t. s. eliot

Frammenti di ipotesi

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  Pensando alla chiave rafforziamo la galera ?
Alcune personali ipotesi sui possibili Sì e sui possibili NO.
IM

Frammenti  di ipotesi

These fragments I have shored against my ruins, Questi frammenti che ho eretto a protezione delle mie rovine.

La traduzione del verso de La terra desolata di Eliot è libera. Ed è forse la sola cosa libera che posso permettermi in questi giorni di gabbie invisibili e inesorabili. O forse no. È libero, a suo modo, anche il pensiero che mi porta ad erigere con la mente frammenti di parole e di pensieri a protezione della mente stessa, e del corpo, ad essa inesorabilmente e mirabilmente collegato.

La prima decisione, da quando è iniziato il contagio e la quarantena, è stata strana: mettermi a rileggere, con l’aggravante della lettura in lingua originale, La peste di Camus. Strategia autolesionistica, la definirebbe qualcuno. È forse è vero. Eppure, in quelle parole crude e sincere, scelte con precisione chirurgica dallo scrittore-filosofo francese, ho trovato il veleno ma anche le gocce dell’antidoto. Leggi il seguito di questo post »

La parola e l’abbandono

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Il titolo del libro di Mauro Germani, quasi ossimorico, ci offre una prima indicazione su una delle caratteristiche più rilevanti, sia del volume specifico che della poetica dell’autore: la capacità di guardare il mondo e se stesso, la realtà e il pensiero, con uno sguardo sincero in grado di cogliere e descrivere anche il lato in ombra, the dark side of the world, potremmo dire. Non per il gusto del piangersi addosso o allo scopo di esaltare, per contrasto, ipotetiche ed improbabili Arcadie o mondi perfetti, tanto distanti quanto inconsistenti. Per la necessità, semmai, di una documentazione precisa, compilata in modo razionale e partecipato (altro ossimoro chiave). Questo libro ha anche il sapore e la consistenza di un diario di viaggio, un giornale di bordo su cui vengono annotati i resoconti, il bilancio del dare e dell’avere.

Come ha opportunamente indicato anche Marco Molinari nella recensione al libro pubblicata su “L’Eco di Mantova” di cui qui sotto viene riportato uno stralcio, il fulcro del libro sono le riflessioni, gli aforismi e le massime che Germani ha raccolto in un trentennio, e “che hanno al centro il rapporto stretto fra vita e poesia, i contributi dei grandi autori che ha amorevolmente coltivato e, soprattutto, un’etica della scrittura che per lui è stata importante quanto forse lo stesso fare poetico”.

Progetto condotto con rigore, senza mai dimenticare tuttavia, è giusto sottolinearlo, la possibilità (necessaria) di conciliare la consistenza con la “leggerezza”, a tratti perfino con l’ironia. Sì, perché l’interrogativo, the question, avrebbe detto il Principe di Danimarca, non è di poco conto: si tratta di stabilire, o almeno di chiederci, se, considerata La solitudine della parola (è il titolo di una delle sezioni) e presa coscienza dell’ineluttabile abbandono a cui perfino la parola è soggetta, abbia senso scrivere. Non solo, se abbia senso vivere, con la parola e per la parola, per quella “cosa” indefinita e onnicomprensiva chiamata poesia.

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Letti sulla luna (9): L’ABITUDINE DEGLI OCCHI

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vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.

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Monica Martinelli, L’abitudine degli occhi, Passigli, Firenze, 2015

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Il “gesto”, l’azione compiuta dagli occhi è di per sé ambigua, multiforme, come il termine che esprime tale atto: la visione è allo stesso tempo di natura ottica e mentale, è immagine e riflessione, potremmo dire pensiero di un riverbero di luce e di buio. I punti di riferimento, le coordinate scelte da Monica Martinelli vengono rese note a partire dalla scelta delle epigrafi: dal un lato Emily Dickinson, i cui versi si concludono con un perentorio “era meno penoso essere cieca”, e, a fianco, Mario Luzi, di cui vengono citati quattro versi, di cui l’ultimo ha un sapore quasi dantesco, solennemente descrittivo e allegorico: “Tanto afferra l’occhio da questa torre di vedetta”.

La Dickinson incarna la solitudine, l’esplorazione di una pena individuale senza tregua né sbocco o via di fuga; Luzi è la coscienza del tentare di indagare sulla direzione, se non sul senso. Sul pullulare di morte e vita tenera e ostile, osservata da una torre di vedetta che non è d’avorio, ma fatta di argilla viva, di carne e respiro mischiato e confrontato con quello del mondo.

“Penso che non sia il cambiamento/ ma l’abitudine/ l’unità di misura dei viventi”, scrive Monica Martinelli. Poco oltre annota “È come seguire la danza/ di una foglia nel vento/ e indovinare da quale parte cadrà”. Quindi gli occhi sono guidati da un’abitudine basata però su un calcolo impossibile. La mancanza di certezze è la sola certezza individuabile. Questo libro tuttavia non si limita ad annotare eccezioni senza regole e dubbi che prescindono dalle domande. È tutt’altro che un libro di incorporee elucubrazioni. È, al contrario, un testo intessuto di oggetti tangibili, concreti, materiali e corporei. La vita è una costruzione, un edificio, e forse non è un caso che la prima lirica abbia per titolo “Maestranze”. Case di calce e case di ossa, tessuti e cartilagini, vertebre. Ma vertebre che hanno un nome, corpi che sono persone, identità. Non sono casuali neppure i titoli delle varie sezioni. Ci troviamo di fronte ad una panoramica di materie scientifiche e naturali: fisiologia, chimica, meccanica, fisica, geologia, biologia. Ma ciascuna viene accostata, anzi, innestata, con rami fatti di fibre sensibili, le venature essenziali del corpo, dei passi e delle foglie, delle case, delle cose, e dell’indifferenza. Ciò che costituisce l’esistenza, la fa respirare o la soffoca nel nulla.

Monica Martinelli ha un aspetto solare e un sorriso generoso e luminoso. Ma ha scritto un libro fatto soprattutto di cupi chiaroscuri. Con coraggio, con una coerenza assoluta aliena ai compromessi, distante perfino dall’istinto antico di aggiungere una goccia di miele al veleno: “Il pensiero si stordisce nel ricordo/ e si ferma a cercare ristoro/ da un dolore ininterrotto/ che si spezza su scogli rassegnati”. La materia inerte del dolore si rispecchia nella pietra inanimata dello scoglio che a sua volta è rassegnato.

Ci sono in questo libro sequenze di temi ricorrenti e alcuni vocaboli chiave che appaiono con una frequenza paragonabile a quella di un mantra. E ogni volta il peso specifico di questi termini viene aumentato, cresce, non viene mai diluito o stemperato, neppure dalla speranza che in un ipotetico contesto diverso possa apparire meno reale o soffocante. Il primo e il principale di questi termini è “dolore”. Risulta presente quasi nella totalità dei componimenti. Volutamente l’autrice evita il ricorso a possibili sinonimi o a perifrasi. Scrive “dolore” ogni volta che lo sente, lo ricorda, lo percepisce come ineluttabile. Senza alcuna variazione sul tema. Non sussiste tuttavia il rischio della ripetitività: l’abilità dell’autrice è quella di far sì che il lettore stesso gradualmente percepisca la necessità di tale nitida precisione descrittiva. Gli occhi dell’autrice ad un certo momento coincidono con quelli di chi osserva i suoi stessi oggetti, i componenti di una meccanica esistenziale di cui il dolore è allo stesso tempo materia e motore.

L’atteggiamento è eliotiano, potremmo dire. La Terra desolata qui è ovunque, senza neppure le brevi escursioni su terreni esotici o onirici. In una lirica, ad esempio, si legge “Se la carne è sensibile si dona al desiderio”, e, puntuale, pochi versi dopo, “tutto scivola/ e muore eternamente/ dove non si sente che l’eco/ sommesso del dolore”. Il dolore è eterno ritorno, nell’arco breve di una singola lirica come nel progetto più ampio e diffuso dell’intero volume.

Accanto al dolore, il tempo. Altro luogo letterario per eccellenza. Ma senza altro scopo, funzione o speranza che non sia quello di scandire la circolarità del flusso. L’autrice non spera in sconti di pena né in consolazioni filosofiche o mistificazioni retoriche. Sa di essere “fragile vibrazione”, conscia che “il dolore rende inutile la gioia […] un’alternanza che consuma la vita”. Non c’è neppure l’alba, la luce potenziale di un altro giorno, ad attenderci: “dopo il tramonto viene/ la notte che cancella le ombre/ e ci rende uguali”. Il concetto viene ribadito qualche pagina oltre, in modo assoluto e nitido: “Non ho un’altra possibilità/ negato il desiderio di rigenerarmi./ Sazia di tempo e di forma/ mi costringo a seguirti,/ inutile calamita del cielo”.

I versi parlano di amore negato, di vita senza vita e di un tempo privo di speranza. Eppure non c’è mai patetismo, non si indulge mai al pianto fine a se stesso o all’autocommiserazione. La voce è salda, il tono scandito. Gli occhi a cui fa cenno il titolo sanno restare senza lacrime, per vedere e per raccontare, descrivere e descriversi: “Sono la pioggia che disseta la terra/ dono gravido senza parto […] mi congedo in silenzio, senza lacrime”. C’è un’accettazione dello stato delle cose che conferisce solidità espressiva ad ogni lirica: “Se il mio destino è nel dolore/ uno spiraglio di felicità/ mi acceca come un lampo […] aspetto lo schianto delle coincidenze […] non mi stupirei/ per un sorriso di ghiaccio/ scorto su un volto amato”. Non c’è gioco petrarchesco qui, non ci sono gelidi soli o infuocate nevi. Qui l’accostamento di termini di ambiti semantici contrapposti contribuisce solo a far convergere il discorso verso una sintesi accecante: quel sorriso di ghiaccio su un volto amato. Forse una persona, o magari la vita stessa. Che, corteggiata, cercata con gli occhi, con l’abitudine degli occhi, puntualmente si nega. Resta lo schianto delle coincidenze. La ferita fredda della consapevolezza. La sola discriminante, che non muta l’esito tuttavia, è la comprensione dello status esistenziale: “vedere è un subire in permanenza./ Non si può scegliere cosa guardare,/ forse possiamo solo comprendere/ la differenza tra ciò che merita attenzione/ e ciò che fa piangere”.

D’altronde, conclude Monica Martinelli, “non tutto ciò che ha nome/ esiste o dura”. Neppure la parola consola, seppure sia necessaria, anche per testimoniare la differenza fondamentale a cui si è fatto cenno poco sopra, quella tra ciò che merita attenzione e ciò che dà solo dolore. Qui si va oltre l’atto della negazione di montaliana memoria: non abbiamo neppure “qualche storta sillaba e secca come un ramo”. Qui non possiamo dire neppure ciò che non siamo e ciò che non vogliamo. Al di là della negazione non c’è neppure la certezza di un laconico balbettio. “Dentro non c’è pace – scrive la Martinelli – infinito tendere, straziante attesa./ E dopo giunge il silenzio della terra/ ovunque e immenso”.

L’abitudine degli occhi è un libro di coraggiosa coerenza, a suo modo possente, pur senza mai neppure accennare a grida o a roboanti proclami. La sua forza è nella volontà di non cedere mai ai richiami delle sirene ammiccanti di speranze scontate e in saldo. L’autrice racconta il suo percorso, ciò che vede con i suoi occhi, dal suo punto di vista, nell’angolo di tempo e di mondo che sta attraversando. Non permette a niente e a nessuno di modificare la sua visione con riflessi alieni o chiarori fosforescenti. Si concede, e ci concede, il lusso di un percorso nel dolore fatto ad occhi aperti, senza negarlo, senza santificarlo, senza proporre panacee o luci alla fine del tunnel. È un libro di viaggio, in fondo, nell’umano mistero, tra la necessità di esistere e di domandare bellezza, “tra movimenti e fughe ripetute/ dallo sconforto di essere creature”. IM

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Recensione di Marzia Spinelli

La quotidiana fragilità delle creature

Può sembrare, L’abitudine degli occhi, un titolo antipoetico in quanto si sa, il poeta possiede uno sguardo particolare, contrario a questa abitudine che l’autrice ci pone davanti, forse come provocazione… Se infatti l’abitudine rimanda a una regola, a una normativa del guardare, il poeta invece assume uno sguardo che va all’opposto di questa regola: il suo è uno sguardo oltre, è tutto meno che abitudine. Monica Martinelli, al suo terzo libro dopo Poesie ed ombre (2009) e Alterni presagi (2011), si pone subito sin dal titolo in questa prospettiva contro, e la persegue realizzandola perché il libro è la lotta furiosa contro le abitudini. Se l’abitudine è accettazione passiva della realtà, un farsi omologare accettandone le regole del gioco, avvertiamo invece una vis ribelle nell’autrice, – donna educatissima e forsennata – come la definisce giustamente Davide Rondoni, ribelle alle convenzioni, forse anche letterarie. E coerente è la scelta delle sette sezioni in cui è suddiviso il libro nel richiamo a settori e tematiche scientifici, dando a questi un valore aggiunto nel creare un collante intrigante tra campi della scienza e tematiche dell’esistenza, attraversandoli con la Poesia. Fisiologia del dolore, chimica dei sentimenti, atteggiamento del corpo, meccanica dei passi e delle foglie (la sezione più significativa e poetica), fisica del quanto e del come, geologia delle case e delle cose, biologia dell’indifferenza: ecco allora che la quantistica, il richiamo scientifico, la meccanica e la fisica si fanno veicolo di una dimensione geometrica ma tanto umana dell’esistere, diventano il quanto del vivere, ma anche il come viviamo, amiamo, soffriamo. Ecco che le case, quanto di più solido abbiamo e in cui viviamo, con tutto quanto c’è dentro, armadi, ceramiche, macchie del caffè ecc. insomma le cose, gli oggetti, specchio del nostro reale appartenere, diventano anche essi il veicolo di uno sguardo diverso, o meglio la possibilità di scegliere tra il guardare appunto abitualmente e una prospettiva altra, forse un po’ aliena, attraverso una lente deformante che tuttavia mostra le cose come sono. In tutto questo lavoro il contesto è spesso il quotidiano collocarsi, cercare e trovare un proprio posto e spesso il protagonista da collocare è il corpo, “ la macchina imperfetta del mio corpo / disperde calore, lo cede, / emana energia per attutire il dolore / che fluisce nei vasi e si diffonde / dal centro alle estremità.”

La quotidianità, ma direi la vita e quel che in essa accade, è costantemente richiamata, spesso con precisione scientifica dei luoghi, sia si tratti del tramonto di Sperlonga, sia della tragedia della Liguria alluvionata, o della faticosa salita in montagna, o dell’infiorata di Genzano, o ancora della passeggiata a Calcata; luoghi che si attraversano tra pioggia, freddo e neve, luoghi pieni di sassi dove si posano i passi, in un metaforico cammino impervio e al tempo stesso rigenerante. In questi luoghi, in questo viandare freneticamente si immette il corpo, invischiandosi e intrappolandosi, con tenacia femminile e neutralità poetica, come ad esempio nella lirica Infiorata a Genzano: “Seduta accanto a te di cui conosco / i filamenti della pelle / i fili della rabbia intessuti / col sangue e poi ancora fiori / petali spampinati / colorati d’attenzione / rossi come il sangue / rossi come il cuore, / il centro del corpo da cui tutto dipende..” Quanto questo corpo è desiderio, spinta fortissima a vivere, ad amare, a immergersi anche nella natura, si specchia in quel lago senza nome … e gode della bellezza di cui si può solo domandare il perché. Con lucida e disarmante onestà Monica non si nasconde al proprio conflitto tra eros e thanatos, anzi sembra trarne forza, consapevolezza della finitezza, della precarietà, del dolore, e trova la modalità poetica di universalizzare la propria tragicità di creatura, come a Villa Torlonia: “ Non mi spaventa finire, / la fine è concentrata, inesitata / ma è l’attesa del buio che cancella / passi e foglie e tutto rende uguale. // Questa è pena quotidiana delle creature / e questo non avviene tra le foglie.” È uno dei versi più belli e riusciti della raccolta, giustamente ricordati e sottolineati da Rondoni in chiusura della sua prefazione, evidenziando la suggestione evocativa del termine creatura contrapposta alla prossimità, ma pur sempre vegetale, delle foglie.

Quanto a possibili rimandi e richiami che sempre ci sono in un vero poeta, é Monica stessa a darcene più che un indizio nelle citazioni dalla Dickinson e da Luzi presenti nel libro; ma spuntano anche echi di letture assimilate della poesia straniera, soprattutto anglosassone, non soltanto Emily, ma anche la Plath, in forma più delicata, forse anche i metafisici inglesi, e infine, in questo nodo di foglie, corpo, filamento, indefinibile cecità e riconquistata visuale anche l’irlandese Thomas Kinsella, di cui fatalmente e casualmente mi è capitato di leggere, proprio mentre rileggevo il libro di Monica, la poesia Mangiafoglie: “Su un cespuglio nel cuore del giardino, / su una foglia che sporge, un bruco torce / metà del corpo, un filamento / in qua e in là nello spazio / cieco. // Né foglia o stecco / a portata, a tentoni / si ritira su se stesso e prende / a mangiarsi la propria foglia.”

Così anche tra i versi della poesia di Monica: Il corpo si concentra / finché il sangue pulsa…E dopo giunge il silenzio della terra / ovunque e immenso, oltre l’eco di silenzi a noi più prossimi, quali quelli di Ungaretti e Luzi, giunge una risonanza più remota dei versi da Shiloh, un requiem di Melville, di cui riportiamo appena qualche frammento estrapolato, comunque significativo: Leggere sfiorano, immote roteano / le rondini, volano basse / … mentre ora essi giacciono, / e sopra di loro le rondini passano / e tutto è silenzio a Shiloh.” Liberatorio, rasserenante, senza ombra di cupezza, in fondo solo luce ritrovata.

Sono ovviamente suggestioni, ma la poesia, quando è tale, possiede anche questo potere di aprirci verso orizzonti molto più ampi del previsto, del prevedibile, dell’abitudine appunto. Dal disordine la poesia distilla verità apparentemente semplici e ci inchioda, senza poterle spiegare altrimenti: “… Noi, infinitamente piccoli / e intanto soli. / Cellule amanti / in cui ha un senso l’arrivo / e non il riposo. // Note confuse in gesti di disordine./ E non ha nulla a che vedere coi ricordi.”

Marzia Spinelli

Monica Martinelli, L’abitudine degli occhi, Passigli Editori, Firenze 2015

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Dalla Prefazione di Davide Rondoni

(…)

Non ho un’altra possibilità,
negato il desiderio di rigenerarmi.
Sazia di tempo e di forma
mi costringo a seguirti,
inutile calamita del cielo.

Sono tra i versi più duri e pieni di ottuso dolore che mi sia capitato di leggere. Monica Martinelli, creatura di modi gentili e di sorriso aperto, cela e custodisce in quella stanza anteriore in cui la poesia nasce mescolando tutto con tutto, qualcosa di duro, di fatale. È da là, da quella ferita o ramo di mandorlo amputato, che viene tale durezza di versi. 

Nei quali il lettore che affronterà questo libro frenetico e violento, diseguale e sorprendente, può già cogliere anche altri aspetti dell’opera: la inclinazione a mettere in scena il proprio essere al mondo come teatro per tutti, e non per esibizionismo ma per stremata umiltà. Un po’ come capitava alla Amelia Rosselli o in altro modo e con esiti maggiori a Giovanna Sicari. Un “io” di donna apertissimo e affranto che diviene teatro del mondo. […] 

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Poesie tratte da

L’abitudine degli occhi:

C’è dato un tempo

per ogni tempo.

C’è una magia in ogni cosa,

nel perdono

in un bacio che ferma l’addio

nella ragione di essere nati.

Penso non sia il cambiamento

ma l’abitudine

l’unità di misura dei viventi,

ciò che ci rassicura e ci consola

ciò che ci viene naturale fare.

E poi gli occhi,

con cui misuriamo la realtà

che sia di fiato e di sabbia,

che ci prepari alla nostalgia

o all’abbandono.

È come seguire la danza

di una foglia nel vento

e indovinare da quale parte cadrà.

* * *

Mi smarrisco nel rumore del vento

e nel continuo accadere

di onde pazienti

che nel fragore si danno voce.

Il pensiero si stordisce nel ricordo

e si ferma a cercare ristoro

da un dolore ininterrotto

che si spezza su scogli rassegnati.

Ma quando il sole spegne la sua luce

e le onde si muovono nel modo giusto

lì si accende la grande malinconia

che solo il mare può vedere.

Sperlonga, al tramonto

* * *

A cuore aperto

Negli altri non so distinguere

un cuore stretto, a spigoli

da uno largo, aperto.

Mi perdo l’anima nel compostaggio

di sfalci e ramaglie.

Una tramoggia mi divide in due

mi stacca il cuore,

la parte di me più grande

da contenere quanto più si può,

da contenermi tutta.

Il volo mi sbatte in alto

gettata in aria, nell’inferno

tra piroette di carta e pioggia di cenere

risucchiata da un aspiratore potente

che non ha pietà.

Pure lì provo a cercarti

ma la scommessa è persa

ogni livido ha la sua pena,

ogni illusione la sua trasparenza.

Io invece vorrei cadere

con la grazia di un passero ferito all’ala

che volteggia in tentativi

ma subito plana di dignità.

Non ho un’altra possibilità,

negato il desiderio di rigenerarmi.

Sazia di tempo e di forma

mi costringo a seguirti,

inutile calamita del cielo.

* * *

Tra cera colata

e odore di incensi e memorie

si consuma la vita su mosaici

scoloriti da occhi e tempo.

Visi e teschi si fanno compagnia

in un avello senza tormento.

Il sacrificio del corpo e del sangue

si riduce a un fermo immagine

nel mestiere moderno di fare copia

e calco di ogni cosa sia stata nella storia.

Ma anche riprodurre è un’illusione

se il tempo non si ferma, non rimane.

Ecco perché qualunque senso è poco

di fronte a ciò che ci fa più grandi.

Firenze, Chiesa di San Miniato

* * *

Il corpo si concentra

finché il sangue pulsa

ma non c’è libera circolazione,

tutto è disposto e poi dissipato.

È una danza di vibrioni impazziti

che oscillano in sofferenza.

Dentro non c’è pace,

infinito tendere, straziante attesa.

E dopo giunge il silenzio della terra

ovunque e immenso.

* * *

Siamo i “tutti” e i “soli”

sinfonie di ricordi in una giga,

una corrente di probabilità

tra movimenti e fughe ripetute

dallo sconforto di essere creature.

Sarabanda di luci e ombre

dà la forma a una volpe che grida

sulla coda del pianoforte

o forse a una tigre addestrata

a ingoiare vita senza rimpianti.

Ma è solo un’illusione

un trucco della vista,

la volpe svanisce

e non ne resta traccia

rimane il tuo viso in ascolto

a lanciare pietre di un rosario,

preludio di dissonanze domestiche

e qualche pelucchio d’argento

scaglie invisibili su spicchi di luna.

Concerto di musica da camera,

Suites inglesi di J. S. Bach

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Nota bio-bibliografica

Monica Martinelli è nata a Roma e lavora nella Pubblica Amministrazione. Dopo la laurea in Lettere presso l’Università “La Sapienza di Roma” e un dottorato sui rapporti tra Cina e Unione Europea, ha scritto articoli e recensioni sulla rivista letteraria “Rassegna di letteratura Italiana”.

Nel 2009 ha pubblicato il libro di poesie con prefazione di Walter Mauro dal titolo Poesie ed ombre, Tracce editore. A dicembre 2009 ha vinto il Premio letterario “La città dei Sassi di Matera” per la sezione poesia inedita.

A dicembre 2011 ha pubblicato il libro di poesie dal titolo Alterni Presagi, Altrimedia editore, con prefazione di Plinio Perilli.

Ha pubblicato poesie sulle riviste “Poeti e Poesia”, “Poesia” e “Orizzonti”, e poesie e racconti su varie antologie e blog letterari italiani e internazionali.

A marzo 2015 ha pubblicato il libro di poesie L’abitudine degli occhi, Passigli editore, con prefazione di Davide Rondoni. Il libro è arrivato nella rosa dei candidati finalisti del Premio Camaiore 2015, ha vinto il primo posto del Premio Pascoli “L’ora di Barga” e il secondo posto al Premio Laurentum e al Premio internazionale “Gradiva” di New York. Inoltre, il libro è arrivato finalista e segnalato a vari premi di poesia, tra cui il Premio Frascati e il Premio Mario Luzi. Sempre nel 2015, ha vinto il primo posto al Premio “Mario Arpea”.

Nel 2016 è stata invitata a partecipare alla manifestazione annuale “Belgrade International Writers’ Assembly of Serbia”, svoltasi a Belgrado e in altre città della Serbia.

Sue poesie sono state tradotte in inglese, francese e serbo.

È redattrice della rivista di cultura letteraria e arte “I Fiori del male”.

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PAROLE NELL’ACQUA

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Ripropongo questo racconto un po’ folle, come l’estate.  Ma parla d’acqua: può essere rinfrescante.

“Here lies one whose name

was writ in water”.

Qui giace un uomo il cui nome

è stato scritto nell’acqua.

Frase tratta dall’epitaffio

riportato sulla lapide di

John Keats

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Lo sconosciuto guardava gli oggetti lasciati nelle macchine parcheggiate. Camminava lento, la mattina presto, sempre e solo con la pioggia. “Cosa posso fare per ognuno?”. si chiedeva. “Quale biglietto lasciare? Quali parole? Un consiglio, un apprezzamento per la sensibilità, un aiuto per la vita?”.

La mia è un’ipotesi. Follia. Come la sua. Forse peggiore. Ma non posso fare a meno di chiedermi in che direzione si muove, verso quale senso. Per avere una risposta devo sperare nella pioggia giusta, nel ritmo, nelle frequenze adeguate. Lo incontro. Lui trova me. È capace di morbidi agguati.

I suoi vestiti sfuggono agli occhi, vi rientrano in un secondo momento: colori soffici, fuori tono, in armonia solo con loro stessi. Sembra parlare tutte le lingue e nessuna, la sua cantilena oscilla su cadenze che spaziano dallo slavo allo spagnolo. In una mano tiene una vecchia mappa della città, nell’altra stringe con timidezza una cassa di plastica utilizzata per trasportare le bottiglie d’acqua minerale. Il contenitore, vuoto, diventa una sedia, solida, leggera. Fluida e mobile, come l’acqua che gli dava uno scopo, una funzione. Acqua lui stesso, nella pioggia, con in mano un guscio di plastica che un tempo racchiudeva acqua. Un circolo perfetto, perenne.

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Ho bisogno di dargli un nome. La mente adora il superfluo. Potrei chiederlo direttamente a lui, come si chiama. Ma non sarebbe la stessa cosa. Mi mentirebbe, o risulterebbe banale, magari. Mi arrogo il diritto di battezzarlo io. Un appellativo bizzarro e solenne, su misura per lui, ecco cosa mi serve. Nuvolario, voilà. Perfetto. Almeno per me. Lui non è necessario che lo conosca. Nuvolario, miscuglio di assonanze fascinose: un capo indiano, un pilota di auto da corsa, un imperatore persiano. Tutto e niente. Lui soltanto.

Mi si avvicina di un altro passo, cerca con gli occhi il mio sguardo, e mi chiede informazioni su una strada. Mi porge la mappa della città e mi invita a indicargli il punto esatto. Mentre la apro mi sembra di cogliere un sorriso sarcastico. Ma forse mi sbaglio. Probabilmente è un riflesso, uno sprazzo di luce nel grigio del cielo. Ci sono tre vie che portano il nome che mi ha chiesto. Incredibile ma vero. Dislocate in punti estremamente distanti l’uno dall’altro. Glielo faccio notare, e lui allarga le braccia, serafico. Gli chiedo cosa deve fare di preciso, cosa cerca, una casa, un monumento, un ufficio, un palazzo… Sorride, senza aprire bocca.

Mi viene il sospetto che la richiesta di informazioni sia una scusa per parlare con persone che, per qualche sua personale ragione, o assenza di ragione, trova interessanti. Porre un quesito che presuppone tre possibili risposte, tutte ugualmente valide, e tutte identicamente errate, gli consente di non avere alcun obbligo. Né una meta precisa. Può girare continuamente con la consapevolezza del limite e delle potenzialità: dirigersi volta per volta verso un luogo che è sempre, allo stesso tempo, giusto e sbagliato. La schiavitù e la libertà.

(il racconto completo è qui: http://www.ivanomugnaini.it/parole-nellacqua/ )

Viv., 1938 – racconto

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La passione di Alba Gnazi per T. S. Eliot, ma anche per la parola, per ciò che riesce a trasmettere, di dolorosamente complesso ma anche di irrinunciabile, vengono espressi al meglio in questo racconto che ha inviato per Dedalus. La voce narrante è quella di Vivienne Haigh-Wood, ma in fondo è quella della stessa autrice e di ogni donna o uomo che dedica alla parola, alla poesia, al dono e alla pena dell’espressione profonda, qualcosa che può essere chiamato tempo, riflessione, battito, tormento, tensione costante, speranza tenace, in una parola, la più semplice e la più irriducibilmente astrusa, vita.

Con l’invito a tutti i narratori a partecipare alla edizione 2014 del Concorso La vita in prosa. Il bando può essere reperito su questo blog, nei post precedenti, o può essere richiesto a : ivanomugnaini@gmail.com .

Buona lettura e buona scrittura. IM

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VIV., 1938

di ALBA GNAZI

 

Viv., 1938

La verità è che avrei dovuto parlarti addosso, Tom, parlarti dentro, mentre il tuo occhio frugava le mie mani e impietosiva il mio sguardo, perché so (lo so) che quel che ostenti è sicurezza ma quel che calchi, e scappi pur di non confessarlo, è paura, Tom.

E’ paura.

Come la mia di attraversare la strada, di svegliarmi di notte e vedere lucertole sul cuscino, di sorbire formiche insieme al brodo, di non lavarmi abbastanza dopo il sesso, perché il sesso odora di te e di me e della terra che ci butteranno addosso, delle tue ricerche e delle tue pretese, dei tuoi silenzi, dell’ira che mi sbuffi sul collo quando mi prendi, dell’ira che tossisci dentro una poesia; di questo sa il sesso, Tom, e io ne vivo, e ne ho paura.

Potrei schermirmi la voce, alterare le maniere, indossare guanti bianchi per accendere ceri e fustigare quel che resta del mio presente con il cencio di una contrizione, con una preghiera tra le gengive, e scordare il sapore del seme sulla lingua e dell’etere in gola – maledetti, mi cuciono nervi saldi su misura, nervi al metro e senza sconto, come quel soggiorno in Svizzera, che dopo più nulla è stato lo stesso.

Più nulla.

La pioggia ama i distillati di sudore e inerzia. Ama grondare dai nasi e dagli ombrelli. Inzaccherare cappotti e cani al guinzaglio. Scorre su questo vetro come una tenia, e i vetri che altro sono se non l’intestino dell’inganno?

La pioggia solleva le gonne e abbassa i rami. Prolifera tra le giunture dei vecchi con dita d’umidità. Attecchisce sui tetti con un fragore che ninna i bambini.

Volevo un figlio, Tom. Ma non da te.

Volevo te, e la tua poesia, e la tua voce, e il benessere che mi dava lo starti accanto.

Volevo ballare solo per te, celebrarti col mio corpo e i miei fianchi, godere del tuo tocco lieve e intimo anche tra mille persone, sapere che saresti corso a casa dopo il lavoro per vedermi e giacere al mio fianco, ma

dio

(il tuo dio, non il mio)

A te non piaceva prendermi.

E io …

Lui c’è sempre stato, Tom.

Abbiamo vissuto in casa sua, e io ho dormito nel suo letto, e lavato i suoi piatti; mi ricordava mio padre, col suo alito e il suo passo, e quell’acutezza che io non ho mai saputo afferrare per intero, ma che mi estasiava.  Era stato il tuo docente di filosofia, io ne ero l’amante. Bertrand.

Cos’hai fatto ai miei anni, Tom? Cos’avevano le mie gambe e i miei seni, la mia voce e le mie idee, che ti atterrivano al punto da farti giurare castità?

Cristo.

Il tuo Cristo, non il mio.

Ma mi vedi? Mi guardi, Tom? Mi guardi, perdio? Sono bellissima. Sono stata il sogno di mezza Londra.

Non il tuo.

Sono caduta giù un pezzo alla volta, come le molliche da una tovaglia. Sono una mollica sulla tua tovaglia, la stoffa grezza del tuo rifiuto, la macchia rossa del vino proibito.

Sono la donna che hai sposato per sfregio, sgarbo, amore di un attimo, idiozia. Sono la ceralacca del tuo ripensamento, la fuga pusillanime, l’aggettivo dimenticato.

Tre mesi, ed eravamo insieme, con un giuramento davanti all’ufficiale e senza casa, senza lavoro, senza soldi, senza criterio.

Tu leggevi e leggevi e citavi poeti francesi e scrivevi e dibattevi e passeggiavi e giorno per giorno, sempre meglio e con dolo, tessevi una trama che mi escludeva da te.

La Terra Desolata ero io. Lo sono stata per così tanto tempo, Tom. Ero il tuo personale, amatissimo, eccitante, rinnegato inferno.

Tu eri il Prufrock delle mie intenzioni, l’Animula dei miei terrori, il Preludio di ogni mia contrizione.

Non è stato difficile, Tom.

Non darti pena, nelle tue notti senza solco e senza buio, notti che scintillano di resistenza all’affanno, che malizia non imbratta – tu segugio della fede, tu mendico della colpa, tu figlio del non-perdono, sei andato con dio, e me, mi hai lasciato qui, ma adesso, adesso

ho pensato a tutto, io sola.

E’ stato semplice.

Ti avviseranno entro qualche ora.

Avrei dovuto baciarti un’ultima volta.

Ma fa lo stesso.

Viv., 1938

 

(Liberamente ispirata al matrimonio tra Vivienne Haigh-Wood e T.S.Eliot)