tempo
DISUNITA OMBRA
Si conferma, Luigi Fontanella, anche in questo recente volume, Disunita ombra, autore in grado di esplorare le molte miserie e i rari splendori della contemporaneità portando sempre con sé il bagaglio di una grandezza vissuta e sognata, incontrata di persona o sui libri, o in sogni più veri del reale. Forse, ed è il caso di sottolineare questo vocabolo, poetico per eccellenza, forse, la disunita ombra a cui fa cenno il titolo del libr, è proprio l’altro da sé, alter ego che accompagna l’autore, e con lui il lettore, in ogni spostamento, ogni gesto programmato all’istante, al millesimo, ogni check-in di tutti i viaggi, reali e immaginari, del destino, della storia, con o senza s maiuscola. Un autore classico e attuale, Fontanella. In grado di evocare, senza mai predicare verità assolute, quell’istante di comprensione ulteriore, quel corto circuito del tempo in cui lo spazio visibile e pensabile si estende e diventa più nitido e intenso. Per poi acquisire di nuovo l’ombra salvifica, disunita e fertile, della poesia vera.
Pubblico qui di seguito, assieme ad un alcuni testi tratti dal libro, la nota di lettura di Paolo Lagazzi.
Con l’invito alla lettura del volume, ben più ampio e articolato di quanto queste mie brevi note possano indicare.
Buona lettura, IM
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Disunita ombra Editore: ARCHINTO Collana: ZIBALDONE Pagine: 128 Prezzo: 12,50 euro Anno prima edizione: 2013
Disunita ombra raccoglie il lavoro recente di una delle voci più vive e autentiche dell’attuale poesia italiana, un lavoro la cui cifra di fondo consiste in una grande libertà di forme espressive e di intonazioni formali. Spaziando dal respiro lungo del petit poème en prose alla colloquialità prensile del racconto in versi, dai timbri di una moderna elegia della memoria al battito verticale ed epifanico delle accensioni improvvise, Luigi Fontanella ci accompagna con i suoi versi tra i luoghi, le persone, le emozioni e gli eventi dalla sua complessa, vasta esperienza fra l’Italia, l’Europa e l’America. Proprio in una città magmatica ed estrema come New York possono paradossalmente scaturire richiami arcaici e inviti alle suggestioni del mito, un mito tuttavia mobilissimo, rivissuto dall’autore tornando, da una parte, alle radici profonde del suo immaginario, e dall’altra evocando il mondo variegato e cosmopolita da lui frequentato. Libro multiforme e seducente, corrusco e tenero, realistico e visionario, Disunita ombra sa parlare in modo indimenticabile delle paure, dei desideri e dei sogni dell’uomo scisso e sofferente di oggi, ridando fiato a una parola ricca di forza salvifica.
Paolo Lagazzi
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testi tratti da
DISUNITA OMBRA
(Poesie 2007-2012)
Vivere è fare l’uncinetto con l’opinione degli altri. Ma mentre lo si fa, il pensiero è libero e tutti i principi incantati possono passeggiare nei loro parchi tra un tuffo e l’altro dell’uncinetto d’avorio. Uncinetto delle cose… Intervallo… Niente. Del resto, in che cosa posso contare su di me? Un terribile acume delle sensazioni, e la profonda consapevolezza di stare sentendo… Un’intelligenza acuta per distruggermi, un potere di sogno desideroso di distrarmi… Sì, uncinetto…
FERNANDO PESSOA
I
LUOGHI E PERSONE
Di quanti aeroporti sono stato regestatore di efemeridi: ignoti e simili che mi passavano in sequenze adorabili e repellenti, tra un grande bisogno di calma e l’insano bruire, mentre io mi ripetevo sempre altro e me stesso.
Mi grandinano addosso
scrosci di risa
e sghembi vocalizzi
ghirigori
o frammentati residui… io
asserragliato nell’ovattato ronzìo
sospeso nello spazio
nel soffice brusìo, schiuma
e bambagia, mentre
l’aereo trafigge texas e nuvole.
Una posizione che
ritorna invariata, Plumelia
accanto a me svampita e svaporata
la grande bocca
spalancata, non io
l’osservatore, non io
il perverso fruitore.
Pensare che non rivedrò mai più
chi oggi a me sovrabbonda.
(Atlanta-Houston, in aereo, marzo 2007)
(Aspettando I.)
Un fascio di sole
taglia la stanza tutta.
Attorno a me una soffusa
aporia… colgo
preciso
il cuore di questo momento
centro e battito di un tempo
incurante di scansioni, ritagli
regole appuntamenti convenzioni
calendari posticci…
al centro
dove tutto converge
fra passato e presente
in una medesima
identificazione di me stesso:
ragazzo immutato
separato e congiunto.
Fra un giorno o fra un anno
di nuovo riflesso
in un identico istante
come questo
dentro e fuori del tempo
spettro ambulante di ciò che infesto
e questa remota parola
da riconsegnare a ogni nuovo venuto.
Campo chiuso e aperto
di un’eterna vigilia. Così,
oltrepassando ogni contesto,
io mi ritrovo vissuto.
Cosa di questo viluppo? di questa
ripetizione in fuga?
Un corpo dilatato
che si sfrangia in tanti
frammenti di luoghi e di spazi…
Ma non è la vita che
un continuo desiderio o uno scarto
infinito.
(Marriott Hotel, New York City, 14 aprile 2007, h. 10,40)
… quei due che insieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri
Dondolavano
abbracciati
in attesa di un treno… Tacito
e lieve
era il loro cullarsi
puri e intatti
staccati dal moscaio e fuori
da ogni altro verminaio
che fumigava lì attorno.
Improvvisamente
una rondine vidi, sbigottito,
vorticare sul loro capo
come a un invito…
Quel lieve dondolìo
si rivestì allora di un brivido
un sussulto…
ed eccoli
a un tratto – miei puri pensieri –
spiccare il volo su tutto
al vento avvinti, docili e leggieri.
(Stazione di Padova, 25 maggio 2007, h. 9)
Defigurato nel corteo (due dediche)
per A.S.
Defigurato nel corteo
si stacca straniero, occhi
nel buio del volto, quanta
nuda umanità che sciupa se stessa.
Destinato alla giostra
come l’amico perduto ritrovato
il più vicino diventa lontano
ed io conto la mia povertà.
Televisionaria l’attesa, mentre
sbriciola la folla:
si rovista in tante scie
ondulate, voci corrimani…
voci che s’inseguono insieme.
Achille, avessi la chiave, quel cuneo
che spiani la direzione
di tutta questa seminata.
(Roma, giugno 2007)
Le nostre numerazioni
a V.R., dopo una visita all’amico malato
Chi impose al dio
il pianto del sorriso
nascente il sole sul suo bel viso
1.
Chirurgia mentale
il tempo si denuda… ti rivedo
in divisa camuffata,
poeta ritrovato in una cremosa
serata estiva, che tràcima
nel volto di ogni presente
gli occhi di Dania sgranati
come a un’eterna sorpresa,
come a una ricorrente agnizione.
2.
Mio consanguineo, ti rivedo
sdraiato in fondo a un corridoio,
bende ai piedi sguardo attento
antico involontario mèntore
la tua mente un negozio di giocattoli
occhi roteanti tra moto frontale
e la pura immobilità.
3.
Libri come provette
ferme nel silenzio, qui
si delinea chiara
l’inconsistenza assoluta.
Angeli gemelli, uno dopo l’altro,
scendono rapidi e leggeri
dalle scale verso di te, tutti
nella stessa divisa,
come a prenderti per mano.
Vi sto perdendo tutti
E tra un istante brucerò
Avvolto nelle mie stesse fiamme.
4.
Qualcuno cercherà sempre
qualche altro nella strada
con cui tenersi compagnia.
(Roma, 7 luglio 2007; Middlebury, 7 luglio 2009)
Cosmos
… mentre la musica
aleggia tagliente e malata
incontrastata
inesistente
e il caldo artificiale
batte lento alle tempie. Questo
istante gira tutto intorno a me,
respiro, grazia, innocenza
di un variopinto stralunìo agli occhi
chiusi aperti chiusi… la musica
si ripete, la musica chiede venia
alla mia mano spuria
di fronte a un cielo rosso di sospiri
per tutti i reietti eletti.
(Stony Brook, 10 dicembre 2007)
JFK
Arrivano a fiotti
oi barbaroi – mai come stasera
ne ho capito in questa babele
l’invasione, vanno vengono brulicano
sordi bruti assordanti inquieti…
Lasciarono oscure contrade
per cercare un altro destino un altro dio
ma ad esse fanno ostinatamente
ritorno per farci un giorno
posare le loro ossa scontente.
Ed io, perenne avventizio,
non sono forse un po’ come loro
se non in questo mio inesausto
raspare, e intrepido
documentare?
(Kennedy Airport, 3 settembre 2008, h. 20,40)
Cosmos
… mentre la musica
aleggia tagliente e malata
incontrastata
inesistente
e il caldo artificiale
batte lento alle tempie. Questo
istante gira tutto intorno a me,
respiro, grazia, innocenza
di un variopinto stralunìo agli occhi
chiusi aperti chiusi… la musica
si ripete, la musica chiede venia
alla mia mano spuria
di fronte a un cielo rosso di sospiri
per tutti i reietti eletti.
(Stony Brook, 10 dicembre 2007)
JFK
Arrivano a fiotti
oi barbaroi – mai come stasera
ne ho capito in questa babele
l’invasione, vanno vengono brulicano
sordi bruti assordanti inquieti…
Lasciarono oscure contrade
per cercare un altro destino un altro dio
ma ad esse fanno ostinatamente
ritorno per farci un giorno
posare le loro ossa scontente.
Ed io, perenne avventizio,
non sono forse un po’ come loro
se non in questo mio inesausto
raspare, e intrepido
documentare?
(Kennedy Airport, 3 settembre 2008, h. 20,40)
Viaggio in Irlanda
È quasi un ossimoro il titolo del libro di Claudia Zironi: Il tempo dell’esistenza. Un contrasto, un dissidio di termini in lotta, in contrapposizione. Un ossimoro atipico, improprio, ma pur sempre fertile di suggestioni, di inviti, di sfide. Il tempo è, o riflette, come uno specchio troppo nitido, la ragione, la logica, la caducità, la coscienza della ineluttabilità dei numeri, delle stagioni, del ciclo terreno delle rincorse e delle cadute. L’esistenza è ciò che deforma il vetro lucidato e spietato; lo sporca, lo appanna di passione, lo infrange, lo riforgia. Tra questi due estremi si muove la poesia di Claudia Zironi: tra un’attenta consapevolezza della fragilità e una forza eversiva, nel senso più nobile del termine. Quella forza del gesto, dell’abbraccio sconfinato e incondizionato a corpi che tradiscono la miseria umana, la mostrano, la superano, la sublimano, con le armi incruente e vitali dell’arte e dell’amore. Sì, perché la rincorsa che più conta, quella che spinge a percorrere le vie e i campi dell’Irlanda, tra nuvole ed erba verde, tra pietra e sogno, è quella eternamente vana eppure imprenscindibile: quella orientata verso l’amore. Sia pure l’amore di un istante malinconico, forse ricordo, forse sogno, il brillare del sole in un lago che cambia, muta colore e aspetto migliaia di volte nell’arco di un giorno o di una vita. L’Irlanda, luogo concreto e immaginario, ideale per perdersi e per trovarsi, per trovarsi nell’attimo in cui si smarrisce la coscienza del sé e ci si abbandona al fascino dell’abbandono. Lo smarrimento malinconico e felice, la consapevolezza di essere un prato destinato a seccare, ad essere prosciugato, per dare vita però ad altri fili, altri muschi, altre parole spazzate dal vento eppure tenaci, aggrappate alla roccia e agli scogli.
“Le nuvole/ di domani profano /con presunzione”, scrive l’autrice nei versi posti quasi ad esergo del poemetto qui pubblicato. C’è un pudore, quasi una riverenza nei confronti della parola, della poesia, propria degli artisti consapevoli, in queste parole. Questa stessa attenzione, questa delicata intensità, si rileva con coerenza e costanza in tutte le poesie della Zironi. Versi brevi, concentrati, alieni agli eccessi vani e a roboanti metafore. L’autrice percorre lo spazio che unisce e separa le parole in punti di piedi, scalza. Per non fare rumore, per non stridere, non lacerare vanamente. Ma anche per essere pronta, nei punti in cui il senso, il sentimento, si manifesta e si offre a braccia spalancate, a infilarsi assieme a lui in un letto di passione. Lì, ad occhi chiusi, si può essere fertili, si può fare scorrere il fluido del dire e del percepire. “Spingiamoci oltre/ nella prossima cavalcata ché qui/ é ancora terra, in fondo”.
Allora tutto, anche la malinconia, trova misura, perfino il ritorno che appare eterno del dolore. Ma c’è l’ironia, arma di difesa legittima ed essenziale, e c’è l’osservazione del mondo, la costanza della ricerca, il bene della vista: “Solo mucche completamente nere/ che portano nuvole/ impigliate al mantello./ Qui padrone non é il castello/ sono i fiori gialli”. Nel contrasto di questi colori, nella capacità di renderli testimoni di malinconie e di pulsioni vitali e coinvolgenti, si dipana la poesia di Claudia Zironi. Nella passione dei fiori gialli che è capace di vedere e fare vedere, mostrandone l’incanto semplice e arcano, la forza e l’attrazione naturale. I.M.
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Viaggio in Irlanda
di Claudia Zironi. Tratto da “Il tempo dell’esistenza”, Marco Saya edizioni, 2012
I
e le nuvole
di domani profano
con presunzione
II
Il Biondo.
Volerò con apprensione solita
l’incurante stupore della bimba
E vedrò dalla caduta un’isola
estirpata dal verde dell’Irlanda
L’Alba.
Altere nuvole nordiche
si formeranno purosangue
spumeranno dalle scogliere
in tuffo a scovare il fiume
Il Poeta.
Martedì piangeranno piano
sull’alberi le chiese, tetti neri.
Costretto il poeta nell’ombrello
riempirò i miei occhi di Dublino
III
furiose nubi
vendicano il sacro.
sorte serbata
IV
La Vecchia e la Morte.
L’aereo penetrò velocemente le nuvole
si pensò all’eiaculazione precoce
della morte
nella vecchia
(non c’é tempo per la psicanalisi)
Dev’essere così
bianca che accoglie
il sole i miei occhi ogni colore
cancella
Non c’é niente in queste nuvole.
Questa morte nordica, forse non troppo
a nord. Spingiamoci oltre
nella prossima cavalcata ché qui
é ancora terra, in fondo
E un poeta nella terra bagnata
é per i vermi come tutti
La campana!
Quanto tempo ci rimane non a Dublino?
V
nubi gotiche
non lasciano spiragli
a frivolezza
VI
Le ballate del Ring of Kerry.
Uccelli stagliano lo spartito
sul rigo elettrico contro l’indeciso
La vacca interpreta il ritmo
“What’s the story?”
(ballata per cornamusa)
Quattro figli son giusti
Beviti la Guinness!
Risata forte del sud
Davanti al tetto sfondato
della chiesa metodista
Agli spazi da riempire
di pioggia ogni due ore,
come una prescrizione
Qualcuno non parlava gaelico
o c’era una voce fuori dal coro
al pub, con capelli rosso brughiera
“Vita brevis ars longa”
(ballata per violino e flauto)
E le bionde di fieno
sono incartate, qui
in sacchi di cellophane
Sacchi da obitorio,
ruzzolano giù per il basalto
a fare il solletico all’oceano
in contesa di spiagge
Beviti la Guinness!
VII
Molly Malone
le nubi e le porte
tinge di rosso
VIII
Messa anglicana.
Avanza il corteo dal fondo
Purple e bastone d’argento
L’organo coperto dal coro
Dio da freddezza e riserbo
Campanari impiccati a quindici campane
rispondono a diciannove, in lotta impari
Li ricordano al secondo piano dell’ospedale
IX
si appoggia alla
collina, nube stanca
dell’indeciso
X
Glendalough.
Il purple distingue il lignaggio
delle montagne
Ché a vestirsi
di nebbia e di pecore
sono capaci anche le colline
Kilkenny.
Solo mucche completamente nere
che portano nuvole
impigliate al mantello.
Qui padrone non é il castello
sono i fiori gialli
XI
lascio l’isola
per il mare nebbioso.
di nuovo terra
XII
Waning waxing.
Ho visto il leprecano
sotto il fairy tree
togliersi la testa ridendo
L’ho coperto d’oro
perché la riponesse.
In cambio
non ho voluto trifoglio
ché nel giardino
dei ricordi
non cresce più nulla
Alle spalle una quercia
di fronte un tulipano
cambiasti l’alchimia
strega, non il tuo destino
XIII
s’acquieta pioggia,
di nuvola nordica
lacrima ultima
Remo Bodei parla dei paradossi del tempo
Liceo Scientifico “F. Enriques”
Aula Magna, Via della Bassata 19/21 Livorno
22 aprile 2013, ore 16.45
“Paradossi del tempo: come smontare i pregiudizi”
Il senso comune ci fa pensare la nostra vita come immersa in uno scorrere continuo, lineare e inarrestabile del tempo. Ma questa evidenza è proprio una verità incontrovertibile o è lecito avanzare qualche dubbio?
Viviamo nel presente, attimo dopo attimo, ma in che cosa consiste l’attimo (atomos, l’individibile)? In che cosa consiste il passato e il futuro?
Prof. Remo Bodei
già docente di Storia della Filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Attualmente Recurrent Visiting Professor presso University of California Los Angeles.
Coordina l’incontro il dott. Roberto Bichisecchi
Tutta la cittadinanza è invitata a partecipare.
ASSOCIAZIONE PSICOANALISTI PISA
Associazione ManoAmano
Via Manzoni, 11 – Pisa
Via degli Scarronzoni, 8 Livorno
psicoanalisipisa@gmail.com
condividerecon@gmail.com
recensione a CHINA
Maria Pia Quintavalla, “China”, Milano, Effigie edizioni, 2010
di Ivano Mugnaini
Qualsiasi libro a cui ci poniamo di fronte ci offre e ci chiede un certo grado di esposizione, ci domanda fino a che punto siamo disposti ad avvicinarci al fuoco e al gelo che contiene. Nella maggior parte dei casi il compromesso è relativamente prudente; ci si mantiene in una zona bene illuminata ma tutto sommato tranquilla. Nel caso di questo libro di Maria Pia Quintavalla ci si trova nella condizione di doverla seguire qualche passo più in là. Nel punto in cui le scintille e le schegge di ghiaccio della memoria bruciano e feriscono. L’autrice è profondamente legata alla poesia, alla sfida e alla ricerca di una verità ulteriore. Anche in questo suo “romanzo in versi” è prevalsa la volontà di scavo e di indagine a cui chiama anche il lettore, trasfigurando la realtà e i dati di fatto cronologici senza che niente vada perduto della loro acuminata verosimiglianza. Il tempo descritto, genuinamente vissuto e nitidamente riconoscibile, si fa metafora, orizzonte costellato di simboli.
C’è in questo libro un senso vivido del sacro e del profano, e c’è la loro commistione, il corpo che lega a sé vita e morte, il rito e il gesto concreto. Il racconto si fa parola senza smettere di essere carne, materia pulsante. Una laica, umanissima trasfigurazione: “Prendetene e mangiatene tutti, il mio sangue/ per la nuova ed eterna paura,/ sparsa per voi, fate questa memoria”. Lo spettro della retorica è spazzato via all’istante dalla condivisione della memoria che anche il lettore è chiamato a “fare”, a costruire, mettendosi in gioco. China non è un diario , non è un semplice archivio di ricordi e sensazioni. Lo scarto simbolico è sottile, spesso racchiuso in un dettaglio, un colore, una percezione istantanea, lontana sia dalla storia che dalla cronaca, perfino dall’epos familiare che fa da sfondo agli eventi e ai mutamenti. Il senso, il succo, è nello spazio di una sillaba, un sospiro; quell’alito misterioso, alieno alla logica, trasporta la realtà in uno spazio franco, immune alla sterile razionalizzazione, libero perfino dai ceppi del tempo e della morte.
L’apparato simbolico di questo libro è vasto, ricorre a tutti e cinque i sensi, tramuta il corpo in un sistema di rilevazione di emozioni ad ampio spettro. La musica, innanzitutto, è alimento primario per l’evocazione e la ricostituzione delle scene fondamentali della vicenda narrata. È un Leitmotiv ininterrotto, accompagnamento tra due sequenze di suoni, tra assoli e contrappunti, speranze di armonie e presa d’atto di contrasti. La vita insegue una vita altra, come un violino fa da eco a un pianoforte.
L’attitudine proustiana a rincorrere il tempo è ben viva, pronta a tramutare qualsiasi occasione in memoria. Nella lirica che apre il Prologo, il canto di Bella ciao è perentorio squarcio in un tempo che riemerge all’istante, attualissimo. Le note sono intonate dalla madre della voce narrante. “Si era messa a cantare Bella ciao,/ queste note ascoltavo, come da un’altra sponda”, rivela la protagonista. La sponda è quella che unisce e separa gli affetti, i destini, la vita e la morte, l’amore e quella galassia di terre complesse e multiforme che lo circondano. China è un libro capace di sfuggire a catalogazioni e a tentativi di etichettatura. La sua forza è in quella sincerità nuda, spiazzante e preziosa, in grado di mostrare la complessità delle relazioni umane, soprattutto quelle più strette e intense, sofferte e vissute davvero, nel profondo. In tale ottica, sono proprio gli oggetti e i momenti in apparenza ordinari ad assumere peso e sostanza. Ciò che è lieve, quotidiano, arriva a sfiorare l’essenza.
– È possibile leggere la recensione completa sulla rivista Samgha da cui è stata pubblicata il 22 luglio 2012, a questo link : http://samgha.wordpress.com/2012/07/22/maria-pia-quintavalla-china-milano-effigie-edizioni-2010/