del dire, legata a una concreta «lingua del fare» – come nota nella sua persuasiva introduzione Manuel Cohen –, a una trama di gesti e di parole, il tratto forse più preciso in cui si può far consistere il verso tutto materico di quest’autrice, fisico e mentale insieme.

A seguire, la voce di Marco Bini, nella cui raccolta d’esordio Conoscenza del vento (Ladolfi Editore, 2010), la costante tematica dello smarrimento generazionale è resa mediante un’equilibrata oscillazione di linguaggio colto e linguaggio quotidiano, tra intonazione lirica e cadenze del parlato, nel quadro di una dialettica io/ noi che finisce per intrecciare i fili della storia individuale con quelli della storia collettiva. Ed ecco tornare di nuovo, in uno dei versi selezionati, l’immagine astrologica di Sereni, anche se declinata in altra forma: «Solo che non si ferma là davanti/ come una supernova ciò che accade/ ma più simile a una cometa ostenta/ alle spalle una storia”, perché “il futuro certo non è lì che aspetta». Il senso della scrittura, per questo giovane autore, andrà dunque rintracciato nella ricerca inesausta di un orizzonte in cui consistere, di una misura capace di garantire una giusta prossemica, nel tentativo di mappare il reale, ridisegnandone i confini: «Averla questa forza di accorciare/ le distanze, indicare gli orizzonti/, nuovamente raccogliere le facce/ disparate in un’unica medaglia». E ciò varrà sia nella vita che negli spazi della poesia, dove stile e ritmo spesso sono tutto. Anche il percorso compiuto da Carlo Carabba nei suoi Canti dell’abbandono (Mondadori, 2011) è mosso da un’analoga volontà di ricerca, non necessariamente finalizzata al raggiungimento di una meta, se è vero, come si legge nell’introduzione firmata da Roberto Carnero, che «il miraggio della felicità non consiste nell’arrivare al traguardo ma nel non arrivare, “consumando” esperienze sempre nuove in luoghi, sensazioni, incontri, illuminazioni interiori», secondo una dinamica incessante di fughe e ritorni, partenze e abbandoni. Solo così forse è possibile ritrovare il rapporto perduto con la memoria dei nostri padri, metaforici o reali, rinnovandone lo sguardo nel presente: «Da qui sono partito/ qui dove non arrivo», recita un verso in tal senso emblematico tratto dalla raccolta Gli anni della pioggia (PeQuod, 2008).

E ancora troviamo la dimensione itinerante di un homo viator, il cui peregrinare assume la forma di un cercare senza sosta, nei versi di Giuseppe Carracchia il quale, nei passi estratti dalla silloge La virtù del chiodo (L’arca felice, 2011) esplora il reale con intento anzitutto conoscitivo, per misurarne distanze e traiettorie: «Il piede che calza la terra è centro/ profondo, e ovunque si sposta dentro/ universo tracciato a ogni passo/ baricentro del mondo e compasso».

La poesia di Tommaso Di Dio, autore della plaquette Favole (Transeuropa, 2009), propone seppure con accenti del tutto personali alcuni motivi comuni a molti di questi poeti: la dimensione del poeta viandante, da cui deriva un senso profondo di precarietà e di incertezza del futuro, tra paura e attesa per un avvenire dai contorni oscuri, la dialettica tra mente e materia, fra tradizione e apertura al nuovo, secondo una dinamica in questo caso mediata dall’esempio fondativo di Antonio Porta, rappresentante di una lirica «della memoria» e della «carne», come annota efficacemente Stefano Raimondi nella sua introduzione. Il progetto poetico di Tommaso Di Dio appare già delineato nei suoi tratti fondamentali ed è capace in molti casi si produrre buoni esiti, come nella sequenza poematica seguente, tra le più sicure dell’intera raccolta: «Ti voglio credere vera e impossibile/fuga sotto il ventre dell’ariete. La pietra che chiude./ La forza del gigante. Chiudi la fatica degli occhi e abbassa/ l’arma dello sguardo; lascia tu aperto il passaggio». Di Francesco Iannone, autore della plaquettePoesie della fame e della sete (Ladolfi, 2011)andrà rilevata, come annota intelligentemente Massimo Morasso, la «ricerca di uno spazio condiviso», che convive con la percezione di una «coscienza ferita». La poesia è capace di produrre senso anche tra i tagli e le slabbrature del reale, nel segno di un realismo riportato a ragioni quasi “elementari”, laddove tra i primari impulsi della fame e della sete si misura anche il potere di sopravvivenza della parola: «La resistenza al nulla è una lotta/ che lascia ferite e tagli/ è un labbro squarciato da un pugno/ è un figlio espulso da un utero contuso».

Nella sua partecipe introduzione Antonella Anedda coglie bene i tratti distintivi della poesia di Domenico Ingenito, poesia dalle tante e diverse “grammatiche” possibili: quella del corpo, anzitutto, per l’oscillazione costante di polo maschile e polo femminile, non rigidamente separati ma dialetticamente cooperanti nel processo conoscitivo; il dialogo con la tradizione, qui più che mai intesa anche come traduzione in atto di «linguaggi distanti», tra italiano, persiano e portoghese. E infine la grammatica, per così dire, dell’immaginazione, capace, come accade nell’ultima poesia riportata, di far parlare due autrici separate da due secoli e da quattromila kilometri. Come nel caso di altri poeti qui antologizzati, la poesia vale come strumento per accorciare le distanze, mantenendo aperto il dialogo tra entità lontane nello spazio e nel tempo. La poesia di Franca Mancinelli, che ha già al suo attivo una raccolta, Mala Kruna, uscita da Manni nel 2007, si connota per la capacità di tradurre il senso di precarietà comune, del resto, a un’intera generazione, in interrogazione universale sul senso dello stare al mondo, con ciò rinsaldando le ragioni dell’io con quelle del noi, mediante un linguaggio poetico che dietro la scorza lirica dei versi nasconde le ferite del reale, «in un codice di nervi e sangue, di corpo e mente interiore», per usare le parole del sottile prefatore Gualtiero De Santi. Come avviene in questi versi: «Ora l’infante potrà camminare/ con l’equilibrio che porta le braccia/ a sollevarsi inermi dalla terra./ È un giorno strabico, e le persone/ s’affacciano sul proprio sangue fermo/ chiedendo dove sbuca la corrente/ che spinge rossa e perfora gli occhi».

La poesia di Lorenzo Mari, presente con un campione da Minuta di silenzio (L’arcolaio, 2009), è pronta a cogliere scarti e zone liminari del reale, con affinata sensibilità percettiva e una sottesa intenzione ironica, offrendo altre emblematiche immagini del senso di sospensione e incertezza esistenziali. Ne è significativo esempio la figura «dell’uomo che cadeva» al centro di una delle sequenze più riuscite dell’intera raccolta: «Di tanti posti, in riva al mare/ è dove conta meno il minuto/ di silenzio, stretto tra onda/ e risacca, accanto alla figura/ fetale, a ossa rotte, dell’uomo/ che cadeva. Scrivere sulla sabbia/ è gesto romantico, meglio le glosse:/ tatuate dal sole con certezza,/ e più direttamente, sulla minuta/ di silenzio». Ed è tutta da condividere la nota iniziale di Andrea Gibellini che di questi versi coglie «lo stigma irrevocabile della parola poetica detta in sincerità prima della tecnica e di un sentimento stilistico». I versi di Davide Nota, tratti dalle tre raccolte finora pubblicate e preceduti da un’accurata postilla critica a firma di Giuliano Ladolfi, descrivono una condizione di orfanezza assunta a metafora quasi ossessiva di una condizione esistenziale comune, tra percezione lacerante della colpa e desiderio di rimozione. E anche il dettato poetico, “sporcato” da espressioni gergali e tic verbali, si fa specchio dell’onesta rinuncia a dire verità risolutive: «Così come orfani del mondo/ incatenati nella febbre a vita/ del giorno: è così, sì, va bene…», cui fanno eco i versi «Anch’io sono colpevole del male/ che regna vomitevole e banale».

Nell’introdurre i testi di Anna Ruotolo, Maria Grazia Calandrone ne sottolinea con efficacia la vocazione a innestare un produttivo dialogo tra dimensione celeste e dimensione umana, seguendo la rotta indicata dalle «stelle comuni, evidenze della bontà di ognuno» che «proprio a causa di questa loro presenza ubiqua» fanno segno al «rapporto tra uomo e uomo – e tra uomo e natura». Cifra specifica della scrittura di questa giovane autrice è la tendenza a iscriversi entro costellazioni dialettiche – tra interni ed esterni, solitudine e «tuttitudine», singolare e plurale –, secondo uno sguardo capace di farsi davvero plurale: «I singolari sono plurali/ dico casa e ne dico mille/ perché se guardo fuori da qui/ tante ce ne sono,/ pulsano da non finire […] ma chiama, chiama tutti/ con centomila nomi esatti/ si esce, così, infine, dalle dimore/ e camminiamo in stormi/ si prova a fare bene/ tutto e forte, tutto al plurale/ per una volta tra le altre volte».

Ancora una volta è l’emblema della figura paterna, in senso tanto metaforico quanto reale, a fare la sua comparsa nei versi di Giulia Rusconi, una delle voci sicuramente più originali del panorama poetico attuale per la capacità di combinare psicologia del profondo, «con punte di orrore quasi onirico», per usare le esatte parole di Anna Maria Carpi, con un ordito prosodico semplice, deprivato di orpelli stilistici. Ecco un passo estratto dalla serie L’altro padre: «Mio padre numero quindici/ corregge la mia postura./ Precaria mi aggrappo al suo braccio/ lo conosco a memoria./ Mio padre — l’altro — non lo tocco/ mai neanche per sbaglio./ «È questo che cerchi, il contatto?»/ Il contatto sì il pezzo mancante/ della “casa”, delle cose».

Elementi di originalità presenta anche il percorso poetico di Sarah Tardino, di cui vengono proposti alcuni testi dall’ultima raccolta I giorni della merla (Lietocolle, 2011), preceduti da una nota esegetica di Rosita Copioli che ne rileva i tratti distintivi: la «fascinazione arabizzante», una «passione per il racconto instancabile» e la «pronuncia androgina». Nel segno di un fiabesco quasi stregonesco e del meraviglioso si collocano, per esempio, i versi seguenti: «Sono la merla e i suoi giorni,/ la maga e l’ombra della rosa,/ l’aprile della vendetta sotto mentite spoglie,/ la vita che assalta con un segno,/ il baro salvato dall’ironica sorte,/ la ruota da cui nessuno ha scampo:/ sono la fedele assassina!».

Si può senz’altro concordare con Gian Ruggero Manzoni, secondo il quale la poesia di Francesco Terzago si connota per la dinamica ossimorica di una «presenza-assenza» volta alla messa in scena di figure recuperate a una memoria insieme individuale e storica, secondo una modalità anche teatrale: «Mia nonna mi chiamava tesoro, lipscén/ diceva e mi appoggiava una mano sulla testa/ e mi diceva che era stanca. Vedi lipscén le stelle/ che sono sopra di noi, il cielo, – l’universo che/ non ha confini pensa – a tutte le cose che ci sono/ dentro pensa agli anni che ci separano e pensa/ a quante persone, in questo preciso momento,/ ed è possibile che sia così».

Chiudono l’antologia alcuni testi selezionati da L’estraneo bilanciato (Stampa, 2009), l’ultima raccolta pubblicata di Matteo Zattoni (1980), tra gli autori senza dubbio più maturi della sua generazione, in virtù di uno stile ben calibrato e di una materia poetica mossa da intenti conoscitivi. Attraverso una ricezione attenta della lezione dei grandi poeti del secondo Novecento, la scrittura poetica è investita di una valenza etica, oltre che estetica, riconquistando così la sua originaria funzione sociale. Quella di Zattoni è poesia «in uno stato di attesa» – come scrive nella sua densa introduzione Alberto Casadei – , sospesa in precario equilibrio sul filo dell’esistente. Una situazione ben riflessa da alcuni versi di Trapezisti: «c’è sempre qualcuno che rinuncia a qualcosa/ di certo, alla tranquillità di una casa/ per inventarsi un equilibrio nuovo/ io guardo e non guardo, poi l’applauso/ sorrido; loro non cadono».

A chiusura di questa panoramica, ecco un invito finale: lasciamole sedimentare, allora, queste voci, concediamo loro il tempo – e gli spazi – per tornare a parlarci, prima di sottoporle a nuova e più onesta verifica.