Un breve omaggio, o meglio messaggio, all’imprescindibile irlandese, nell’anniversario della sua morte.
Ma “il silenzio non è tacere”.
GLI SMS DEL SIGNOR GODOT
Beckett e l’immutata attualità dell’attesa
Ho immaginato varie volte di bussare alla porta di Beckett. Un irlandese che scrive in francese e parla un linguaggio elementare e arcano, universale in fondo, come un codice in attesa di decifrazione. Beckett e il suo Aspettando Godot, Stele di Rosetta della letteratura che anela a qualche Champollion che ne individui la chiave di lettura. Per poi magari, alla fine di tutto, risultare ancora sublimemente inafferrabile.
Aspettando Godot tratta, a ben vedere, di forme d’arte. Forme d’arte fondamentali, umane per eccellenza. Una eterna e l’altra eternamente attuale. La prima è l’arte della sopravvivenza. Nei confronti del dubbio, della miseria delle certezze, della comunicazione tra simili, dell’orrore e del bisogno di guardarsi attorno, un passo oltre la propria ombra. La seconda arte è altrettanto ardua: l’attesa. Quasi un tentativo di scolpire nel marmo il vento, l’aria, l’istante che c’è e quello che manca. Oggi più che mai, nonostante le comunicazioni in tempo reale, le e-mail e gli SMS, Messenger e Whatsapp, l’impressione è che, nel bel mezzo del messaggio, con le dita che quasi si intrecciano per la rapidità, ci si trovi a volte sospesi, bloccati in una smorfia parente stretta di un sorriso, o viceversa. Un po’ come Vladimir ed Estragon. Ciascuno ad aspettare un Godot che non può venire. Ma che, anche lui non a caso tramite un messaggio, ci fa sapere che di sicuro verrà domani.
Vladimir ed Estragon, abili unicamente a rispondere e a rispondersi fuori luogo, troppo presto o troppo tardi, imbestialiti e incavolati quasi sempre, e quasi sempre senza sapere perché, malinconici, immancabilmente, malgrado loro. Schiacciati dal peso di un “io” misero, ispido e adiposo, goffo, ingombrante, enorme grottesco peluche. Per trovarli, per trovare i nostri eroi, spesso non necessita pagare alcun biglietto (la SIAE, speriamo, ci perdonerà). Spesso basta ascoltare ordinarissimi dialoghi nelle strade, negli uffici, nei negozi… Beckett viene regolarmente annoverato tra gli autori del “teatro dell’assurdo”. Martin Esslin in The Field of Drama(Methuen, Londra e New York, 1986) riguardo alla drammaturgia di Beckett sostiene che “the meaning that the author might have wanted to express might merely be that it has no meaning”. Il significato, a suo avviso, è nell’assenza di significato. Posizione salda, certo. Con il tempo tuttavia, con l’attesa, Aspettando Godot si rivela anche e sempre di più un testo fondamentalmente “realistico”. Ciò che accade sono vuoti, silenzi, parole e speranze del tutto autentici e a noi familiari. Giocando con alcuni titoli beckettiani, si può dire che La lezione da imparare prima della Fine di partita è che, sicuro, di Vladimir e Estragon ci somigliano, terribilmente, e la presa di coscienza è già ricchezza, appoggio, fuga magari.
Tale presa di coscienza avviene tramite un testo che con la potenza dell’indeterminatezza ci aiuta a comprendere per quanto possibile questo mondo oscillante tra serietà e farsa, tragedia e riso, God e Charlot. Godot, appunto.
Forse.
Un testo da cercare ancora per poi ripetersi magari assieme ai protagonisti: “Nasciamo tutti folli. Alcuni lo rimangono”.
Una pièce da rivedere o da rileggere per poi poter fare eco ai personaggi dell’Amarcord felliniano, quelli che all’uscita dalla sala cinematografica dichiaravano: “Mi sono divertito tanto. Ho pianto tutto il tempo!”. Fare come loro ed esclamare all’uscita del teatro o alla fine della lettura diAspettando Godot: “Non ho capito niente. E ho capito tutto quello che c’è da capire”. Un punto di partenza. Uno dei pochi attualmente praticabili. Sempre, ovviamente, nell’attesa che venga a farci visita, domani magari, il signor Godot o chi per lui.
Ripropongo oggi, senza alcuna modifica, un pezzo che ho scritto anni fa per una rubrica di teatro che curavo per la rivista Rotta Nord Ovest.
Parla di un Mistero Buffo, come la vita.
IL MISTERO BUFFO
– La terra, la parola e il sogno nel teatro di Dario Fo –
Per alcuni troppo aspro, per altri troppo morbido, qualcuno lo vorrebbe più estremo, qualcun altro più allineato. Ma Dario Fo continua a contorcersi e dinoccolarsi come la dea Kalì, ridendo, chiacchierando, cantando a squarciagola. C’è qualcosa di profondo nel linguaggio dei suoi contadini, nei gesti che creano un legame stretto con la mimica del teatro delle civiltà antiche, con la gestualità atavica. “Mistero buffo” è forse la sua opera cardine, quella in cui ha espresso alla massima potenza la forza della parola, l’ingordigia del dire, del farsi sentire, dell’esserci. Con la carica comunicativa di generazioni e generazioni di joculatores, i giullari che discorrono ancora, nonostante tutto, di fame, di sete, di giustizia. I Misteri erano rappresentazioni sacre, un grande libro aperto, vivace, leggibile anche da parte degli analfabeti. Erano però anche un modo, l’unico possibile, per dire che qualcuno utilizzava la religione e ciò che vi è connesso per tutelare i propri interessi e mantenere i propri privilegi.
Quest’ultima frase, chissà perché, mi ricorda qualcosa. Basta aggiornare e modificare il termine religione, basta pensare a cosa si è dato oggi valenza sacrale, universale, mediatica, e, una volta di più, il teatro in genere e il testo di Fo nello specifico confermano la loro assoluta freschezza. D’altronde, come dichiara lo stesso Fo, “il giullare salta e piroetta e vi fa vedere come sono tronfi e gonfi i palloni che vanno in giro a far guerre dove noi siamo gli scannati”. Anche questo è, e, temo, sarà, maledettamente all’ordine del giorno. Così come quel “noi”, riferito agli umili, ai villani, ai tartassati, appartiene a tutti. Agli scannati da qualche forma di potere più o meno asettico, lontano, in guanti di velluto e doppiopetto. E allora se il nostro “noi” corrisponde a quello del giullare, un po’ giullari lo siamo tutti. E non è male. Non è male perché nella Terra dei Misteri (sacri e profani, personali e di Stato) ci siamo e dobbiamo restarci. È bene quindi prenderla sul buffo la questione, sull’ironico, con un sorriso (quasi) salvifico.
Il giullare girava piazze e paesi facendo sotto forma di recitazione satirica delle vere e proprie accuse ai potenti. Era una figura che si concretizzava direttamente dal popolo, dal quale attingeva la rabbia, per poi ritrasmetterla mediata dal grottesco. Tutto torna. Scintilla, energia, osmosi. Dario Fo, oggi come ieri, docet. I suoi spettacoli sono uno diverso dall’altro, come i biscotti fatti in casa, come certi prodotti artigianali, legno pregiato, intagliato di rabbia, dolcezza, passione, emozione. Ci si consola nel creare lo spettacolo insieme a lui, nel riconoscersi gruppo, entità armonica con uguali nemici e sogni identici. La giustizia, magari. Anche se, perfino nel sogno, ci viene da ridere. Forse la stella agognata è troppo distante, non è di questa galassia. Ma ciò non impedisce di guardarla, di provare a muoverci nella sua direzione. Sì perché, questo ci ha additato Dario Fo tra un salto e uno sberleffo, solo chi sa sognare è una persona seria. E un giullare sa sognare di sicuro. Sa fare solo quello. Sa piangere e sa ridere. Di sé, sulla propria pelle.
Così, nel Paese del Misteri in Attesa di Svelamento, o di Insabbiamento Ulteriore, “Mistero buffo” ci aiuta ad amare ancora di più il sogno, quello della parola, dell’affabulazione, del credere alla voglia di credere. Che sia possibile. Che la fame atavica di Zanni venga saziata, che Lazzaro resusciti, nello Stadio di San Siro magari o al Foro Italico, che Gesù Bambino si arrabbi, anzi si incazzi, come un bambino qualunque, per un torto subito. Che un viandante (Cristo, o chi per lui) restituisca la lingua al villano che ha tentato di impiccarsi a causa dei soprusi subiti dal padrone. Una lingua nuova “che bucherà come una spada”. La voglia di credere che le cose possono cambiare. Che il teatro, la parola, la poesia, ce ne diano la forza. In un sogno che parla un ruspante Grammelot, saldamente attaccato alla terra. Quella che fa imprecare, quella che va conquistata palmo a palmo, con il sudore di antichi contadini che dissodano zolle e piantano alberi nuovi. Il volo e le radici. Forse è possibile. Chissà. In fondo la vita, a ben vedere, altro non è che un Mistero Buffo.
19 luglio 2016, Articoli, Capri, Carlo Goldoni, Francesco De Sanctis, Internet, Ivano Mugnaini, Le smanie per la villeggiatura, Livorno, London Symphony Orchestra, Montenero, Porto Cervo, Riccione, teatro, Teatro San Luca
Tutt’altro che contemporanea, certo, ma ancora rappresentatissima, così come presente e viva è la stagione descritta, il tema e l’atmosfera: Le smanie per la villeggiatura, commedia di Carlo Goldoni del 1761. Il De Sanctis nella sua Storia della Letteratura Italiana (1870) sostiene che con Goldoni “la nuova letteratura fa la sua prima apparizione” grazie ad un autore che “cerca nel reale la sua base e studia dal vero la natura e l’uomo”.
Le smanie per la villeggiatura non piacque al pubblico dell’epoca. Chissà perché! La prima al Teatro San Luca registrò un buon successo, ma già alla terza rappresentazione gli spettatori erano scarsi. Goldoni difese la propria creatura, e con essa il proprio orgoglio, attribuendone la causa alle dimensioni del San Luca, teatro di grandi proporzioni e quindi poco adatto ad una commedia tutta d’interni. Il problema però era nei contenuti più che nelle forme e nelle dimensioni delle sale. Il pubblico borghese del tempo si sentì scrutato da occhi troppo attenti e penetranti, colto di sorpresa, nudo, o almeno nell’atto di coprire le pudende con abiti leggeri, quasi trasparenti. La verità. O perlomeno una verità, possibile, credibile, e, in quanto tale, scomoda.
Leonardo, uno dei personaggi di maggior spessore della commedia, ci regala battute pungenti, ironiche e autoironiche, di una comicità, volontaria o meno, carica di risvolti emblematici. “È pur troppo vero, chi vuol figurare nel mondo convien che faccia quel che fanno gli altri”, osserva. E argomenta poco oltre, con grande trasporto: “Oh gran disgrazia invero! Un abito di meno è una disgrazia lacrimosa, intollerabile, estrema”.
Come dargli torto!
Goldoni si conferma, vale la pena ribadirlo, autore fintamente semplice, fintamente ingenuo, fintamente lieve. C’è, nel suo realismo, un’allegria malinconica, sprazzo di luce a metà tra alba e crepuscolo, che illumina con un sorriso le magagne, i vizi privati e le pubbliche virtù, le contraddizioni di quell’organismo complesso che è l’uomo. L’uomo nel suo habitat per nulla naturale: la società. Un po’ riserva, parco recintato, un po’ gabbia di zoo. Utile, necessaria, soffocante.
Ripubblico in questo inizio d’estate un mio articolo su vita e sogno, sul “mago prodigioso” e sul “gran teatro del mondo”.
Il punto interrogativo, in questo caso più che mai, è necessario, ed anche prezioso. Un gancetto affilato che penetra nelle carni come una spilla, d’accordo, ma anche, a ben vedere, un amo con cui pescare qualcosa di cui nutrirsi. La domanda se la sono posti tutti, in qualche istante particolare o nel corso di una vita intera. Pedro Calderon de la Barca, nato a Madrid nel 1600, è noto ancora oggi anche e soprattutto per il testo in cui afferma che la vita altro che non è che un’entità illusoria, un sogno contraddetto dalla ragione. Lui, in realtà, di dubbi non sembra averne avuti. Ma l’affermazione contiene un’ipotesi. Il sogno è, di per sé, qualcosa di incerto, di irrazionale. Nessuno ne conosce bene i meccanismi, la natura e i confini. Quindi equiparare la vita al sogno, equivale, in un certo senso, a compiere l’operazione contraria. In quest’ottica, paradossalmente, l’affermazione di Garcia Lorca, autore di un testo in cui sostiene con uguale solennità che La vita non è sogno, non è troppo distante dall’assunto di base. Che dire? Ora più che mai siamo di fronte all’apoteosi dell’impalpabile. Il che, in fin dei conti, conferma e ribadisce il trionfo del teatro, la vita che si guarda allo specchio, e, nell’atto di guardarsi, rivive. O magari vive davvero. O smette di vivere, per iniziare a sognare. Chissà.
Nessuna umana certezza, anche stavolta. Che sia questo il bello, o almeno una delle componenti essenziali del gioco? Qualche certezza, almeno sul piano strettamente biografico, la si trova nelle vicende di questo autore spagnolo, Calderon de la Barca, distante anni luce dal panorama letterario attuale, eppure, tramite radici o echi che si diffondono all’interno di altre correnti e risonanze, è giunto in qualche modo fino a noi. Il suo esordio in qualità di drammaturgo risale al 1623, anno in cui propose al pubblico la commedia Amor, honor y poder. Ebbene sì, Amore, Onore e Potere. Personalmente a questo punto mi vengono in mente le facce di molti autori moderni di telenovelas, magari sudamericani, o di molti autori di discorsi politici, molto più nostrani, i quali, di fronte a tale mirabile titolo, si chiedono, sconsolati, come mai non è venuto in mente a loro. Battute a parte, il buon de la Barca, evidentemente già conosceva assai bene gli ingredienti giusti per attrarre l’attenzione popolare. Allo stesso tempo già iniziava a far lavorare sulla scena, facendoli interagire, i motori di base di quella commedia (tragicomica) che è la vita. Sogno o realtà che sia. Anche l’ambiente in cui opera l’autore spagnolo è emblematico. I suoi drammi sacri e profani venivano allestiti e rappresentati in occasione delle feste di corte e per l’inaugurazione del palazzo reale. Anche in questo caso la commistione tra arte e mondanità è assoluta, e diviene un elemento in più, quasi una componente tematica, un personaggio ulteriore, un’allegoria nell’allegoria che aggiunge al testo elementi di riflessione e significazione.
storia di due romanze, un tubo marrone e un mare verde
Ogni volta che nella casa di riposo per musicisti si celebrava una festa di compleanno, Edoardo si premuniva di viveri e generi di conforto, si barricava in camera, e si preparava a sostenere la più strenua ed eroica resistenza. Il rituale che accompagnava quei pomposi ritrovi periodici gli ricordava la cerimonia di presentazione dello scheletro di un dinosauro, rimesso insieme osso dopo osso ed esposto nel padiglione di paleontologia di un museo. Quella sera però non poteva eclissarsi nella sua stanza, come suo costume e come avrebbe desiderato: il compleanno in questione era il suo. Si vestì in modo decente, fece un lunghissimo respiro, allargò a forza i muscoli della bocca fino a far apparire qualcosa che somigliasse a un sorriso e uscì fuori dalla camera, quasi di corsa, pronto ad affrontare il tremolio delle candeline, pietosamente simboliche in quanto a numero, e il tremolio delle voci dei suoi anziani colleghi che intonavano un «Happy birthday» pietosamente simile ad un sospiro. Passando davanti a uno specchio Edoardo gettò un’occhiata a quel vetro lucidato di fresco che rifletteva con crudele fedeltà la sua immagine. Il suo fedelissimo sorriso amaro non tardò a scavare un solco di un colore più tenue sul suo viso. Immediatamente, per ironico contrasto, si fece strada nella sua mente l’immagine di una foto che sua madre gli mostrava sovente, inorgoglita, nella quale appariva come un paffuto neonato sdraiato nudo su un letto matrimoniale, col volto ilare e con la stessa consapevolezza del motivo del proprio sorriso della vecchia bambola di plastica, solenne e grottesca, posta a sedere tra i due cuscini. Edoardo ricordò che sua madre ogni volta che tirava fuori quella fotografia mezza scolorita gli diceva: «Com’eri bello! Bello come il sole! E pensare che eri nato alla rovescia. Eri girato dalla parte sbagliata, come se volessi tornare indietro, come se avessi paura o non fossi pronto… o come se ci avessi ripensato, chi lo sa… ma l’ostetrica era brava e cocciuta, e l’ebbe vinta lei, e venisti fuori, bello e sano, gridando forte come non s’era mai sentito prima». Forse per il dolore – pensò Edoardo con un nuovo ghigno di sarcasmo – o forse perché, ancora prima di nascere, avevo già perduto una battaglia.
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Il racconto completo si può leggere a questo link:
IL SETTIMO PERSONAGGIO: LA SFIDA DELL’IMMEDESIMAZIONE NEI LAVORI DI PIRANDELLO
Busso in modo sommesso alla porta di Pirandello, con fare incerto, tra timore e ironia, un po’ alla Mattia Pascal. Sono quasi sicuro che il padrone di casa mi aprirà. Me ne rallegro, ma i tendini della mano sono quanto mai rigidi. Sì perché, lo confesso, don Luigi Pirandello da Girgenti un po’ mi spaventa. Sulla sua faccia qualcosa a metà tra riso e ghigno, ragione e follia, misura e ferocia. Mezzo siciliano e mezzo tedesco, per studi e temperamento, suadente come un ufficiale prussiano. Vissuto per decenni a fianco della pazzia, in famiglia, in casa, negli affetti più cari, e, al di là e al di sopra di tutto, dentro di sé. Eppure l’occhietto quasi strabico è rimasto brillante come una spada lucidata a specchio per una parata militare e carnevalesca al contempo. Assurda, ineluttabile. La vita. Forse.
Busso alla porta di Pirandello, spaventato ma anche ammirato. Sorrido anch’io con l’occhio altrettanto oscillante dell’ironia e della curiosità. Busso e insisto, quasi fossi il settimo dei suoi “Personaggi in cerca d’autore”. Settimo tra cotanto senno. O assenza di senno.
Omaggio al “figlio del Caos” a 80 anni dal Premio Nobel
Tornare periodicamente a parlare di Pirandello è in qualche modo fatale, non solo come ora in occasione di un significativo anniversario. Lo è in ogni stagione così come è ricorrente interrogarsi sul senso della vita nella misura breve dell’esistenza individuale e in quella più ampia del percorso dell’umanità. Con il ghigno dell’uomo dal fiore in bocca, l’autore gioca con gli opposti, spingendo i suoi personaggi fino al parossismo, facendo perdere i confini tra vittima e carnefice, realtà e finzione, attraendo il lettore/spettatore in un vortice, un gioco di specchi che stordisce e ipnotizza.
E allora “ben ritrovato Don Luigi. Baciamo le mani”, come direbbero i suoi conterranei. Pirandello sebbene profondamente radicato nella sua terra, ha saputo spaziare, andare oltre, fino ai confini geografici e metaforici, là dove la mente incontra la verità e scorge la pazzia.
Nato a Caos, una borgata di Girgenti, l’odierna Agrigento, ebbe a dire dei suoi natali: “Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos”.
La contrada Caos, immersa nella macchia mediterranea, “luogo dove avvengono i naufragi”, assurge a paradigma del disordine, della casualità, quasi a prefigurare quelli che saranno i temi dominanti dei suoi lavori, la perdita degli assoluti, la frammentazione della personalità, il relativismo psicologico e conoscitivo che permea le relazioni umane e che fa dire ad uno dei suoi più noti personaggi “Per me, io sono colei che mi si crede.”
Pirandello inizia i suoi studi universitari a Palermo per poi trasferirsi a Roma dove si dedica agli studi di filologia romanza. Anche a seguito di un conflitto con il rettore dell’ateneo capitolino si reca in Germania, a Bonn, dove si laurea nel marzo 1891 con una dissertazione in tedesco di fonetica e morfologia della parlata di Girgenti. Ancora una volta le radici si intersecano a terreni inesplorati, il passato si protende verso il futuro, la memoria crea e prefigura ipotesi nuove. Lo scrittore siciliano si colloca tra due estremi, il Mediterraneo e il Nord Europa, la passionalità siciliana e la ragione germanica. Ben conscio che entrambe le coordinate sono già di per sé ibride e oscillanti, accolgono nel profondo il loro opposto.
Dopo questo “esilio” teutonico, vennero i decenni romani. Stabilitosi a Roma nel 1893 e introdotto da Luigi Capuana negli ambienti giornalistici e letterari, si dedicò a un’intensa attività pubblicistica e saggistica culminata nel fondamentale saggio L’Umorismo del 1908.
Il tracollo dell’impresa paterna in cui erano stati investiti tutti i beni della famiglia ebbe gravi ripercussioni sulla sua vita, soprattutto per l’acuirsi dei disturbi nervosi della moglie Antonietta di cui nel 1919 si rese necessario il ricovero definitivo in una clinica.
Dal 1915 fu il teatro ad assorbire tutte le attenzioni di Pirandello. Divenne direttore del Teatro d’Arte di Roma (1925-28) e creò una propria compagnia, chiamandovi come prima attrice Marta Abba, con la quale intrecciò un’intensa relazione.
In Pirandello l’influenza delle vicende personali ha un enorme rilievo sull’opera letteraria. In modo specifico il disagio, inteso come squilibrio, privazione, difficoltà a ritagliarsi un ruolo sociale definito e appagante, fa sì che molti dei suoi personaggi, pur nelle differenze sociali, abbiano in comune il fatto di essere estranei, tormentati, costantemente ai margini, oscillanti tra rassegnazione e ribellione, ragione e follia.
Non è un caso, nell’ottica di questa tensione costante vissuta sia in prima persona che di riflesso, che Pirandello, per sfuggire alla morsa delle antinomie esistenziali, amasse trascorrere lunghi periodi dell’anno nella quiete di Soriano del Cimino, in provincia di Viterbo, una cittadina ricca di storia immersa nei boschi: la memoria resa più docile dalla natura. In particolare rimase affascinato dalla quiete di un castagneto nella località di Pian della Britta. Pirandello ambientò a Soriano nel Cimino, citando luoghi, località e personaggi realmente esistiti, anche due tra le sue più celebri novelle, “Rondone e Rondinella” e “Tomassino ed il filo d’erba”.
Frequentò anche Arsoli, soprattutto d’estate. Amava dissetarsi con una gassosa. Il sapore della semplicità in un minuscolo paese che definiva con ironico affetto “La piccola Parigi”.
Nel sole della pace campestre Pirandello si disseta con un pensiero lieve, quasi rassicurante. Ma nel sole accecante che tutto sovrasta, il pensiero insegue una realtà altra, aspra e complessa.
Pur prendendo le mosse dal verismo di scuola siciliana di Capuana e Verga, Pirandello concentra la sua attenzione sulle contrapposizioni esistenti nei personaggi e nelle trame, tra essere e apparire, tra forma (maschera) e vita (autenticità).
L’inquietudine propria dell’uomo che invano cerca di ribellarsi agli schemi di una società priva d’ideali, il dissidio interiore creato dall’impossibilità di comunicare, produce personaggi e vicende avvolte dal caos.
Numerose opere pirandelliane indagano sul rapporto tra realtà e finzione. Tra queste una meno conosciuta ma notevolmente emblematica è senz’altro “All’uscita”, atto unico scritto nel 1916, inserito nella raccolta Maschere nude.
I cardini del testo sono quelli cari all’autore: l’interazione tra teatro e vita, tra la filosofia che prova a dichiarare solenni verità in seguito puntualmente sgretolate dalla realtà. L’effetto ineluttabile è un riso ironico e autoironico, il sentimento del contrario, un filo di illusione tenuto stretto tra le dita. Cardini fragili, soggetti a schianti e corrosioni. Ma pur sempre i soli che abbiamo.
La scena in cui si dipanano i dialoghi è quanto mai allegorica: un cimitero di campagna, avvolto da una nebbia grottesca, tragicomica. Una foschia che fa venire in mente Dante, ma anche Fellini, e perfino certi fotogrammi di alcuni film di Totò, attore a tratti pirandelliano, a suo modo, forse senza volerlo.
In questa atmosfera spettrale si muovono i protagonisti, dei fantasmi appunto: un placido borghese, etichettato come L’Uomo grasso, e, sul fronte opposto, l’intellettuale, ovviamente tormentato, denominato Il Filosofo. Quest’ultima figura è una maschera nuda e trasparente dello stesso Pirandello. Una delle occasioni in cui uno scrittore sente il bisogno di far uscire da sé le parole e le idee che ospita all’interno e che premono, scalpitano, urlano. All’uscita dalle tombe le anime trapassate si ritrovano in una condizione identica a quella vissuta e sofferta sulla terra: l’attesa. Ogni riferimento all’assurdo, sia teatrale che esistenziale, da Godot ai morti ciarlieri di Lee Masters, è volutamente palese. Che fare, dunque? Resta l’arte tutta umana della ricerca di un senso, anche nel buio, a tentoni.
Pirandello svolge un ruolo di anticipatore, aprendo la strada ad alcune delle maggiori innovazioni a livello letterario e non solo. Prefigura la rivoluzione che verrà poi sviluppata da Bertolt Brecht: i personaggi scavano in loro stessi e si raccontano in modo oggettivo, come se si osservassero dall’esterno. Tutto ciò allontana il personaggio dallo schema in voga per secoli, si estrania dall’adesione totale al ruolo, si osserva vivere. Si guarda dentro, scoprendo suo malgrado che “Nulla atterrisce più di uno specchio una coscienza non tranquilla” e scoprendo che “Nulla è più complicato della sincerità” (da Novelle per un anno). La seconda innovazione fondamentale di Pirandello consiste nell’aver portato sulle scene il senso di solitudine proprio dell’uomo moderno e l’incomunicabilità con i suoi simili: “La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce e dove dunque l’estraneo siete voi” (Da Uno, nessuno e centomila).
La pazzia è il rischio che corrono le figure pirandelliane, sospese tra ricerca di consistenza ed il loro intimo squilibrio. Questa ansia costante, riflessione senza tregua sul senso del vivere, li conduce inesorabilmente ad un esasperato cerebralismo. Ma la forza dell’arte pirandelliana è proprio nella sua totale identificazione con le sue “maschere nude”, con la loro addolorata ricerca di una sincerità necessaria e impossibile, in ogni caso lacerante.
Uno degli esempi più noti in quest’ottica si trova nei Sei Personaggi in cerca d’autore i cui protagonisti, “contrariati nei loro disegni, frodati nelle loro speranze”, cercano un autore per rappresentare un dramma a tinte fosche. Da questa ricerca e dalla relativa attesa scaturisce una commedia, una farsa amara che si realizza a tradimento, nell’atto del parlare, del dire, nello spazio occupato pensando a come dovrebbe essere.
Ma la grandezza di Pirandello, la sua portata innovativa va ricercata ben oltre la motivazione con cui gli fu attribuito il premio Nobel nel 1934 ossia “Per lo schietto e geniale rinnovamento nell’arte scenica e drammatica”. Le opere di Pirandello infatti hanno avuto un’influenza sulla narrativa, la filosofia, la psicologia e non ultimo l’arte cinematografica. Si pensi al tema dell’incomunicabilità e dell’alienazione sviluppato da Bergman e Antonioni, alla continuità tra sogno e vita nei film dello stesso Bergman e Luis Buñuel, alla molteplicità dei punti di vista che ispira Akira Kurosawa o al camaleontismo raccontato da Woody Allen con Zelig.
Continua a riflettere e a far riflettere, Pirandello, esplorando da ogni possibile angolazione il sentiero che unisce e separa la verità e il suo contrario, il ponte sull’abisso del caos esistenziale, il fluire inarrestabile il cui solo senso sicuro è la costante mutevolezza.
Pubblico il bando di un concorso riservato ai giovani autori. In bocca al lupo ai partecipanti e buona estate a tutti i “dedalonauti”. IM
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BIENNALE DI POESIA DI ALESSANDRIA XVI Edizione 2012 International Poetry and Arts Network http://www.biennpoesia.it
CONCORSO PER LA SELEZIONE DI GIOVANI AUTORI DI POESIA Possono partecipare: studenti fino a trent’anni di età autori fino a trentacinque anni di età Almeno uno fra i tre vincitori dovrà essere della categoria studenti. Verranno selezionati tre giovani autori, al fine della pubblicazione di un loro testo in un’opera collettanea a invito di poeti italiani. La partecipazione è gratuita. I partecipanti dovranno far pervenire per posta elettronica entro il 30 Settembre 2012 due testi poetici inediti in lingua italiana (o, comunque, tradotti in italiano) a tema libero Ogni testo non dovrà superare i 35 versi e dovrà contenere a fondo pagina: Nominativo completo dell’autore La dicitura “Autorizzo la Biennale di Poesia di Alessandria a pubblicare, qualora selezionato, questo mio inedito”. Si raccomanda la chiara compilazione della scheda annessa al bando da richiedere a questo indirizzo e-mail: biennalepoesiaalessandria@gmail.com .Gli elaborati non verranno restituiti e potranno essere usati dalla Biennale di Poesia di Alessandria esclusivamente nell’ambito delle sue iniziative. La commissione giudicatrice segnalerà fino a dieci finalisti, fra i quali individuare i tre selezionati per la pubblicazione. Testi di partecipanti segnalati potranno, a discrezione dei curatori, venire comunque pubblicati. Il sito ufficiale della Biennale di Poesia di Alessandria (www.biennpoesia.it e pagina facebook) provvederà a divulgare nominativi e testi poetici dei tre vincitori, nonché i nominativi dei segnalati, entro il 31 Ottobre 2012. I tre autori selezionati verranno informati personalmente e, ad avvenuta pubblicazione, riceveranno copia del volume. Potrebbero anche venire invitati a partecipare a iniziative della Biennale di Poesia di Alessandria. Per ulteriori informazioni: 338 5774342 ore 09.00/12.00 (Sig.ra Mina Petroni) La Biennale di Poesia di Alessandria, fondata nel 1981 da Giorgio Bárberi Squarotti, Gian Luigi Beccaria e Giorgio Caproni, è attualmente un appuntamento classico del panorama letterario italiano e internazionale, luogo d’incontro e di confronto per poeti, critici e artisti. Nata nell’atmosfera delle letture pubbliche di poesia di fine anni settanta, si è evoluta nel tempo mantenendo fermi la propria identità e l’intento di contribuire a ridare un pubblico alla poesia, anche mediante l’accostamento alle arti della musica, del teatro, dell’immagine. Dal 1988 questo concorso offre ai giovani la possibilità di vivere un momento di poesia fra importanti poeti e di pubblicare in un contesto altamente qualificato. Con il contributo della Regione Piemonte e della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria .
Alice nella Città è un’associazione culturale con sede a Castelleone, provincia di Cremona.
La possibilità di utilizzare gli spazi di un ex laboratorio tessile, situati all’interno della vecchia filanda, è l’occasione che nella primavera del 2007 riunisce il gruppo di persone che dà vita a questo progetto culturale.
L’eterogeneità è la prima caratteristica di Alice. Provenienze diverse, esperienze diverse, età diverse non rappresentano un limite ma, anzi, arricchiscono e danno qualità all’intero progetto culturale.
L’indipendenza è l’altra fondamentale caratteristica di Alice nella Città. La scelta di fondare una associazione culturale senza appoggiarsi a strutture già esistenti consente un’autonomia totale, sia nelle scelte culturali che in quelle gestionali. La curiosità è la terza caratteristica distintiva, dalla musica al teatro, dall’arte figurativa al cinema, dai libri alla cucina. Ad Alice interessano soprattutto le nuove proposte, i nuovi linguaggi, la temerarietà delle proposte originali. Interessano anche i rapporti con chi si esibisce. Interessano le necessità che in molti hanno di farsi ascoltare, o vedere, da un pubblico allargato.
Alice nella città rappresenta un ambizioso progetto di intendere la cultura in modo democratico.
Nella primavera 2012 Alice vive un profondo rinnovamento dei propri spazi e un conseguente intensificarsi della programmazione. Alice riparte con una nuova stagione dedicata al concetto di luogo, esplorato attraverso il cinema, la musica, il teatro le arti figurative e la poesia.
Sin dagli esordi nel 2007, la poesia, puramente espressa oppure contaminata dai linguaggi artistici più differenti, dal video alla musica fino alla pittura e alla performance teatrale, è al centro della ricerca artistica di Alice, che presto diventa punto di riferimento sul terrotorio per autori emergenti ed affermati. Nella stagione in corso, Alice propone una rassegna poetica dedicata ai luoghi della poesia in collaborazione con il “Circolo Poetico Correnti”.
Di seguito gli appuntamenti della rassegna.
-Giovedì 31 maggio 2012, ore 21 e 15
Puccio Chiesa, “Postumi”. In collaborazione con SEMIOLABILE CINEMATOGRAFICA.
Nella performance parola e immagine si contaminano e si fondono nelle videopoesie della SEMIOLABILE CINEMATOGRAFICA, progetto di ricerca nei linguaggi di confine creato dallo stesso Puccio Chiesa e da Roberto Moroni nel 2003. La perfomance del 31 maggio è anteprima di quanto verrà presentato al prestigioso Art Action Festival – festival internazionale di arti performative e poetiche interdisciplinari – presso la Villa Reale di Monza il prossimo 7 giugno.
-Giovedì 7 Giugno 2012, ore 21:30
Christian Sinicco, “Città esplosa. Apocalissi di Luoghi Possibili.”
“Città esplosa”, raccolta risalente al 2001, è stata formata sperimentando il linguaggio attraverso due ideologie parallele: la frammentazione del senso attraverso i versi, con la ripresa del significato solo nel finale in modo concettuale; e la visione di una città, interna all’uomo, prima, durante e dopo l’apocalisse.
-Giovedì 14 Giugno 2012
Italo Testa: “La Divisione Della Gioia”
Una raccolta che si sviluppa come un poema d’amore di lacerante intensità e bellezza, in cui voci maschili e femminili si richiamano, si scontrano, si cancellano, si confondono. Un dialogo incessante, in cui si alternano tenerezza e abbandono, rapimento e paura della perdita.
– Giovedì 21 Giugno 2012, ore 21:30 -POESIA- Rassegna “La voce nei luoghi”
Alberto Mori, “Procedure. Viaggio nei Non Luoghi della poesia.”
La rassegna poetica dedicata ai luoghi, o meglio ai “non luoghi”, si conclude con la dimensione lirica della poesia del cremasco Alberto Mori.