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I sommersi e i salvati. Note a margine su Primo Levi

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“La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi danno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono, ma per noi la questione è più semplice. Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera”.

Le parole sono di Primo Levi, su cui ho scritto alcune note a margine su L’Ottavo. L’impressione è che certe parole conservino sempre una possente attualità. 

Rimando, per la lettura di questo e di altri articoli della rubrica “Luoghi d’Autore”, a  questo link: https://www.lottavo.it/2020/04/note-a-margine-su-primo-levi/  .

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I sommersi e i salvati - Levi, Primo - Ebook - EPUB con DRM | IBS

 

 

NOTE A MARGINE SU PRIMO LEVI

Di Ivano Mugnaini

La discesa negli inferi senza un vero ritorno

La guerra c’è sempre. Il resto è solo tregua.

Anzi, la guerra è sempre, è il presente che non muta, resta, a rincorrere, a mordere e strappare via la carne dei giorni.

Questa è la prima sensazione, il sapore agro del primo impatto con le parole di Primo Levi. Ben più complesso è il percorso che ha compiuto e ha voluto trasmettere. Preso atto del dolore, dell’assurdo sovrumano, anzi inumano, in grado di negare la natura stessa dell’umanità, l’alternativa è la resa, l’inazione, il silenzio, oppure il cammino della testimonianza.

Essendo conscio della fragilità e dell’imperfezione della memoria, Levi, da uomo di scienza, ha registrato tutto con oggettività, prima che qualcuno, forse lui stesso, potesse dire un giorno che i dettagli non erano esatti, non corrispondevano le dosi, le componenti, gli elementi della pazzia. Si è assunto il compito, da chimico attento e paziente, di registrare, trascrivere, riportare, in forma di parole, elenchi di eventi e gesti, attimi e corpi morti e vivi, i sommersi e i salvati.

Primo Levi (Foto da wikipedia)

Il vero viaggio di Primo Levi è stato dentro una memoria a cui dava vita passo dopo passo e da cui gradualmente veniva annientato, come da un acido corrosivo. Conscio di questo, non si è mai fermato, fino a quando ha potuto, finché ha avuto la sensazione di avere la forza di poter continuare ad essere utile ai suoi simili. Finché è riuscito a rievocare gli orrori più grandi conservando spazio per un sorriso, amarissimo ma tenace. La prova che il nemico aveva perduto. Perché la vita e l’umanità resistono perfino ad Auschwitz. Resistono all’annientamento, alla ferocia pianificata e resa meccanica, con una struttura industriale, per tramutare gli uomini in materia inerte. Ma la materia inerte non sa sorridere, non sa rievocare, seppure con la morte nel cuore, tutte le occasioni in cui nei campi di sterminio è rimasta viva la fame di arte, di musica, di letteratura, o semplicemente la volontà di vita a dispetto di tutto, essa stessa forma primaria e assoluta di poesia.

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PERDITA DI MEMORIA

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dedalus1.jpg“Non sono mai stato tanto lucido in vita mia come da quando è iniziata la mia perdita di memoria”. La mia attrazione per questo racconto è iniziata da questa scintilla, da questo apparente paradosso capace di aprire squarci di luce sui meandri oscuri della mente umana, o di gettarvi un’ombra in più. Comunque sia, la presa emotiva e affabulatoria è vasta e immediata. Simona Conte, autrice che ho avuto modo di leggere e di apprezzare assieme agli altri componenti della giuria al Concorso La Vita in Prosa in cui è risultata tra i vincitori, esplora le miserie e le nobiltà della mente, della sorte, del destino, di quel mistero arcano che è la mente umana, con sguardo intenso ma mai privo di umana pietà e di quello scampolo tenace di ironia che è arma di legittima difesa.
In calce al racconto pubblico la presentazione del racconto scritta dalla stessa autrice. Essa stessa parte integrante non solo della genesi della scrittura ma direi del processo narrativo, quasi un brano di metaletteratura che diventa letteratura tout court, indagando ulteriormente sulle dinamiche mentali della creazione, della memoria, del rapporto tra realtà e immaginazione, finzione e “verità”.
Un racconto complesso ma scritto in modo scorrevole e godibile. Un’escursione sui terreni friabili della follia, del senso stesso dell’esistere e del riflettere sulla consistenza dell’inconsistente.
Buona lettura a tutte e a tutti i “dedalonauti”, IM
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PERDITA DI MEMORIA
“La demenza consiste nella compromissione globale delle funzioni cosiddette corticali (o nervose) superiori, ivi compresa la memoria, la capacità di far fronte alle richieste del quotidiano e di svolgere le prestazioni percettive e motorie già acquisite in precedenza, di mantenere un comportamento sociale adeguato alle circostanze e di controllare le proprie reazioni emotive: tutto ciò in assenza di compromissione dello stato di vigilanza.
La condizione è spesso irreversibile e progressiva”.

Vi è mai successo di perdere la memoria? E non parlo di una perdita lieve, come quando si fa fatica a ricordare il nome di qualcuno che conosciamo bene. Parlo di una perdita sostanziale, progressiva, definitiva, parlo dello svegliarsi una mattina e rendersi conto che un intero lustro della propria vita è scomparso nel nulla, e poi un decennio, e poi un ventennio, e poi, pian piano, l’intero arco dell’esistenza, tanto che non si è più in grado di comprendere perché ci si trova dentro quella vita che non ci appartiene e perché quelle persone, che non sappiamo chi siano, ci trattino con tanta familiarità e si prendano confidenze che non sarebbero lecite né auspicabili tra estranei. Non è una bella sensazione.
La prima volta è passata inosservata. Me ne sono reso conto soltanto a cose fatte. Cercavo di ricordare me stesso seduto sui gradini di casa mia, nella casa nella quale sono nato e cresciuto fino all’età di dieci anni. Mi sforzavo di focalizzare la mia immagine, un ragazzino magro con i capelli scarmigliati, le scarpe slacciate e la maglietta sporca, seduto sugli ultimi due gradini di una scala non molto alta che dal portone d’ingresso si gettava direttamente sulla strada. Il ragazzino c’era, se ne stava lì, seduto, a guardare davanti a sé, ma non ero io. Mi somigliava soltanto.
La mia perdita di memoria non va intesa come perdita dei fatti, dei visi o della cronologia degli eventi. La questione è completamente diversa. Io sto perdendo progressivamente il rapporto con la mia esistenza, sto perdendo la sensazione di appartenenza ai miei stessi ricordi. Mi sono perfettamente chiari gli episodi, i luoghi, le persone, le cose, le parole, i gesti, i colori, a volte anche gli odori, ma non le sensazioni, non le emozioni. Ogni ricordo è privato della memoria del personalmente vissuto, come storie raccontate da altri e fatte proprie, come fatti capitati a terzi che non siamo noi e che, a furia di sentirle ripetere, sono diventate nostre senza esserlo e che teniamo ben distinte nel cervello, nella categoria “ricordi presi a prestito”.
Non sono mai stato tanto lucido in vita mia come da quando è iniziata la mia perdita di memoria. A volte temo che il mio cranio si apra per dare sfogo alla tensione interna. Non prendo caffè, non bevo e non faccio uso di sostanze stupefacenti, ma dormo sempre meno e ho sempre meno bisogno di riposo. Lavoro dodici ore al giorno, la mia capacità di concentrazione è centuplicata, riesco laddove non sono mai riuscito, il mio rendimento è aumentato del cinquecento per cento, ma non sono più capace di sostenere una conversazione per più di tre minuti, decorsi i quali ciò che il mio interlocutore sta dicendo smette di interessarmi, e la mia mente riprende a pensare ai fatti suoi, completamente incapace di decodificare i messaggi vocali che continuano a pervenire dall’esterno quali parole di senso compiuto, componenti plausibili a loro volta di un discorso logico e coerente. Quel che le persone hanno da dire non mi riguarda più. Come potrebbero interessarmi fatti con i quali non ho connessione alcuna relativi a persone che non fanno parte in alcun modo della mia esistenza?
Trovo noiosi i discorsi altrui. Una volta riuscivo ad ascoltare per ore le chiacchiere degli altri. Monotoni o vivaci che fossero, i discorsi degli amici erano sempre ottimi spunti di riflessione. E quanto mi piaceva dispensare consigli, com’ero bravo a rivelare la formula magica della serenità. A nessuno negavo una parola di conforto, una pacca sulla spalla, la mia comprensione, il mio appoggio morale. Era un orecchio attento e premuroso il mio, dispensavo perle di saggezza senza lesinare. Sono diventato un accattone, un miserabile barbone all’angolo della strada, cappello in terra, occhi bassi da cane bastonato, un disgraziato che elemosina a sua volta un soldo d’ascolto.
– Ditemi, signori, vi è mai capitato di guardarvi allo specchio e di non riconoscervi? Vi è mai capitato di guardare i vostri figli e chiedervi come hanno fatto costoro a nascere, quando è successo esattamente, con gli ovuli di quale donna avete mischiato il vostro seme e perché?- chiedo agli sconosciuti passanti. Dovevo amarla mia moglie per decidere di concepire figli con lei, perlomeno così presumo, eppure ora la guardo e, per quanti sforzi io faccia, non mi riesce di riesumare il ricordo del preciso istante, evidentemente vissuto, in cui ho deciso di legarmi indissolubilmente a lei. Come ho potuto? E quando l’avrei fatto? E perché proprio lei e non un’altra? Chi è la persona che dorme al mio fianco? E’ carina, finanche bella, ha un naso elegante, francese, labbra morbide, ben disegnate, un seno pieno, ancora sodo, capelli folti, lunghi, ventre invitante, ma non so chi sia. La osservo respirare, di notte conto i battiti del suo cuore nella vena del polso, tento di ricordarne il ritmo, la annuso come un cane nell’ostinato tentativo di ricordarne almeno l’odore, ma nel mio cervello di animale nulla si accende, nemmeno un barlume. Non la conosco. So che è mia moglie ma non so chi sia. Da qualche parte, là fuori, forse c’è quella vera, quella che mi hanno sottratto.
Faccio fatica a scorrere attraverso i miei giorni. Lavoro più che posso per tenere la testa impegnata, occupo il mio tempo libero in modo tale da essere sempre stanco, e più tento di sfinirmi più resto sveglio. I pensieri che cerco di evitare sono sempre in agguato, corrono come topi nella cantina buia della mia mente e vanno a rintanarsi in un baleno, nei più angusti pertugi, quando accendo la luce. Vorrei poterli osservare bene una volta per tutte, contarli ad uno ad uno, ma non ci riesco mai. Vorrei disseminare i meandri del mio sconforto di esche avvelenate, ma so che uccidendo loro, i topi, ucciderei me stesso.
C’è un viso di donna che mi ossessiona, un sorriso che parte dagli occhi, accende le guance arrossate e scopre la punta dei denti. Mi guarda di sbieco, mi chiama per nome, mi sfiora il mento con la mano, poi si avvicina a posarmi un bacio leggero sulle labbra. E’ carne della mia carne, sangue del mio sangue, respiro il suo respiro caldo e mi si riempie l’anima, ma il tempo a mia disposizione è già finito. I suoi polsi magri scivolano attraverso la stretta della mie mani viscide di paura. Mi sveglio di soprassalto ogni notte ormai da mesi, con il cuore che martella le tempie e il sudore ghiacciato in mezzo alle spalle. Qualcuno mi ha sottratto alla mia vita e mi ha trasportato nella vita di un altro, dentro un’esistenza che non ricordo di aver scelto e che non mi appartiene, costretto a recitare una parte, come da copione.
A Natale mi sono accorto di aver definitivamente perso il contatto mnemonico con i primi quarant’anni della mia vita anagrafica. Niente è più triste di un Natale triste, e il mio lo è stato. Ho riso fino a farmi formicolare le mascelle, ho aperto regali, abbracciato parenti sconosciuti, giocato a carte, mangiato più del dovuto, ho fatto tutto quello che dovevo. Alla prima occasione mi sono chiuso in bagno e, seduto sulla tavoletta del water, ho implorato Dio di restituirmi alla mia vita e ho pianto, ormai incapace di sostenere ulteriormente l’angoscia di un’esistenza con la quale con ho più rapporto alcuno.
Vorrei avere un numero da digitare, un nome da formulare, ma non ho niente in mano, soltanto lo spezzone di un ricordo e una foto, l’unica prova tangibile della mia vita precedente o successiva, non so. Sono stato dal mio medico curante, ho cercato di spiegargli come mi sento, quello che provo, gli ho parlato del senso di estraneità che percepisco quando sono con i miei familiari, della mia incapacità di ricordare i passaggi emotivi che mi hanno portato, uno dopo l’altro, a fare le scelte principali della mia vita. Non è un medico molto anziano, ma ha quindici anni più di me e mi conosce da sempre. Mi ha detto che lavoro troppo. Mi ha chiesto quante ore dormo per notte e mi ha prescritto delle gocce per rilassarmi un po’ – soltanto per mettere insieme otto ore di sonno continuato, come prescritto dal manuale del buon padre di famiglia – ha concluso sorridendo. Ho avuto la sensazione che fosse preoccupato per me, come un amico, non come un dottore.
Sto prendendo le gocce. A mia moglie non l’ho detto. Le prendo la sera, di nascosto, prima di andare a letto. Ho la sensazione che non servano a molto se non a spegnere il desiderio sessuale, perlomeno spero proprio che dipenda da quelle. Ho una donna carina nel letto, l’ho già detto, una donna morbida e accattivante che vorrebbe soltanto io mi occupassi un po’ di lei, ma non ho erezione, nemmeno pensando ad altro. Le sue mani armeggiano intorno al mio pene, le vedo muoversi attivamente, bisognose, e altre mani si sovrappongono, nervose, magre, dita lunghe e pelle troppo sottile. Se chiudo gli occhi riesco a ricordare i suoi occhi fissi nei miei e la sua bella bocca che si schiude in un sorriso e prende a muoversi. Non emette suoni, ma leggo il suo labiale, mi sta parlando. – Vieni per me, ti prego amore mio, vieni per me, fammi felice – ed io le inondo il viso e i capelli di seme caldo e amorevole. Amo questa donna che mi pugnala le reni, che mi strazia la carne, che domina i miei pensieri e le mie viscere.
Mia moglie piange sempre più spesso. Cerco di rassicurarla. Le ho parlato delle gocce, sembra aver capito, ma ora è preoccupata anche lei. Non ho potuto parlarle dell’altra donna, come potrei? Non posso dirle che non ricordo di averla sposata. Per aiutare se stessa e me, ora organizza ogni sorta di intrattenimento, feste a sorpresa, viaggi lampo, gite in barca. Ha rinnovato tutta la sua biancheria intima. Si è messa in testa di guarirmi, di riportarmi su questa terra. A volte spero che ci riesca.
Nel frattempo ho consultato uno psichiatra, è inutile far finta di niente, ho bisogno di aiuto. Ora prendo una pillola rossa al mattino ed una bianca la sera, prima di coricarmi. Ho ripreso a fare l’amore con mia moglie che dentro il letto salta come una capra. Qualcuno deve averle messo in testa che più si agita, più mi fa godere. Non ho voglia di lei, ma faccio il mio dovere, almeno questo, assolvo il mandato e la faccio contenta.
Oggi ho ritrovato un sasso in fondo alla tasca interna di un giubbotto che non metto da anni. L’ho riconosciuto subito, non appena la sua forma rotondeggiante è scivolata nel palmo della mia mano. L’ho portato dallo specialista che mi segue. – Ecco, lo vede, è un sasso, non è un pensiero, non è un’idea, non è un prodotto della mia immaginazione, è un sasso e me lo ha dato lei, la donna della foto – gli ho gridato in faccia poggiando il sasso sul ripiano lucido della sua scrivania da cinquemila euro. – E allora? – mi ha risposto – Cosa dimostra? E’ un sasso. Dimostra soltanto se stesso. Sa dirmi quando questa donna glielo avrebbe dato, e perché? –
Gli racconto del sasso e di lei. Gli racconto di quando lo ha raccolto da terra, in mezzo a tanti altri, tutti uguali, di come me lo ha messo in tasca. Portavo lo stesso giubbotto, lo stesso di adesso, me lo ha messo in tasca dicendomi che sarebbero passati giorni, mesi, anni, ma il sasso non sarebbe passato, il sasso sarebbe rimasto, con le sue impronte stampate sopra, e le mie. Mi ha raccomandato di non dimenticare mai né il sasso, né lei, qualunque cosa fosse capitata, qualunque cosa.
– Amico mio, si sieda qui, accanto a me, e cerchi di ricordare quando e dove ha preso questo sasso e se lo è messo in tasca. Sia buono con se stesso, si perdoni, si conceda un errore di tanto in tanto – .
Sono rientrato molto tardi ieri stasera, e ho baciato i miei figli. Li riconosco ancora, conosco i loro nomi, so che li amo, so che mi amano; non so come li ho avuti, non so cosa ho provato quando sono nati, ma sono miei. Mi sono steso al loro fianco, mi sono infilato nel loro letto, sotto le coperte, ho avuto bisogno di sentire il calore dei loro corpi addormentati. Aiutatemi figli miei, aiutatemi a ricordare chi sono.
Ho smesso di andare dal dottore, ero stufo delle sue chiacchiere inutili, per fortuna sono ancora libero di operare delle scelte. Mia moglie non è d’accordo, dice che secondo lei le cose così andranno peggio e che parlare con lui mi faceva stare più tranquillo. Non mi interessa stare tranquillo, mi interessa soltanto ricordare quando è avvenuto il passaggio. Se soltanto riuscissi a mettere a fuoco l’istante in cui sono stato trasportato da una vita all’altra…
Da qualche tempo dormo due ore per notte e passo tutto il resto del tempo al buio, a pensare. A volte mi alzo e leggo, altre volte guardo vecchi film in televisione, ogni tanto esco, giro in macchina come un matto, come quello che sono ormai, sperando di incontrare una donna di cui non so nemmeno il nome. Adesso ho una foto, un sasso e una lettera, uno scritto disperato. E’ una donna impazzita dal dolore quella che parla, non potrebbe essere diversamente. Mi rimprovera, mi accusa duramente di averla tradita. Mi rinnova il suo amore ad ogni parola, ogni riga trabocca di paura e di perdono. Non sono stato io, non è possibile, io non l’ho mai tradita, io non l’ho mai lasciata. Era l’unico specchio capace di riflettere un’immagine accettabile di me, come avrei potuto tradirla o lasciarla dopo avere impiegato tanto tempo a trovarla? Ricordo perfettamente le mille volte in cui le ho promesso che non sarei sparito. Eppure devo averlo fatto, non so quando, ma devo averlo fatto di sicuro, ed ora si sta prendendo la sua rivincita, sta ponendo in essere la sua vendetta. Il dolore genera dolore. Sparita dalla faccia della terra, si è installata nella mia mente come un virus letale, e ora sta cancellando le mie memorie, sta divorando una ad una le connessioni dei miei ricordi, e se è vero, come è vero, che ognuno di noi è soltanto la sommatoria delle scelte operate, delle decisioni prese, dei giorni vissuti, io molto presto non sarò più niente, non sarò più nessuno.
Stanotte l’ho sognata. Come posso aver pensato che volesse farmi del male? Me ne vergogno. Era piccola come una bambina, l’ho cullata, ho asciugato le sue lacrime e mi sono avvinghiato a lei come ad un salvifico scoglio. Non lasciarmi morire, le ho chiesto, non lasciarmi morire. Non essere ridicolo, mi ha risposto tranquilla, di nuovo sorridente, nessuno morirà, nessuno.
Vivo da giorni in una stanza tutta mia, prendo farmaci ad ore prestabilite, dormo spesso, quasi tutto il tempo. Mi piace dormire, e mentre dormo la sogno. Da sveglio non sempre riesco a parlarle. Nel sonno la ritrovo, nel sonno mi ritrovo, nel sonno gli eventi riprendono il loro decorso naturale, nel sonno sono al mio posto, al posto che mi compete, nel sonno lei viene a trovarmi e mi parla della mia vera vita, quella in cui ogni cosa torna ad essere se stessa. Nel sonno le chiedo perdono e ogni volta lei me lo concede. Nel sonno non soffro, nel sonno non fingo, nel sonno non devo essere nient’altro che quello che sono.
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Il racconto “Perdita di Memoria” è stato scritto in una notte. L’idea arrivò all’improvviso ed era così chiara e nitida che mi fulminò, un uomo che perdeva pezzi della memoria come le tessere di puzzle e che venivano via via sostituite con altre provenienti da non si sa dove, da una vita precedente, successiva o addirittura parallela. La sua incapacità di ritrovarsi nella propria vita e il progressivo distacco da persone e luoghi si rivela, procedendo nella lettura, più che una perdita di memoria la riscoperta di una memoria diversa, più vecchia o più nuova non è dato di sapere ma, sicuramente, più vera. Visivamente quel che mi veniva in mente mentre scrivevo era la situazione che qualche volta si produce nel restauro dei quadri: sotto il quadro apparente, di valore più modesto, affiora, spesso per caso, nell’angolo, o al centro, comunque in una zona all’inizio minimale, un altro dipinto, di maggior valore, molto più vivo e reale di quello oggetto del restauro, dovuto alla mano di un autore molto più abile. La verità si nasconde sotto le apparenze. Così chi vive attorno al protagonista non comprende il suo disagio e si impegna, secondo modalità diverse, a ricondurlo nell’accettazione della propria realtà. Egli si rifiuta, il suo Es e il suo Io si alleano e lo conducono lentamente ma inesorabilmente verso quella che per gli altri è follia, ma che per il protagonista è il ritorno a casa, il ritorno al vero sé.
Purtroppo quella notte ero senza pc, l’avevo portato in riparazione e, per non far svanire l’idea, scrissi il racconto con una bic nera e dei fogli di carta bianca da stampante. Lo buttai giù tutto intero, di getto, una parola dopo l’altra, come sotto dettatura, e il giorno dopo lo trascrissi, lo rilessi, mi sembrò buono e lo inviai al concorso nazionale organizzato dal Centro Artistico Culturale Torinese “Arte Città Amica”. Fu selezionato e premiato presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino come primo qualificato nella sezione racconti inediti con la seguente motivazione: “Perdita di memoria”, storia di una discesa nei meandri dell’inconscio, di un percorso fra dettagli psichici e memorialistici, alla ricerca di un’appartenenza perduta; il brano è condotto con stile sobrio e sorvegliato, con felice e raffinata capacità di osservazione e introspezione”. L’anno dopo fu inserito in una antologia di nuovi autori edita dalla casa editrice Ananke di Torino.

Simona Conte

L’inedito di New York

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inedito NY Paolo Volponi, L’inedito di New York – Conversazione con Luigi Fontanella, Nino Aragno Editore, Torino, 2012
Recensione di Ivano Mugnaini

È un libro multiforme, L’inedito di New York. Lo si dice spesso, di molti volumi, non di rado in senso generico. In questo caso la definizione è esatta, specifica. La prima ripartizione è rilevabile fin dalla copertina: il libro racchiude una conversazione di Paolo Volponi con Luigi Fontanella, un’intervista registrata e diligentemente trascritta. In calce, nella postfazione, un accurato saggio critico su Volponi scritto da Giorgio Mobili. Fin qui la superficie, già di per sé ampia e suggestiva, in virtù del personaggio oggetto del dialogo e dello studio. Ma, aprendo il libro, si scopre, pagina dopo pagina, un mondo più ampio e ricco, variegato, in qualche modo inatteso all’interno di un’opera la cui collocazione è negli scaffali delle librerie riservati alla saggistica. Sono questi territori di confine, queste scoperte e queste sorprese, a fornire al lettore un valore aggiunto di assoluto rilievo, rendendo l’esplorazione di questo fertile ibrido del tutto coinvolgente.
Nell’introduzione Luigi Fontanella propone un suo personale ricordo di Paolo Volponi. Fin qui tutto normale e prevedibile. Ma, per fortuna, ci si accorge ben presto che è del tutto sui generis il modo di raccontare l’incontro ed il dialogo decennale, così come autentica, non formale o di maniera, è l’amicizia che lega l’intervistatore all’intervistato. Fontanella definisce Volponi “un grande scrittore-amico”. Il lettore smaliziato abituato ai vari teatrini della letteratura si aspetterebbe di scoprire, qualche pagina oltre, che l’amicizia è tale solo di nome, che la stima è stata in realtà un mero scambio di favori e di mielosi complimenti reciproci. Non è così. In virtù del carattere di Volponi e di quello di Fontanella, il dialogo è fatto di genuina, ruvida, dolce, disincantata e tenace schiettezza.
È grazie a questa spontaneità che l’intervista cattura, uscendo con una virata brusca dalle rotte già segnate e prevedibili, ed invadendo, a tratti, ambiti di ulteriori generi e suggestioni. Fontanella ha conosciuto Volponi prima come autore che come persona. A trentacinque anni gli scrisse una lettera esprimendo la sua ammirazione per il romanzo Corporale. La risposta di Volponi generò il primo incontro di persona, a Roma, nel 1979. La conoscenza con Volponi accompagna gli studi e l’esistenza di Fontanella per una vita intera. Contribuisce a rafforzare il binomio tra scrittura e vita, non in modo astratto ma concreto, rintracciabile passo passo nelle coordinate dei libri, dei dialoghi, dei viaggi, delle parole condivise. In questo senso non è forse eccessivo considerare questo Inedito di New York anche un lavoro narrativo, un romanzo di formazione. In senso ampio, certo, e, in virtù di questo, generoso di simboli, allegorie, cangianti morali della favola.
Il libro contiene una moltitudine di luoghi, date, tragitti, percorsi, metropoli trafficatissime e cittadine sconosciute, una per tutte Provo nello Utah, collocazione ideale per una vicenda apocalittica o per la scena di un road movie. I personaggi della vicenda sono un poeta-scrittore-critico che incontra uno scrittore che ammira da sempre. La sfida è un atto di affetto incondizionato. L’arma è la parola, quella per cui entrambi i personaggi hanno vissuto, quella per cui sono disposti a morire.
I due personaggi però sono troppo brillanti e astuti per incontrarsi per il duello-intervista in mezzo alla polvere. Il luogo ideale per lo scambio di frasi è una Caffetteria di Manhattan. Locale che piacerebbe anche a Woody Allen. Un posto in cui parlare di cose serie e cose lievi con il sottofondo di risa, voci, urla, traffico di macchine e di gente. Il luogo ideale per dire cose serie senza prendersi troppo sul serio. Sapendo che chi crede di possedere verità assolute distrugge la vita e la letteratura. Sapendo che, per i due amici dialoganti, letteratura e vita sono, nel profondo, la stessa cosa.
In questo contesto, lontano dall’Italia e da tutti i salotti ingessati e ingessanti, i due personaggi possono essere se stessi. Può venire fuori il caratteraccio di Volponi (proprio del resto di tutti coloro che un carattere lo possiedono), la sua forza immaginativa, la capacità di restare fedele alle proprie idee, letterarie e sociali, anche a costo di inimicarsi una parte della cosiddetta intellighenzia. Le domande che Fontanella pone al suo interlocutore sono precise, spesso asciutte, mirate. Non vuole mai Fontanella fare sfoggio di cultura e non desidera imporre traiettorie a lui gradite alle risposte. Questa lunga intervista mette in evidenza una dote rara, il desiderio reale di nutrirsi dei fonemi e delle sillabe, accumulandole, confrontandole in silenzio con il proprio punto di vista, la propria visione del mondo. Si tratta di un ruvido abbraccio, l’invito a guardare nella stessa direzione. Non a caso Fontanella utilizza, per definire la forza della frasi di Volponi, l’aggettivo prensile. Si crea, anzi si rinsalda, domanda dopo domanda, una fratellanza ideale, anche sulla base di un’amicizia condivisa complessa e travolgente, quella con Pasolini.
La sincerità delle risposte di Volponi è tanto spiazzante quanto arricchente. Tra le righe di questo libro si cela e si svela un panorama scomodo, quello del mondo letterario autentico, tra rivalità, invidie, frustrazioni, grandezze, miserie, fallimenti e nuove ricerche. La “presa diretta” è l’elemento propulsore di maggior vigore di questa intervista: Volponi non interpreta il ruolo di se stesso; vive la sua esistenza vera, mentre risponde sia a Fontanella che alla cameriera della caffetteria, si inebria e si imbestialisce al ricordo di libri felici o meno riusciti e critici che non ha mai sopportato. Mano a mano, con tatto ma anche con avida curiosità, Fontanella elenca una moltitudine di autori ed opere, soprattutto del Novecento, sollecitando il parere di Volponi. Le repliche sono asciutte, il più delle volte, e sempre prive di calcolo e di secondi fini, con un rispetto sobrio ma anche con il coraggio di dichiarare differenti schieramenti e cammini divergenti. La lista è lunghissima e gustosa. Citare tutti gli autori chiamati in causa è impossibile qui ed ora. Un’eccezione si può fare per Elsa Morante, ed in particolare per il suo La storia, romanzo il cui successo ebbe un effetto negativo per Volponi, imponendogli una preoccupata pausa di riflessione. Non nasconde e non nega tali rivalità, lo scrittore urbinate, con determinazione aperta, mai con atteggiamenti subdolamente velenosi. Con la foga di un’intelligenza aliena a facili compromessi, espressa tramite “il senso aspro, viscerale del suo sarcasmo”, come annota Fontanella, con il contrappunto, in imprevedibili frangenti, di “momenti di acuta dolcezza”. Il tutto però sempre con sobrietà nitida. Emerge, anche da questo libro-intervista, la capacità di Volponi di lottare, il suo agonismo coerente, tenace, sia sul piano letterario che su quello sociale e politico. La parola “impegno”, in quest’ottica, tra le pieghe delle frasi rese gesti concreti, riacquista una sua dimensione autentica. Ritrovano una dimensione ben precisa anche alcune delle parole chiave della vicenda biografica di Volponi: società, industria, operai, lavoro, e, non ultima, collegata da un nodo stretto a tutte le altre precedentemente citate, cultura. I discorsi di Volponi, sia quelli preparati per le aule magne universitarie sia quelli scambiati con un amico e collega scrittore sulle sedie di un bar newyorkese, sono un gesto, un’azione, materiale fatto di memoria su cui costruire nuovi edifici di pensiero. E le parole che oggi vengono vilipese, o, peggio, ignorate o irrise, operaio, diritto, lavoro, giustizia sociale, escono dalla naftalina degli armadi in cui qualcuno ha voluto riporle e confermano la loro stringente, necessaria, vitale attualità.
Nel maggio del 1989 Volponi regalò a Fontanella una copia con dedica del Le mosche del capitale. Di quell’incontro resta una foto, uno scatto ancora sereno, prima delle tragedie personali che avrebbero condotto alla morte prematura dello scrittore. Resta anche questo libro-intervista, ugualmente nitido e bene a fuoco, privo di effetti speciali e di ricerche di pose artefatte e innaturali. Rimane questo libro documentato, preciso, ricco di dati preziosi, ma anche di verve, di fantasia, di onestà intellettuale e umana. Tra le righe del volume si legge la storia quotidiana e vera, non imbellettata, sia della letteratura degli ultimi decenni sia della società italiana, tra crisi e anelito di rinascita, oppressioni abilmente celate e resistenze quotidiane. Le risposte di Volponi donano al lettore “l’indagine di una verità”, citando le sue stesse parole. Una verità, la sola possibile, visto che le verità assolute non sussistono, se non nella mente degli oppressori di ogni epoca e di ogni ambito. Un libro non facile dedicato ad un personaggio non facile, questo Inedito di New York. Proprio per questo vale assolutamente la pena leggerlo, strappando lo scrittore e l’uomo Volponi, come auspica Fontanella, ad uno strano, immeritato oblio. Il frutto di questa lettura è una riscoperta, la cui mappa è puntualmente tracciata dalle parole dello stesso Volponi: “Il progetto, la confidenza, l’esplorazione addolorata sono sempre modi di dare allarme a chi legge, di metterlo nella condizione di capire, di recepire, di mettersi più attentamente di fronte a se stesso e ai propri problemi. Quindi tutto questo è una crescita, morale e politica. […] Rinnovare le parole, rinnovare proprio i termini della produzione letteraria come stimolo all’attività politica. Che porti via i politici dal loro mondo simulato, li porti a scoprire la verità. Siamo nel mondo della simulazione, della televisione: qui non c’è niente”. Questo libro-intervista risale agli anni Ottanta. Le parole che contiene, le idee che esprime, appartengono al nostro presente, e, come tali, vanno lette e assimilate.

Ivano Mugnaini

Esistenze e resistenze

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LETTERATURA NECESSARIA – ESISTENZE E RESISTENZE

AZIONE N° 15

Martedì 22 Maggio ore 18.00

Mood Libri & Caffè
Via Cesare Battisti 3/e
TORINO

con

Jacopo Ninni, Silvia Rosa, Max Ponte
Salvatore Sblando, Tiziano Fratus,
Ada Gomez Serito, Ivan Fassio & Diego Razza

presentazione del progetto e introduzione
Enzo Campi


LETTERATURA NECESSARIA – ESISTENZE E RESISTENZE

Per una co-abitazione delle distanze:
Letteratura Necessaria – Esistenze e Resistenze
In un’epoca dove ritornano a galla sempre più prepotentemente l’urgenza e il bisogno di rispolverare e ridefinire i concetti di comunità e condivisione, nasce il progetto di aggregazione letteraria LETTERATURA NECESSARIA – ESISTENZE E RESISTENZE.
Lo scopo del progetto è essenzialmente quello di far CIRCOLARE i libri e le cosiddette “risorse umane” creando dei momenti di aggregazione, scambio e confronto che possano abbattere qualsiasi tipo di divisione ideologica, editoriale, di mercato, ecc., mettendo in comunicazione tra loro diverse e svariate realtà che operano nel settore o che sono impegnate in tal senso.
In parole povere si tratta di costituire una serie di poli geografici di riferimento disseminati lungo tutto l’arco del territorio nazionale. Ogni polo avrà un referente che si occuperà dell’organizzazione in loco e con il quale concordare gli autori (locali e nazionali) da coinvolgere e le modalità di realizzazione dell’evento.
Il progetto è diviso in varie fasi; ad una prima fase quasi esclusivamente performativa seguirà una seconda fase dove gli autori – per rendere ulteriormente “concreto” il concetto di aggregazione – verranno chiamati a leggere e presentare criticamente altri autori.
Visto che il progetto intende caratterizzarsi come un qualcosa di itinerante e ad ampio respiro si cercherà di organizzare e rendere fattiva una terza fase in cui gli autori che intendono contribuire alla realizzazione del progetto ma che si trovano territorialmente distanti e/o impossibilitati a partecipare direttamente agli eventi, potranno rendersi presenti anche nella loro assenza attraverso contributi fonici e visivi.
La quarta fase del progetto prevede la realizzazione di uno o due volumi antologici “comunitari” con contributi letterari e critici di diverse decine di autori che collaborano all’iniziativa. Nella fattispecie, ogni autore antologizzato si impegnerà a realizzare un evento nella propria città e, attraverso le risorse individuate dalla rete, inviterà autori territorialmente vicini a partecipare all’evento. Durante questi eventi, oltre a “spacciare” i contenuti del progetto e l’antologia cosiddetta comunitaria, gli autori coinvolti potranno eventualmente presentare le loro opere e eventualmente altri autori.
Quello che conta qui è una vera e propria “messa al lavoro” della letteratura. Semplificando e riducendo, si potrebbe dire che se le “esistenze” sono riconducibili ai libri, in quanto oggetti fisici, le “resistenze” rappresentano le “azioni” di quei “soggetti” fisici che producono i libri. Aggiungendo una sola caratterizzazione: il fatto di ostinarsi, per esempio, a produrre e a “spacciare” poesia, oggi come oggi, deve essere considerato come un vero e proprio “atto politico”. In tal senso ogni azione di questo tipo viene a rivestirsi di un plusvalore sociale. “Letteratura necessaria” è un progetto che vuole rendersi pratico, concreto e tangibile. Qui si tratta di far sì che la necessità di mettersi in gioco in prima persona diventi l’aspetto preponderante della diffusione della letteratura come atto corporeo, politico e aggregativo. L’idea di fondo è quella di ovviare alla sempre più imperante DISPERSIONE che caratterizza, in negativo, l’attuale panorama letterario nazionale e di creare una sorta di rete che permetta la costituzione e la ripetizione di eventi (“marchiati” e catalogati progressivamente in “azioni”) collegati tra loro ove far interagire realtà letterarie e realtà editoriali, in un regime non competitivo, ma collaborativo.
“Letteratura necessaria”, beninteso, non vuole essere un movimento tematico, ma pluritematico, volto a certificare la propria “esistenza” e a diffondere una sorta di “resistenza”. Resistenza a chi e a cosa? A tutto ciò che è privazione, restrizione, negazione, omologazione, ghettizzazione, a tutto ciò che lede i propri diritti, che ripropone gli stessi, triti e ritriti canoni letterari. In poche parole il progetto, almeno in fase concettuale, nasce “in costruzione” e crescerà sempre “in costruzione”, assorbendo e consolidando, di volta in volta, necessità, urgenze, tematiche e facendosi portavoce di messaggi che possano rientrare nei concetti di necessarietà, esistenza e resistenza.
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Finora, tra Bologna, Milano, Parma, Reggio Emilia, Roma, Capua (CE), Sasso Marconi (BO), Mantova, Verona sono state realizzate 14 azioni live che hanno coinvolto : Marco Giovenale, Mariangela Guàtteri, Ranieri Teti, Alessandro Assiri, Francesco Marotta, Enrico De Lea, Jacopo Ninni, Agnese Leo, Dina Basso, Nadia Agustoni, Giorgio Bonacini, Ermanno Guantini, Silvia Molesini, Patrizia Dughero, Nina Maroccolo, Alessandra Cava, Anna Maria Curci, Cristina Annino, Vincenzo Bagnoli, Loredana Magazzeni, Luca Ariano, Viola Amarelli, Lucia Pinto, Marco Bini, Alessia D’Errigo, Annamaria Ferramosca, Ada Gomez Serito, Lorenzo Mari, Anila Resuli, Carmine De Falco, Simonetta Bumbi & Orlando Andreucci, Stefania Crozzoletti, Antonella Taravella, Silvia Rosa, Roberto Ranieri, Marinella Polidori, Luca Artioli, Michele Mari, Sergio Pasquandrea, Marco Palasciano, Daniele Ventre, Gianluca Corbellini, Valentina Gaglione, Enea Roversi, Martina Campi & Mario Sboarina, Valentina Gaglione, Fernando Della Posta, Vittorio Tovoli, Francesca Del Moro, Meth Sambiase, Patrizia Rampazzo, Marco Ruini, Claudio Bedocchi.
Le attività proseguiranno a maggio con altre 3 azioni: Milano, Verona e Bologna. Sono in fase di costruzione altre azioni tra Marche, Veneto, Emilia Romagna e Lombardia.
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