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IL CAVALLUCCIO MARINO e altri racconti – di Cristina Pennavaja

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La tecnica di Cristina Pennavaja, consolidata, affinata nel tempo da numerose pubblicazioni e dall’attività di insegnamento della retorica non isterilisce la sua vis creativa, non la rende paludata o prevedibile. Anche nei racconti contenuti nel volume IL CAVALLUCCIO MARINO E ALTRI RACCONTI, edito dalle Edizioni Di Felice nel 2013, l’eleganza del dettato, curato nei ritmi, nei toni e negli accenti, nelle sfumature e nella struttura, non offusca, anzi accompagna un’urgenza autentica del dire e del dirsi, una volontà genuina e coraggiosa di scavo, nel sé e nell’altro, nel dolore acquattato dietro muri candidi o lividi di apparenti normalità.
Come osserva adeguatamente anche Lidia De Federicis nella nota al libro, lo svolgimento indiziario dei racconti della Pennavaja “tiene il lettore abilmente avvinto per cenni e lo guida allo sconcerto finale.” Lo smarrimento finale a cui si fa cenno è preparato con cura da dialoghi credibili e descrizioni accurate di azioni e gesti, perfino di parole, perché la parola, specialmente nei momenti in cui le donne e gli uomini si trovano a dover mettere a confronto la propria natura più autenticamente umana con le pressioni dell’assurdo e del destino, è essa stesso gesto, azione di difesa, atto di esistenza e resistenza, nonostante tutto.
Emblematico, in tale ottica, è, ad esempio, il racconto intitolato proprio “Smarrimenti”. Inizia in modo brusco: “Imperioso come lo squillo del destino, il telefono suonò mentre Lena teneva il capo sotto il lenzuolo fingendo di dormire.” Il finale, invece, dopo mille vicissitudini, riassesta, anche dal punto di vista visivo, colori ed orizzonti: “Dalla finestra il chiarore della luna penetrava nella stanza. […] Mentre un suono vibrava in lontananza lei accoglieva la cieca, irragionevole felicità”.
Oppure, nel racconto eponimo, l’incipit assume una valenza sia logica che emotiva, un riferimento sospeso tra realtà e fantasia, ricordo e invenzione: “Intorno alle origini del cavallo si erano intrecciate diverse storie. Secondo nonno Alberto era stato creato da un artigiano di Udine, e acquistato, per lui e la sorellina Laura, da suo padre, che lo aveva portato nel Friuli, a Latisana”. Un modo efficace di determinare nel lettore l’attesa e la curiosità, ma soprattutto lo stato d’animo, la predisposizione all’emozione e a quella volontaria sospensione dell’incredulità da affiancare al desiderio di seguire vicende credibili e ottimamente documentate. Lo stesso vale anche per i racconti brevi ma intensi “Lezioni di stile” e “Una formalità sostanzialmente”, anch’esso sospeso tra dolore e speranza.
Lo stile in quanto modo del pensare e dell’immaginare, è la sintesi proposta dalla De Federicis per definire sia questo specifico libro, sia, in senso più ampio e generale, l’approccio di Cristina Pennavaja con la narrativa. Leggendo i racconti si comprende gradualmente la veridicità di questa descrizione e l’efficacia dell’accostamento. L’incalzare del ritmo, il crescendo, ma anche l’alternanza di tempi moderati e meditativi con passaggi più aspri vengono accompagnati e sottolineati da coloriture e accenti, citazioni di brani in varie lingue, lettere riportate come documenti di sentimenti trasmessi senza mediazione, senza filtro alcuno. La riflessione è tra le righe, tagliente, spesso priva di sconti.
Ma la parola, il racconto, la testimonianza, è sempre di per sé fonte di resistenza, è giusto ribadirlo. Come è opportuno sottolineare il ruolo non casuale ma fortemente simbolico della poesia posta ad esergo al libro, quella di Fernanda Romagnoli, dal titolo “Capro espiatorio”. Nei versi finali, come nei racconti di questo libro, si descrive l’uomo, la sorte, il destino, “già caduto sul fianco/ otre di sangue/ già mezzo vuoto”, eppure, a dispetto di tutto, c’è spazio e fiato per esclamare: “come scalci ancora/ forte, mia vita”.  IM