“Scritti, abbozzi, forse poesie” di Gianandrea Cocco – recensione

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La “linearità” espressiva conduce in modo spontaneo, nella scrittura di Gianandrea Cocco, ad una solennità primigenia, non di maniera, non studiata né artefatta.

Una mia recensione al libro di poesie di Gianandrea Cocco.

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GIANANDREA COCCO

Scritti, abbozzi, forse poesie

Recensione di Ivano Mugnaini


“Non mi cercare / dove mi hai lasciato ieri, / tra le macerie di un dolore / che più non mi appartiene. / Io sono già altrove / e con i deboli miei occhi / vedo panorami ignoti ai più”. Dalla raccolta di Gianandrea Cocco, scelgo, come introduzione per questa disamina, i versi riportati qui sopra. Hanno, infatti, un carattere riassuntivo, in grado di riepilogare alcune delle tematiche principali. Innanzitutto la natura “dialogica” delle liriche, improntate alla descrizione dei giorni e degli stati d’animo del poeta ma mai come semplice cronaca o sfogo autoreferenziale. L’autore dei versi di questo libro ha sempre in mente un destinatario, un ascoltatore, un lettore ideale ma anche assolutamente reale, qualcuno a cui dire e dirsi, con la forza della sincerità.

I versi introduttivi ci parlano anche di un percorso, un cammino esistenziale non agevole affrontato sempre con tenacia e con il sostegno delle proprie convinzioni, degli ideali e dei principi, vissuti e creduti nel profondo. C’è, inoltre, altrettanto nitida, la consapevolezza della propria “specificità”, percepita non come un limite, ma, al contrario, come un privilegio, al punto che la debolezza diventa occasione per vedere oltre, e per vedere ciò che gli altri non riescono a cogliere e a interiorizzare.

          Il libro di Gianandrea Cocco si basa sulla reiterazione di temi ricorrenti, particolarmente cari al poeta. Una specie di prolungato “mantra” in cui tuttavia ogni formula aggiunge un dettaglio, una nota, una variazione significativa che fornisce un nuovo accordo alla sinfonia.

Nella poesia “La bizzarra sorte” osserva: “Vedo quello che non guardo, / sento quello che non ascolto. / Con il cuore prima dei sensi / io mi muovo nella vita / percependo senza volerlo / ciò che altri mai hanno notato”. Prosegue poi aggiungendo un elemento di particolare rilievo: “È la sorte mia bizzarra / che mi rese vulnerabile / ma che ora è diventata / fonte di aiuto al mondo. / Ciò che sono, ciò che sento / è il talento da giocare / e da far moltiplicare / per far luce a chi mi è accanto. / Chi non dona ciò che è / perde tutto ciò che ha”. Anche in questa occasione gli spunti sono numerosi e interessanti. Si ribadisce il dono di una percezione specifica delle cose derivante dalle emozioni più che dai sensi. Ma sicuramente sono nuovi e rivelatori i versi in cui l’autore dichiara di potere e volere essere fonte di aiuto al mondo e di possedere un talento specifico che vuole manifestare e trasmettere.

Siamo ben lungi dallo stereotipo del poeta che si chiude nella proverbiale torre d’avorio innalzando inni alla solitudine o al proprio individuale dolore incomprensibile agli altri. L’autore di questo libro, pur avendo scelto come titolo per questa raccolta “Scritti, abbozzi, forse poesie”, titolo pregno di understatement, in realtà ha idee chiare e salda stima della funzione sia della sua esperienza esistenziale che del suo valore come esempio, anzi stimolo al cambiamento, quello stesso che lui ha vissuto e reso pratica concreta.

Va anche chiarito, a scanso di equivoci, che Cocco è ben conscio della difficoltà di comunicazione e anche di penetrazione, per così dire, della propria poesia all’interno di un mondo spesso poco avvezzo all’ascolto e distratto da mille altre voci e da innumerevoli echi di canti di sirene. La tenacia (parola chiave più volte ricorrente nel libro) lo spinge comunque a non fermarsi e a non tacere.

In parte, fatte le dovute e necessarie distinzioni, Cocco è una specie di Van Gogh della poesia. Predilige forme espressive lineari, apparentemente semplici; utilizza tematiche ricorrenti, i colori e le forme che illuminano il suo cuore e che desidera donare (come i girasoli del pittore olandese) a coloro che vede nel buio, ingrigiti nelle loro esistenze prive di slanci e di cieli da osservare e assimilare nella propria interiorità.

Come Van Gogh, anche Cocco non sembra concentrare la propria attenzione e le proprie speranze su un esito immediato e concreto della propria arte. Scrive perché sente la necessità di farlo, per comunicare se stesso, non per narcisismo ma perché auspica che qualcuno possa trovare nei propri “autoritratti” in forma di poesia una strada per cambiare, per vivere vite più degne e armoniche.

La poesia di Gianandrea Cocco è, come detto, piana, comprensibile. Non cerca raffinatezze astruse e ornamenti estetizzanti. È una poesia orientata sul dire che aspira al fare. Non è un caso che, anche a livello statistico, i termini più ricorrenti della raccolta siano con ogni probabilità “fare” e “cosa”. Non a caso nella nota introduttiva al libro è riportato: “Ho raccolto qui alcune delle cose che ho scritto fra il 2022 e il 2024 che appaiono qui non necessariamente in ordine cronologico”.

Non si tratta di un impoverimento o di un aspetto scabro e disadorno. Appare piuttosto come un’opzione dettata da istinto e volontà. Per invitare i lettori alla rivolta contro le brutture del mondo e contro la mancanza di sincerità e sentimento, non servono elucubrazioni complicate e fini a loro stesse. Sarebbe controproducente e anche contraddittorio. Serve una poesia diretta, un invito senza fronzoli a recuperare la sostanza del fare e del sentire. Si può dire che, nella sua sobrietà e naturalezza, la poesia di Cocco è un esempio di poiein reso fattivo. Si recupera la funzione primaria dello scrivere connesso al creare, nel senso di forgiare, dare forma ad un prodotto, un manufatto dotato di una funzione che trova la sua bellezza proprio nello scopo per cui viene realizzato. In estrema sintesi il fulcro della poesia di Cocco sembra essere proprio l’invito ai lettori a recuperare, nonostante il dolore e la frustrazione, il gusto di vivere e di amare. Per dirla citando i suoi stessi versi: “Una sola cosa si può dire / e una soltanto proclamare: / l’amore. / Se vogliamo che il mondo cambi / dobbiamo cambiare noi stessi / ed immettere amore / nella nostra egoistica società”.

La “linearità” espressiva di cui si è detto conduce in modo spontaneo, nelle poesie di Gianandrea Cocco, ad una solennità primigenia, non di maniera, non studiata né artefatta, e quindi efficace. Nella poesia “Offerta”, ad esempio, ribadisce “Non regalo le mie parole / a chi non sa ascoltare / né offro le mie visioni / a chi non le può vedere. / Ho differente anima / dalla massa della gente / e siedo solitario”. Poco oltre, nella stessa lirica, annota: “Camminerò di nuovo, / camminerò più forte, / andrò di nuovo avanti / incespicando a tratti, / correndo qualche volta, / sostando raramente. / Camminerò di nuovo / verso la mia direzione, / il percorso che mi aspetta / da prima che io fossi”.

Viena confermata con orgoglio la propria natura differente, peculiare, che, coerentemente, non conduce a sterile pianto né tantomeno alla resa. Subentra, di nuovo, la concretezza della speranza tramite il gesto, in questo caso tramite il verso “camminerò più forte” in cui l’azione concreta diviene specchio della volontà interiore.

Di notevole rilevanza sono anche i due versi conclusivi “il percorso che mi aspetta / da prima che io fossi”. Come l’autore ha dichiarato nella nota introduttiva, uno dei cardini e dei “propellenti” della sua scrittura è la fede. Anche in questo caso salda, più simile ad un invito al mutamento che ad una serie di riti esteriori. La fede per Cocco è sia meta che compagna di strada, pungolo al miglioramento e alla comprensione del senso del vivere.

          Altra peculiarità dell’autore, di pari passo alla tenacia fattiva, è un altrettanto caparbio e lucido ottimismo. Con riferimento ancora alla meta, ci offre questa perentoria definizione: “verso la certa meta / che a tratti / si svela o nasconde / ma sempre / mi è davanti”. Siamo agli antipodi dell’immagine del poeta che si logora nell’inazione. Nonostante le difficoltà e i dolori che ha vissuto, Cocco procede costantemente in direzione di un luogo che, nella sua visione, è già dentro di lui. E nonostante la consapevolezza che le parole del poeta spesso cadono nel vuoto o non sono comprese, egli prosegue quel dire e quel dirsi: “Mi capiranno i pochi / ma sono loro i veri / compagni di cammino / della mia terrestre vita”.    

          Il tema della “visione” del poeta è presente da sempre in poesia. Contrapposto al poeta “vate” romantico, c’è il poeta “veggente” in grado di cogliere ciò che gli altri non possono apprezzare. Viene in mente, tra gli altri, Baudelaire, ma anche in ambito a noi più vicino, Giovanni Pascoli, il quale ha teorizzato il “fanciullino” che è presente in ogni uomo che riesce ad esprimersi solo attraverso il poeta, l’unico in grado non solo di ascoltarlo ma anche di dargli una voce.

Utili e consone in questo contesto anche alcuna considerazioni di Mariangela Gualtieri espresse nell’intervista a cura di Gianluca Garrapa nella rubrica “Il senso del verso” per la rivista online “Poetarum Silva”. Parlando dei cinque sensi, con specifico riferimento alla vista, la Gualtieri osserva: “Il poeta guarda lì dove tutti guardano, in quella che sembra la realtà ordinaria e vede ciò che gli altri non vedono. Dunque vede in sottigliezza e presagisce ciò che non si vede. Il poeta si dispone davanti al nulla, in ascolto, in attesa, e da quel nulla prendono vita le parole, se si ha il dono di un io diminuito e di una attenzione plenaria. Dunque direi che il poeta vede il nulla, sa reggere quell’appuntamento e sa farsi fecondare.”

Un’ultima, altrettanto profonda osservazione, è quella di Pasternak: “Il poeta vede, al tempo stesso e da un punto solo, ciò che è visibile a due, isolatamente.”

          Vedere altro e vedere oltre, dunque, e rendere partecipi altre persone di quello che ha nel cuore, è questo che si prefigge Cocco. Tutto ciò ha senso nell’interazione con gli altri con “chiunque / voglia essere se stesso / e mostrarsi senza maschere / in un rapporto onesto / volto a crescere insieme / camminando verso il destino”. Niente maschere pirandelliane quindi, e, nella visione dell’autore, il suggello necessario della fede che gli permette l’accettazione profonda anche dell’imperscrutabile: “ancora io fatico / ad alzare a Lui il mio grido / confidando che il Suo progetto / è migliore del mio sogno”.

          Tutto ciò è realizzabile, secondo il poeta, se si tiene conto che la vita è un dono, e il tempo un patrimonio da non sprecare. La conclusione abbina anche in questo caso semplicità e profondità immediata, in qualche modo istintiva: “puntare verso l’alto, / lasciare le zavorre / puntando al cielo. / È faticoso vivere / ma lo dobbiamo fare”. L’esperienza individuale, per Cocco, è unica e preziosa, e a se stesso affida il compito essenziale: “sanare lo squarcio antico / generando il mio nuovo essere”.       

Consapevolezza lucida, fede fattiva e presa di coscienza della propria peculiare visione del mondo e della vita. Sono questi i cardini della poesia di Cocco. Nella poesia “Solo un cuore” scrive: “Sono l’inetto […] Eppure sono vivo / su questa terra triste / e con i miei deboli occhi / contemplo cose da altri non viste.”

    Ivano Mugnaini

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https://www.mondadoristore.it/Scritti-abbozzi-forse-poesie-Gianandrea-Cocco/eai978889496451/

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