La sarta, o meglio la sua ideatrice ed autrice, Marilena La Rosa, cuce con i fili della letteratura la vita. O forse la ricama e rammenda con la fantasia, nella terra di nessuno tra verità e immaginazione.
Ho letto con piacere questo libro e altrettanto volentieri ne ho scritto.
Ci conduce lungo un sentiero poco battuto, una favola per adulti disillusi ma non abbastanza da non sapere sorridere quando si ci immagina “con una M gigante sulla maglia” o con la voglia di ascoltare ancora, nei recessi della mente, “versi che si baciano”.
Buona lettura, IM
5 domande
a
Marilena La Rosa
1 ) Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
Questa è senz’altro la domanda più difficile. Provo a rispondere.
Sono nata e vissuta ad Acireale, che non è un fatto da poco, perché la mia è una città colta, elegante, di una bellezza struggente ma è anche la patria del cavolo trunzo la cui caratteristica principale pare sia legata indissolubilmente al dna degli abitanti (e quindi anche al mio): è duro come è dura la loro e la mia testa. Quindi, sono testarda e ho modo frequentemente di mostrare questa “dote” – che misteriosamente non tutti sembrano apprezzare – , nelle scelte, nelle relazioni familiari e sociali, nel raggiungere gli obiettivi. Nel bene e nel male, insomma. Mi sono poi trasferita a Palermo e qui ho incontrato un altro tipo di bellezza, quella sfrontata, maestosa, abbagliante del barocco o cupa, possente e austera del gotico-normanno. E nelle contraddizioni di Palermo mi sono persa e poi ritrovata e Palermo è riuscita così a diventare metafora piena della mia vita. Posso giurare, quindi, che l’ambiente condiziona l’esistenza. Anche quello familiare, ovviamente. Sono cresciuta con una mamma che mi raccontava i miti e le tragedie greche, ho conosciuto Dafne, Polifemo e Medea prima di Cappuccetto Rosso o Cenerentola. E quindi ho sempre letto e sono cresciuta fra i libri e le conversazioni a tavola avevano il sentore di un’interrogazione agli Esami di Stato: “Chi ha scritto le poesie a Casarsa?”, chiedeva mia madre mentre faceva scivolare una cucchiaiata di purè nel piatto.
Il quarto libro segnalato è Dalla canicola al blu, di Lorenzo Falletti. Si tratta di racconti, un genere che consente una gamma molto ampia di variazioni sul tema, voli panoramici e scavi psicologici. Schizzo e dipinto dettagliato, abbozzo e disegno accuratissimo. Ho apprezzato i racconti di Falletti, come ho scritto anche nella prefazione di cui pubblico uno stralcio. Assieme al parere di una scrittrice-lettrice, Viviana Albanese, che ha voluto e saputo manifestare con sincera schiettezza e nitida partecipazione le sue impressioni e le sue emozioni.
Anche in questo caso, per chi sarà incuriosito, buona lettura; che, è, alla fine, quello che conta.
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo.Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.
Lorenzo Falletti, DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE, puntoacapo Editrice, Pasturana 2016, pp. 100, € 12,00
Un estratto dalla prefazione
Una verve comunicativa generosa e barocca quella dei racconti di Lorenzo Falletti. Uno specchio della sicilianità delle sue origini, fatta di sole, leggende, verità, iperboli sospese tra ponti concreti e immaginari, grandezza e sofferenza. A lato di tutto, in posizione pigramente attiva, tra coinvolgimento e atavico distacco, lo sguardo osserva la vita che suda, sbraita, si agita, corteggia e si fa corteggiare, irride e si rende ridicola, una goccia di sudore che scalda e placa al contempo: l’ironia. E una forma agra di indagine sull’esistere che un siciliano di Girgenti, tra drammi e farse, a suo tempo teorizzò e mise in pratica: il sentimento del contrario.
L’umorismo, anche nei racconti di Falletti, è ancora di salvezza, rifugio e schermo contro i colpi e gli spari della verità, quel sangue troppo caldo e troppo vivo. Falletti erige una barriera protetta da un cancello di ferro, ma di un ferro particolare, robusto ma mai pesante, mai ingombrante e goffamente massiccio. La danza barocca della parola è fatta di volute rotonde e lente, ghirigori e arzigogoli: un’esuberanza di aggettivi posti ovunque, sparsi come semi in un campo, rosseggianti e maturi come fichi d’india. Ma la crescita non è mai caotica nelle narrazioni di questo libro. C’è, accanto e dentro al rigoglio espressivo, un altrettanto saldo controllo, un rigore geometrico che impedisce di strafare e “stradire”.
Ciò è reso possibile dall’altra inclinazione naturale dell’autore, quella che poi è sfociata nella sua occupazione professionale, la recitazione. Nell’arte teatrale, lo sappiamo, tutto è tempo e il tempo è tutto. La misura quindi, anche qui, nelle storie registrate nella memoria e raccontate con gusto, contrasta e regola la sovrabbondanza senza togliere nulla della freschezza e della follia, del profumo e dell’eco della vita vissuta. È come se Falletti si facesse regista di se stesso e dei suoi personaggi, delle vicende che mette in scena sulla pagina.
Il risultato di questo connubio è un insieme godibile e originale di affabulazione e sostanza. Le trame sono sempre ben ritmate, mai lente o apatiche. Ma non c’è spazio neppure per una frenesia approssimativa e affastellata. Le descrizioni sono ricche di dettagli e di colore ma mai meramente estetizzanti o poste lì per puro sfoggio.
“Il suo bagaglio magicamente s’aprì rovesciando una notevole quantità di piccoli oggetti: stelline, cilindri in metallo, palline, molle, marionette, tremule uova fritte in lattice, fazzoletti colorati ed altri aggeggi non catalogabili con nomi cristiani. Lo scroscio della pioggia di faville catturò l’attenzione di una bambina. Nei suoi occhi si specchiò la saettante follia dei balocchi.”
In questo esempio tratto dal racconto d’apertura, “Dalla canicola al blu”, si coglie in modo immediato la generosità espressiva a cui si è fatto cenno, quasi una volontà di dare al lettore non solo più dettagli possibili ma anche suggestioni, coordinate sensuali, odori, colori, sfumature visive, ed anche mentali. Come un pittore che aggiunge pennellata su pennellata, strato su strato, per giungere a rendere quasi tangibile quella “saettante follia dei balocchi”.
C’è anche un tocco di poesia, nelle trame di questo libro. Potrebbe sembrare fuori luogo, o apparire ridondante o puramente esornativa, se, a ben vedere, non fosse essa stessa sostanza, materia, o complemento mentale di quei riferimenti oggettivi, ed oggettuali, di cui le storie narrate abbondano.
Ivano Mugnaini
Lorenzo Falletti, DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE
Io non sono una lettrice di racconti, la narrazione breve non è la mia misura, soffro quando capisco che c’è del non detto e che quel non detto avrebbe potuto essere funzionale alla storia, magari donandole un po’ di forza in più, rendendola più completa. Questa mia convinzione è stata smentita dal primo racconto di questa raccolta Dalla canicola al blu, che dà anche il titolo al volume. Si tratta di un racconto abbastanza lungo e questo può sicuramente avermelo fatto apprezzare di più, ma ho trovato tra le righe una storia così potente e dei personaggi così profondi da farmeli amare e comprendere come quando si viene rapiti da un buon romanzo. Il protagonista Vincenzo Cassarisi è intenso, appassionato e pieno di contraddizioni e queste caratteristiche lo scrittore le fa assaporare tutte al lettore: la vita sregolata, fino alla fine, e la voglia di normalità, il tentativo di formare una famiglia a costo di falsificarne le fondamenta, il bisogno del pubblico e del successo ma anche la necessità di tornare a casa dalla madre, da quell’unica certezza che aveva dovuto abbandonare anni prima. Non mi sarei aspettata tanto; da un racconto e da un autore la cui professione è l’attore teatrale mi aspettavo più descrizione scenica, più gesti accentuati, plateali e invece ho trovato una profonda analisi dei personaggi ed emozioni palpabili che arrivano dritte al lettore.
Anche gli altri racconti sono intensi; qualcuno mi ha toccato più di altri, nonostante i temi trattati siano fondamentalmente gli stessi: diversità innanzitutto, fisica e mentale (Liberi dagli stracci e Solo per i bimbi) ma anche sociale (Il principe Walter) e la necessità di integrazione spesso negata a questi personaggi, una frustrazione che sfoga spesso in violenza indirizzata solitamente verso la direzione sbagliata, come succede in Cari vecchi jeans.
Ogni racconto potrebbe appartenere a un genere diverso, nonostante quel comune denominatore che è la diversità, ma uno su tutti mi ha colpito più degli altri ed è Il principe Walter. Qui l’autore infatti sorprende più volte il lettore, e non solo per ciò che accade, per la sequenza degli eventi, ma perché disorienta, trascina nella mente del narratore e ad ogni pagina ci si chiede chi sta narrando veramente e se chi sta narrando la storia è cosciente di quel che accade, se la dimensione è quella della realtà o quella onirica e, alla fine, si rimane con l’amaro in bocca e uno strano senso di circolarità degli eventi, della vita.
È un libro che consiglierei e a cui non riuscirei ad assegnare un genere. A mio parere in pochi racconti c’è tanta varietà da poter appassionare ogni tipo di lettore e tanta maestria da parte dell’autore nel raccontare storie e personaggi diversi tra loro, donando a volte speranza ma spesso solo un senso di predestinazione.
Viviana Albanese
Qui di seguito la parte iniziale del racconto che dà il titolo al libro:
DALLA CANICOLA AL BLU
Aprì la porta sporgendo cautamente il capo all’interno.
Si trovò faccia a faccia con un silenzio irreale. Non era successo niente. Bene. Non era venuto nessuno. Bene. Entrò cercando di non far rumore.
– Mamma… mamma… dove sei?
Prima piano con un soffio di voce poi, prendendo coraggio, sempre più forte.
– Mamma… ci sei? – Entrò in cucina a passo felpato. Era lì sua madre, seduta, assente, gli occhi infissi come chiodi sul muro bianco.
– Mamma, perché non rispondevi? –
Lei tacque imperturbabile. Aveva qualcosa di strano, di diverso dal solito in sè che per un attimo lo fece trasalire ma che non riuscì a cogliere.
-Allora…? Sono venuti?- Lei tacque ancora.
– Non sono venuti. – aggiunse lui ed esitò un attimo.
Ancora silenzio. Infine, la provocò:
-Insomma vorrei sapere cosa c’entri tu! Che se la prendano con me. E’ con me che devono veders…-
– Gli devi settanta milioni non è vero? Dimmelo. –
La voce atona di sua madre gli strappò il fiato, cadde di peso a sedere. Un colpo a tradimento. Silenzio. Greve di vergogna, di imbarazzo. Le carni che bruciano. E durò, durò a lungo quel silenzio, un tempo infinito. Poi lei riprese a parlare, gli occhi perduti nel vortice profondo di un ricordo.
-E’un maschio Maddalena! Vedrai, sarà la nostra consolazione -.
Era di lui che parlava sua madre.
Vincenzo Cassarisi, professione Mago-comico-illusionista. Età, venticinque anni. Stato civile, nessun vincolo, neppure con l’aria. Sempre in fuga da tutto e da tutti. Personaggio brillante, ma spesso in preda a uno stato nevrotico che ne vestiva l’esistenza. In quell’attimo, di fronte a lei, si sentì come trafitto dagli spilli alla schiena, ai piedi, dappertutto. S’alzò di scatto con le mani percorse da un tremito e raggiunse il soggiorno. Lei doveva averlo visto così un milione di volte ma probabilmente aveva smesso d’esserne emotivamente coinvolta solo alla millesima, una madre è sempre una madre.
Vincenzo aprì il portafogli. Scontrini, appunti, biglietti del bus, come grossi coriandoli planarono sul pavimento. Incollò le dita su una banconota nuova di zecca arrotolandola. Poi, svuotando un piccolo involucro di cellofan, formò sul comodino una striscia di polverina bianchissima. Applicò la banconota alla narice ed aspirò velocemente. Qualche secondo e si accorse che la stanza era a soqquadro. Con uno scatto si precipitò in cucina.
-Sono venuti allora! Mamma perché non mi hai detto che… –
Ma di nuovo si interruppe giungendo alle spalle di lei. Posò lo sguardo, per la prima volta, sui suoi capelli estirpati come gramigna. In un secondo immaginò la scena. Fluirono nella memoria presenze sinistre. Quando era accaduto? Un’ora? Due ore prima? Forse meno. Rabbrividì. Una contrazione allo stomaco lo aggredì deformandone i tratti del viso. A piccoli passi si pose di fronte a sua madre. Le si accovacciò accanto. Ne abbracciò le ginocchia scarne, muto.
– Vincenzo,Vincenzo…- un filo di voce, lucido e vibrante come quello di una ragnatela. Restarono così, secondi, forse minuti, di nuovo. Ma non c’era niente di nuovo in questo. Da giorni, da mesi, da anni. Vincenzo si alzò.
– Mamma, i tuoi capelli…-
– Che vuoi che mi importi dei capelli –
Nuovo lungo silenzio. Poi lei riprese.
– Dove vai stasera? –
Vincenzo rispondendo ad un irrefrenabile istinto istrionico, assunse un piglio professionale e malgrado la desolazione della casa per aria accennò ad una piroetta. Poi, con voce brillante, diede inizio al numero.
-Signori e signore, tra poco, su questo esclusivo palcoscenico, il grande Cassarisi mago-comico-illusionista, eseguirà per voi uno dei suoi spettacolari numeri. Nessun altro al mondo saprà infondervi la stessa suspance e lo stesso brivido! – S’avvicinò alla madre e sfiorandola con mano lieve fece apparire due coltelli tra le pieghe dei suoi abiti.
-Signore… ma cos’ha qui? Un armamentario! Siamo forse in presenza di un novello Jack lo Squartatore? Due coltelli? E questo cos’è? Un trancia polli? Ma che se ne farà mai di un trancia polli? –
Poi rivolto al pubblico immaginario con teatrale “a parte”:
– Ah, ho capito, con tutti i polli che ci sono in giro un borseggiatore che si rispetti deve circolare attrezzato. Bravo!
Lei lo osservava con un sorriso amaro sulle labbra. Era rimasto l’adolescente di sempre. A saper leggere scovavi ancora, nell’adulto, i tratti infantili, come sbavature di colore lasciate sulla tela da un pittore alle prime armi. Ripensò alla faccia seria con cui da ragazzino fregava tutti giocando coi tappi delle birre. Gli guardava le mani, abili come sempre. Quante volte aveva richiuso la porta alle spalle di lui che arrivava rincorso dai compagni inferociti, mentre qualche tappo ancora gli scappava dalle tasche rigonfie dei calzoni corti.
Con le scarpe pericolosamente slacciate e le labbra increspate da un sorriso, correva Vincenzo, all’impazzata, sul ventre tremulo di quell’afa pomeridiana che sorgeva dalla terra sfocando la campagna, laggiù, in fondo alla stradina polverosa. Lei se lo stringeva al petto, forte, con complicità. Che altro poteva fare davanti a quel sorriso? Quei denti bianchi come mandorle sgusciate finivano sempre per abbindolarla. Si sentiva ancora addosso il suo umore selvatico di furetto.
Non aveva mai voluto smettere di giocare Vincenzo ma non si aspettava che quelli se la prendessero con lei.
– Adesso, gentile pubblico, avrei bisogno di qualcuno uscito di fresco dall’ospedale. No, non lei… ho detto dall’ospedale non dalla galera. No, lei no… lei neppure… oh, santo Iddio!
Fu la voce di sua madre a distoglierlo dalla performance.
-Vincenzo, smetti per favore! – Vincenzo s’arrestò di colpo.
– Devi andartene. Lo hanno detto quelli.
“Quelli” ebbe l’effetto del vischio sulla pelle, una sensazione di caldo paralizzante. Solo dopo qualche secondo gli bastò l’animo per trascinare lentamente una sedia. Le sedette accanto. Poggiò il viso su ciò che restava dei suoi capelli. Lei socchiuse gli occhi. Con la mano diafana carezzò la sua pelle di bambino. Ne avvertì il profumo e non avrebbe voluto.
Fu il suono della voce di Vincenzo, questa volta, a giungere come rimedio ad un salto nel vuoto.
– Ce ne andremo insieme mamma .-
– No – Rispose lei decisa.
-Ma non posso lasciarti in balia di quella gente! Rifletti: oggi hanno fatto questo ma domani? –
-Non ci sarà nessun domani se dovessero tornare e trovarti in casa.
Devi sparire… solo così mi lasceranno in pace. Questo hanno detto. E’ una grazia, Vincenzo, l’ultima… per me e per te.-
Ancora una lunga pausa.
– Ma dove vuoi che vada mamma…? –
– Dovunque, purché tu vada, poi si vedrà. –
Lui non disse una parola di più. Attraversò lentamente il soggiorno e giunse in camera sua. Preparò il bagaglio. Solo una valigia, neppure troppo grande.
Il mago Cassarisi aveva ben poco da portare con sé. Un bagaglio fatto di giochi, di trucchi più che di indumenti. Importava assai a Vincenzo di coprirsi; il freddo era dentro. Un freddo che solo la risata del pubblico riusciva a dissolvere. A fine spettacolo puntava lo sguardo sulla gente, sulle sciarpe colorate, su trecce, cappelli, sul goffo barcollare dei bambini assonnati imbacuccati nei cappotti. Al diradarsi di quell’ordinaria umanità scompariva dietro le quinte. Gettava alla rinfusa nella valigia i ferri del mestiere per raggiungere col tremito in corpo il primo anfratto che gli capitasse a tiro per incontrare la sua compagna. Lei, impalpabile dama, gli si concedeva ormai per tempi sempre più fugaci, negli anni era diventata avara. (Certe amanti svaniscono all’improvviso lasciandoti in ricordo solo la scia di un profumo struggente.)
Sua madre ne avvertì la presenza alle spalle. S’era arrestato sulla soglia della cucina, valigia alla mano, bloccato da una dolorosa riluttanza.
Lei era di nuovo assente, come scissa in mille particelle sull’universo bianco di un muro. Vincenzo tornò indietro e s’avviò all’uscita. Senza rumore chiuse alle sue spalle l’uscio di casa. Due lacrime urlarono, scivolando sui solchi precoci del viso lei.
Un treno, uno qualsiasi- pensò il giovane prestigiatore avviandosi verso la stazione.-
Ma tu guarda- borbottò tra sé – un mago a cui tocca fuggire come un ladro! Ma, in fondo, tutti i ladri sono un po’ maghi. Solo che i ladri spesso, assieme alle cose, rubano anche i sogni delle persone. I maghi, almeno quelli, sono ben lieti di regalarteli.
Trovò, comunque, giusto fuggire. Non era stato molto furbo da parte sua far sparire “per gioco” un sacchetto di coca da una certa valigia. I sacchetti di coca non sono fazzoletti colorati e poi, dettaglio tutt’altro che trascurabile, quelli a cui lo aveva soffiato non erano certo tipi da apprezzare i lazzi dei fantasisti. Gli tornarono in mente, una ad una, le loro facce bovine.
Affrettò il passo guardandosi intorno. Camminò sui grossi granuli di pietrisco scuro dei binari avvertendone le sporgenze aguzze attraverso le suole sottili.
– Maledette gambe!- pensò – ti portano sempre dove non vorresti- ma meglio una multa o un taglio al piede che il frequentato sottopassaggio.
Il primo treno in partenza dalla stazione di Messina era sul binario tre.
“Messina – Milano” c’era scritto sulla tabella gialla. Poteva andare bene. Come posto gli parve abbastanza distante. Eccessivo fuggire in Brasile e quella sera stessa. Al biglietto e ai documenti non pensò minimamente, lui aveva i suoi. Era o non era un mago? Ma un momento… quello su cui stava per salire non era forse un vagone letto? – E allora? – si rispose – e subito si ridacchiò addosso valutando che non avere prenotazione fosse un problema altrettanto ridicolo.
Detto-fatto, si ritrovò a percorrere il corridoio riscaldato alla ricerca di uno scompartimento tranquillo. Ne scelse uno ma, mentre stava per varcarne la soglia, il suo bagaglio magicamente s’aprì rovesciando una notevole quantità di piccoli oggetti: stelline, cilindri in metallo, palline, molle, marionette, tremule uova fritte in lattice, fazzoletti colorati ed altri aggeggi non catalogabili con nomi cristiani. Lo scroscio della pioggia di faville catturò l’attenzione di una bambina. Nei suoi occhi si specchiò la saettante follia dei balocchi.
– C’è un mago! –
Un trillo, una sorta di richiamo che parve il dipanarsi di un festone tra le grigie pareti della vettura.
Al mago era capitato spesso di aprire la valigia davanti alla polizia locale (che lo conosceva bene) o negli angoli bui delle stazioni quando dimenticava in quale giocattolo aveva nascosto la roba di riserva. Gli fece piacere che, per una volta, qualcuno aveva pronunciato la parola giusta, semplice e magica, appunto. Troppo spesso passava per un rappresentante di giocattoli o per un piazzista qualunque. Che fosse un mago, insomma, nessuno lo aveva mai supposto, neppure per sbaglio.
Vincenzo allora, davanti alla sua minuta spettatrice, si produsse in un inchino sbilenco, un po’ per via dello sgangherato contrappeso che si ostinava a chiamare valigia, un po’ per via del corridoio stretto.
-Permette, signorina? Vincenzo Cassarisi, mago-comico-illusionista al suo servizio… –
Mentre lei lo fissava incuriosita, una donna s’inginocchiò, premurosa, a raccogliere i ninnoli. Vincenzo, allora, poggiò la valigia su uno dei posti letto. Si ritrovarono in tre a riempirla nuovamente, in preda ad una strana euforia.
Richiuso il bagaglio si presentarono. Il quarto viaggiatore, un uomo sulla cinquantina, distinto, dai capelli brizzolati, non aveva fatto una piega.
Il mago pensò ad un viaggiatore solitario. Dopo poco, senza scomporsi, l’uomo parlò.
– E’ proprio certo di avere un posto assegnato qui? –
Lui guardò la donna, osservò le sue curve, i suoi occhi verdi, i capelli corvini. Era molto bella. Come avrebbe potuto rispondere di no?
– Sì certo, vediamo, vediamo… questa deve essere la cuccetta numero 151. Si, è questa. Permette? – proseguì Vincenzo, avvicinandosi all’uomo con la mano protesa.- Vincenzo Cass… –
– Sì, ho sentito – fece quello, senza distogliere lo sguardo dal buio pesto del finestrino.
– Cordialità commovente.- sussurrò ritraendosi Vincenzo. Donna e donnina, accennarono ad un sorriso impacciato.
Il nome di lei, della donna, era Cecilia.
A lui parve proprio un bel nome. Anche le sue gambe gli parvero belle, perché erano belle: tornite, nervose, diritte come due sedani.
– Ma perché, i sedani sono diritti? – Si domandò, chiudendosi in una delle sue profonde digressioni. – Se aveva fatto questo pensiero, certo un motivo doveva esserci. Forse perché un bel sedano, oltre che cotto, va anche gustato crudo, fresco e croccante. – Sì, forse ci sono – pensò – in fondo ogni volta che mi piace una femmina mi dico sempre: “Questa me la cucino” no? –
– Guarda – disse, sedendosi, alla bimba – guarda cosa ti regalo. – e portò la mano in tasca – regaliamo a… come si chiama la piccola, scusi? –
– Marinella- rispose pronta Cecilia, che già gli indirizzava sguardi tutt’altro che di circostanza. Lui tirò fuori dalla tasca un agnellino di plastica che animò premendo una molla alla base. Lei rispose con un sorriso convalescente, come la traccia di luce sul volto di una bambola consunta dai giochi.
– Bello! –
– Sta attenta però, mi raccomando, il lupo è sempre in agguato!
– Io sono lo zio. – rispose a denti stretti l’uomo.
-Scusi tanto, sa. Dev’essere stato il suo pelo grigio a trarmi in inganno. Certo, se ora la bimba mi rassicura. Proviamo a chiederlo a lei. Questo signore è tuo zio non è vero ?
– Lei, giovanotto, è un po’ troppo impudente per i miei gusti! –
– Lei, invece, pare essere un lupo alquanto maleducato. Ops, scusi… volevo dire uno zio alquanto maleducato! –
Le donne soffocarono nuovamente una risata. L’uomo, dopo una lunga pausa, si alzò e contenendo il disappunto gli andò incontro con la mano protesa.
– In fondo non posso darle torto, sono stato un po’ scorbutico poc’anzi. Permette? Dott. Angelo Petralia – Presentazione fatta. Un contatto che però, al mago, non piacque affatto. Aveva la mano viscida il tipo. Ripensamento troppo immediato per essere vero. Un mago sa scrutare le facce e gli occhi della gente, è da lì che si affaccia il cuore degli uomini sulle cose del mondo. Suo malgrado non riuscì a capire quale genere di rapporto legasse i tre. Ma in fondo siamo tutti degli strani viaggiatori, concluse. Certo, vedere una donna così giovane in compagnia di un orso (anche se molto distinto) in viaggio con una denutrita nipote da ospedale da poveri, non poteva che destare perlomeno curiosità. Per non parlare dello sguardo della bambina velato di misteriosa malinconia.
Ma in quel momento ebbe altro a cui pensare: il freddo. Cominciò a sentirlo anche dentro. Infilò le mani in tasca finché non s’alzò col consueto scatto. Pensò alla toilette del treno. La raggiunse. Non che sperasse di trovarla libera ma quanto ci metteva quello ad uscire!? Nel corridoio s’era pure tolta la luce. In certi momenti pare che il tempo si fermi. Finalmente lo scatto della serratura. La luce che trafilò dall’uscio del bagno delle Ferrovie dello stato non temeva confronti con quella dell’eden. Entrò al volo. Girò più volte la maniglia sul rosso. Non s’apriva, bene. Tirò fuori la bustina di cellofan e la depose sul ripiano di vetro della specchiera. Ma fu un attimo; un violento cambio di binario sbatacchiò lui contro la parete del bagno e la bustina dentro il WC. Biglietti… biglietti da centomila zuppi fradici, purtroppo in forma di polvere e a cui non sarebbe certo bastato il calore di un phon per tornare alla vita.
Ci sono libri e autori che non vengono piegati dalle leggi del tempo e del mondo. Restano ai margini per un certo periodo, può trattarsi di anni o addirittura di decenni, perché precorrono il sentire di un’epoca, e questo dono, prima di essere compreso, è un fardello, o perfino una colpa, agli occhi dei più.
Se oggi Goliarda Sapienza è nota e riconosciuta tra le scrittrici più significative del ‘900, si deve al passaparola e a quello spirito libero, quasi anarchico, di coloro che leggono senza pregiudizi, non certo ai paludati, prudenti e non di rado miopi membri dell’intellighenzia.
Parlare e scrivere di Goliarda Sapienza vuol dire capire le ragioni di un fenomeno letterario che è cresciuto in modo autonomo, con una progressione costante, tuttora in corso, e si è diffuso a macchia d’olio all’estero, dopo che per anni, in vita, la figura dell’autrice è passata sotto silenzio, snobbata se non ignorata dall’editoria italiana. La personalità singolare, la vita controversa e fuori dagli schemi e uno stile appassionato sono il marchio di una scrittura che ha trovato nel capolavoro L’Arte della Gioia una sintesi in grado di affascinare i lettori di vari paesi.
Il mio personale excursus sulla figura di Goliarda Sapienza, scrittrice e poetessa ma anche attrice e sceneggiatrice, seguirà le tappe e il percorso di questi “viaggi al centro dell’autore”: prenderà le mosse dai luoghi che ne hanno segnato più profondamente la vita e l’opera, quelli con cui ha interagito, ricevendone vita e restituendola, strappando al silenzio e alla follia i segni dell’arte della gioia, e del dolore, riprodotti con una penna coraggiosa e sincera.
L’incipit de L’arte della gioia riassume perfettamente l’istinto e la deliberata ricerca della sincerità, il volto nudo delle cose: “Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango sino alle caviglie ma devo tirare, non so perché ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è: non mi va di fare supposizioni o d’inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente.”
Goliarda Sapienza nasce il 10 maggio 1924 a Catania. La madre, Maria Giudice, è una sindacalista nota e impegnata, prima donna a dirigere la Camera del Lavoro di Torino, mentre il padre, il catanese Peppino Sapienza, è un avvocato dedito principalmente alle cause della povera gente. Sarà l’educazione anarchica del padre a segnare un’impronta profonda sul suo modo di guardare alla vita, lo sguardo intenso, l’angolazione sghemba, di taglio, sprazzo di luce su una ferita.