concorso la vita in prosa

Viv., 1938 – racconto

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La passione di Alba Gnazi per T. S. Eliot, ma anche per la parola, per ciò che riesce a trasmettere, di dolorosamente complesso ma anche di irrinunciabile, vengono espressi al meglio in questo racconto che ha inviato per Dedalus. La voce narrante è quella di Vivienne Haigh-Wood, ma in fondo è quella della stessa autrice e di ogni donna o uomo che dedica alla parola, alla poesia, al dono e alla pena dell’espressione profonda, qualcosa che può essere chiamato tempo, riflessione, battito, tormento, tensione costante, speranza tenace, in una parola, la più semplice e la più irriducibilmente astrusa, vita.

Con l’invito a tutti i narratori a partecipare alla edizione 2014 del Concorso La vita in prosa. Il bando può essere reperito su questo blog, nei post precedenti, o può essere richiesto a : ivanomugnaini@gmail.com .

Buona lettura e buona scrittura. IM

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Immagine

VIV., 1938

di ALBA GNAZI

 

Viv., 1938

La verità è che avrei dovuto parlarti addosso, Tom, parlarti dentro, mentre il tuo occhio frugava le mie mani e impietosiva il mio sguardo, perché so (lo so) che quel che ostenti è sicurezza ma quel che calchi, e scappi pur di non confessarlo, è paura, Tom.

E’ paura.

Come la mia di attraversare la strada, di svegliarmi di notte e vedere lucertole sul cuscino, di sorbire formiche insieme al brodo, di non lavarmi abbastanza dopo il sesso, perché il sesso odora di te e di me e della terra che ci butteranno addosso, delle tue ricerche e delle tue pretese, dei tuoi silenzi, dell’ira che mi sbuffi sul collo quando mi prendi, dell’ira che tossisci dentro una poesia; di questo sa il sesso, Tom, e io ne vivo, e ne ho paura.

Potrei schermirmi la voce, alterare le maniere, indossare guanti bianchi per accendere ceri e fustigare quel che resta del mio presente con il cencio di una contrizione, con una preghiera tra le gengive, e scordare il sapore del seme sulla lingua e dell’etere in gola – maledetti, mi cuciono nervi saldi su misura, nervi al metro e senza sconto, come quel soggiorno in Svizzera, che dopo più nulla è stato lo stesso.

Più nulla.

La pioggia ama i distillati di sudore e inerzia. Ama grondare dai nasi e dagli ombrelli. Inzaccherare cappotti e cani al guinzaglio. Scorre su questo vetro come una tenia, e i vetri che altro sono se non l’intestino dell’inganno?

La pioggia solleva le gonne e abbassa i rami. Prolifera tra le giunture dei vecchi con dita d’umidità. Attecchisce sui tetti con un fragore che ninna i bambini.

Volevo un figlio, Tom. Ma non da te.

Volevo te, e la tua poesia, e la tua voce, e il benessere che mi dava lo starti accanto.

Volevo ballare solo per te, celebrarti col mio corpo e i miei fianchi, godere del tuo tocco lieve e intimo anche tra mille persone, sapere che saresti corso a casa dopo il lavoro per vedermi e giacere al mio fianco, ma

dio

(il tuo dio, non il mio)

A te non piaceva prendermi.

E io …

Lui c’è sempre stato, Tom.

Abbiamo vissuto in casa sua, e io ho dormito nel suo letto, e lavato i suoi piatti; mi ricordava mio padre, col suo alito e il suo passo, e quell’acutezza che io non ho mai saputo afferrare per intero, ma che mi estasiava.  Era stato il tuo docente di filosofia, io ne ero l’amante. Bertrand.

Cos’hai fatto ai miei anni, Tom? Cos’avevano le mie gambe e i miei seni, la mia voce e le mie idee, che ti atterrivano al punto da farti giurare castità?

Cristo.

Il tuo Cristo, non il mio.

Ma mi vedi? Mi guardi, Tom? Mi guardi, perdio? Sono bellissima. Sono stata il sogno di mezza Londra.

Non il tuo.

Sono caduta giù un pezzo alla volta, come le molliche da una tovaglia. Sono una mollica sulla tua tovaglia, la stoffa grezza del tuo rifiuto, la macchia rossa del vino proibito.

Sono la donna che hai sposato per sfregio, sgarbo, amore di un attimo, idiozia. Sono la ceralacca del tuo ripensamento, la fuga pusillanime, l’aggettivo dimenticato.

Tre mesi, ed eravamo insieme, con un giuramento davanti all’ufficiale e senza casa, senza lavoro, senza soldi, senza criterio.

Tu leggevi e leggevi e citavi poeti francesi e scrivevi e dibattevi e passeggiavi e giorno per giorno, sempre meglio e con dolo, tessevi una trama che mi escludeva da te.

La Terra Desolata ero io. Lo sono stata per così tanto tempo, Tom. Ero il tuo personale, amatissimo, eccitante, rinnegato inferno.

Tu eri il Prufrock delle mie intenzioni, l’Animula dei miei terrori, il Preludio di ogni mia contrizione.

Non è stato difficile, Tom.

Non darti pena, nelle tue notti senza solco e senza buio, notti che scintillano di resistenza all’affanno, che malizia non imbratta – tu segugio della fede, tu mendico della colpa, tu figlio del non-perdono, sei andato con dio, e me, mi hai lasciato qui, ma adesso, adesso

ho pensato a tutto, io sola.

E’ stato semplice.

Ti avviseranno entro qualche ora.

Avrei dovuto baciarti un’ultima volta.

Ma fa lo stesso.

Viv., 1938

 

(Liberamente ispirata al matrimonio tra Vivienne Haigh-Wood e T.S.Eliot)

PERDITA DI MEMORIA

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dedalus1.jpg“Non sono mai stato tanto lucido in vita mia come da quando è iniziata la mia perdita di memoria”. La mia attrazione per questo racconto è iniziata da questa scintilla, da questo apparente paradosso capace di aprire squarci di luce sui meandri oscuri della mente umana, o di gettarvi un’ombra in più. Comunque sia, la presa emotiva e affabulatoria è vasta e immediata. Simona Conte, autrice che ho avuto modo di leggere e di apprezzare assieme agli altri componenti della giuria al Concorso La Vita in Prosa in cui è risultata tra i vincitori, esplora le miserie e le nobiltà della mente, della sorte, del destino, di quel mistero arcano che è la mente umana, con sguardo intenso ma mai privo di umana pietà e di quello scampolo tenace di ironia che è arma di legittima difesa.
In calce al racconto pubblico la presentazione del racconto scritta dalla stessa autrice. Essa stessa parte integrante non solo della genesi della scrittura ma direi del processo narrativo, quasi un brano di metaletteratura che diventa letteratura tout court, indagando ulteriormente sulle dinamiche mentali della creazione, della memoria, del rapporto tra realtà e immaginazione, finzione e “verità”.
Un racconto complesso ma scritto in modo scorrevole e godibile. Un’escursione sui terreni friabili della follia, del senso stesso dell’esistere e del riflettere sulla consistenza dell’inconsistente.
Buona lettura a tutte e a tutti i “dedalonauti”, IM
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PERDITA DI MEMORIA
“La demenza consiste nella compromissione globale delle funzioni cosiddette corticali (o nervose) superiori, ivi compresa la memoria, la capacità di far fronte alle richieste del quotidiano e di svolgere le prestazioni percettive e motorie già acquisite in precedenza, di mantenere un comportamento sociale adeguato alle circostanze e di controllare le proprie reazioni emotive: tutto ciò in assenza di compromissione dello stato di vigilanza.
La condizione è spesso irreversibile e progressiva”.

Vi è mai successo di perdere la memoria? E non parlo di una perdita lieve, come quando si fa fatica a ricordare il nome di qualcuno che conosciamo bene. Parlo di una perdita sostanziale, progressiva, definitiva, parlo dello svegliarsi una mattina e rendersi conto che un intero lustro della propria vita è scomparso nel nulla, e poi un decennio, e poi un ventennio, e poi, pian piano, l’intero arco dell’esistenza, tanto che non si è più in grado di comprendere perché ci si trova dentro quella vita che non ci appartiene e perché quelle persone, che non sappiamo chi siano, ci trattino con tanta familiarità e si prendano confidenze che non sarebbero lecite né auspicabili tra estranei. Non è una bella sensazione.
La prima volta è passata inosservata. Me ne sono reso conto soltanto a cose fatte. Cercavo di ricordare me stesso seduto sui gradini di casa mia, nella casa nella quale sono nato e cresciuto fino all’età di dieci anni. Mi sforzavo di focalizzare la mia immagine, un ragazzino magro con i capelli scarmigliati, le scarpe slacciate e la maglietta sporca, seduto sugli ultimi due gradini di una scala non molto alta che dal portone d’ingresso si gettava direttamente sulla strada. Il ragazzino c’era, se ne stava lì, seduto, a guardare davanti a sé, ma non ero io. Mi somigliava soltanto.
La mia perdita di memoria non va intesa come perdita dei fatti, dei visi o della cronologia degli eventi. La questione è completamente diversa. Io sto perdendo progressivamente il rapporto con la mia esistenza, sto perdendo la sensazione di appartenenza ai miei stessi ricordi. Mi sono perfettamente chiari gli episodi, i luoghi, le persone, le cose, le parole, i gesti, i colori, a volte anche gli odori, ma non le sensazioni, non le emozioni. Ogni ricordo è privato della memoria del personalmente vissuto, come storie raccontate da altri e fatte proprie, come fatti capitati a terzi che non siamo noi e che, a furia di sentirle ripetere, sono diventate nostre senza esserlo e che teniamo ben distinte nel cervello, nella categoria “ricordi presi a prestito”.
Non sono mai stato tanto lucido in vita mia come da quando è iniziata la mia perdita di memoria. A volte temo che il mio cranio si apra per dare sfogo alla tensione interna. Non prendo caffè, non bevo e non faccio uso di sostanze stupefacenti, ma dormo sempre meno e ho sempre meno bisogno di riposo. Lavoro dodici ore al giorno, la mia capacità di concentrazione è centuplicata, riesco laddove non sono mai riuscito, il mio rendimento è aumentato del cinquecento per cento, ma non sono più capace di sostenere una conversazione per più di tre minuti, decorsi i quali ciò che il mio interlocutore sta dicendo smette di interessarmi, e la mia mente riprende a pensare ai fatti suoi, completamente incapace di decodificare i messaggi vocali che continuano a pervenire dall’esterno quali parole di senso compiuto, componenti plausibili a loro volta di un discorso logico e coerente. Quel che le persone hanno da dire non mi riguarda più. Come potrebbero interessarmi fatti con i quali non ho connessione alcuna relativi a persone che non fanno parte in alcun modo della mia esistenza?
Trovo noiosi i discorsi altrui. Una volta riuscivo ad ascoltare per ore le chiacchiere degli altri. Monotoni o vivaci che fossero, i discorsi degli amici erano sempre ottimi spunti di riflessione. E quanto mi piaceva dispensare consigli, com’ero bravo a rivelare la formula magica della serenità. A nessuno negavo una parola di conforto, una pacca sulla spalla, la mia comprensione, il mio appoggio morale. Era un orecchio attento e premuroso il mio, dispensavo perle di saggezza senza lesinare. Sono diventato un accattone, un miserabile barbone all’angolo della strada, cappello in terra, occhi bassi da cane bastonato, un disgraziato che elemosina a sua volta un soldo d’ascolto.
– Ditemi, signori, vi è mai capitato di guardarvi allo specchio e di non riconoscervi? Vi è mai capitato di guardare i vostri figli e chiedervi come hanno fatto costoro a nascere, quando è successo esattamente, con gli ovuli di quale donna avete mischiato il vostro seme e perché?- chiedo agli sconosciuti passanti. Dovevo amarla mia moglie per decidere di concepire figli con lei, perlomeno così presumo, eppure ora la guardo e, per quanti sforzi io faccia, non mi riesce di riesumare il ricordo del preciso istante, evidentemente vissuto, in cui ho deciso di legarmi indissolubilmente a lei. Come ho potuto? E quando l’avrei fatto? E perché proprio lei e non un’altra? Chi è la persona che dorme al mio fianco? E’ carina, finanche bella, ha un naso elegante, francese, labbra morbide, ben disegnate, un seno pieno, ancora sodo, capelli folti, lunghi, ventre invitante, ma non so chi sia. La osservo respirare, di notte conto i battiti del suo cuore nella vena del polso, tento di ricordarne il ritmo, la annuso come un cane nell’ostinato tentativo di ricordarne almeno l’odore, ma nel mio cervello di animale nulla si accende, nemmeno un barlume. Non la conosco. So che è mia moglie ma non so chi sia. Da qualche parte, là fuori, forse c’è quella vera, quella che mi hanno sottratto.
Faccio fatica a scorrere attraverso i miei giorni. Lavoro più che posso per tenere la testa impegnata, occupo il mio tempo libero in modo tale da essere sempre stanco, e più tento di sfinirmi più resto sveglio. I pensieri che cerco di evitare sono sempre in agguato, corrono come topi nella cantina buia della mia mente e vanno a rintanarsi in un baleno, nei più angusti pertugi, quando accendo la luce. Vorrei poterli osservare bene una volta per tutte, contarli ad uno ad uno, ma non ci riesco mai. Vorrei disseminare i meandri del mio sconforto di esche avvelenate, ma so che uccidendo loro, i topi, ucciderei me stesso.
C’è un viso di donna che mi ossessiona, un sorriso che parte dagli occhi, accende le guance arrossate e scopre la punta dei denti. Mi guarda di sbieco, mi chiama per nome, mi sfiora il mento con la mano, poi si avvicina a posarmi un bacio leggero sulle labbra. E’ carne della mia carne, sangue del mio sangue, respiro il suo respiro caldo e mi si riempie l’anima, ma il tempo a mia disposizione è già finito. I suoi polsi magri scivolano attraverso la stretta della mie mani viscide di paura. Mi sveglio di soprassalto ogni notte ormai da mesi, con il cuore che martella le tempie e il sudore ghiacciato in mezzo alle spalle. Qualcuno mi ha sottratto alla mia vita e mi ha trasportato nella vita di un altro, dentro un’esistenza che non ricordo di aver scelto e che non mi appartiene, costretto a recitare una parte, come da copione.
A Natale mi sono accorto di aver definitivamente perso il contatto mnemonico con i primi quarant’anni della mia vita anagrafica. Niente è più triste di un Natale triste, e il mio lo è stato. Ho riso fino a farmi formicolare le mascelle, ho aperto regali, abbracciato parenti sconosciuti, giocato a carte, mangiato più del dovuto, ho fatto tutto quello che dovevo. Alla prima occasione mi sono chiuso in bagno e, seduto sulla tavoletta del water, ho implorato Dio di restituirmi alla mia vita e ho pianto, ormai incapace di sostenere ulteriormente l’angoscia di un’esistenza con la quale con ho più rapporto alcuno.
Vorrei avere un numero da digitare, un nome da formulare, ma non ho niente in mano, soltanto lo spezzone di un ricordo e una foto, l’unica prova tangibile della mia vita precedente o successiva, non so. Sono stato dal mio medico curante, ho cercato di spiegargli come mi sento, quello che provo, gli ho parlato del senso di estraneità che percepisco quando sono con i miei familiari, della mia incapacità di ricordare i passaggi emotivi che mi hanno portato, uno dopo l’altro, a fare le scelte principali della mia vita. Non è un medico molto anziano, ma ha quindici anni più di me e mi conosce da sempre. Mi ha detto che lavoro troppo. Mi ha chiesto quante ore dormo per notte e mi ha prescritto delle gocce per rilassarmi un po’ – soltanto per mettere insieme otto ore di sonno continuato, come prescritto dal manuale del buon padre di famiglia – ha concluso sorridendo. Ho avuto la sensazione che fosse preoccupato per me, come un amico, non come un dottore.
Sto prendendo le gocce. A mia moglie non l’ho detto. Le prendo la sera, di nascosto, prima di andare a letto. Ho la sensazione che non servano a molto se non a spegnere il desiderio sessuale, perlomeno spero proprio che dipenda da quelle. Ho una donna carina nel letto, l’ho già detto, una donna morbida e accattivante che vorrebbe soltanto io mi occupassi un po’ di lei, ma non ho erezione, nemmeno pensando ad altro. Le sue mani armeggiano intorno al mio pene, le vedo muoversi attivamente, bisognose, e altre mani si sovrappongono, nervose, magre, dita lunghe e pelle troppo sottile. Se chiudo gli occhi riesco a ricordare i suoi occhi fissi nei miei e la sua bella bocca che si schiude in un sorriso e prende a muoversi. Non emette suoni, ma leggo il suo labiale, mi sta parlando. – Vieni per me, ti prego amore mio, vieni per me, fammi felice – ed io le inondo il viso e i capelli di seme caldo e amorevole. Amo questa donna che mi pugnala le reni, che mi strazia la carne, che domina i miei pensieri e le mie viscere.
Mia moglie piange sempre più spesso. Cerco di rassicurarla. Le ho parlato delle gocce, sembra aver capito, ma ora è preoccupata anche lei. Non ho potuto parlarle dell’altra donna, come potrei? Non posso dirle che non ricordo di averla sposata. Per aiutare se stessa e me, ora organizza ogni sorta di intrattenimento, feste a sorpresa, viaggi lampo, gite in barca. Ha rinnovato tutta la sua biancheria intima. Si è messa in testa di guarirmi, di riportarmi su questa terra. A volte spero che ci riesca.
Nel frattempo ho consultato uno psichiatra, è inutile far finta di niente, ho bisogno di aiuto. Ora prendo una pillola rossa al mattino ed una bianca la sera, prima di coricarmi. Ho ripreso a fare l’amore con mia moglie che dentro il letto salta come una capra. Qualcuno deve averle messo in testa che più si agita, più mi fa godere. Non ho voglia di lei, ma faccio il mio dovere, almeno questo, assolvo il mandato e la faccio contenta.
Oggi ho ritrovato un sasso in fondo alla tasca interna di un giubbotto che non metto da anni. L’ho riconosciuto subito, non appena la sua forma rotondeggiante è scivolata nel palmo della mia mano. L’ho portato dallo specialista che mi segue. – Ecco, lo vede, è un sasso, non è un pensiero, non è un’idea, non è un prodotto della mia immaginazione, è un sasso e me lo ha dato lei, la donna della foto – gli ho gridato in faccia poggiando il sasso sul ripiano lucido della sua scrivania da cinquemila euro. – E allora? – mi ha risposto – Cosa dimostra? E’ un sasso. Dimostra soltanto se stesso. Sa dirmi quando questa donna glielo avrebbe dato, e perché? –
Gli racconto del sasso e di lei. Gli racconto di quando lo ha raccolto da terra, in mezzo a tanti altri, tutti uguali, di come me lo ha messo in tasca. Portavo lo stesso giubbotto, lo stesso di adesso, me lo ha messo in tasca dicendomi che sarebbero passati giorni, mesi, anni, ma il sasso non sarebbe passato, il sasso sarebbe rimasto, con le sue impronte stampate sopra, e le mie. Mi ha raccomandato di non dimenticare mai né il sasso, né lei, qualunque cosa fosse capitata, qualunque cosa.
– Amico mio, si sieda qui, accanto a me, e cerchi di ricordare quando e dove ha preso questo sasso e se lo è messo in tasca. Sia buono con se stesso, si perdoni, si conceda un errore di tanto in tanto – .
Sono rientrato molto tardi ieri stasera, e ho baciato i miei figli. Li riconosco ancora, conosco i loro nomi, so che li amo, so che mi amano; non so come li ho avuti, non so cosa ho provato quando sono nati, ma sono miei. Mi sono steso al loro fianco, mi sono infilato nel loro letto, sotto le coperte, ho avuto bisogno di sentire il calore dei loro corpi addormentati. Aiutatemi figli miei, aiutatemi a ricordare chi sono.
Ho smesso di andare dal dottore, ero stufo delle sue chiacchiere inutili, per fortuna sono ancora libero di operare delle scelte. Mia moglie non è d’accordo, dice che secondo lei le cose così andranno peggio e che parlare con lui mi faceva stare più tranquillo. Non mi interessa stare tranquillo, mi interessa soltanto ricordare quando è avvenuto il passaggio. Se soltanto riuscissi a mettere a fuoco l’istante in cui sono stato trasportato da una vita all’altra…
Da qualche tempo dormo due ore per notte e passo tutto il resto del tempo al buio, a pensare. A volte mi alzo e leggo, altre volte guardo vecchi film in televisione, ogni tanto esco, giro in macchina come un matto, come quello che sono ormai, sperando di incontrare una donna di cui non so nemmeno il nome. Adesso ho una foto, un sasso e una lettera, uno scritto disperato. E’ una donna impazzita dal dolore quella che parla, non potrebbe essere diversamente. Mi rimprovera, mi accusa duramente di averla tradita. Mi rinnova il suo amore ad ogni parola, ogni riga trabocca di paura e di perdono. Non sono stato io, non è possibile, io non l’ho mai tradita, io non l’ho mai lasciata. Era l’unico specchio capace di riflettere un’immagine accettabile di me, come avrei potuto tradirla o lasciarla dopo avere impiegato tanto tempo a trovarla? Ricordo perfettamente le mille volte in cui le ho promesso che non sarei sparito. Eppure devo averlo fatto, non so quando, ma devo averlo fatto di sicuro, ed ora si sta prendendo la sua rivincita, sta ponendo in essere la sua vendetta. Il dolore genera dolore. Sparita dalla faccia della terra, si è installata nella mia mente come un virus letale, e ora sta cancellando le mie memorie, sta divorando una ad una le connessioni dei miei ricordi, e se è vero, come è vero, che ognuno di noi è soltanto la sommatoria delle scelte operate, delle decisioni prese, dei giorni vissuti, io molto presto non sarò più niente, non sarò più nessuno.
Stanotte l’ho sognata. Come posso aver pensato che volesse farmi del male? Me ne vergogno. Era piccola come una bambina, l’ho cullata, ho asciugato le sue lacrime e mi sono avvinghiato a lei come ad un salvifico scoglio. Non lasciarmi morire, le ho chiesto, non lasciarmi morire. Non essere ridicolo, mi ha risposto tranquilla, di nuovo sorridente, nessuno morirà, nessuno.
Vivo da giorni in una stanza tutta mia, prendo farmaci ad ore prestabilite, dormo spesso, quasi tutto il tempo. Mi piace dormire, e mentre dormo la sogno. Da sveglio non sempre riesco a parlarle. Nel sonno la ritrovo, nel sonno mi ritrovo, nel sonno gli eventi riprendono il loro decorso naturale, nel sonno sono al mio posto, al posto che mi compete, nel sonno lei viene a trovarmi e mi parla della mia vera vita, quella in cui ogni cosa torna ad essere se stessa. Nel sonno le chiedo perdono e ogni volta lei me lo concede. Nel sonno non soffro, nel sonno non fingo, nel sonno non devo essere nient’altro che quello che sono.
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Il racconto “Perdita di Memoria” è stato scritto in una notte. L’idea arrivò all’improvviso ed era così chiara e nitida che mi fulminò, un uomo che perdeva pezzi della memoria come le tessere di puzzle e che venivano via via sostituite con altre provenienti da non si sa dove, da una vita precedente, successiva o addirittura parallela. La sua incapacità di ritrovarsi nella propria vita e il progressivo distacco da persone e luoghi si rivela, procedendo nella lettura, più che una perdita di memoria la riscoperta di una memoria diversa, più vecchia o più nuova non è dato di sapere ma, sicuramente, più vera. Visivamente quel che mi veniva in mente mentre scrivevo era la situazione che qualche volta si produce nel restauro dei quadri: sotto il quadro apparente, di valore più modesto, affiora, spesso per caso, nell’angolo, o al centro, comunque in una zona all’inizio minimale, un altro dipinto, di maggior valore, molto più vivo e reale di quello oggetto del restauro, dovuto alla mano di un autore molto più abile. La verità si nasconde sotto le apparenze. Così chi vive attorno al protagonista non comprende il suo disagio e si impegna, secondo modalità diverse, a ricondurlo nell’accettazione della propria realtà. Egli si rifiuta, il suo Es e il suo Io si alleano e lo conducono lentamente ma inesorabilmente verso quella che per gli altri è follia, ma che per il protagonista è il ritorno a casa, il ritorno al vero sé.
Purtroppo quella notte ero senza pc, l’avevo portato in riparazione e, per non far svanire l’idea, scrissi il racconto con una bic nera e dei fogli di carta bianca da stampante. Lo buttai giù tutto intero, di getto, una parola dopo l’altra, come sotto dettatura, e il giorno dopo lo trascrissi, lo rilessi, mi sembrò buono e lo inviai al concorso nazionale organizzato dal Centro Artistico Culturale Torinese “Arte Città Amica”. Fu selezionato e premiato presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino come primo qualificato nella sezione racconti inediti con la seguente motivazione: “Perdita di memoria”, storia di una discesa nei meandri dell’inconscio, di un percorso fra dettagli psichici e memorialistici, alla ricerca di un’appartenenza perduta; il brano è condotto con stile sobrio e sorvegliato, con felice e raffinata capacità di osservazione e introspezione”. L’anno dopo fu inserito in una antologia di nuovi autori edita dalla casa editrice Ananke di Torino.

Simona Conte