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LA SUA CANZONE – Un hommage

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SUR MA VIE

LA MIA CANZONE

Mi hanno fatto perfino un monumento. Una pietra scura, tozza, priva di espressione e sorriso. Non mi ci riconosco. O forse sì. Forse il mediocre scultore con reminiscenze di antico realismo ha saputo cogliere i segni del mio essere, il monolito goffo del destino.

Mi hanno fatto un monumento a Erevan, città di gelo e sangue che non si riesce a lavare via. Mia madre quando era poco più che una ragazza è riuscita a sfuggire ai massacri, agli stermini condotti con studiata ferocia dai Turchi. Io, con questa faccia che mi ritrovo da sempre e che adesso cerco di guardare allo specchio meno che posso, non sono riuscito a sfuggire ai cocktail, alle chiacchiere e alle risatine chiocce e taglienti sulla Croisette di Cannes bombardata dai flash e da stormi di mondanità scagliata sui buffet.

Ho vissuto e campato con questa voce densa di pianto tra piatti di foie gras e bottiglie di vino di Borgogna. La Francia in cui sono nato e in cui ho vissuto da sempre preferisce coccolarmi e tenermi nel ghetto della pietà. Per loro sono e resto un armeno. Un profugo, eternamente tale. Sono un profugo, anche a casa mia, nella mia patria. Ho avuto successo, gloria e argent per la mia voce vibrante di commozione, radicata nel ricordo di sofferenze ataviche. Così mentre canto canzoni d’amore e perfino giocose loro tranquillizzano le coscienze e tutta la loro solidarietà e la loro pena diventano melodiche, addomesticate. La coscienza danza serena un ballo lento o briosamente ritmato.

Io sono il Frank Sinatra di Francia, così hanno detto e scritto. Ho giocato a interpretare il ruolo dell’istrione, di modo che ciascuno potesse sentirsi più buono e più quieto. Come se ciascuno potesse dire a se stesso, nella sua testa, se lui, Aznavour, il dolore fatto persona, la figura seria e cupa dello struggimento, canta come un cardellino, allora possiamo stare tranquilli. Non è successo niente in Armenia, nessuna strage, nessun genocidio. Non è accaduto niente, così come non è accaduto ad Auschwitz, o a Plaza de Mayo. Forse hanno ragione quelli che dicono che non è stata altro che una normale prassi della Storia. Hanno ragione, o, almeno, possiamo smettere di interrogarci al riguardo e tornare di buona voglia e buona lena a pensare alle baguette, a Zidane, al can can e alla Bardot ancora giovane, soda e sorridente.

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Giacomo Leopardi, 29 giugno 1798

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Giacomo Leopardi, 29 giugno 1798

In occasione della ricorrenza della nascita di Leopardi, ripubblico un articolo sui suoi luoghi, sognati e poi finalmente visti, il mondo, la bellezza, e, in alcuni momenti, la felicità: vista, scritta, vissuta.

 Viaggi al centro dell’autoreA silviaIl giovane favolosoIvano MugnainiLeopardiLungarnoPisa

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Ci sono luoghi che ti entrano dentro, e senza accorgertene, ti trasformano. Fu così anche per Leopardi che a Pisa si trovò a vivere un periodo del tutto nuovo, un’epoca diversa, sia a livello creativo che sul piano esistenziale.
“Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare ad occhi aperti”, scriveva il poeta.
Una distanza minima quella di Pisa rispetto a Firenze, la città dove risiedeva in precedenza, ma resta comunque grande la distanza tra il Leopardi fiorentino da quello pisano. La domanda, the question, è pertanto la seguente: fu la città di Pisa a trasformare il poeta, oppure, semplicemente, gli consentì di manifestare ciò che aveva sempre avuto dentro, una componente essenziale del suo modo di essere e di sentire, una sua natura alternativa, se non, addirittura, preponderante? Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto un illustre collega di Leopardi. Il problema è che noi, hic et nunc, ampiamente posteri, siamo anche ampiamente incerti riguardo ad una possibile risposta.
Parafrasando Montale potremmo dire che tutto ciò che sappiamo è quello che non abbiamo, quello che non è.
Di sicuro Leopardi non era e non è la figura deforme e monocorde stigmatizzata in molti libri scolastici in stile Bignami.
Non era e non è, Leopardi, il pessimista che esalta la fugace bellezza del sabato per poi ripiegarsi frustrato nel disincanto della domenica. Non è quello che gli adolescenti di oggi, con una definizione sbrigativa ma efficace, definirebbero un “gobbetto sfigato”.

(l’articolo completo, a questo link: http://www.ivanomugnaini.it/giacomo-leopardi-29-giugno-1798/ )

STELLEZZE di Paola Febbraro

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Una mia nota di lettura a STELLEZZE di Paola Febbraro. Un libro atipico, arcano, solare, crudo e dolce, lieve e intenso. I.M.
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Nota di lettura a Stellezze di Paola Febbraro, a cura di Anna Maria Farabbi, Lietocolle, Faloppio, 2012

Leggendo i lavori di un poeta scomparso spesso si ha l’impressione di percorrere le stanze di un museo, prendendo visione degli armadi e degli archivi, delle catalogazioni attente, precise, definitive. Tutto questo non accade con il libro Stellezze di Paola Febbraro. Non accade in virtù di quell’esuberanza irrefrenabile che nasce dall’incontro alchemico tra l’ebbrezza infantile, conservata avidamente e golosamente da Paola fino in fondo, e il pensiero, autenticamente libero, filosofico senza rigori sterili a cui dava vita e da cui riceveva la curiosità, l’impulso ad esplorare, nonostante tutto. La parola “vita” è quella che emerge alla mente e riecheggia dentro con più frequenza e nitore leggendo questo volume curato da Anna Farabbi ed edito da Lietocolle. La vita nel suo insieme, in quella totalità complessa, multiforme, composta di ossimoriche misture, moltitudini e solitudini, pazzie e ragioni, piaceri e dolori. Non si tratta di un paradosso né di un guanto di sfida lanciato in faccia al destino da un’artista che ci ha lasciato troppo presto. La sua vittoria sulla morte è spontanea, naturale, non cercata né voluta. È resa possibile, lo si percepisce pagina dopo pagina, dal modo in cui l’autrice ha saputo percorrere il mistero, il suo, individuale, e quello di tutti. Con un modo sincero di attraversare la strada che le è toccata e che ha scelto: guardando negli occhi il sole e la pioggia, cantando con amore perfino alla morte, alla solitudine, alla pena. Senza astio. Con la dolcezza di chi sa di possedere il dono ed il peso della parola, la condanna meravigliosa e terribile chiamata poesia.
Si può permettere allora di trasformare il tempo in una serie di disegni abbozzati, quasi fumettistici, quelli riprodotti sulla copertina del libro. Per sfuggire alla ripetitività routinaria degli obblighi e della solitudine, l’ironia si fa schizzo, sarcasmo difensivo, una terra di nessuno tra la gioventù e l’età adulta. Estrema serietà e solida leggerezza. Il volo di una farfalla trasforma un volo effimero in un segno, una traccia di simboli e richiami tracciati nell’aria, invisibile solo a chi è cieco dentro. I versi di Paola Febbraro parlano della sua esperienza esistenziale, sono l’eco dei suoi gesti, i suoi incontri, i passi del suo cammino. Eppure questo apparente egocentrismo in realtà è ampia, vigilata, deliberata richiesta ed offerta di condivisione. L’altra parola chiave rilevabile è, accanto a vita, condivisione. Il libro stesso è una forma di dialogo continuativo, ininterrotto, con Anna Farabbi e con coloro che hanno saputo leggere i versi di Paola quando era in vita, spartendo con lei lo spazio abitabile di questo tempo e questa terra. Ma anche per chi scopre l’autrice per la prima volta grazie a questo libro lo scambio è “immediato e irrimediabile”, come si annota adeguatamente nella nota introduttiva al volume. Si tratta di baratto, giustamente: la voce di Paola Febbraro chiede in cambio un’altra voce, un confronto. Non accetta una neutra e comoda moneta, pretende che chi riceve offra altrettanto, metta in gioco se stesso, qualcosa di ugualmente lieve e imprescindibile: “il canto si offre da solo, da solo con l’ascolto di chi gli va incontro”, non a mani vuote. Non è un caso che l’autrice avesse l’abitudine di trascrivere estratti da opere altrui; la poesia affonda le proprie radici in un terreno fertile, le radici ed i rami si sfiorano e si intrecciano.
Alcune lettere dell’autrice, pubblicate nella parte iniziale del libro, mettono a nudo gli elementi, la chimica essenziale del suo processo di creazione e ricerca, nel senso di esplorazione e di moto verso un luogo, e verso una presenza, auspicata, anelata. La base primaria è l’immediatezza, la riscoperta delle componenti naturali: in primis le sensazioni in apparenza semplici, in realtà complesse e ardue come terreni di conquista. La fiducia, ad esempio: “nessuno niente niente e nessuno è stato così rivoluzionario per me quanto avere fiducia in un’altra donna”, annota. Ed è rivelatore, emblematico, scoprire che questa conquista nasce da un gesto piccolo, quotidiano: un abbraccio, un contatto istantaneo tra due corpi, due entità. Poco dopo, puntuale, nella lettera in questione così come nei versi dell’autrice, all’emozione profonda, primordiale, subentra la riflessione, il pensiero, il rovello della mente. Ma anche la filosofia della Febbraro è personale e leggera, umana, vitale, danzante. Il trucco è, per usare le sue parole, “accogliere in maniera diversa/ la pazzia”. Sì, perché come ogni artista che sente la sostanza del suo agire nel mondo, l’autrice sa bene che “le parole fanno”. E altrettanto bene è conscia della distinzione tra “un poeta che canta e un poeta che scrive”. Non ultima, consequenziale, la consapevolezza estrema, la coincidentia oppositorum: “gli indiani sanno vivere la costruzione e la distruzione. Mi piacciono molto”. Quasi a presagire, ad anticipare. Ma anche come atto consapevole di speranza concreta: la voce e la musica resistono e persistono. Anche nel silenzio apparente della fine. Da qui l’auspicio, il progetto, vibrato nell’aria più che redatto: “io voglio andare dove cinguettano/ ogni tanto non per sempre”. Là dove quel “non per sempre” è autentica, duratura libertà.
Nei suoi versi, nelle sue lettere, nella sua biografia esistenziale e letteraria, Paola Febbraro ha saputo e voluto distinguere bene la sua storia, quella con cui ha desiderato ricongiungersi, con la storia esterna, quella che alcuni scrivono con la s maiuscola, quella che “è veramente un’altra cosa”. Lei, come poeta, non ha soltanto cercato di andare incontro alla sua fortuna, ma ha saputo “portarla, esserlo. Come se questa fosse una forma di maternità”. L’elemento femminile, il liquido amniotico dell’essere e del percepire è stato per lei intima ispirazione e forza.
Ciò le dona la certezza che la consunzione ha un suo scopo: “brucio per diventare asciutta”. Per ritrovare la forma primaria dell’essere, quella commistione connaturata di principio e di epilogo, di isolamento e di immersione totale nella globalità del senso e dell’assenza di senso, nel tempo e nella sua assenza. In tale ottica può permettersi di osservare che “per fortuna che c’è la morte per fortuna/ Altro non si possono inventare e non ci tocca”. E, sulla base di questa riflessione, può dire, e dirci, con sobrio sorriso, che il mondo “è solo […] qualche chilometro di strada asfaltata”. Esclamando, un verso dopo, “Meglio!/ Mondo? Ma è solo una giornata!”.
Così, senza retorica, senza forzature, consci delle reciproche ferite e delle braccia che ancora sanno fare schermo e barriera, possiamo dialogare con i versi di Paola Febbraro, e comprendere per un istante, non solo con la ragione, quando ci invita, lirica dopo lirica, pagina dopo pagina, a “spogliarci nudi alla gentilezza/ quella danza a fil di sonno che tutto allarga schiara/ di una luce sola”. Da onesto e benevolo giocatore, Paola, strizzandoci l’occhio, ci lascia sbirciare per un attimo anche le sue carte, mostrandoci che “non c’è da riflettere/ le onde del mare sono mamme solitarie”. Qualche verso più avanti la rivelazione è ancora più ampia e generosa: “la calligrafia non si leggerebbe/ tanto è sottile ora quello che divide il capo dal sole”. Qui tuttavia la vista non basta. Le carte messe a nudo vanno anche interpretate. Tocca a ciascuno di noi dirci cos’è che davvero divide il capo dal sole. In cosa consiste per l’autrice che ci chiama in causa, e in cosa consiste per noi, per i versi e i pensieri che da lei nascono e portano con loro. “La poesia scritta ha qualcosa di triste perché toglie/ alla vita chi la scrive”, dichiara con schiettezza Paola Febbraro. Potrebbe sembrare una pietra, una macigno che nessuno può neppure sognare di spostare, nessun Lazzaro è ipotizzabile. Ma c’è un ma, è quel ma si chiama poesia, veleno e antidoto: “ma ecco che senti anche tu come la parola vita sia quella che ci toglie/ a noi stessi noi stesse/ quasi la ragione”. In questa dicotomia, in questo contrasto, c’è la ricerca di senso ulteriore, il fascino arcano, lieve e profondo di questo libro che ci invita, con possente lievità, a scoprire il segreto delle sue “stellezze”, quelle luci immaginarie e reali, percepibili ed immaginabili, che costituiscono l’enigma dell’esistere, del bruciare nel vento, senza smettere mai di cantare, al mondo e del mondo.
Ivano Mugnaini

Antonia Pozzi – settimana di studio

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LA CASA DELLA POESIA
Milano
Perché la poesia ha questo compito sublime.
Ad Antonia Pozzi nel centenario della nascita
Settimana di studio
Milano, 3 – 8 maggio 2012
A cura di Matteo M. Vecchio
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PROGRAMMA
Giovedì 3 maggio
Casa della Poesia, Palazzina Liberty (parco Vittorio Formentano, largo Marinai d’Italia)
ore 17
Tavola rotonda. Antonia Pozzi e/a Milano
Marisa Bulgheroni, Marco Dotti, Tomaso Kemeny, Giancarlo Majorino, Alessandro Quasimodo,
Mariapia Quintavalla, Antonio Riccardi, Tiziano Rossi, Matteo M. Vecchio
ore 21
Processo ad Antonia Pozzi
A cura di Alessandro Quasimodo e Paola Ciccioli
Con la partecipazione di Giuseppe Amatulli, primo corno dell’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi
(musiche di Benjamin Britten)
*
Sabato 5 maggio
a partire dal Liceo Ginnasio Manzoni (via Orazio, 3)
ore 10
Passeggiata d’Autore. Itinerari urbani letterari.
I luoghi e gli itinerari di Antonia Pozzi, Vittorio Sereni, Gian Antonio Manzi, Eugenio Colorni,
Antonio Banfi
a cura di Matteo M. Vecchio
– Liceo Manzoni, Aula Magna;
– via Carducci;
– corso Magenta, 50 → residenza di Antonio Banfi
– via Ruffini, 4/6 → Scuola Elementare Ruffini
– via Mascheroni, 23 → residenza di Antonia Pozzi
– via Pagano, 42 → residenza di Vittorio Sereni
– via Pagano, 65 → residenza di Gian Antonio Manzi
– via Guido d’Arezzo, 8 → residenza di Eugenio Colorni
Letture di Mariella Parravicini
*
Martedì 8 maggio
Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori (via Riccione 8)
«Cenni per un nostro clima». Antonia Pozzi, Milano, la «singolare generazione»
Convegno di studi
ore 9,45
Presiede Matteo M. Vecchio
Fabio Guidali
(Università degli Studi, Milano; Freie Universität, Berlin)
Antifascismo cum figuris. Arte e politica nella Milano di Antonia Pozzi
Marcello Gisondi
(Università degli Studi Federico II, Napoli; Ludwig-Maximilians-Universität, München)
Un giovane maestro: Antonio Banfi teoretico
Georgia Fioroni
(Université de Genève)
«E a noi | forse sovviene di un istante, quando | qualchecosa si perse»: Antonia Pozzi 1937
Leda Bellanova
(Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano)
Identità e relazione nella poesia di Antonia Pozzi: per una riflessione sul tema dell’«incontro» tra l’Io,
l’Altro, il Mondo
Ore 14
Presiede Georgia Fioroni
Matteo De Simone
(Associazione Italiana di Psicoanalisi, A.I.Psi; Coordinatore della Commissione Cultura dell’Associazione
Italiana di Psicoanalisi, Presidente della sezione romana dell’International Association for Art
and Psychology)
Sostare in riva alla vita. Note sulla poesia di Antonia Pozzi
Chiara Pasetti
(Université de Rouen; Università degli Studi Roma Tre, Roma)
Antonia Pozzi e le opere giovanili di Gustave Flaubert
Matteo M. Vecchio
(Università degli Studi, Firenze; Université Paris-Sorbonne, Paris IV)
Antonia Pozzi e l’officina ideologica di Flaubert negli anni della sua formazione letteraria
Ornella Spano
(Università degli Studi, Cagliari)
Per una lettura ecocritica di Antonia Pozzi traduttrice di Manfred Hausmann
Serena Cacchioli
(Scuola per Interpreti e Traduttori SSLMIT, Trieste; Università degli Studi di Pisa)
Antonia Pozzi e le voci femminili della poesia lusitana

Con il patrocinio scientifico di

Enciclopedia delle Donne
Milano
Fondazione Carlo e Marise Bo
per la Letteratura Europea Moderna e Contemporanea
Urbino
Fondazione di Studi Storici Filippo Turati
Firenze
Fondazione
Orchestra Sinfonica e Coro Sinfonico di Milano Giuseppe Verdi
Milano
Giuliano Ladolfi Editore
Borgomanero
Istituto Comprensivo Statale Giovanni Pascoli
Milano
Istituto di Studi Filosofici Antonio Banfi
Il Mauriziano – Reggio Emilia
«Italian Poetry Review»
Columbia University – Department of Italian
The Italian Academy for Advanced Studies in America
Fordham University – Department of Modern Languages and Literatures
University of Washington – Division of French and Italian Studies
New York
la Feltrinelli
Milano
Liceo Ginnasio Statale Alessandro Manzoni
Milano
Provincia di Milano
Assessorato alla Cultura
Milano
Satisfiction
Milano