racconti

IN-CHIOSTRO Giovedì di autori e di libri

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Un luogo bellissimo e molti libri di autori che spaziano tra vari generi e tematiche ma sono tutti accomunati dalla verve espressiva e dalla voglia di raccontare il mondo che osservano e immaginano.
Segnalo volentieri l’iniziativa a cura di Elisir, ideata e curata da Manuela Minelli e Vanna Alvaro.
Buona estate e buoni giovedì all’insegna della lettura e del dialogo. IM

LOCANDINA CON PROGRAMMA

             

IN-CHIOSTRO Giovedì di autori e di libri

Incontri letterari con autori e libri a Borgo Ripa, Lungotevere Ripa, 3 – Roma

 

Si terranno tutti i giovedì a partire da dopodomani 4 agosto e fino al 29 settembre, con due diversi appuntamenti (18.45 e 20.00) gli incontri con i libri e gli autori chiamati a raccolta da Elisir, in collaborazione con Mondrian Suite, all’interno della suggestiva location che è il chiostro di S. Francesca Romana, ex convento del 1400 sito in Trastevere, nel cuore di Roma.
Otto serate per un totale di venti incontri e trenta autori (l’ultima sera verrà presentato un libro corale realizzato da undici autori italiani), una rassegna culturale che vedrà in scena autori di diversi generi, proprio per offrire al pubblico un panorama letterario diversificato: fiabe e favole, narrativa sociale, romanzi di formazione, saggi, romanzi storici, racconti, poesie, romance, thriller e tanto altro.
Siamo arrivate emozionatissime e assai cariche ai blocchi di partenza – affermano le signore di Elisir, Manuela Minelli e Vanna Alvaro – Lavorando ormai da tanti anni nell’editoria, siamo spinte dalla profonda convinzione che ogni forma d’arte possa e debba essere portata al di fuori dai contesti istituzionali e accademici, per coinvolgere il più ampio pubblico e mettersi al servizio dello sviluppo culturale e della crescita individuale e collettiva della città. E questo luogo magico, nel cuore di Roma, nella Trastevere più genuina e più vera, è sicuramente il luogo migliore che mai potessimo desiderare per la nostra Rassegna In-Chiostro, giovedì di autori e di libri per la quale abbiamo lavorato molto intensamente, proprio per presentare una Rassegna Letteraria capace di dare espressione e visibilità ad autori provenienti da tutta Italia.
MANU Fiabe
Sono molto soddisfatto della collaborazione avviata con Elisir, l’agenzia di Servizi letterari di coloro che, dopo tanto lavorare insieme, sono diventate amiche preziose, Manuela e Vanna, e del programma della maratona editoriale presentato da Elisir – afferma Klaus Mondrian – E  saranno serate dense di cultura, in cui tanta bella gente arriverà a Borgo Ripa, e potrà  fermarsi a sorseggiare cocktail o anche gustare le nostre specialità gastronomiche, ascoltando poesia e letteratura – gli fanno eco i gestori della location.
Immersa in un vastissimo giardino del cuore di Roma, oggi Borgo Ripa è considerata la location più elegante della zona Trastevere. Ma facciamo qualche passo indietro…Nel 1640 proprio nel cuore di Trastevere, alle spalle di piazza S. Cecilia, sorge un borgo appartenente all’antica dinastia romana dei Doria Pamphilj, che vanta anche un Pontefice, Innocenzo X, conosciuto come gran benefattore. Il magnifico giardino che lambisce le sponde del Tevere, il famoso “Giardino delle delizie”, apparteneva a Donna Olimpia Maidalchini Pamphilj, già cognata del Papa, conosciuta anche per la sua sagacia e furbizia, e soprannominata la Pimpaccia e anche la Papessa, per il suo forte potere e la condotta di vita sopra le righe. Si narra che in quel giardino storico, proprio dove si terrà “In Chiostro, giovedì di autori e di libri”, Donna Olimpia coltivasse ciliegie, prugne e albicocche. Ancora oggi rigogliosi alberi di fico, di limoni, aranci e cespugli di lavanda riparano dal sole e profumano l’aria. Una vera “delizia”, immortalata anche nelle tele del Vanvitelli.
Le attrici Giorgia Locuratolo e Roberta Frascati, in più serate, daranno voce e volto ai personaggi dei libri degli autori, per offrire al pubblico un mini spettacolo teatrale nello … spettacolo letterario.
Tutte le serate saranno riprese da HTO.tv web.
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Cover libri in rassegna 2
Chiostro dell’ex convento S. Francesca Romana – Lungotevere Ripa, 3 – Roma – Ingresso gratuito
Info: elisirletterario@gmail.com
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inizio corso II livello di Scrittura Creativa Emozionale

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Ricevo e volentieri condivido da Manuela Minelli e Vanna Alvaro la notizia riguardante questo corso di scrittura creativa emozionale.
E l’aggettivo “emozionale” è sempre bello da leggere. Porta sempre buoni frutti.
Qui sotto la notizia che ho ricevuto da Manuela Minelli.
Chi fosse interessato a ricevere informazioni più dettagliate può contattare Manuela Minelli e Vanna Alvaro tramite Facebook oppure attraverso il sito Elisir Letterario:  https://elisirletterario.com/ oppure ai numeri riportati nella locandina qui sotto pubblicata.
Buone letture e buone scritture, IM

Locandina corso scrittura emozionale

Elisir di Parole - raccolta di racconti
Cari tutti/e condivido con voi la notizia dell’ inizio corso II livello di Scrittura Creativa Emozionale, delle cui classi precedenti io e l’ altra insegnante, Vanna Alvaro, andiamo super fiere ed orgogliose in quanto gli allievi hanno tirato fuori racconti appassionanti, fantasiosi e ben congegnati e ben 4 di loro hanno vinto premi letterari. Tanto che di tutto questo materiale letterario ne abbiamo fatto un libro di cui sono andare a ruba in un mese quasi 200 copie ( infatti il libro è in ristampa).
Chi volesse info su programmi, modalità di partecipazione, costi (irrisori, euro 400 pagabili in due tranche x circa 30 ore di lezioni totali) può telefonare ai numeri in locandina o scrivere alla mail che trovate sempre lì. 
 PS: lezioni vengono tutte registrate e inviate in automatico al gruppo Whatsapp-classe, per sopperire in caso di perdita lezione oppure per approfondire argomenti trattati.
 Abbiamo ancora 5 posti, le classi infatti sono a numero chiuso per permettere un più efficace svolgimento delle lezioni.

Manuela Minelli e Vanna Alvaro

Elisir Letterario

La parola e il sogno

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Ripubblico volentieri un articolo originariamente uscito su Carteggi Letterari, rivista on line a cui altrettanto volentieri collaboro, https://www.carteggiletterari.it/2019/06/12/sogniloqui-di-stefano-taccone-iod-edizioni-2018-recensione-di-ivano-mugnaini/

Parla di un agile ma interessante libro che con divertita e serissima lievità si avventura nel regno dell’onirico, del bizzarro, dell’improbabile ma assolutamente vero, o verosimile: la vita, o la sua immagine riflessa in uno specchio.

Buona lettura, se potete e volete.

Buona estate a tutte e a tutti, IM

 

SOGNILOQUI di Stefano Taccone, IOD Edizioni, 2018 – recensione

Esiste un tipo di narrativa che, sul modello della filosofia, ma anche della musica e di altri ambiti artistici che mettono in connessione la ragione e l’immaginazione, esplora le zone di confine e si nutre di contrasti, ambivalenze ed ossimori oggettivi e concettuali, in seguito ristrutturati e restituiti, mutati, trasformati nel senso e nell’essenza.

Ciascuno ha in mente modelli rappresentativi e in qualche modo emblematici di questa tendenza espressiva che spazia dalle arti figurative a quelle in apparenza disgiunte dalla materia tangibile. Nei racconti di questo suo recente volume, Stefano Taccone ha avuto il merito, o forse l’istinto, di seguire la propria strada, un sentiero autonomo e sui generis, nel senso migliore del termine. Ha dosato gli “ingredienti” di questa mistura senza seguire alla lettera le dosi indicate nelle ricette e senza preoccuparsi troppo dei tempi, delle quantità e delle indicazioni di massima contenute nei volumi di riferimento.

Il prodotto di tale “esperimento”, condotto con divertita ma attenta cura, è un volume agile e godibile, gradevolmente spiazzante, come certe facciate barocche, lievi e tuttavia solide, giocose e in qualche modo cupe e solenni, come la vita. L’impressione è che l’autore abbia scritto questo libro con un sorriso serissimo. Come uno studioso che cerca modi per stupire, o almeno per spiazzare il proprio referente, ma allo stesso tempo è concentrato affinché tutto, anche l’incredibile e l’assurdo, anzi, soprattutto l’incredibile e l’assurdo, risultino assolutamente credibili. Veri, o talmente fittizi da essere o sembrare (che differenza fa?) più veri del vero.

Il titolo, come spesso accade, è una potente calamita, e, in una certa maniera, una prima chiave, seppure anch’essa volutamente storta, sghemba, al punto che non si comprende bene quale sia il lato giusto, o se vi sia un solo modo per adoperarla, o nessuno, o tutti insieme. “Sogniloqui” è una parola complessa e composita, adeguata vetrina, questo è certo, per i racconti a cui fa da titolo. Sogni ed eloqui, o soliloqui, o semplicente “loqui”, ossia, forse, un modo con cui dare voce ai sogni, parlarne, o lasciarli parlare. I sogni, intrinsecamente irrazionali, sfuggenti, incoercibili, vengono messi a confronto, incasellati, incanalati tra le pareti del linguaggio che, di per sé, per poter avere un senso e una funzione deve al contrario seguire schemi, regole, codici univoci. Da questo attrito, da questo costante braccio di ferro tra le due istanze contrapposte, nasce il carattere bizzarro e tuttavia lineare delle tranches de vie descritte da Taccone.

Se fossero quadri, questi racconti, verrebbe fatto di pensare a Dalì, a quegli orologi molli, liquefatti, a quei numeri tanto precisi da rimanere leggibili anche dopo il dissolvimento dei colori e dei contorni. Identici in apparenza ma in un tempo altro, in una logica altra. Sarebbe interessante calcolare quante volte, nei racconti di Soliloqui, compaiono riferimenti, diretti o indiretti ai numeri, al calcolo di distanze, misure, quantità. Siamo di fronte ad una specie di aritmetica della follia, o della bizzarria, del sublime irrazionale che tuttavia pretende di essere misurato al millimetro, come per un vestito sartoriale, o per una solenne e sarcastica cassa da morto. E il funerale non si sa bene di chi sia: se della logica o della pazzia, del tempo, della pretesa dell’uomo di trovare un senso, una direzione, una formula riassuntiva e risolutoria del caos di cui è parte integrante ma forse neppure essenziale.

I numeri ci accompagnano passo dopo passo, come ombre ghignanti, dalla prima all’ultima pagina. Fin dal primo racconto, dal titolo umoristicamente raggelante, “Tagliatelle millimetrate”. Una vicenda in cui il protagonista ha come grido di battaglia “Misuro tutto!”. Lo confessa o forse se ne vanta, o, anche in questo caso, entrambe le cose simultaneamente. Forse è il personaggio che l’autore teme di essere o di diventare, oppure, semplicemente, come Dante, opportunamente citato nel racconto, è il primo adeguato Cerbero di se stesso che subisce la pena del contrappasso per la colpa ineluttabile dei suoi personalissimi “sogniloqui”.La letteratura si fa specchio di uno specchio che forse è la vita. E resta il dubbio, essenziale, fondamentale, riguardo alla deformazione di quella superficie riflettente. Se sia connaturata, ossia propria delle cose osservate, o se abbia origine nella mente e negli occhi di chi osserva il mondo, pensandolo, potremmo dire generandolo attraverso il pensiero.

Il pensiero e la parola. Il racconto iniziale del libro si conclude con “La prova è finita!”, e poco più oltre “Il supplizio è finito! Sospiro di sollievo!”. Vengono alla mente Pirandello, Beckett, e tutta la schiera di scrittori e drammaturghi che hanno usato la parola per esprimere lo scardinamento mentale e sociale, l’emergere dell’assurdo non come occasionale emergenza ma come condizione costante e immutabile. La parola dunque è supplizio, ma anche il solo modo per esprimere tale oppressione e forse perfino per uscirne, osando guardarsi vivere, avendo tale coraggio.

Il linguaggio utilizzato in questo libro riflette adeguatamente le antinomie a cui si è fatto cenno: a brani elegantemente fluidi e cadenzati fanno da contrappunto passaggi scabri, come se l’urgenza espressiva aggredisse i personaggi, le loro voci e i loro pensieri. L’umorismo aggiunge alla dicotomia ritmica quella del senso e del significato, la connotazione e la denotazione, il sentimento del contrario. Tutto, senza irriverenza, ma con giocosa serietà, entra nel vortice dell’umorismo:  ilterzo racconto ha per titolo “Girella cumana” e la Sibilla, a suo modo, sorride anche lei. Ed è interessante l’ingresso dell’arte figurativa nell’ambito della scrittura e della dimensione autobiografica nella finzione. Lo spunto e il mezzo sono le interazioni, i filtri e le modulazioni necessarie per rendere il tutto allo stesso tempo reale e fittizio, cronaca e metafora. “La scena a cui ho appena assistito – scrive Taccone – mi ricorda un’opera, Fermare il loop, realizzata da un mio amico artista – Luigi Urso, in arte Ur5o – quasi dieci anni fa per una mostra collettiva che curai a Milano”. Sia il titolo della mostra a cui si fa riferimento sia l’unione tra arte e vita risultano in qualche emblematici, o almeno ampiamente rappresentativi, non solo del sapore del racconto specifico ma dell’intero libro.

Molti racconti hanno un che di kafkiano, in senso ampio ma non meno aspro. Il racconto “Girella cumana” si chiude anch’esso con una fuga e con il sollievo che si prova quando tutto ha fine, quando l’incubo finisce: “Non mi resta che alzarmi del letto, prepararmi e scendere giù al palazzo, affinché possa mettere fine, forse, a tutta questa sequela di misteri”. Probabilmente la sequela di misteri è il succo del discorso, forse dell’esistenza stessa, la ricerca di un senso che senso non ha. Siamo già scarafaggi; e il processo, per cose che non conosciamo e che non sappiamo di avere commesso, non ha un inizio e neppure una fine. Ci si risveglia da un incubo e in realtà è lì che il vero incubo inizia.

Forse (ed è necessario sottolineare ancora una volta la natura ipotetica dell’affermazione), una chiave, una sintesi, uno squarcio interpretativo potenziale, è racchiuso nel secondo paragrafo del racconto “Rete negli occhi”. In una serie di domande e in una descrizione oggettiva: “Cosa è successo? Mi stropiccio gli occhi ma non va via! Quel piano ottico rimane intonso! Che fare? Ben presto mi accorgo che c’è anche una freccetta, come quella che azionerebbe un qualsiasi mouse da computer, e con la forza del pensiero posso portarla dove desidero”. Un efficace ritratto del nostro tempo, della condizione attuale. Nessuna risposta se non la possibilità di spostare il fulcro dell’informazione, o meglio della ricerca di informazione, quell’intertestualità che non di rado è immensa varietà senza alcun porto certo, interminabile viaggio circolare in un mare di mondi possibili tutti veri e tutti fittizi. Al punto che, poco più avanti, un paio di pagine oltre, la voce narrante ci confessa di non essere più certo neppure di avere una testa, delle braccia e delle mani. L’incubo è accorgerci di essere noi stessi una rete nella rete, soggetti a virus che, agevolmente, da informatici diventano fisiologici, attaccano direttamente i nostri tessuti, la nostra presunta essenza reale. E sempre di più, se noi assomigliamo ai nostri computer, le macchine assomigliano a noi. “Il suo portatile è stranissimo”, si osserva a pagina 39, e la sovrapposizione tra la persona e il personal computer è assoluta. I tessuti corporei e i circuiti diventano una cosa sola, arrivano a corrispondere.

Le soluzioni, o almeno le vie di fuga e di potenziale salvezza, sfociano nel mare immaginario, futuro e futuribile, di un’eventuale evacuazione collettiva, o nel rifugio estremo, quello della consapevolezza di essere sull’orlo di un baratro che è allo stesso tempo ecologico ed etico. La presa di coscienza che “Edenlandia” in realtà è un nome grottesco dato ad un potenziale Inferno può condurre ad una reazione salvifica, in senso stretto e in senso lato.

Una delle caratteristiche di maggior rilievo di questo libro è la capacità di far riflettere su temi importanti con una deliberata leggerezza, senza pedanterie e senza proporre panacee più o meno miracolose o miracolistiche. Taccone esplora il surreale per parlare del reale, il grottesco per far sì che dallo specchio, magari nel bel mezzo di un riso, ci compaia un’immagine del degrado in cui rischiamo di adagiarci, compiaciuti, ilari e smarriti. Questi racconti affabulano, spiazzano, deliberatamente, spostando il focus su dettagli e situazioni in apparenza irreali, o improbabili, dietro cui in realtà ci è dato di cogliere una concreta e autentica istantanea di ciò che siamo e che rischiamo sempre di più di diventare se non interrompiamo la tendenza, se non apriamo varchi differenti nella rete che tessiamo e dai cui siamo fagocitati, se non ricreiamo spazi vivibili, sia fisici che mentali, più autenticamente umani.

Non è un caso forse che le ultimissime parole del libro siano: “mantenere intatto il suo autentico significato: quello di un sacrificio compiuto per amore dell’umanità”. Tra realismo e fantasia, tra il sogno e il vero, in un realismo che si espande nei territori del grottesco ma resta sempre vivido e attuale, Taccone si pone, e ci pone, le domande che contano. Compie la scelta, tra diritto e necessità, di non rinunciare a temi essenziali e vitali, ad un “idealismo” che non è mai, qui, tediosa teoria né astratta utopia. Nei Sogniloqui sorridiamo, divaghiamo, ma, alla fine, cogliamola nostra autentica immagine.

Ivano Mugnaini

 

 

Stefano Taccone (Napoli, 1981) è dottorato in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica presso l’Università di Salerno. Dal 2013 al 2015 ha insegnato storia dell’arte contemporanea presso la RUFA – Rome University of Fine Arts. Ha pubblicato le monografie Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (2010); La contestazione dell’arte (2013); La radicalità dell’avanguardia (2017). Ha curato il volume Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità(2014). Collabora stabilmente con le riviste “Segno” ed “OperaViva Magazine”. Sogniloqui è la sua prima raccolta di racconti.

Il bianco e il nero – SOLFEGGI di Cinzia della Ciana – Alcune note sulle note e una recensione di Andrea Matucci

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La musica è pazienza e libertà. Permette di infrangere le regole nell’atto di rispettarle con dedizione assoluta. È passione ed eversione, verve irrefrenabile che passa attraverso la conoscenza e il rispetto di mille barriere di geometrie e algoritmi. È un occhio che osserva uno spartito con precisione maniacale e una mano che gioca ogni volta a scivolare di lato quel millimetro che basta a far sì che nulla sia come dovrebbe, o almeno che nulla sia uguale alla volta prima, all’esecuzione precedente. 
La musica nasce dal mondo, lo osserva, piange, ride e lo riproduce in forma di accordi, mai uguali, mai della stessa materia; eppure fedeli, forse in grado di dirci o di farci sentire, per qualche istante, ciò che davvero siamo.
Ridere delle follie del mondo. Questo, tra gli altri umanissimi miracoli, consente di fare la musica.
Cinzia Della Ciana spazia da anni tra poesia e narrativa. Con alcuni Leitmotif a lei cari. Uno di questi è il desiderio, la sete di ritmo, la volontà costante di dare misura e tempo a ciò che vede e ciò che sente. Sia al sublime che al comico e all’assurdo che quotidianamente incontra. Anche da questo desiderio nasce questo libro. Questi Solfeggi in cui la lievità si fa sostanza, senza mai giudizi asettici, senza pontificare, senza chiamarsi fuori. Come adeguatamente osserva Andrea Matucci nella recensione pubblicata qui di seguito “così come l’umile e monotono esercizio del solfeggio insegna a capire le più complesse composizioni musicali, così l’attenzione al nostro quotidiano smarrimento insegna a riconoscere lo spartito delle nostre abitudini”.
Il libro di Cinzia Della Ciana ha il dono di farci cogliere, come la musica da cui parte e che prende come spunto creativo, il momento esatto in cui siamo allo stesso tempo oggetto e soggetto della visione. Per dirla con alcune parole della prefazione di Andrea Scanzi, ci rende “pronti, ogni volta, a ripartire sempre da quel “mai più”. Senza aver imparato nulla, ma comunque rinfrancati inconsapevolmente dalla ciclicità di quei solfeggi. Come se, nel nostro spartito esistenziale, a risultare irrinunciabile non sia il successo bensì l’inciampo. Quello accettabile, quello recuperabile: quello per nulla tragico. E forse persino salvifico”.
I racconti di questi libro, sagaci ma mai feroci, ci conducono nei luoghi in cui guardiamo e ascoltiamo gli accordi stridenti e umanissimi di cui siamo protagonisti e spettatori. Con un piede sul palcoscenico della vita e una mano, tenace, sulla tastiera (del pianoforte o del computer) a tentare di trovare un senso, un accordo udibile e in qualche modo sensato, o, meglio, qualcosa che ci faccia stare bene quel tanto che basta a creare una fuga in armonia con la nostra pena e il nostro riso, con la ragione e anche con la follia, che, a tratti, ci salva. I.M.
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Cinzia Della Ciana, Solfeggi (o del misurarsi nello smarrimento che battute dello spartito quotidiano provocano), Arezzo, Helicon, 2018

Dopo il fortunato romanzo Acqua piena di acqua (Effigi 2016), Cinzia Della Ciana si conferma narratrice di rango, e di multiforme talento, con questi dodici racconti sulla ripetitività prevedibile, ma non per questo controllabile, della nostra vita quotidiana. Da qui il titolo: così come l’umile e monotono esercizio del solfeggio insegna a capire le più complesse composizioni musicali, così l’attenzione al nostro quotidiano smarrimento insegna a riconoscere lo spartito delle nostre abitudini. Sono, infatti, tutte situazioni e personaggi comuni: l’agente immobiliare alle prese con la tentazione di parcheggiare dove non deve, l’impiegato nel sogno di variare almeno una volta il suo pendolarismo, la casalinga al supermercato nell’ora sbagliata, e poi la riunione di condominio, il regalo riciclato, tante piccole situazioni della vita di tutti noi nelle quali ci inseriamo e continuiamo a inserirci pur sapendo in anticipo che il risultato sarà sempre lo stesso: noia, disagio, frustrazione, e infine voglia di dirsi “mai più!”, salvo ovviamente ricominciare il giorno dopo. Nonostante il proverbio, è difficile imparare dai propri errori, e a causa di questo rovesciamento circola dunque, nel porsi di questi personaggi, nei loro pensieri e nel loro linguaggio, un costante umorismo non di tipo teatrale e carnascialesco, ma quello un po’ all’inglese, così raro dalle nostre parti, che è quello che ci spinge all’immedesimazione e al sorriso di fronte alla costante delusione del nostro sentirci sempre unici, diversi, irripetibili: no, la vita, lo spartito della vita, ha le sue leggi, e non possiamo eliminarle o sovrastarle, ma solo pazientemente riconoscerle. Una lettura quindi piacevolissima, a tratti estremamente divertente, ma di un divertimento in qualche modo serio e razionale, in compagnia di una scrittrice che, come afferma Andrea Scanzi nella sua Prefazione, “sa dare con ironia e partecipazione i colori giusti a tutte le sfumature dello sconforto che avviluppa i protagonisti”.

                                                                                           Andrea Matucci

Libri, piedi, mani, migranti e cercatori di poesia

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John Fante in una lettera al suo editore che gli chiedeva se si considerasse uno scrittore di romanzi e racconti o di poesie gli rispose esattamente così: “I am ambidextrous”.
Venerdì prossimo 19 gennaio, alle ore 18.00, al Caffé dell’Ussero di Pisa, nell’ambito degli incontri di AstrolabioCultura, dialogherò con Luigi Fontanella del suo romanzo Il dio di New York e del suo volume di poemetti e racconti in versi Lo scialle rosso.

Sarà un’occasione per riflettere sulla vexata quaestio: è meglio essere “ambidestri” nel mondo della scrittura, o “fare” solo poesia o solo narrativa?

Sarà un’occasione per parlare di “Gradiva”, la ormai storica rivista letteraria edita da Fontanella, e gli amici presenti potranno proporre in lettura loro scritti, editi o inediti. Leggi il seguito di questo post »

Malanotte

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Malanotte | Marilina Giaquinta

racconti,
Coazinzola Press, 2017

di Ivano Mugnaini

La raccolta si apre con “Questa notte non vuole morire” e si conclude con: “Se guardo le cose non so dirle, non ricordo cosa sono, non so chiamarle, non capisco perché stanno lì. Non ricordo chi ce le ha messe. Non ricordo perché ne ho bisogno. Però sento. Sento ancora. Sento. Il nome di quella signora che si guarda allo specchio e mi sorride triste”. Si chiude il libro (restando quanto mai aperto) con una sorpresa che diventa certezza: essere ancora capaci di sentire. Ed è l’ossimoro essenziale, il conflitto mai spento tra le ultimissime parole, quella coppia improbabile che si azzuffa e si abbraccia, quel “sorride triste” che racchiude in sé il percorso e la meta.

Un panoramica sul libro “Malanotte” di Marilina Giaquinta si trova nel sito ZEST, a questo link http://www.zestletteraturasostenibile.com/malanotte-marilina-giaquinta/ 

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DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE

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LETTI SULLA LUNA (4)

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Il quarto libro segnalato è Dalla canicola al blu, di Lorenzo Falletti. Si tratta di racconti, un genere che consente una gamma molto ampia di variazioni sul tema, voli panoramici  e scavi psicologici. Schizzo e dipinto dettagliato, abbozzo e disegno accuratissimo. Ho apprezzato i racconti di Falletti, come ho scritto anche nella prefazione di cui pubblico uno stralcio. Assieme al parere di una scrittrice-lettrice, Viviana Albanese, che ha voluto e saputo manifestare con sincera schiettezza e nitida partecipazione le sue impressioni e le sue emozioni.

Anche in questo caso, per chi sarà incuriosito, buona lettura; che, è, alla fine, quello che conta.

IM

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vademecum” della rubrica Letti sulla luna:

L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.

Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo.Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.

Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.

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Lorenzo Falletti, DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE, puntoacapo Editrice, Pasturana 2016, pp. 100, € 12,00

Un estratto dalla prefazione

Una verve comunicativa generosa e barocca quella dei racconti di Lorenzo Falletti. Uno specchio della sicilianità delle sue origini, fatta di sole, leggende, verità, iperboli sospese tra ponti concreti e immaginari, grandezza e sofferenza. A lato di tutto, in posizione pigramente attiva, tra coinvolgimento e atavico distacco, lo sguardo osserva la vita che suda, sbraita, si agita, corteggia e si fa corteggiare, irride e si rende ridicola, una goccia di sudore che scalda e placa al contempo: l’ironia. E una forma agra di indagine sull’esistere che un siciliano di Girgenti, tra drammi e farse, a suo tempo teorizzò e mise in pratica: il sentimento del contrario.

L’umorismo, anche nei racconti di Falletti, è ancora di salvezza, rifugio e schermo contro i colpi e gli spari della verità, quel sangue troppo caldo e troppo vivo. Falletti erige una barriera protetta da un cancello di ferro, ma di un ferro particolare, robusto ma mai pesante, mai ingombrante e goffamente massiccio. La danza barocca della parola è fatta di volute rotonde e lente, ghirigori e arzigogoli: un’esuberanza di aggettivi posti ovunque, sparsi come semi in un campo, rosseggianti e maturi come fichi d’india. Ma la crescita non è mai caotica nelle narrazioni di questo libro. C’è, accanto e dentro al rigoglio espressivo, un altrettanto saldo controllo, un rigore geometrico che impedisce di strafare e “stradire”.

Ciò è reso possibile dall’altra inclinazione naturale dell’autore, quella che poi è sfociata nella sua occupazione professionale, la recitazione. Nell’arte teatrale, lo sappiamo, tutto è tempo e il tempo è tutto. La misura quindi, anche qui, nelle storie registrate nella memoria e raccontate con gusto, contrasta e regola la sovrabbondanza senza togliere nulla della freschezza e della follia, del profumo e dell’eco della vita vissuta. È come se Falletti si facesse regista di se stesso e dei suoi personaggi, delle vicende che mette in scena sulla pagina.

Il risultato di questo connubio è un insieme godibile e originale di affabulazione e sostanza. Le trame sono sempre ben ritmate, mai lente o apatiche. Ma non c’è spazio neppure per una frenesia approssimativa e affastellata. Le descrizioni sono ricche di dettagli e di colore ma mai meramente estetizzanti o poste lì per puro sfoggio.

Il suo bagaglio magicamente s’aprì rovesciando una notevole quantità di piccoli oggetti: stelline, cilindri in metallo, palline, molle, marionette, tremule uova fritte in lattice, fazzoletti colorati ed altri aggeggi non catalogabili con nomi cristiani. Lo scroscio della pioggia di faville catturò l’attenzione di una bambina. Nei suoi occhi si specchiò la saettante follia dei balocchi.”

In questo esempio tratto dal racconto d’apertura, “Dalla canicola al blu”, si coglie in modo immediato la generosità espressiva a cui si è fatto cenno, quasi una volontà di dare al lettore non solo più dettagli possibili ma anche suggestioni, coordinate sensuali, odori, colori, sfumature visive, ed anche mentali. Come un pittore che aggiunge pennellata su pennellata, strato su strato, per giungere a rendere quasi tangibile quella “saettante follia dei balocchi”.

C’è anche un tocco di poesia, nelle trame di questo libro. Potrebbe sembrare fuori luogo, o apparire ridondante o puramente esornativa, se, a ben vedere, non fosse essa stessa sostanza, materia, o complemento mentale di quei riferimenti oggettivi, ed oggettuali, di cui le storie narrate abbondano.

Ivano Mugnaini

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Lorenzo Falletti, DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE

Io non sono una lettrice di racconti, la narrazione breve non è la mia misura, soffro quando capisco che c’è del non detto e che quel non detto avrebbe potuto essere funzionale alla storia, magari donandole un po’ di forza in più, rendendola più completa. Questa mia convinzione è stata smentita dal primo racconto di questa raccolta Dalla canicola al blu, che dà anche il titolo al volume.  Si tratta di un racconto abbastanza lungo e questo può sicuramente avermelo fatto apprezzare di più, ma ho trovato tra le righe una storia così potente e dei personaggi così profondi da farmeli amare e comprendere come quando si viene rapiti da un buon romanzo. Il protagonista Vincenzo Cassarisi è intenso, appassionato e pieno di contraddizioni e queste caratteristiche lo scrittore le fa assaporare tutte al lettore: la vita sregolata, fino alla fine, e la voglia di normalità, il tentativo di formare una famiglia a costo di falsificarne le fondamenta, il bisogno del pubblico e del successo ma anche la necessità di tornare a casa dalla madre, da quell’unica certezza che aveva dovuto abbandonare anni prima. Non mi sarei aspettata tanto; da un racconto e da un autore la cui professione è l’attore teatrale mi aspettavo più descrizione scenica, più gesti accentuati, plateali e invece ho trovato una profonda analisi dei personaggi ed emozioni palpabili che arrivano dritte al lettore. 

Anche gli altri racconti sono intensi; qualcuno mi ha toccato più di altri, nonostante i temi trattati siano fondamentalmente gli stessi: diversità innanzitutto, fisica e mentale (Liberi dagli stracci e  Solo per i bimbi) ma anche sociale  (Il principe Walter) e la necessità di integrazione spesso negata a questi personaggi, una frustrazione che sfoga spesso in violenza indirizzata solitamente verso la direzione sbagliata, come succede in Cari vecchi jeans.

Ogni racconto potrebbe appartenere a un genere diverso, nonostante quel comune denominatore che è la diversità, ma uno su tutti mi ha colpito più degli altri ed è Il principe Walter. Qui l’autore infatti sorprende più volte il lettore, e non solo per ciò che accade, per la sequenza degli eventi, ma perché disorienta, trascina nella mente del narratore e ad ogni pagina ci si chiede chi sta narrando veramente e se chi sta narrando la storia è cosciente di quel che accade, se la dimensione è quella della realtà o quella onirica e, alla fine, si rimane con l’amaro in bocca e uno strano senso di circolarità degli eventi, della vita.

È un libro che consiglierei e a cui non riuscirei ad assegnare un genere. A mio parere in pochi racconti c’è tanta varietà da poter appassionare ogni tipo di lettore e tanta maestria da parte dell’autore nel raccontare storie e personaggi diversi tra loro, donando a volte speranza ma spesso solo un senso di predestinazione. 

Viviana Albanese

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Qui di seguito la parte iniziale del racconto che dà il titolo al libro:

DALLA CANICOLA AL BLU

Aprì la porta sporgendo cautamente il capo all’interno.

Si trovò faccia a faccia con un silenzio irreale. Non era successo niente. Bene. Non era venuto nessuno. Bene. Entrò cercando di non far rumore.

– Mamma… mamma… dove sei?

Prima piano con un soffio di voce poi, prendendo coraggio, sempre più forte.

– Mamma… ci sei? – Entrò in cucina a passo felpato. Era lì sua madre, seduta,  assente, gli occhi infissi come chiodi sul muro bianco.

– Mamma, perché non rispondevi? –

Lei tacque imperturbabile. Aveva qualcosa di strano, di diverso dal solito in sè che per un attimo lo fece trasalire ma che non riuscì a cogliere.     

-Allora…? Sono venuti?- Lei tacque ancora.

– Non sono venuti. – aggiunse lui ed esitò un attimo.

Ancora silenzio. Infine, la provocò: 

-Insomma vorrei sapere cosa c’entri tu! Che se la prendano con me. E’ con me che devono veders…- 

– Gli devi settanta milioni non è vero? Dimmelo. –

 La voce atona di  sua madre gli strappò il fiato, cadde di peso a sedere. Un colpo a tradimento. Silenzio. Greve di vergogna, di imbarazzo. Le carni che bruciano. E durò, durò a lungo quel silenzio, un tempo infinito. Poi lei riprese a parlare, gli occhi perduti nel vortice profondo di un ricordo.

-E’un maschio Maddalena! Vedrai, sarà la nostra consolazione -.

Era di lui che parlava sua madre.

Vincenzo Cassarisi, professione Mago-comico-illusionista. Età, venticinque anni. Stato civile, nessun vincolo, neppure con l’aria. Sempre in fuga da tutto e da tutti. Personaggio  brillante,  ma  spesso in preda a uno stato nevrotico che ne vestiva l’esistenza. In quell’attimo, di fronte a lei, si sentì come trafitto dagli spilli alla schiena, ai piedi, dappertutto. S’alzò di scatto con le mani percorse da un tremito e  raggiunse il soggiorno. Lei doveva averlo visto così un milione di volte ma probabilmente aveva smesso d’esserne emotivamente coinvolta solo alla millesima, una madre è sempre una madre.

Vincenzo aprì il portafogli. Scontrini, appunti, biglietti del bus, come grossi coriandoli planarono sul pavimento. Incollò le dita su una banconota nuova di zecca arrotolandola. Poi, svuotando un piccolo involucro di cellofan, formò sul comodino una striscia di polverina bianchissima. Applicò la banconota  alla narice ed aspirò velocemente. Qualche secondo e si accorse che la stanza era a soqquadro. Con uno scatto si precipitò  in cucina.

-Sono venuti allora! Mamma perché non mi hai detto che… –

Ma di nuovo si interruppe giungendo alle spalle di lei. Posò lo sguardo, per la prima volta, sui suoi capelli estirpati  come  gramigna. In un secondo immaginò la scena. Fluirono nella memoria presenze sinistre. Quando era accaduto? Un’ora? Due ore prima? Forse meno. Rabbrividì. Una contrazione  allo stomaco lo aggredì deformandone i tratti del viso. A piccoli passi si pose di fronte a sua madre. Le si accovacciò accanto. Ne abbracciò  le ginocchia scarne, muto.

 – Vincenzo,Vincenzo…- un filo di voce, lucido e vibrante come quello di una ragnatela. Restarono così, secondi, forse minuti, di nuovo. Ma non c’era niente di nuovo in questo. Da giorni, da mesi, da anni. Vincenzo si alzò.

– Mamma, i tuoi capelli…-

– Che vuoi che mi importi dei capelli –

 Nuovo  lungo silenzio. Poi lei riprese.

– Dove vai  stasera? –

Vincenzo rispondendo ad un irrefrenabile istinto istrionico, assunse un piglio  professionale e malgrado la desolazione della casa per aria accennò ad una piroetta. Poi, con voce  brillante, diede inizio al numero. 

-Signori e signore, tra poco, su questo esclusivo palcoscenico, il grande Cassarisi mago-comico-illusionista, eseguirà per voi uno dei suoi spettacolari numeri. Nessun altro al mondo saprà infondervi la stessa suspance e lo stesso brivido! – S’avvicinò alla madre e sfiorandola con mano lieve fece apparire due coltelli tra le pieghe dei suoi abiti.

-Signore… ma cos’ha qui? Un armamentario! Siamo forse in presenza di un novello Jack lo Squartatore? Due coltelli? E questo cos’è? Un trancia polli? Ma che se ne farà mai di un trancia polli? –

Poi rivolto al  pubblico immaginario con teatrale “a parte”:

 – Ah, ho capito, con tutti i polli che ci sono in giro un borseggiatore che si rispetti deve circolare attrezzato. Bravo!

Lei lo osservava con  un sorriso amaro sulle labbra. Era rimasto l’adolescente di sempre. A saper leggere scovavi ancora, nell’adulto, i tratti infantili, come  sbavature di colore lasciate sulla tela da un pittore alle prime armi. Ripensò  alla faccia seria con cui da ragazzino fregava tutti giocando coi tappi delle birre. Gli guardava le mani, abili come sempre. Quante volte aveva richiuso la porta alle spalle di lui che arrivava rincorso dai compagni inferociti, mentre qualche tappo ancora gli scappava dalle tasche rigonfie dei calzoni corti. 

Con le scarpe pericolosamente slacciate e le labbra increspate da un sorriso, correva Vincenzo, all’impazzata, sul ventre tremulo di quell’afa pomeridiana che sorgeva dalla terra sfocando la campagna, laggiù, in fondo alla stradina polverosa. Lei se lo stringeva al petto, forte, con complicità. Che altro poteva fare davanti a quel sorriso? Quei  denti bianchi come mandorle sgusciate finivano sempre per abbindolarla. Si sentiva ancora addosso il  suo umore selvatico di furetto.

Non aveva mai voluto smettere di giocare Vincenzo ma non si aspettava che quelli se la prendessero con lei.

 

– Adesso, gentile pubblico, avrei bisogno di qualcuno uscito di fresco dall’ospedale. No, non lei… ho detto dall’ospedale non dalla galera. No, lei no… lei neppure… oh, santo Iddio!

Fu la voce di sua madre a distoglierlo dalla  performance.

-Vincenzo, smetti per favore! – Vincenzo s’arrestò di colpo.

– Devi andartene. Lo hanno detto quelli.

Quelli” ebbe l’effetto del vischio sulla pelle, una sensazione di caldo paralizzante. Solo dopo qualche secondo  gli bastò l’animo per trascinare lentamente una sedia. Le sedette accanto. Poggiò il viso su ciò che restava dei suoi capelli. Lei socchiuse gli occhi. Con la mano diafana carezzò la sua pelle di bambino. Ne avvertì il profumo e non avrebbe voluto.

Fu il suono della voce di Vincenzo, questa volta, a giungere come rimedio ad un salto nel vuoto.

– Ce ne andremo insieme mamma .-

– No – Rispose lei decisa.

-Ma non posso lasciarti in balia di quella gente! Rifletti: oggi hanno fatto questo ma domani? –

-Non ci sarà nessun domani se dovessero tornare e trovarti in casa.

Devi sparire… solo così  mi lasceranno in pace. Questo hanno detto. E’ una grazia, Vincenzo, l’ultima… per me e per te.-

Ancora una lunga pausa.

– Ma dove vuoi che vada mamma…? –

– Dovunque, purché tu vada, poi si vedrà. –

 

Lui non disse una parola di più. Attraversò lentamente il soggiorno e giunse in camera sua. Preparò il bagaglio. Solo una valigia, neppure troppo grande.

Il mago Cassarisi aveva ben poco da portare con sé. Un bagaglio fatto di giochi, di trucchi più che di indumenti. Importava assai a Vincenzo di coprirsi; il freddo era dentro. Un freddo che solo la risata del pubblico riusciva a dissolvere. A fine spettacolo puntava lo sguardo sulla gente, sulle sciarpe colorate, su trecce, cappelli, sul goffo barcollare dei bambini assonnati imbacuccati nei cappotti. Al diradarsi di quell’ordinaria umanità scompariva dietro le quinte. Gettava alla rinfusa nella valigia i ferri del mestiere per raggiungere col  tremito in corpo il primo anfratto che gli capitasse a tiro per incontrare la sua compagna. Lei, impalpabile dama, gli si concedeva ormai per tempi sempre più fugaci, negli anni era diventata avara.  (Certe amanti svaniscono all’improvviso lasciandoti in ricordo solo la scia di  un profumo struggente.)

Sua madre ne avvertì la presenza alle spalle. S’era arrestato sulla soglia della cucina, valigia alla mano, bloccato da una dolorosa riluttanza. 

Lei era di nuovo assente, come scissa in mille particelle sull’universo bianco di un muro. Vincenzo tornò indietro e s’avviò all’uscita. Senza rumore chiuse alle sue spalle l’uscio di casa. Due lacrime urlarono, scivolando sui solchi precoci del viso lei. 

 

Un treno, uno qualsiasi- pensò il giovane prestigiatore avviandosi verso la stazione.-

Ma tu guarda- borbottò tra sé – un mago a cui tocca fuggire come un ladro! Ma, in fondo, tutti i ladri sono un po’ maghi. Solo che i ladri spesso, assieme alle cose, rubano anche i sogni delle persone. I maghi, almeno quelli, sono ben lieti di regalarteli.

Trovò, comunque, giusto fuggire. Non era stato molto furbo da parte sua far sparire “per gioco” un sacchetto di coca da una certa valigia. I sacchetti di coca non sono fazzoletti colorati e poi, dettaglio tutt’altro che trascurabile, quelli a cui lo aveva soffiato non erano certo tipi da apprezzare i lazzi dei fantasisti. Gli tornarono in mente, una ad una, le loro facce bovine. 

Affrettò il passo guardandosi intorno. Camminò sui grossi granuli di pietrisco scuro dei binari avvertendone le sporgenze aguzze attraverso le suole sottili.

– Maledette gambe!- pensò – ti portano sempre dove non vorresti- ma meglio una multa o un taglio al piede che il frequentato sottopassaggio.

Il primo treno in partenza dalla stazione di Messina era sul binario tre.

“Messina – Milano” c’era scritto sulla tabella gialla. Poteva andare bene. Come posto gli parve abbastanza distante. Eccessivo fuggire in Brasile e quella sera stessa. Al biglietto e ai documenti non pensò minimamente, lui aveva i suoi. Era o non era un mago? Ma un momento… quello su cui stava per salire non era  forse un vagone letto? – E allora? – si rispose – e subito si ridacchiò addosso valutando che non avere prenotazione fosse un problema altrettanto  ridicolo.

Detto-fatto, si ritrovò a percorrere il corridoio riscaldato alla ricerca di uno scompartimento tranquillo. Ne scelse uno ma, mentre stava per varcarne la soglia, il suo bagaglio magicamente s’aprì rovesciando una notevole quantità di piccoli oggetti: stelline, cilindri in metallo, palline, molle, marionette, tremule uova fritte in lattice, fazzoletti colorati ed altri aggeggi non catalogabili con nomi cristiani. Lo scroscio della pioggia di faville catturò l’attenzione di una bambina. Nei suoi  occhi si specchiò la saettante follia dei balocchi.

– C’è un mago! –

Un trillo, una sorta di richiamo che parve il dipanarsi di un festone tra le grigie  pareti della vettura.

Al mago era capitato spesso di aprire la valigia davanti alla polizia locale (che lo conosceva bene) o negli angoli bui delle stazioni quando dimenticava in quale giocattolo aveva nascosto la roba di riserva.  Gli fece piacere che, per una  volta, qualcuno aveva pronunciato la parola giusta, semplice e magica, appunto. Troppo spesso passava per un rappresentante di giocattoli o per un piazzista qualunque. Che fosse un mago, insomma, nessuno lo aveva mai supposto, neppure per sbaglio.

Vincenzo allora, davanti alla sua minuta spettatrice,  si produsse in un inchino sbilenco, un po’ per via dello sgangherato contrappeso che si ostinava a chiamare valigia, un po’ per via del corridoio stretto.

-Permette, signorina? Vincenzo Cassarisi, mago-comico-illusionista al suo servizio… –

Mentre lei lo fissava incuriosita, una donna s’inginocchiò, premurosa, a raccogliere i ninnoli. Vincenzo, allora, poggiò la valigia su uno dei posti letto. Si ritrovarono in tre a riempirla nuovamente, in preda ad una strana euforia.

Richiuso il bagaglio si presentarono. Il quarto viaggiatore, un uomo sulla cinquantina, distinto, dai capelli brizzolati, non aveva fatto una piega.

Il mago pensò ad un viaggiatore solitario. Dopo poco, senza scomporsi, l’uomo parlò.

– E’ proprio certo di avere un posto assegnato qui? –

Lui guardò la donna, osservò le sue curve, i suoi occhi verdi, i capelli corvini. Era molto bella. Come avrebbe potuto rispondere di no?

– Sì certo, vediamo, vediamo… questa deve essere la cuccetta numero 151. Si, è questa. Permette? – proseguì Vincenzo, avvicinandosi all’uomo con la mano protesa.- Vincenzo Cass… –

– Sì, ho sentito – fece quello, senza distogliere lo sguardo dal buio pesto del finestrino.

– Cordialità commovente.- sussurrò ritraendosi Vincenzo. Donna e donnina, accennarono ad un sorriso impacciato.

Il nome di lei, della donna, era Cecilia.

A lui parve proprio un bel nome. Anche le sue gambe gli parvero belle, perché erano belle: tornite, nervose, diritte come due sedani.

– Ma perché, i sedani sono diritti? – Si domandò, chiudendosi in una delle sue profonde digressioni. – Se aveva fatto questo pensiero, certo un motivo  doveva esserci. Forse perché un bel sedano, oltre che cotto, va anche gustato crudo, fresco e croccante. – Sì, forse ci sono – pensò – in fondo ogni volta che mi piace una femmina mi dico sempre: “Questa me la cucino” no? –

– Guarda – disse, sedendosi, alla bimba – guarda cosa ti regalo. – e portò la mano in tasca – regaliamo a… come si chiama la piccola, scusi? –

– Marinella- rispose pronta Cecilia, che già  gli indirizzava sguardi tutt’altro che di  circostanza. Lui tirò fuori dalla tasca un agnellino di plastica che animò premendo una molla alla base. Lei rispose con un sorriso convalescente, come la traccia  di luce sul volto di una bambola consunta dai giochi.

– Bello! –

– Sta attenta però, mi raccomando, il lupo è sempre in agguato!

– Io sono lo zio. – rispose a denti stretti l’uomo.

-Scusi tanto, sa. Dev’essere stato il suo pelo grigio a trarmi in inganno. Certo, se ora la bimba  mi rassicura. Proviamo a chiederlo a lei. Questo signore è tuo zio non è vero ?

– Lei, giovanotto, è un po’ troppo impudente per i miei gusti! –

– Lei, invece, pare essere un lupo alquanto maleducato. Ops, scusi… volevo dire uno zio alquanto maleducato! –

Le donne soffocarono nuovamente una risata. L’uomo, dopo una lunga pausa, si alzò e contenendo il disappunto  gli andò incontro con la mano protesa.

– In fondo non posso darle torto, sono stato un po’  scorbutico poc’anzi. Permette?  Dott. Angelo Petralia – Presentazione fatta. Un contatto che però, al mago, non piacque affatto. Aveva la mano viscida il tipo. Ripensamento troppo immediato per essere vero. Un mago sa scrutare le facce e gli occhi della gente, è da lì che si affaccia il cuore degli uomini sulle cose del mondo. Suo malgrado non riuscì a capire quale genere di rapporto legasse i tre. Ma in fondo siamo tutti degli strani viaggiatori, concluse. Certo, vedere  una  donna  così giovane in compagnia di un orso (anche se molto distinto)  in viaggio con una denutrita nipote da ospedale da poveri, non poteva che destare perlomeno curiosità. Per non parlare dello sguardo della bambina velato di  misteriosa malinconia.

Ma in quel momento ebbe altro a cui pensare: il freddo. Cominciò a sentirlo anche dentro. Infilò le mani in tasca finché non s’alzò col consueto scatto. Pensò alla toilette del treno. La raggiunse. Non che sperasse di trovarla libera ma quanto ci metteva quello ad uscire!? Nel corridoio s’era pure tolta la luce. In certi momenti pare che il tempo si fermi. Finalmente lo scatto della serratura. La luce che trafilò dall’uscio del bagno delle Ferrovie dello stato non temeva confronti con quella dell’eden. Entrò al volo. Girò più volte la maniglia sul rosso. Non s’apriva, bene. Tirò fuori la bustina di cellofan e la depose sul  ripiano di vetro della specchiera. Ma fu un attimo; un violento cambio di binario sbatacchiò lui contro la parete del bagno e la bustina dentro il WC. Biglietti… biglietti da centomila zuppi fradici, purtroppo in forma di polvere e a cui non sarebbe certo bastato il calore di un phon per tornare alla vita. 


OSTERIA NUMERO ZERO – racconto di un Ferragosto di periferia

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OSTERIA NUMERO ZERO – racconto di un Ferragosto di periferia

Un vecchio racconto, anni Settanta. La periferia della periferia di Milano, e dell’umanità. Alla ricerca di un telefono a gettoni, di un bicchiere di vino bevibile, e, forse, la sorpresa della poesia.

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OSTERIA NUMERO ZERO

Martedì, quindici agosto. No, non c’erano dubbi, né concrete speranze di essermi sbagliato. Il mio efficientissimo strumento di tortura cronologica giapponese squittiva sibili elettronici da oltre dieci minuti. Tra i vari numerini gialli e quadrati che proiettava nella semioscurità della stanza c’erano un quindici e un otto che non mutavano come tutti gli altri. Restavano lì, fissi, immobili, e mi guardavano, sparandomi tra le pupille gonfie e intorpidite un immutabile interrogativo: « E adesso…? ». Dalla posizione sud-sud-est del letto, in cui mi avevano condotto i sussulti e i contorcimenti di un sonno sconfinato di cui non ricordavo più l’inizio, tenevo l’ordigno nipponico sotto tiro. L’alluce del piede destro fungeva da mirino. Se avessi voluto avrei potuto sciogliere le briglie ai tendini della gamba, e fracassare l’arnese, una volta per tutte, con un calibrato, orientalissimo colpo di karate. Ah, quale gratificante e beatificante contrappasso!

Non sarebbe servito a molto. Non potevo fare a pezzi con un identico calcio anche quell’altro scatolone, verniciato di giallo fosforescente e inchiodato lassù, in alto, dal quale colavano raggi bollenti che si infiltravano attraverso le fessure delle serrande. Fu così che usai il piede solo per compiere, come sempre, l’unico esercizio ginnico della giornata: allungamento dei muscoli del quadricipite, torsione laterale del piede, e schiacciamento del pomello della sveglia con il tallone. Il brutto cominciava dopo, appena terminato di appoggiare il medesimo piede sul pavimento della camera. Già, e adesso…? Che faccio?

Come una specie di Robinson Crusoe, naufrago sulle sponde desolate dell’isola di Ferragosto, decisi di procedere ad un rapido resoconto mentale dei « pro » e « contro » della situazione. Per ragioni di praticità iniziai dai pro: il fatto di aver rifiutato i canonici inviti mortadel-balneari di due o tre colleghi con tanto di moglie-canotto e figli-mosconi, e l’aver rinunciato a priori a seguire le peregrinazioni autostra-disco-sessual-velleitarie di un gruppuscolo di amici, mi poneva nell’idilliaca condizione di chi non deve lambiccarsi il cervello per ponderare e scegliere. Nessuna alternativa, nessun dubbio. Alé! Tutta gioia, tutto bene!

Lo squillo del telefono mi evitò, con mio enorme sollievo, di affrontare le lande sterminate dei « contro ». A tutt’oggi non ho ancora ben capito se la voce di Erica sia naturale e genuina, o se invece sia prodotta da un complesso sistema di sintetizzatori e amplificatori opportunamente piazzati all’interno del suo corpo soffice e opulento da luccicante bambola sintetica. Quel giorno però mi fece talmente piacere udirla, che non mi posi neppure per un attimo il rituale interrogativo. Mi limitai ad ascoltare, a ridacchiare ogni tanto, fuori tempo e fuori luogo, e a dire di sì, in continuazione. Quando riappesi mi resi conto che avevo appena accettato un invito a dir poco scomodo. Si trattava di partire dalle mie campagne, e percorrere, sotto il sole ottuso del primo pomeriggio, l’oceano di asfalto che mi separava da un punto sconosciuto, sperduto nel vasto arcipelago della periferia di Milano. Il tutto in cerca di quale isola, e di quale tesoro? La risposta sarebbe evidente, e del tutto scontata, se non si dovesse tener conto di un particolare. Io Erica la conoscevo da anni, e la conoscevo fin troppo bene. Anzi no, non la conoscevo abbastanza. Nonostante i periodici incontri ai party, alle ricorrenze varie e alle celebrazioni pagane e pallose di qualche comune amico, continuavamo ad essere due cordialissimi estranei, due punti interrogativi collocati alle estremità opposte di una riga bianca.

Le nostre rare e telegrafiche conversazioni avrebbero fatto la gioia di Beckett, di Kafka, e forse anche di qualche psicanalista ficcanaso e un po’ sadico. Non sono mai riuscito a capire se fosse lei a prendere in giro me o viceversa. Fatto sta che ogni singola volta che io, attratto dalla sua sfavillante carrozzeria metallizzata, entravo nella sua sfera d’azione, lei mi ascoltava ghignando ripetutamente in modo quasi impercettibile, poi, puntualmente, mi metteva KO con un’osservazione, o con una domandina tanto innocente quanto micidiale. Un congegno automatico nascosto dentro di me allora si ribellava, e mi catapultava nella spirale strangolante del sarcasmo corrosivo, che in breve trasformava il dialogo in un incontro di scherma, un continuo alternarsi di impeccabile etichetta e di sciabolate fulminee e rabbiose. Fin qui niente di male né di straordinario: per quel nobile sport ero già ottimamente allenato. Il grave è che le stoccate scambiate con Erica ad ogni riflessione a mente fredda mi lasciavano dei dubbi colossali. E se dopotutto con quel suo atteggiamento scostante non avesse voluto sfottere niente e nessuno? E se in fin dei conti quelle sue uscite da palmipede inacidito fossero state ispirate solamente da legittima indifferenza e sacrosanta noia? Sì, insomma, che diritto avevo di pretendere a tutti i costi di essere qualcosa di più interessante e piacevole di un cortometraggio bulgaro sulla vita dei salmoni dell’Alaska, per lei?

Non c’era dubbio. A ben pensarci il suo comportamento era sicuramente degno del più assoluto rispetto e della più profonda comprensione.

Anche quel giorno lontano, imprigionato tra le branchie dell’aria che annaspava in cerca di ossigeno, dovetti di nuovo ribadire questa solenne quanto vana conclusione. Certo, era tutto vero… ma. allora… la telefonata…? Mai e poi mai avrei pensato che lei, in quel particolarissimo giorno, avrebbe chiamato me.

Per quale ipercomplicata serie di circostanze si era ritrovata, anzi ridotta, a dover chiamare uno con il quale aveva rapporti tiepidi come iceberg? Lei, che nella mia immaginazione era perennemente circondata da stormi di calabroni in cerca di polline, forse era rimasta completamente sola, come una stella alpina tra rocce squamose e infuocate. Già, forse. Il nodo della questione era tutto in quel forse. Conoscendo il tipo non era del tutto da escludere la possibilità che mi facesse attraversare mezza Italia, per poi confessarmi candidamente, una volta arrivato a casa sua, che aveva bisogno di qualcuno con la macchina che la accompagnasse da un suo amico a Riccione.

Mentre toglievo dal parcheggio la mia eroica Renault Cinque anni settanta questo dubbio era una specie di chiodo conficcato tra i nervi del piede destro: una sorta di freno di emergenza che non ero in grado di disinserire. In ogni caso avevo ben poco da scegliere, e, inoltre, sentivo nelle orecchie anche il bisbiglio, debole ma persistente, di una speranzucola.

(Il racconto completo è a questo link: http://www.ivanomugnaini.it/osteria-numero-zero-racconto-di-un-ferragosto-di-periferia-2/ )

PAROLE NELL’ACQUA

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Ripropongo questo racconto un po’ folle, come l’estate.  Ma parla d’acqua: può essere rinfrescante.

“Here lies one whose name

was writ in water”.

Qui giace un uomo il cui nome

è stato scritto nell’acqua.

Frase tratta dall’epitaffio

riportato sulla lapide di

John Keats

m parole 2

Lo sconosciuto guardava gli oggetti lasciati nelle macchine parcheggiate. Camminava lento, la mattina presto, sempre e solo con la pioggia. “Cosa posso fare per ognuno?”. si chiedeva. “Quale biglietto lasciare? Quali parole? Un consiglio, un apprezzamento per la sensibilità, un aiuto per la vita?”.

La mia è un’ipotesi. Follia. Come la sua. Forse peggiore. Ma non posso fare a meno di chiedermi in che direzione si muove, verso quale senso. Per avere una risposta devo sperare nella pioggia giusta, nel ritmo, nelle frequenze adeguate. Lo incontro. Lui trova me. È capace di morbidi agguati.

I suoi vestiti sfuggono agli occhi, vi rientrano in un secondo momento: colori soffici, fuori tono, in armonia solo con loro stessi. Sembra parlare tutte le lingue e nessuna, la sua cantilena oscilla su cadenze che spaziano dallo slavo allo spagnolo. In una mano tiene una vecchia mappa della città, nell’altra stringe con timidezza una cassa di plastica utilizzata per trasportare le bottiglie d’acqua minerale. Il contenitore, vuoto, diventa una sedia, solida, leggera. Fluida e mobile, come l’acqua che gli dava uno scopo, una funzione. Acqua lui stesso, nella pioggia, con in mano un guscio di plastica che un tempo racchiudeva acqua. Un circolo perfetto, perenne.

mare parole

Ho bisogno di dargli un nome. La mente adora il superfluo. Potrei chiederlo direttamente a lui, come si chiama. Ma non sarebbe la stessa cosa. Mi mentirebbe, o risulterebbe banale, magari. Mi arrogo il diritto di battezzarlo io. Un appellativo bizzarro e solenne, su misura per lui, ecco cosa mi serve. Nuvolario, voilà. Perfetto. Almeno per me. Lui non è necessario che lo conosca. Nuvolario, miscuglio di assonanze fascinose: un capo indiano, un pilota di auto da corsa, un imperatore persiano. Tutto e niente. Lui soltanto.

Mi si avvicina di un altro passo, cerca con gli occhi il mio sguardo, e mi chiede informazioni su una strada. Mi porge la mappa della città e mi invita a indicargli il punto esatto. Mentre la apro mi sembra di cogliere un sorriso sarcastico. Ma forse mi sbaglio. Probabilmente è un riflesso, uno sprazzo di luce nel grigio del cielo. Ci sono tre vie che portano il nome che mi ha chiesto. Incredibile ma vero. Dislocate in punti estremamente distanti l’uno dall’altro. Glielo faccio notare, e lui allarga le braccia, serafico. Gli chiedo cosa deve fare di preciso, cosa cerca, una casa, un monumento, un ufficio, un palazzo… Sorride, senza aprire bocca.

Mi viene il sospetto che la richiesta di informazioni sia una scusa per parlare con persone che, per qualche sua personale ragione, o assenza di ragione, trova interessanti. Porre un quesito che presuppone tre possibili risposte, tutte ugualmente valide, e tutte identicamente errate, gli consente di non avere alcun obbligo. Né una meta precisa. Può girare continuamente con la consapevolezza del limite e delle potenzialità: dirigersi volta per volta verso un luogo che è sempre, allo stesso tempo, giusto e sbagliato. La schiavitù e la libertà.

(il racconto completo è qui: http://www.ivanomugnaini.it/parole-nellacqua/ )

Destinazioni libri – intervista

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Destinazioni libri – intervista

Alcune osservazioni su tennis, surf, Internet, ma anche su libri, autori, esordi, personaggi, generi, gusti letterari e “Lo specchio di Leonardo”.
Una mia chiacchierata sulla scrittura con Alessandra Monaco del blog Destinazione Libri https://destinazionelibri.com/2016/06/22/ivano-mugnaini/

Chiacchierare con alcuni autori è davvero un piacere e immediatamente si abbattono quelle barriere che forse possono esserci per il “non ci siamo mai visti”, non ci conosciamo. Forse la passione per quello che si fa, porta immediatamente a rilassarsi e parlare come se davvero ci si conosce da parecchio tempo.
Un autore, Ivano, presentatomi da Annalaura, lei dal fiuto raffinato per i buoni libri. Anche questa volta ha colto in pieno l’essenza e il messaggio di questo autore.
Questa la nostra chiacchierata…
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Foto Recanati
Ciao Ivano, benvenuto nel nostro blog, Destinazione libri. Inizierei subito chiedendoti di raccontarci qualche cosa di te, chi sei nella vita di tutti i giorni, cosa fai oltre a scrivere?
Ciao a te Alessandra. Ti ringrazio per l’ospitalità in questo spazio riservato ai libri e ai lettori, specie rara e preziosa, più del panda, che ormai è salvo, per fortuna. I lettori in Italia sono un gruppo tenace ma non numerosissimo, al contrario. Almeno non numeroso quanto dovrebbero e potrebbero essere. Quindi gli spazi come il tuo creano delle riserve in cui la specie dei lettori si conserva, e, fattore ancora più importante, si moltiplica.
Per fare bella figura rispondendo alla tua prima domanda potrei millantare attività mirabolanti, scalatore estremo, paracadutista d’alta quota, esploratore di giungle vergini. Non è così: quando non scrivo… passo altro tempo al computer, per traduzioni, collaborazioni editoriali, articoli, recensioni, e anche per divertimento. Oppure vado al cinema, frequento i miei pochissimi ma buoni amici e pratico sport poco avventurosi e poco originali, calcio, calcetto, tennis (anche se quest’ultimo più che farlo lo guardo in televisione: vedo Federer, faccio un confronto sulle capacità tecniche, e mi dico che è meglio tornare al computer a scrivere).

Quanti libri hai pubblicato?
Ho pubblicato le raccolte di racconti LA CASA GIALLA e L’ALGEBRA DELLA VITA, i romanzi IL MIELE DEI SERVI e LIMBO MINORE e i libri di poesie CONTROTEMPO, INADEGUATO ALL’ETERNO e IL TEMPO SALVATO. Il mio racconto DESAPARECIDOS è stato pubblicato da Marsilio e il mio racconto UN’ALBA è stato pubblicato da Marcos Y Marcos. Di recente pubblicazione i miei romanzi IL SANGUE DEI SOGNI e LO SPECCHIO DI LEONARDO, di cui parliamo qui oggi.

Di cosa parla il tuo libro, Lo specchio di Leonardo?
Senza entrare troppo nei dettagli e nello specifico della trama per non rovinare la sorpresa a chi lo vorrà leggere, posso dire che Lo specchio di Leonardo si colloca in quello spazio che unisce realtà e immaginazione, passato e presente. La vita di Leonardo da Vinci è descritta seguendo riferimenti esatti, sia sul piano biografico che per la cronologia dei suoi più noti capolavori di artista e scienziato. Ma, a fianco di questi dati di fatto, sovrapposta e intrecciata, si innesta una trama che ha come perno la scoperta casuale di un sosia, una replica in carne ed ossa, fedele e perfetta, del genio fiorentino. Un “doppio”, identico a lui come aspetto esteriore ma diversissimo come mentalità, carattere e visione del mondo. Da qui il “folle volo”: l’idea dello scambio di persona e dell’inversione dei ruoli. È questa l’invenzione più estrema di Leonardo: lasciare al proprio sosia il suo ruolo di savio e docile artista al servizio dei potenti e dei ricchi mecenati e fuggire via, verso la vita vera, la sensualità autenticamente sfrenata e gli studi liberi ed eretici.
Con conseguenze importanti, avventure e disavventure, illusioni e delusioni che si dipanano passo passo fino alla sorpresa finale.

Come è nata l’idea di scrivere questo libro?
Lo spunto iniziale del romanzo è nato da un film-documentario, uno dei tanti dedicati a Leonardo da Vinci, alle sue scoperte, al suo inesauribile talento. Veniva mostrato alle prese con gli specchi da lui studiati a lungo per scopi scientifici e militari. Mi sono interrogato, in quell’istante, sul rapporto del genio con la sua immagine. Ho provato ad immaginare il divario tra ciò che appariva al mondo, la gloria e la fama, e ciò che sentiva dentro di sé. Ho pensato al contrasto tra i suoi veri desideri e ciò che era costretto a realizzare in qualità di persona soggetta alle ambizioni dei potenti del suo tempo, signori, notabili, politicanti e ricchi mecenati.

(L’intervista completa a questo link: http://www.ivanomugnaini.it/destinazioni-libri-intervista/ )