Verga

La mia più grande possibilità sono io – Intervista ad Anita Likmeta

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Ho conosciuto Anita Likmeta tramite LinkedIn. Ci siamo scambiati saluti formali e auspici reciproci per la scrittura. Da una ragazza giovane, bella e di successo, mi sarei aspettato la classica “puzza sotto il naso”, che, visto il contesto internazionale, equivale più o meno a meno a “to have the snobbish”, o qualcosa del genere, chi più ne ha più ne metta, anzi, chi più ne sa più ne metta. Invece ho notato e ricevuto molta cortesia, fin dall’inizio. Mi ha incuriosito.

Sono andato e leggere il suo blog, https://anita.tv/me/, e la sua biografia, il sunto della sua vicenda. Così uguale a quella di tanti altri “migranti” e così specifica, diversa. Mi è venuto in mente di chiederle un’intervista per la rubrica “A tu per tu” del mio blog. Mi ha risposto in modo del tutto originale, non riconducibile a schemi, rifuggendo da qualsiasi generalizzazione, predica edificante o proposta di panacea. Mi ha fatto capire che la sua vicenda vale solo per lei, per il suo destino individuale. Eppure, proprio per questo suo rifuggire le frasi fatte e i punti di vista facili e ben confezionati, le sue parole forse possono fungere da spunto e da stimolo, dicendoci d’accordo, oppure dissentendo, scuotendo la testa, dubbiosi o schiettamente contrari.

Le sue parole possono servirci, facendo proporzioni, proiezioni, ipotesi e confronti, a provare a riflettere sulla questione dell’immigrazione, suoi profughi, sull’accoglienza e sui muri, reali e metaforici, sull’integrazione possibile e/o utopica, e su un mare di altre questioni che abbiamo intorno, e dentro. IM

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rubrica “A TU PER TU”

Intervista a ANITA LIKMETA

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1) Benvenuta Anita.

Puoi raccontarci la tua vicenda personale, dalla tua infanzia in Albania fino ad oggi?

Intanto grazie per lo spazio concessomi. Ci vorrebbe molto tempo per spiegare questa domanda, ma cercherò di essere più ermetica possibile. Sono nata a Durazzo, in Albania, ma per questioni private i miei genitori mi hanno portata dai nonni, i quali mi hanno cresciuta per 11 anni e mezzo. Nel 1997 mia madre, la quale era già partita per l’Italia con la prima nave del 1991, fece per me il certificato di ricongiunzione familiare e questo mi permise di partire con lei. Partimmo la mattina del 2 giugno del 1997 per poi raggiungere le sponde di Bari la notte del 3 giugno. Successivamente ci stabilimmo vicino a Pescara. In Italia ho fatto le scuole medie, il liceo classico, poi a Roma l’Accademia d’Arte Drammatica “Corrado Pani” e infine l’Università degli studi di Roma “La Sapienza” dove mi sono laureata in Lettere e Filosofia con l’indirizzo in Scienze Storiche. Ho pubblicato per Il Fatto Quotidiano, IlGiornaleOff, The Huffington Post etc. Oggi ho un mio personal blog, http://www.anita.tv, dove racconto le mie storie e quelle degli altri, insomma l’editore sono io, e questo lo trovo straordinario.

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2) Tu sei un esempio di integrazione riuscita, ma i casi come il tuo non sono frequenti. Quali sono a tuo avviso gli ostacoli che impediscono a tutt’oggi un reale dialogo tra persone e popoli diversi?

Onestamente non saprei dirti se sono davvero un esempio di integrazione riuscita e non mi piace neanche rientrare in questa categoria, non mi piacciono le etichette di alcun genere. Sono un essere libero, sono nata in un Paese che ha avuto una storia difficile e di quella storia ne siamo pagando tutti le conseguenze. Per me è stato un percorso molto arduo inserirmi nel tessuto sociale italiano. Quando ero piccola pensavo soltanto a studiare perché vedevo in questa possibilità la mia realizzazione come individuo. Ad oggi, posso dire che non mi interessa più come gli altri mi percepiscono, tanto meno le varie forme di giudizio che quando ero più acerba mi facevano soffrire. La mia più grande possibilità sono io, la mia casa è il mio corpo, il mio cielo sono i miei occhi. La mia integrità è la mia più grande conquista.

3) Dare consigli non è mai facile, ma, visto che conosci bene sia l’esperienza di chi si trova ospite di una terra non sua sia quella di chi invece è cittadino integrato, cosa ti sentiresti di dire a chi chiede ospitalità e a chi si trova a dover interagire con chi bussa alla sua porta?

In Levitico 19:33-35 sta scritto che: “Quando uno straniero risiede con voi nel vostro Paese, non lo maltratterete. Lo straniero che risiede fra voi, lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, poiché anche voi foste stranieri nel Paese d’Egitto. Io sono l’Eterno, il vostro Dio. Non farete ingiusta nei giudizi con le misure di lunghezza, di peso e di capacità.”

Ecco, io non aggiungerei niente di più a questa domanda che non può avere nessun altra risposta.

4) Sei arrivata in Italia diversi anni fa. Come l’hai vista trasformarsi in questi anni? Come è cambiata questa nazione e come sono cambiati gli italiani dai tempi del tuo sbarco a Bari?

Gli italiani sono un popolo magnanimo, sempre disposti ad aiutare il prossimo. Amo l’Italia per questo suo modo di rispondere alla vita. Il cuore degli italiani risponde ad una coscienza più alta, divina e giusta. L’Italia è lo stivale che raccoglie tutti, va aiutata e non abbandonata come stanno facendo. Vivendo in Italia ho trovato molte similitudini con l’Albania, in qualche modo questi due popoli sono molto congrui. Forse il clima mediterraneo, forse i rapporti intercorsi da sempre fra questi Paesi ma se scendo in Calabria ho la netta sensazione di parlare con miei conterranei.

5) Ti trovi spesso per ragioni professionali a lavorare e soggiornare all’estero. Quale idea hanno gli stranieri dell’Italia? Corrisponde ai soliti cliché o è basata su conoscenze meno scontate, più accurate e più vicine alla realtà?

Beh, l’idea che gli stranieri hanno dell’Italia è la stessa che gli italiani hanno dell’Albania. Poi ci sono quelli che l’Italia la conoscono davvero, mi è capitato di vedere qui a Londra il documentario di Annalisa Piras e Bill Emmott “Girlfriend in a Coma”, il quale mi è sembrato un perfetto quadro di quello che io stessa ho vissuto negli anni in Italia. Tuttavia, personalmente non mi preoccuperei della visione che gli altri hanno di noi, piuttosto concentro le mie energie sul “fare”.

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6) In questo blog mi occupo principalmente di letteratura, ma anche di cinema, di musica e del mondo artistico. Quali sono stati i libri, i film, le canzoni e le espressioni artistiche che ti hanno maggiormente influenzato e hanno contribuito a formare e perfezionare la tua conoscenza della lingua e della cultura italiana?

Nel 1997, appena sbarcata in questo piccolo paesino, Villanova di Cepagatti, in provincia di Pescara, conobbi in prima media un parrocco, Don Cleto. Mi faceva tanto ridere. Io non portavo mai la merenda a scuola, ma lui ogni giorno si preoccupava se io mangiassi, se io sorridessi, se ero felice o se ero triste. Durante l’ora di religione, Don Cleto decise di portarmi via dalla classe nel suo studio che era sopra la scuola. Nella stanza c’erano una infinità di libri, quaderni pieni di appunti e tante Bibbie in varie lingue. Il parrocco mi chiese di sceglierne uno. Perquisii con attenzione e alla fine presi tra le mani un volume molto corposo. Sulla copertina c’era scritto “William Shakespeare – Le opere”, tradotte in italiano da Montale e Quasimodo.

Trascorsi l’inverno tra il 1997-98 a studiare Shakespeare e me ne innamorai. Poi, ovviamente Montale e Quasimodo, Verga, Pirandello, Ungaretti, Saba, Silone etc, ma devo essere onesta, gli autori che hanno inciso davvero nella mia formazione sono Dostoevskij, Cechov, Goethe, Joyce, Orwell, Dickinson, Wordsworth, Hannah Arendt, Levi, e poi Brecht, le cui poesie sono state per me un punto di riferimento.

Lo ammetto: io

non ho speranza.

Il cieco parla di una via di uscita. Io

ci vedo.

Quando tutti gli errori sono esauriti

l’ultimo compagno che ci sta di fronte

è il Nulla.”

(Der Nachgeborene)

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7) Quali affinità percepisci tra il popolo albanese e quello italiano e quali sono le radici condivise?

L’Albania e’ stata caratterizzata da una lunga storia fatta di continue invasioni: dai greci ai romani, dai goti ai bizantini, ai bulgari, ai serbi, ai normanni, ai veneziani, agli svevi, agli angioini, ai turchi e infine agli italiani. Una somma di successione di popoli che hanno contribuito a modificare il codice genetico più e più volte e quindi alterato il patrimonio storico culturale sociale religioso e politico nei secoli. Come l’Italia, ma per motivi differenti, neppure, o ancor meno, un paese come l’Albania aveva mai conosciuto una compattezza nazionale. I due paesi, data la loro vicinanza geografica, hanno sempre avuto continue relazioni economiche politiche e sociali che risalgono alla diaspora albanese guidata da Giorgio Castriota di Skenderberg che ebbe come conseguenza una massiccia emigrazione di albanesi in Calabria alla fine del 1400. Entrambi sono popoli mediterranei e quindi condividono i modi di vivere la vita, poi noi abbiamo avuto la dittatura di Hoxha per cui siamo stati molto condizionati per 50 anni circa.

8) Tu scrivi per varie testate articoli ben documentati, basati su fatti e osservazioni reali. Se dovessi però scrivere un pezzo di pura fantasia, una specie di proiezione immaginaria sul futuro dell’Europa, quale scenario descriveresti?

L’unione dei popoli d’Europa sarebbe il più bello dei temi.

9) Questa domanda, strettamente legata alla precedente, riguarda invece il tuo ruolo nel mondo dell’editoria. Come ti vedi tra qualche anno, come sarà a tuo parere il mondo dell’informazione e della cultura nel futuro, e, potendo realizzare i tuoi più belli auspici, come vorresti che fosse?

Penso che non ci sarà più l’editoria, piuttosto non ci saranno più i giornali per come li intendiamo. Credo che ognuno potrà essere l’editore di se stesso attraverso il proprio canale.

10) Ringraziandoti per questa tua intervista, ti chiediamo una tua dedica personale ai lettori di questo blog e a tutti gli appassionati di letteratura. Sul frontespizio del tuo libro personale cosa scriveresti?

A Ninì, la bimba dalla ferrea coscienza.

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Anita Likmeta

Anita Likmeta
Anita Likmeta
Dottoressa in Storia medievale, moderna e contemporanea laureata in Lettere e Filosofia all’Università di Roma “La Sapienza, Anita Likmeta è una storica, scrittrice e documentarista.
Nata a Durazzo in Albania si trasferisce in Italia con la famiglia all’età di 11 anni, dapprima nella cittadina di Pescara e in seguito a Roma dove ha frequentato l’Accademia di Recitazione “Corrado Pani”. Nel 2011 si trasferisce a Parigi dove maturerà il suo saggio storico nonché tesi di laurea, discussa con il professore Giancarlo Giordano, in merito alle relazioni tra l’Albania e l’Italia nel periodo che va dal 1922 al 1943. Sempre a Parigi conosce una realtà culturale che l’ha portata a co-dirigere un documentario insieme al regista francese del collettivo Kourtrajmé Mohamed Mazouz dove ha intervistato il candidato premio Nobel per la letteratura e conterraneo Ismail Kadaré, l’artista Kiki Picasso, l’artista italiano Tanino Liberatore e il politico francese Francois Asselineau. Il 13 ottobre del 2013 il giornale “Il Fatto Quotidiano” pubblica un suo articolo in cui racconta il viaggio che l’ha portata in Italia e la sua visione in merito alle politiche dell’immigrazione. Da gennaio 2014 scrive sull’Huffington Post diretto da Lucia Annunziata. Da aprile ad agosto 2015 ha collaborato per la pagina culturale IlGiornaleOff de Il Giornale diretto da Edoardo Sylos Labini.
Vive fra Londra, Roma e Milano.

TUTTO È RELATIVO TRANNE IL CAOS

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Omaggio al “figlio del Caos” a 80 anni dal Premio Nobel

Tornare periodicamente a parlare di Pirandello è in qualche modo fatale, non solo come ora in occasione di un significativo anniversario. Lo è in ogni stagione così come è ricorrente interrogarsi sul senso della vita nella misura breve dell’esistenza individuale e in quella più ampia del percorso dell’umanità. Con il ghigno dell’uomo dal fiore in bocca, l’autore gioca con gli opposti, spingendo i suoi personaggi fino al parossismo, facendo perdere i confini tra vittima e carnefice, realtà e finzione, attraendo il lettore/spettatore in un vortice, un gioco di specchi che stordisce e ipnotizza.
E allora “ben ritrovato Don Luigi. Baciamo le mani”, come direbbero i suoi conterranei. Pirandello sebbene profondamente radicato nella sua terra, ha saputo spaziare, andare oltre, fino ai confini geografici e metaforici, là dove la mente incontra la verità e scorge la pazzia.
Nato a Caos, una borgata di Girgenti, l’odierna Agrigento, ebbe a dire dei suoi natali: “Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos”.
La contrada Caos, immersa nella macchia mediterranea, “luogo dove avvengono i naufragi”, assurge a paradigma del disordine, della casualità, quasi a prefigurare quelli che saranno i temi dominanti dei suoi lavori, la perdita degli assoluti, la frammentazione della personalità, il relativismo psicologico e conoscitivo che permea le relazioni umane e che fa dire ad uno dei suoi più noti personaggi “Per me, io sono colei che mi si crede.”
Pirandello inizia i suoi studi universitari a Palermo per poi trasferirsi a Roma dove si dedica agli studi di filologia romanza. Anche a seguito di un conflitto con il rettore dell’ateneo capitolino si reca in Germania, a Bonn, dove si laurea nel marzo 1891 con una dissertazione in tedesco di fonetica e morfologia della parlata di Girgenti. Ancora una volta le radici si intersecano a terreni inesplorati, il passato si protende verso il futuro, la memoria crea e prefigura ipotesi nuove. Lo scrittore siciliano si colloca tra due estremi, il Mediterraneo e il Nord Europa, la passionalità siciliana e la ragione germanica. Ben conscio che entrambe le coordinate sono già di per sé ibride e oscillanti, accolgono nel profondo il loro opposto.
Dopo questo “esilio” teutonico, vennero i decenni romani. Stabilitosi a Roma nel 1893 e introdotto da Luigi Capuana negli ambienti giornalistici e letterari, si dedicò a un’intensa attività pubblicistica e saggistica culminata nel fondamentale saggio L’Umorismo del 1908.
Il tracollo dell’impresa paterna in cui erano stati investiti tutti i beni della famiglia ebbe gravi ripercussioni sulla sua vita, soprattutto per l’acuirsi dei disturbi nervosi della moglie Antonietta di cui nel 1919 si rese necessario il ricovero definitivo in una clinica.
Dal 1915 fu il teatro ad assorbire tutte le attenzioni di Pirandello. Divenne direttore del Teatro d’Arte di Roma (1925-28) e creò una propria compagnia, chiamandovi come prima attrice Marta Abba, con la quale intrecciò un’intensa relazione.
In Pirandello l’influenza delle vicende personali ha un enorme rilievo sull’opera letteraria. In modo specifico il disagio, inteso come squilibrio, privazione, difficoltà a ritagliarsi un ruolo sociale definito e appagante, fa sì che molti dei suoi personaggi, pur nelle differenze sociali, abbiano in comune il fatto di essere estranei, tormentati, costantemente ai margini, oscillanti tra rassegnazione e ribellione, ragione e follia.
Non è un caso, nell’ottica di questa tensione costante vissuta sia in prima persona che di riflesso, che Pirandello, per sfuggire alla morsa delle antinomie esistenziali, amasse trascorrere lunghi periodi dell’anno nella quiete di Soriano del Cimino, in provincia di Viterbo, una cittadina ricca di storia immersa nei boschi: la memoria resa più docile dalla natura. In particolare rimase affascinato dalla quiete di un castagneto nella località di Pian della Britta. Pirandello ambientò a Soriano nel Cimino, citando luoghi, località e personaggi realmente esistiti, anche due tra le sue più celebri novelle, “Rondone e Rondinella” e “Tomassino ed il filo d’erba”.
Frequentò anche Arsoli, soprattutto d’estate. Amava dissetarsi con una gassosa. Il sapore della semplicità in un minuscolo paese che definiva con ironico affetto “La piccola Parigi”.
Nel sole della pace campestre Pirandello si disseta con un pensiero lieve, quasi rassicurante. Ma nel sole accecante che tutto sovrasta, il pensiero insegue una realtà altra, aspra e complessa.
Pur prendendo le mosse dal verismo di scuola siciliana di Capuana e Verga, Pirandello concentra la sua attenzione sulle contrapposizioni esistenti nei personaggi e nelle trame, tra essere e apparire, tra forma (maschera) e vita (autenticità).
L’inquietudine propria dell’uomo che invano cerca di ribellarsi agli schemi di una società priva d’ideali, il dissidio interiore creato dall’impossibilità di comunicare, produce personaggi e vicende avvolte dal caos.
Numerose opere pirandelliane indagano sul rapporto tra realtà e finzione. Tra queste una meno conosciuta ma notevolmente emblematica è senz’altro “All’uscita”, atto unico scritto nel 1916, inserito nella raccolta Maschere nude.
I cardini del testo sono quelli cari all’autore: l’interazione tra teatro e vita, tra la filosofia che prova a dichiarare solenni verità in seguito puntualmente sgretolate dalla realtà. L’effetto ineluttabile è un riso ironico e autoironico, il sentimento del contrario, un filo di illusione tenuto stretto tra le dita. Cardini fragili, soggetti a schianti e corrosioni. Ma pur sempre i soli che abbiamo.
La scena in cui si dipanano i dialoghi è quanto mai allegorica: un cimitero di campagna, avvolto da una nebbia grottesca, tragicomica. Una foschia che fa venire in mente Dante, ma anche Fellini, e perfino certi fotogrammi di alcuni film di Totò, attore a tratti pirandelliano, a suo modo, forse senza volerlo.
In questa atmosfera spettrale si muovono i protagonisti, dei fantasmi appunto: un placido borghese, etichettato come L’Uomo grasso, e, sul fronte opposto, l’intellettuale, ovviamente tormentato, denominato Il Filosofo. Quest’ultima figura è una maschera nuda e trasparente dello stesso Pirandello. Una delle occasioni in cui uno scrittore sente il bisogno di far uscire da sé le parole e le idee che ospita all’interno e che premono, scalpitano, urlano. All’uscita dalle tombe le anime trapassate si ritrovano in una condizione identica a quella vissuta e sofferta sulla terra: l’attesa. Ogni riferimento all’assurdo, sia teatrale che esistenziale, da Godot ai morti ciarlieri di Lee Masters, è volutamente palese. Che fare, dunque? Resta l’arte tutta umana della ricerca di un senso, anche nel buio, a tentoni.
Pirandello svolge un ruolo di anticipatore, aprendo la strada ad alcune delle maggiori innovazioni a livello letterario e non solo. Prefigura la rivoluzione che verrà poi sviluppata da Bertolt Brecht: i personaggi scavano in loro stessi e si raccontano in modo oggettivo, come se si osservassero dall’esterno. Tutto ciò allontana il personaggio dallo schema in voga per secoli, si estrania dall’adesione totale al ruolo, si osserva vivere. Si guarda dentro, scoprendo suo malgrado che “Nulla atterrisce più di uno specchio una coscienza non tranquilla” e scoprendo che “Nulla è più complicato della sincerità” (da Novelle per un anno). La seconda innovazione fondamentale di Pirandello consiste nell’aver portato sulle scene il senso di solitudine proprio dell’uomo moderno e l’incomunicabilità con i suoi simili: “La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce e dove dunque l’estraneo siete voi” (Da Uno, nessuno e centomila).
La pazzia è il rischio che corrono le figure pirandelliane, sospese tra ricerca di consistenza ed il loro intimo squilibrio. Questa ansia costante, riflessione senza tregua sul senso del vivere, li conduce inesorabilmente ad un esasperato cerebralismo. Ma la forza dell’arte pirandelliana è proprio nella sua totale identificazione con le sue “maschere nude”, con la loro addolorata ricerca di una sincerità necessaria e impossibile, in ogni caso lacerante.
Uno degli esempi più noti in quest’ottica si trova nei Sei Personaggi in cerca d’autore i cui protagonisti, “contrariati nei loro disegni, frodati nelle loro speranze”, cercano un autore per rappresentare un dramma a tinte fosche. Da questa ricerca e dalla relativa attesa scaturisce una commedia, una farsa amara che si realizza a tradimento, nell’atto del parlare, del dire, nello spazio occupato pensando a come dovrebbe essere.
Ma la grandezza di Pirandello, la sua portata innovativa va ricercata ben oltre la motivazione con cui gli fu attribuito il premio Nobel nel 1934 ossia “Per lo schietto e geniale rinnovamento nell’arte scenica e drammatica”. Le opere di Pirandello infatti hanno avuto un’influenza sulla narrativa, la filosofia, la psicologia e non ultimo l’arte cinematografica. Si pensi al tema dell’incomunicabilità e dell’alienazione sviluppato da Bergman e Antonioni, alla continuità tra sogno e vita nei film dello stesso Bergman e Luis Buñuel, alla molteplicità dei punti di vista che ispira Akira Kurosawa o al camaleontismo raccontato da Woody Allen con Zelig.
Continua a riflettere e a far riflettere, Pirandello, esplorando da ogni possibile angolazione il sentiero che unisce e separa la verità e il suo contrario, il ponte sull’abisso del caos esistenziale, il fluire inarrestabile il cui solo senso sicuro è la costante mutevolezza.