Letti sulla Luna – rubrica

Ixòe de aria – Isole d’aria – poesie in tre versi di Donatella Nardin

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Nella nota introduttiva al libro, Donatella Nardin precisa che Ixòe de aria – Isole d’aria è il frutto del suo peculiare interesse per gli haiku, ma precisa che pur avendo tentato di aderire ai canoni sia stilistici che concettuali del genere si è presa “alcune libertà come quella di usare il dialetto odierno delle isole treportine/veneziane”.
Questo brano dell’introduzione (e questa considerazione vale sia per questo specifico volume che a più ampio raggio per tutta la produzione poetica della Nardin) conferma che la poetessa sa affiancare allo slancio e alla passione uno studio, una preparazione preliminare che incanalano l’ispirazione nell’alveo di un’espressione conscia che, senza perdere niente della freschezza e dell’immediatezza, consente di produrre lavori compiuti e maturi.
L’utilizzo degli haiku nell’ambito della poesia occidentale è un’operazione complessa e rischiosa. Perché all’origine del genere haiku ci sono secoli di cultura, usanze, visioni del mondo che sono di difficile comprensione e assimilazione. I poeti consapevoli e attenti, come la Nardin, sentono, per istinto oltre che per riflessione profonda, che un tentativo di riproduzione pura e semplice dell’haiku in una lingua differente e in un contesto estremamente diverso darebbe dei risultati insoddisfacenti, rischiando perfino il tonfo nel bathos, nella comicità involontaria.
Se invece, ed è il caso di Ixòe de aria – Isole d’aria, la forma poetica giapponese viene presa come modello di riferimento per creare una forma di poesia breve che dagli haiku prende il meglio senza tentare un vano scimmiottamento, allora il risultato è pregevole ed aiuta anche noi occidentali a cogliere nel giro di poche sillabe il legame profondo tra la Natura e gli esseri viventi, tra un momento del tempo e l’eternità che è concessa agli uomini, vale a dire l’emozione e la percezione profonda della bellezza.
Come osserva Massimiliano Bardotti nel giudizio espresso riguardo alla raccolta della Nardin risultata finalista al concorso Narrapoetando 2024, si rileva “in questi Haiku una grande aderenza alla tradizione, con la particolare nota del dialetto. E qui si apre un’altra pagina straordinaria di tradizione legata alla poesia dialettale. Ecco, due tradizioni che si incontrano e in maniera così naturale, questo ho molto amato. E poi l’occhio del poeta (o della poetessa) che osserva intorno a sé e tutto vede, e nel cantarlo appunto lo eterna, e ci rende intatta la misura di chi siamo, e di come viviamo.”
È un parere condivisibile, che offre altresì vari spunti di interesse. Il riferimento al dialetto, innanzitutto. La Nardin stessa, nella nota introduttiva in parte già citata, ci offre, a fianco ad alcuni dettagli che sono forse di pertinenza di alcuni specialisti del genere haiku, considerazioni sul dialetto che, al contempo, ci forniscono parole chiave e indicazioni sull’angolazione da cui osservare i suoi ritratti del tempo e del mondo: “pur avendo tentato di aderire ai canoni sia stilistici che concettuali del genere quali, ad esempio, il costrutto canonico dei tre versi espressi in 17 more o sillabe, l’uso del kigo 季語 (riferimento stagionale) anche solo evocato e del kireji 切れ字 […] mi sono presa alcune libertà come quella di usare il dialetto odierno delle mie isole treportine/veneziane per tentare di sottolineare ed evidenziare, nella lingua degli affetti e delle radici, quanto siano intrecciati in modo inestricabile il tempo umano, il paesaggio e il linguaggio nel dare voce a un canto solo apparentemente semplice e sommesso.”
Con acume, forse ancora una volta grazie alla coesistenza di istinto e ragionamento, la Nardin ha compreso che per esprimere e trasferire nel contesto attuale e in ambito occidentale una forma poetica che ricerca l’essenza, il senso privo di orpelli, era utile e forse necessario fare ricorso ad una forma espressiva il più possibile naturale, primigenia, appresa dai sensi prima ancora che della ragione. Il dialetto è una lingua che si assimila senza il filtro dell’apprendimento. Con la visione e con l’ascolto immediati, liberi dai vincoli del pensiero e delle metodiche scolastiche.
Il dialetto come modello espressivo primigenio ben si adatta ad una poesia il cui intento è racchiudere nel giro di poche sillabe l’essenzialità della vita, adeguatamente definita dall’autrice stessa “un canto solo apparentemente semplice e sommesso”.
Altrettanto utili e consone, in quest’ambito, sono le osservazioni che Alessandro Ramberti propone nella postfazione al libro: “subito, nei versi in esergo, Nardin ci invita a sintonizzare il battito. La metrica, la musica si basano del resto da sempre sulle pulsazioni del cuore, sul ritmo del respiro. Come fin dai tempi ancestrali l’uomo osserva il cielo, conscio di quanto mistero lo circondi in alto, attorno a sé e in quanto sta sotto i suoi piedi, così il canto della poetessa lagunare osserva e vibra nitido e ripieno di stupore: “Astri celesti – / il poco visibile / dell’invisibile” (p. 16); “(…) nell’oltretempo è viva / la tua presenza” (p. 47); “Le ultime viole – d’altri mondi il respiro / dentro di noi” (p. 65).
Il paesaggio non è un mero correlativo oggettivo, ma la fonte stessa di una energia che ci è necessaria per vivere, per essere, per empatizzare”.
Efficace, a mio avviso, e in gran parte rivelatore è anche il titolo della raccolta Ixòe de aria – Isole d’aria. L’aria è il più impalpabile degli elementi. Invisibile, incorporeo. Eppure assolutamente vitale, imprescindibile. Ricorda la poesia, e forse in particolare il genere scelto per fare da modello a questa raccolta, l’haiku: un soffio di sillabe che insegue un senso e un’immagine che mentre la esprimi è già mutata, virata verso altri colori e altri orizzonti. Eppure, a dispetto di tutto, resta, nel tempo, quella pennellata, quel tocco lieve di parole. Rimane perché in fondo la natura umana è costituita dallo stesso mistero, da un’identica dicotomia: l’effimero e, sull’altro versante, una tendenza a cercare il senso profondo di un attimo, quello che, per qualche arcana mistura interiore, sfugge alle regole del tempo e alla sua furia distruttiva.
Accade così che le isole, in apparenza i frammenti di terra più fragili ed esposti alla furia del mare e degli altri elementi, in realtà restino, sopravvivano, si vestano di bellezza, di racconti reali e di leggenda, di vita e di mito trasformando l’immagine di un’onda in una metafora concreta di qualcosa che scorre eppure permane.
Così, su questa liaison solo in apparenza impalpabile, Donatella Nardin ha saputo cogliere, intuire ed esprimere la connessione tra il mare del Giappone e la laguna veneta. Ha saputo manifestare connessioni profonde tramite componimenti di tre versi in cui però c’è ogni volta un mondo che il lettore può osservare e confrontare con il suo orizzonte.
In tal modo le isole acquistano la consapevolezza, in quel “ritmo del respiro” che è da sempre universale, che in fondo esistono connessioni prerazionali, innate, che fanno sì che anche mondi distanti possano cantare all’unisono, ognuno con le sue forme, le sue radici, le sue tradizioni. E i canti condivisi, creano (o creerebbero) tra gli uomini, arcipelaghi di armonia.
La raccolta della Nardin contiene ritratti della vita (nel libro resi visivamente in modo mirabile dalle illustrazioni di Dante Zamperini), miniature realizzate con cura orientale e passione mediterranea. Ve ne propongo qui una manciata. Ma l’invito è quello di sempre: cercare il libro, incuriosirsi e mettere a confronto le proprie emozioni con quelle dell’autrice, condividendo la stessa aria e la magia misteriosa ed essenziale dell’esistere.

IM

Copertina della raccolta Ixòe de ària-Isole d'aria di Donatella Nardin_page-0001

page00017b635a4c2471a07c6a20c1092373af19-0Mia foto a colori

 

Curriculum biobibliografico di Donatella Nardin

Sono nata e risiedo a Cavallino Treporti-Venezia. Dopo gli studi classici, ho lavorato nel settore turistico anche con incarichi dirigenziali. Mie poesie e racconti, pluripremiati in numerosissimi Concorsi Letterari, sono stati inseriti in raccolte collettanee di diverse Case editrici, in Antologie di Concorsi Letterari, in alcune riviste di settore, in siti web e in lit-blog dedicati, anche stranieri. Alcune mie liriche sono state tradotte in inglese, in francese, in spagnolo, in polacco e in giapponese.
In poesia, ho pubblicato: per le Ed. Il Fiorino la silloge In attesa di cielo e la raccolta di haiku Le ragioni dell’oro, per Fara Editore i libri Terre d’acqua, Rosa del battito, L’occhio verde dei prati – quest’ultimo con versione inglese a fronte a cura di Ivano Mugnaini – e questa ultima raccolta di haiku Ixòe de ària/Isole d’aria in versione vernacolare con relativa traduzione in italiano, per Aletti Ed. Il dono e la cura con la traduzione in arabo da parte dell’Accademico Emerito Professor Hafez Haidar e per le Edizioni Eikon/Cosmopoli, nella collana diretta da Eliza Macadan, la plaquette Infloriri de Umbre/Fioriture d’ombra nella versione bilingue romeno/italiano.
Mie sillogi brevi sono inoltre risultate vincitrici di selezioni per i volumi antologici L’altra metà del cielo Ibiskos Ulivieri Ed. per Distanze obliterate Puntoacapo Ed. e per il Premio di Poesia Città di Mestre Mazzanti Libri.
A maggio 2023 alcuni miei testi sono stati selezionati per essere presentati ed esposti alla Mostra Pro Biennale di Venezia e a luglio 2023 alcune mie poesie sono risultate vincitrici di selezione nella Sez. Poetry Collection Award e sono state declamate nel corso del Literature Festival Zehng Nian Cup che ha avuto luogo a Quingzhou City, nel Shandong in Cina.

 

Guardarlo ancora – Paesaggi e miraggi della passione amorosa, di Miriam Bruni

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“Nei miei testi cerco l’esattezza delle parole, la densità naturale dei loro significati; cerco un grembo per ciò che è inconcreto e perlopiù invisibile, e questi aggettivi, questi sintagmi, sono scaturiti in me come una sorgente che in modo limpido riflette il mio volto interiore, il mio profilo umano”, osserva Miriam Bruni nell’intervista rilasciata nel giugno del 2022 a Monica Baldini per la rivista Millecolline.

Leggendo il suo libro «Guardarlo ancora – Paesaggi e miraggi della passione amorosa» le sue parole prendono corpo e concretezza seppure nell’esaltazione di quella “invisibilità” incorporea di cui sono fatti i sogni, i pensieri, i ricordi, anche quelli più aspri e taglienti.

“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita”, ci ricorda Shakespeare nel lavoro più atipico e forse più sentito, più intimamente suo, della sua produzione drammaturgica, «La tempesta». Miriam Bruni dimostra e conferma di avere ottimamente assimilato la lezione shakespeariana. Eppure, con naturalezza, per istinto e volontà, per puro desiderio e sincera inclinazione, produce nei suoi scritti un interessante e coinvolgente ossimoro, anzi, una serie di ossimori che si allacciano e si intrecciano in viluppi che sono essi stessi espressioni variegate e autentiche di un’assoluta passione vitale, e vitalistica.

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Figlie uniche

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Una mia recensione al libro Figlie uniche,  di Claudia Marin.

Buona lettura, IM

Figlie uniche, copertina

Claudia Marin, Figlie uniche, Iride, 2021

Figlie uniche è fluido, scorrevole, divertente, ironico, in grado di sdrammatizzare in tutti i modi possibili le ferite della vita, the slings and arrows of outrageous fortune. Si legge con un sorriso, desiderosi di scoprire come procede, paragrafo dopo paragrafo, con rapida voracità. Ma, attenzione, qualcosa resta. Non scorre via anodino e indolore. Perché quell’acqua chiara, fresca, a tratti dolce e a tratti amara, si fa specchio di esistenze possibili, forse reali, forse del tutto inventate, ma di sicuro verosimili, umanissime. Parla simultaneamente di un universo circoscritto e dello spazio e del tempo che ciascuno vive dentro di sé, tra analogie e contrasti, nello scorrere ininterrotto che cambia e ci trasforma.
Costanza, la protagonista, avrebbe tutto per essere contenta di se stessa: la professione medica, il benessere finanziario, un marito devoto sempre presente nei momenti in cui c’è bisogno di lui. Ma il rapporto complesso e conflittuale con la madre la condiziona, la fa vivere con il freno a mano delle incertezze costantemente inserito.

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“Monte Stella”: il cronometro, la clessidra e il magnetofono

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Monte Stella (poesie 2014-2019) - Luigi Fontanella - Libro - Passigli -  Passigli poesia | IBS

  Monte Stella: Variazioni sul tema del tempo e della realtà

in Luigi Fontanella

 

Il riferimento alle variazioni sul tema richiama immediatamente la musica. Un mio professore del liceo sosteneva che la musica è matematica. Un altro sosteneva che è illogica astrazione. Entrambe le affermazioni sono vere ed entrambe sono false. È qui che subentra la poesia. La sola in grado di accogliere in sé il vero e il falso, la realtà è ciò che va oltre, sopra, sotto, nei meandri, nelle vene sotterranee, al di là del confine e del limite.

Il recente libro di Luigi Fontanella, Monte Stella, parla di moltissime cose. Spazia, racconta, immagina, disegna e compone. Ma soprattutto gioca, con “orrore” ma anche con il gusto di addentrarsi dentro un dedalo di “cose buffe”, con il Tempo, operaio, capomastro e inesorabile padrone della palazzina eternamente in affitto e perennemente in costruzione che è la Vita.

Per parlare adeguatamente di un libro ricco e complesso come Monte Stella bisognerebbe essere amici del principale e possedere moltissimo del suo materiale da costruzione. Qui ed ora, in questo spazio telematico, ciò non è possibile. Ma abbiamo comunque a disposizione un modo semplice e bello per fregare il “capoccia”: comprare il libro e leggerlo, con la dovuta calma e la dovuta attenzione che si riservano a parole che sono il frutto di anni di scrittura, di ricordi e di vita vissuta.

Hic et nunc, possiamo esplorare, come in un immaginario volo di aliante, il Monte eponimo.

In primis, qualche chiarimento sul titolo, in apparenza sibillino, di questo articolo. Conosco Luigi Fontanella da alcuni anni e ogni tanto mi reco nella sua casa fiorentina per fare una chiacchierata di aggiornamento. Sarebbe elegante e assez maudit dire che beviamo litri di Chianti, invece spesso ci gustiamo ottima acqua, oppure, visto che arrivo sempre nel pomeriggio, un tè. Poco british, ma sempre tè. Durante le nostre chiacchierate parliamo non solo di idee astratte ma anche dei modi concreti, dell’aspetto “pratico” dello scrivere, che poi, a ben pensare, influisce molto sulla forma e sui contenuti. Fontanella mi ha rivelato che spesso scrive di notte, nel dormiveglia, e che per poter annotare rapidamente le idee utilizza un magnetofono.  Ecco, credo che in questo oggetto, a metà strada tra modernità e tradizione, passione e riflessione, immediatezza e ragionamento rielaborato come materia onirica plasmabile, ci sia molto della poetica di Fontanella in generale e del libro di cui ci occupiamo ora in modo più specifico.

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On the other side of the moon – Cronache di estinzioni

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Nel weekend lo spettacolo della Luna piena della Neve - Tiscali Ambiente

On the other side of the moon

Osservazioni e note di viaggio

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Cronache di estinzioni

di Lucetta Frisa

Cronache di estinzioni. Si intitola così il libro che vi propongo oggi in questo spazio riservato alle segnalazioni di libri, spesso atipici (per loro merito e nostra fortuna) che ho letto con piacere. Questa rubrica di segnalazioni si chiama “Letti sulla luna”, e, nel caso specifico di questo libro, il luogo in cui idealmente sfogliamo le pagine appare quanto mai adeguato.

Ci siamo estinti, ci dice l’autrice, Lucetta Frisa. Più che una previsione per il futuro, la cronaca è un commento in fieri, se non addirittura un resoconto di eventi che già hanno avuto luogo. Ma immaginiamolo come il commento di una partita. Un match tra la bellezza del mondo e la stupidità umana. Anzi, potremmo sintetizzarla in questo modo: in diretta dallo stadio Azteca, il Peggio dell’Atletico Sapiens Sapiens contro il Resto del Bello del Mondo.

Questo non è tuttavia, è bene chiarirlo, solo un resoconto di eventi catastrofici, disastri ecologici e altre esiziali amenità. È un libro in cui l’autrice si chiede, e ci chiede, se abbia senso continuare ad essere come siamo e a vivere come viviamo.

Una domanda da un milione di dollari, o di talleri, a seconda delle epoche, in quanto è su questo interrogativo che si gioca da sempre il senso del fare poesia. Piera Mattei in una recensione al libro apparsa su “Perigeion” ha scritto: «Cronache di estinzioni è la raccolta poetica di Lucetta Frisa che più ho amato». Al di là delle classifiche, concordo anch’io sul fatto che questo libro abbia concesso a Lucetta di esprimere al meglio la gamma dei temi, dei modi e degli sguardi su sé stessa e sulla vita che le sono cari e consoni.

Ho incontrato Lucetta Frisa in varie occasioni. L’impressione dominante è una solarità assoluta e una grande capacità di dialogo, in grado di mettere a proprio agio perfino i timidi più ostinati. Eppure, nella sua tendenza alla giovialità c’è una parte della mente e del cuore che osserva e annota. Collocata on the other side of the moon, nella parte più silenziosa dei luoghi e dei tempi, la Lucetta cronista estrae il taccuino e scrive. Si appunta gesti, azioni, comportamenti e soprattutto il materiale di base, il combustibile che può accendere un falò nel buio ma anche generare tragicomici incendi: le parole.

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La morte di Empedocle – note di lettura

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Franco Di Carlo La morte di Empedocle, Edizioni Divinafollia, 2019

Molto è stato detto e scritto riguardo al recente libro di Franco Di Carlo La morte di Empedocle. Se ne occupati critici ed autori di spessore. Ne ho selezionati due, anche in virtù del loro speciale legame, professionale ma anche “empatico”, con l’autore di Genzano. Qui in calce troverete uno stralcio degli interventi dei due colleghi-amici di Franco: Cinzia Della Ciana e Giorgio Linguaglossa, con l’indicazione del link a cui potrete leggere gli articoli completi.

Nello spirito di questa rubrica, Letti sulla Luna, il cui intento è quello di indicare “oggetti terrestri” interessanti, spesso si tratta di libri, mi limiterò per quanto mi riguarda a fornire le coordinate essenziali e qualche mia impressione, da osservatore, consigliandovi di approfondire la conoscenza con i suddetti oggetti nel migliore, anzi, nell’unico modo possibile: cercandoli, e leggendoli (attività che è ancora possibile sulla terra, non è soggetta a restrizioni e, anzi, è consigliata).

“Non sono interessato alla poesia, / sono fatto di poesia e di nient’altro”, scrive Di Carlo. Ecco. Basterebbero questi due versi. Per tante cose. Una di ordine “pratico”: andare a cercare il libro e magari comprarlo. La seconda consiste nell’indicazione dell’impronta, dello stampo dei versi e dell’autore: la capacità di essere schietto, raccontandosi senza infingimenti, andando dritto all’essenza di ciò che davvero conta, i distinguo, le scelte, le condizioni innate e tuttavia rafforzate da anni di studio e dedizione assoluta e sincera.

Tertium non datur, sostenevano i latini. Invece qui un terzo elemento è concesso ed è rilevabile, ed è di natura “musicale” potremmo dire più che contenutistica (e qui Cinzia Della Ciana, poetessa legata alla musica, sarà contenta): si tratta del ritmo adottato, per volontà e/o per istinto da Di Carlo. Sintetizzando potremmo dire che si muove all’interno di una gamma di suoni, vibrazioni, assonanze e consonanze che oscillano tra classicità e modernità. O, meglio, è più esattamente, attualizzano, anche a livello di suoni, la classicità, ossia la capacità di dare peso ad ogni sillaba senza mai sovraccaricarla o renderla eccessiva, ridondante. “Gli dei camminano potenti – osserva l’autore – annunciano il barlume di una Mitica forma poetica”. Ogni scrittore e poeta, ma direi in termini più ampi ogni uomo, si sceglie un ritmo, una musica individuale. La propria colonna sonora esistenziale. E al ritmo di quella musica muove i suoi passi e fa muovere i propri pensieri, i gesti, le parole. Franco Di Carlo ha scelto una classicità attuale. Non attualizzata, è giusto specificarlo. La sua poesia è attuale perché si muove su cadenze che ricalcano la necessità della sostanza, della corporeità che si eleva alla ricerca di qualcosa che va oltre. Quell’essenza Mitica distingue l’effimero da ciò che permane. Questo aspetto è stato trattato anche da Silvia Denti nella nota introduttiva e da Andrea Matucci nella prefazione. Riguardo all’uso della rima Matucci opportunamente rileva che Di Carlo “ne libera talvolta la carica ironica nel ripetersi del distico baciato”, ma più spesso “ne sfrutta l’intensità sonora lavorando sui suoni della parola e sulle sue componenti germinative”. Leggi il seguito di questo post »