antologia

Arte e Scienza – Antologia de “La Recherche”

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Una bella copertina e una bella iniziativa de LaRecherche a cura di Giuliano Brenna e Roberto Maggiani.

Un modo per ritrovarsi in un volume assieme a cari amici e  per riproporre un mio racconto (che trascrivo qui in calce), un po’ scientifico e molto folle.

Per fortuna, per ora, di pura fantasia.IMNessuna descrizione della foto disponibile.

ARTE E SCIENZA: QUALE RAPPORTO?
[ L’arte della scienza, la scienza dell’arte ]

(disegno di copertina realizzato da Alessandra Magoga)

Al suo interno troverete l’arte e la scienza in 72 autori, a cura di Giuliano Brenna e Roberto Maggiani.

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CANONE INVERSO, antologia , presentazione a Milano, 5 novembre

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COMUNICATO STAMPA E INVITO

L’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Centro di Ricerca Letteratura e Cultura dell’Italia Unita, insieme con l’Editrice Gradiva Publications dell’Università Statale di New York, è lieta d’invitarla alla presentazione, con relativa lettura di testi, dell’antologia bilingue CANONE INVERSO, Anthology of Contemporary Italian Poetry, a cura di Pietro Montorfani (Gradiva Publications, State University of New York, 2014).

Presiede e coordina il Prof. Giuseppe Langella
Introducono il Dr. Pietro Montorfani e il Prof. Luigi Fontanella

Leggeranno testi della propria poesia, tratti dall’antologia, alcuni dei poeti antologizzati: Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Luigi Fontanella, Alberto Nessi, Giancarlo Pontiggia, Patrizia Valduga, Cesare Viviani.
Data e ora: mercoledì, 5 Novembre, alle ore 10.
Luogo: aula Pio XI, Università Cattolica del Sacro Cuore,
Largo Gemelli 1, Milano.
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EVENTO APERTO AL PUBBLICO

Nota di lettura a Rossella Tempesta

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ImmagineUna mia nota di lettura a un’intensa poesia di Rossella Tempesta. Un’occasione per riflettere su vita e morte, realtà e finzione, verità e menzogna.IM

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Rossella Tempesta

Giorno dei morti

I morti non sono mai morti

mentre le guerre, la fame, le sofferenze

sono i frutti, il raccolto, di una grave dimenticanza

una non ricordanza

l’assenza di specchi

la loro presenza velata

ai cari occhi degli uomini

di perduti, frenetici e inani

combattenti contro i mulini

ciechi, sordi, dimentichi.

Dimenticanti, si sono

dimenticati.

Non trovano la strada e le voci

in ogni casa che ogni strada abita:

il tugurio, il castello, il tumulo di terra

e l’ossario sono un’unica storia

la pulce del cane, il cane, il padrone

un’unica cosa, la gradazione

di ogni colore, l’odore che è la storia

infinita, mai iniziata, è.

La greve oscura dimenticanza

festeggia il giorno dei morti viventi

e accendono lumi al silenzio

pure  alcuni assassini.

 

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                                               Nota di Ivano Mugnaini a

                                               Giorno dei Morti

 

Ci obbliga a chiederci se siamo vivi, la poesia di Rossella Tempesta. Se siamo viventi, non sopravviventi. Ci invita a individuare il discrimine, il crinale da cui è possibile separare e distinguere le terre e i deserti, i raccolti fecondi e quelli che generano la gramigna e le stoppie dell’odio e della violenza. Al di sopra di tutto, come una pianta infestante, il più vasto dei mali: l’indifferenza, quella “non ricordanza” che è atto di supremo rifiuto dell’altro, annientamento preventivo, assassinio silenzioso.

L’esordio della poesia è perentorio, deliberatamente spiazzante: “I morti non sono mai morti”. La negazione dell’evidenza, l’apparente paradosso, possentemente iperbolico, ci trasporta in una dimensione che si colloca tra la realtà e la riflessione, tra l’osservazione dei dati di fatto e la sollecitazione ad andare oltre, leggendo tra le righe, muovendoci con passo rapido tra il detto e il non detto, l’inespresso che grida, accendendo “lumi al silenzio”.

La forza dell’invettiva deriva proprio dal tono che l’autrice ha scelto: non c’è mai un richiamo diretto, un’esortazione immediata. C’è, in questa poesia, un pungolo alla presa di coscienza, un richiamo a riconoscere, riconoscendosi, “la strada e le voci”, individuando le radici condivise, i luoghi, le parole, quella “casa che ogni strada abita”.

Questo tessuto connettivo è abilmente e adeguatamente rispecchiato a livello sintattico dall’utilizzo frequente di frasi in cui i vocaboli si legano l’uno all’altro, per analogia e per contrasto, attraverso parallelismi e chiasmi. Il tutto ulteriormente intrecciato da assonanze, consonanze e rime interne: “una grave dimenticanza/ una non ricordanza/ l’assenza di specchi/ la loro presenza velata”. Ed è quasi uno specchio in più, un vetro su cui si è obbligati a riflettersi, questa alternanza tra termini posti in relazione e in opposizione. Come se le assenze e le presenze linguistiche facessero da sfondo e da eco alle scelte essenziali, le affinità e l’indifferenza, la solidarietà e l’egoismo.

L’impegno sociale è uno dei temi ricorrenti nella poesia di Rossella Tempesta, sia in questo testo specifico, che, a livello più ampio, in tutta la sua produzione. Ma l’autrice non dimentica mai il compito e la natura primaria della poesia: il lavoro attento sulla parola e con la parola, la ricerca del ritmo, dell’armonia e di quel senso ulteriore che rende il dettato e la vis comunicativa implicita, allusiva, ma, nonostante questo, anzi, in virtù di questo, urgente e coinvolgente.

Da questa poesia dalla trama sintattica e dall’intreccio severo ma quasi sinfonico delle sillabe, emerge in modo ineluttabile una domanda, un interrogativo, anzi due questioni interrelate: chi siano i “morti viventi” festeggiati dal loro idolo, la “greve oscura dimenticanza”, e, se noi, noi lettori, quelli che Baudelaire avrebbe definito “ipocriti, simili e fratelli”, possiamo escluderci a cuor leggero dal novero di tale mirabile schiera. Non resta che il coraggio di guardare il “tumulo di terra” e “l’ossario”, il presente e il passato, il qui e l’altrove, l’io e l’altro, e capire, com-prendere davvero, che “sono un’unica storia”, quella storia infinita, “mai iniziata”, e, di conseguenza, ancora da scrivere, tramite una parola che è anche gesto, atto concreto, azione della mente e del cuore.

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PERDITA DI MEMORIA

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dedalus1.jpg“Non sono mai stato tanto lucido in vita mia come da quando è iniziata la mia perdita di memoria”. La mia attrazione per questo racconto è iniziata da questa scintilla, da questo apparente paradosso capace di aprire squarci di luce sui meandri oscuri della mente umana, o di gettarvi un’ombra in più. Comunque sia, la presa emotiva e affabulatoria è vasta e immediata. Simona Conte, autrice che ho avuto modo di leggere e di apprezzare assieme agli altri componenti della giuria al Concorso La Vita in Prosa in cui è risultata tra i vincitori, esplora le miserie e le nobiltà della mente, della sorte, del destino, di quel mistero arcano che è la mente umana, con sguardo intenso ma mai privo di umana pietà e di quello scampolo tenace di ironia che è arma di legittima difesa.
In calce al racconto pubblico la presentazione del racconto scritta dalla stessa autrice. Essa stessa parte integrante non solo della genesi della scrittura ma direi del processo narrativo, quasi un brano di metaletteratura che diventa letteratura tout court, indagando ulteriormente sulle dinamiche mentali della creazione, della memoria, del rapporto tra realtà e immaginazione, finzione e “verità”.
Un racconto complesso ma scritto in modo scorrevole e godibile. Un’escursione sui terreni friabili della follia, del senso stesso dell’esistere e del riflettere sulla consistenza dell’inconsistente.
Buona lettura a tutte e a tutti i “dedalonauti”, IM
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PERDITA DI MEMORIA
“La demenza consiste nella compromissione globale delle funzioni cosiddette corticali (o nervose) superiori, ivi compresa la memoria, la capacità di far fronte alle richieste del quotidiano e di svolgere le prestazioni percettive e motorie già acquisite in precedenza, di mantenere un comportamento sociale adeguato alle circostanze e di controllare le proprie reazioni emotive: tutto ciò in assenza di compromissione dello stato di vigilanza.
La condizione è spesso irreversibile e progressiva”.

Vi è mai successo di perdere la memoria? E non parlo di una perdita lieve, come quando si fa fatica a ricordare il nome di qualcuno che conosciamo bene. Parlo di una perdita sostanziale, progressiva, definitiva, parlo dello svegliarsi una mattina e rendersi conto che un intero lustro della propria vita è scomparso nel nulla, e poi un decennio, e poi un ventennio, e poi, pian piano, l’intero arco dell’esistenza, tanto che non si è più in grado di comprendere perché ci si trova dentro quella vita che non ci appartiene e perché quelle persone, che non sappiamo chi siano, ci trattino con tanta familiarità e si prendano confidenze che non sarebbero lecite né auspicabili tra estranei. Non è una bella sensazione.
La prima volta è passata inosservata. Me ne sono reso conto soltanto a cose fatte. Cercavo di ricordare me stesso seduto sui gradini di casa mia, nella casa nella quale sono nato e cresciuto fino all’età di dieci anni. Mi sforzavo di focalizzare la mia immagine, un ragazzino magro con i capelli scarmigliati, le scarpe slacciate e la maglietta sporca, seduto sugli ultimi due gradini di una scala non molto alta che dal portone d’ingresso si gettava direttamente sulla strada. Il ragazzino c’era, se ne stava lì, seduto, a guardare davanti a sé, ma non ero io. Mi somigliava soltanto.
La mia perdita di memoria non va intesa come perdita dei fatti, dei visi o della cronologia degli eventi. La questione è completamente diversa. Io sto perdendo progressivamente il rapporto con la mia esistenza, sto perdendo la sensazione di appartenenza ai miei stessi ricordi. Mi sono perfettamente chiari gli episodi, i luoghi, le persone, le cose, le parole, i gesti, i colori, a volte anche gli odori, ma non le sensazioni, non le emozioni. Ogni ricordo è privato della memoria del personalmente vissuto, come storie raccontate da altri e fatte proprie, come fatti capitati a terzi che non siamo noi e che, a furia di sentirle ripetere, sono diventate nostre senza esserlo e che teniamo ben distinte nel cervello, nella categoria “ricordi presi a prestito”.
Non sono mai stato tanto lucido in vita mia come da quando è iniziata la mia perdita di memoria. A volte temo che il mio cranio si apra per dare sfogo alla tensione interna. Non prendo caffè, non bevo e non faccio uso di sostanze stupefacenti, ma dormo sempre meno e ho sempre meno bisogno di riposo. Lavoro dodici ore al giorno, la mia capacità di concentrazione è centuplicata, riesco laddove non sono mai riuscito, il mio rendimento è aumentato del cinquecento per cento, ma non sono più capace di sostenere una conversazione per più di tre minuti, decorsi i quali ciò che il mio interlocutore sta dicendo smette di interessarmi, e la mia mente riprende a pensare ai fatti suoi, completamente incapace di decodificare i messaggi vocali che continuano a pervenire dall’esterno quali parole di senso compiuto, componenti plausibili a loro volta di un discorso logico e coerente. Quel che le persone hanno da dire non mi riguarda più. Come potrebbero interessarmi fatti con i quali non ho connessione alcuna relativi a persone che non fanno parte in alcun modo della mia esistenza?
Trovo noiosi i discorsi altrui. Una volta riuscivo ad ascoltare per ore le chiacchiere degli altri. Monotoni o vivaci che fossero, i discorsi degli amici erano sempre ottimi spunti di riflessione. E quanto mi piaceva dispensare consigli, com’ero bravo a rivelare la formula magica della serenità. A nessuno negavo una parola di conforto, una pacca sulla spalla, la mia comprensione, il mio appoggio morale. Era un orecchio attento e premuroso il mio, dispensavo perle di saggezza senza lesinare. Sono diventato un accattone, un miserabile barbone all’angolo della strada, cappello in terra, occhi bassi da cane bastonato, un disgraziato che elemosina a sua volta un soldo d’ascolto.
– Ditemi, signori, vi è mai capitato di guardarvi allo specchio e di non riconoscervi? Vi è mai capitato di guardare i vostri figli e chiedervi come hanno fatto costoro a nascere, quando è successo esattamente, con gli ovuli di quale donna avete mischiato il vostro seme e perché?- chiedo agli sconosciuti passanti. Dovevo amarla mia moglie per decidere di concepire figli con lei, perlomeno così presumo, eppure ora la guardo e, per quanti sforzi io faccia, non mi riesce di riesumare il ricordo del preciso istante, evidentemente vissuto, in cui ho deciso di legarmi indissolubilmente a lei. Come ho potuto? E quando l’avrei fatto? E perché proprio lei e non un’altra? Chi è la persona che dorme al mio fianco? E’ carina, finanche bella, ha un naso elegante, francese, labbra morbide, ben disegnate, un seno pieno, ancora sodo, capelli folti, lunghi, ventre invitante, ma non so chi sia. La osservo respirare, di notte conto i battiti del suo cuore nella vena del polso, tento di ricordarne il ritmo, la annuso come un cane nell’ostinato tentativo di ricordarne almeno l’odore, ma nel mio cervello di animale nulla si accende, nemmeno un barlume. Non la conosco. So che è mia moglie ma non so chi sia. Da qualche parte, là fuori, forse c’è quella vera, quella che mi hanno sottratto.
Faccio fatica a scorrere attraverso i miei giorni. Lavoro più che posso per tenere la testa impegnata, occupo il mio tempo libero in modo tale da essere sempre stanco, e più tento di sfinirmi più resto sveglio. I pensieri che cerco di evitare sono sempre in agguato, corrono come topi nella cantina buia della mia mente e vanno a rintanarsi in un baleno, nei più angusti pertugi, quando accendo la luce. Vorrei poterli osservare bene una volta per tutte, contarli ad uno ad uno, ma non ci riesco mai. Vorrei disseminare i meandri del mio sconforto di esche avvelenate, ma so che uccidendo loro, i topi, ucciderei me stesso.
C’è un viso di donna che mi ossessiona, un sorriso che parte dagli occhi, accende le guance arrossate e scopre la punta dei denti. Mi guarda di sbieco, mi chiama per nome, mi sfiora il mento con la mano, poi si avvicina a posarmi un bacio leggero sulle labbra. E’ carne della mia carne, sangue del mio sangue, respiro il suo respiro caldo e mi si riempie l’anima, ma il tempo a mia disposizione è già finito. I suoi polsi magri scivolano attraverso la stretta della mie mani viscide di paura. Mi sveglio di soprassalto ogni notte ormai da mesi, con il cuore che martella le tempie e il sudore ghiacciato in mezzo alle spalle. Qualcuno mi ha sottratto alla mia vita e mi ha trasportato nella vita di un altro, dentro un’esistenza che non ricordo di aver scelto e che non mi appartiene, costretto a recitare una parte, come da copione.
A Natale mi sono accorto di aver definitivamente perso il contatto mnemonico con i primi quarant’anni della mia vita anagrafica. Niente è più triste di un Natale triste, e il mio lo è stato. Ho riso fino a farmi formicolare le mascelle, ho aperto regali, abbracciato parenti sconosciuti, giocato a carte, mangiato più del dovuto, ho fatto tutto quello che dovevo. Alla prima occasione mi sono chiuso in bagno e, seduto sulla tavoletta del water, ho implorato Dio di restituirmi alla mia vita e ho pianto, ormai incapace di sostenere ulteriormente l’angoscia di un’esistenza con la quale con ho più rapporto alcuno.
Vorrei avere un numero da digitare, un nome da formulare, ma non ho niente in mano, soltanto lo spezzone di un ricordo e una foto, l’unica prova tangibile della mia vita precedente o successiva, non so. Sono stato dal mio medico curante, ho cercato di spiegargli come mi sento, quello che provo, gli ho parlato del senso di estraneità che percepisco quando sono con i miei familiari, della mia incapacità di ricordare i passaggi emotivi che mi hanno portato, uno dopo l’altro, a fare le scelte principali della mia vita. Non è un medico molto anziano, ma ha quindici anni più di me e mi conosce da sempre. Mi ha detto che lavoro troppo. Mi ha chiesto quante ore dormo per notte e mi ha prescritto delle gocce per rilassarmi un po’ – soltanto per mettere insieme otto ore di sonno continuato, come prescritto dal manuale del buon padre di famiglia – ha concluso sorridendo. Ho avuto la sensazione che fosse preoccupato per me, come un amico, non come un dottore.
Sto prendendo le gocce. A mia moglie non l’ho detto. Le prendo la sera, di nascosto, prima di andare a letto. Ho la sensazione che non servano a molto se non a spegnere il desiderio sessuale, perlomeno spero proprio che dipenda da quelle. Ho una donna carina nel letto, l’ho già detto, una donna morbida e accattivante che vorrebbe soltanto io mi occupassi un po’ di lei, ma non ho erezione, nemmeno pensando ad altro. Le sue mani armeggiano intorno al mio pene, le vedo muoversi attivamente, bisognose, e altre mani si sovrappongono, nervose, magre, dita lunghe e pelle troppo sottile. Se chiudo gli occhi riesco a ricordare i suoi occhi fissi nei miei e la sua bella bocca che si schiude in un sorriso e prende a muoversi. Non emette suoni, ma leggo il suo labiale, mi sta parlando. – Vieni per me, ti prego amore mio, vieni per me, fammi felice – ed io le inondo il viso e i capelli di seme caldo e amorevole. Amo questa donna che mi pugnala le reni, che mi strazia la carne, che domina i miei pensieri e le mie viscere.
Mia moglie piange sempre più spesso. Cerco di rassicurarla. Le ho parlato delle gocce, sembra aver capito, ma ora è preoccupata anche lei. Non ho potuto parlarle dell’altra donna, come potrei? Non posso dirle che non ricordo di averla sposata. Per aiutare se stessa e me, ora organizza ogni sorta di intrattenimento, feste a sorpresa, viaggi lampo, gite in barca. Ha rinnovato tutta la sua biancheria intima. Si è messa in testa di guarirmi, di riportarmi su questa terra. A volte spero che ci riesca.
Nel frattempo ho consultato uno psichiatra, è inutile far finta di niente, ho bisogno di aiuto. Ora prendo una pillola rossa al mattino ed una bianca la sera, prima di coricarmi. Ho ripreso a fare l’amore con mia moglie che dentro il letto salta come una capra. Qualcuno deve averle messo in testa che più si agita, più mi fa godere. Non ho voglia di lei, ma faccio il mio dovere, almeno questo, assolvo il mandato e la faccio contenta.
Oggi ho ritrovato un sasso in fondo alla tasca interna di un giubbotto che non metto da anni. L’ho riconosciuto subito, non appena la sua forma rotondeggiante è scivolata nel palmo della mia mano. L’ho portato dallo specialista che mi segue. – Ecco, lo vede, è un sasso, non è un pensiero, non è un’idea, non è un prodotto della mia immaginazione, è un sasso e me lo ha dato lei, la donna della foto – gli ho gridato in faccia poggiando il sasso sul ripiano lucido della sua scrivania da cinquemila euro. – E allora? – mi ha risposto – Cosa dimostra? E’ un sasso. Dimostra soltanto se stesso. Sa dirmi quando questa donna glielo avrebbe dato, e perché? –
Gli racconto del sasso e di lei. Gli racconto di quando lo ha raccolto da terra, in mezzo a tanti altri, tutti uguali, di come me lo ha messo in tasca. Portavo lo stesso giubbotto, lo stesso di adesso, me lo ha messo in tasca dicendomi che sarebbero passati giorni, mesi, anni, ma il sasso non sarebbe passato, il sasso sarebbe rimasto, con le sue impronte stampate sopra, e le mie. Mi ha raccomandato di non dimenticare mai né il sasso, né lei, qualunque cosa fosse capitata, qualunque cosa.
– Amico mio, si sieda qui, accanto a me, e cerchi di ricordare quando e dove ha preso questo sasso e se lo è messo in tasca. Sia buono con se stesso, si perdoni, si conceda un errore di tanto in tanto – .
Sono rientrato molto tardi ieri stasera, e ho baciato i miei figli. Li riconosco ancora, conosco i loro nomi, so che li amo, so che mi amano; non so come li ho avuti, non so cosa ho provato quando sono nati, ma sono miei. Mi sono steso al loro fianco, mi sono infilato nel loro letto, sotto le coperte, ho avuto bisogno di sentire il calore dei loro corpi addormentati. Aiutatemi figli miei, aiutatemi a ricordare chi sono.
Ho smesso di andare dal dottore, ero stufo delle sue chiacchiere inutili, per fortuna sono ancora libero di operare delle scelte. Mia moglie non è d’accordo, dice che secondo lei le cose così andranno peggio e che parlare con lui mi faceva stare più tranquillo. Non mi interessa stare tranquillo, mi interessa soltanto ricordare quando è avvenuto il passaggio. Se soltanto riuscissi a mettere a fuoco l’istante in cui sono stato trasportato da una vita all’altra…
Da qualche tempo dormo due ore per notte e passo tutto il resto del tempo al buio, a pensare. A volte mi alzo e leggo, altre volte guardo vecchi film in televisione, ogni tanto esco, giro in macchina come un matto, come quello che sono ormai, sperando di incontrare una donna di cui non so nemmeno il nome. Adesso ho una foto, un sasso e una lettera, uno scritto disperato. E’ una donna impazzita dal dolore quella che parla, non potrebbe essere diversamente. Mi rimprovera, mi accusa duramente di averla tradita. Mi rinnova il suo amore ad ogni parola, ogni riga trabocca di paura e di perdono. Non sono stato io, non è possibile, io non l’ho mai tradita, io non l’ho mai lasciata. Era l’unico specchio capace di riflettere un’immagine accettabile di me, come avrei potuto tradirla o lasciarla dopo avere impiegato tanto tempo a trovarla? Ricordo perfettamente le mille volte in cui le ho promesso che non sarei sparito. Eppure devo averlo fatto, non so quando, ma devo averlo fatto di sicuro, ed ora si sta prendendo la sua rivincita, sta ponendo in essere la sua vendetta. Il dolore genera dolore. Sparita dalla faccia della terra, si è installata nella mia mente come un virus letale, e ora sta cancellando le mie memorie, sta divorando una ad una le connessioni dei miei ricordi, e se è vero, come è vero, che ognuno di noi è soltanto la sommatoria delle scelte operate, delle decisioni prese, dei giorni vissuti, io molto presto non sarò più niente, non sarò più nessuno.
Stanotte l’ho sognata. Come posso aver pensato che volesse farmi del male? Me ne vergogno. Era piccola come una bambina, l’ho cullata, ho asciugato le sue lacrime e mi sono avvinghiato a lei come ad un salvifico scoglio. Non lasciarmi morire, le ho chiesto, non lasciarmi morire. Non essere ridicolo, mi ha risposto tranquilla, di nuovo sorridente, nessuno morirà, nessuno.
Vivo da giorni in una stanza tutta mia, prendo farmaci ad ore prestabilite, dormo spesso, quasi tutto il tempo. Mi piace dormire, e mentre dormo la sogno. Da sveglio non sempre riesco a parlarle. Nel sonno la ritrovo, nel sonno mi ritrovo, nel sonno gli eventi riprendono il loro decorso naturale, nel sonno sono al mio posto, al posto che mi compete, nel sonno lei viene a trovarmi e mi parla della mia vera vita, quella in cui ogni cosa torna ad essere se stessa. Nel sonno le chiedo perdono e ogni volta lei me lo concede. Nel sonno non soffro, nel sonno non fingo, nel sonno non devo essere nient’altro che quello che sono.
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Il racconto “Perdita di Memoria” è stato scritto in una notte. L’idea arrivò all’improvviso ed era così chiara e nitida che mi fulminò, un uomo che perdeva pezzi della memoria come le tessere di puzzle e che venivano via via sostituite con altre provenienti da non si sa dove, da una vita precedente, successiva o addirittura parallela. La sua incapacità di ritrovarsi nella propria vita e il progressivo distacco da persone e luoghi si rivela, procedendo nella lettura, più che una perdita di memoria la riscoperta di una memoria diversa, più vecchia o più nuova non è dato di sapere ma, sicuramente, più vera. Visivamente quel che mi veniva in mente mentre scrivevo era la situazione che qualche volta si produce nel restauro dei quadri: sotto il quadro apparente, di valore più modesto, affiora, spesso per caso, nell’angolo, o al centro, comunque in una zona all’inizio minimale, un altro dipinto, di maggior valore, molto più vivo e reale di quello oggetto del restauro, dovuto alla mano di un autore molto più abile. La verità si nasconde sotto le apparenze. Così chi vive attorno al protagonista non comprende il suo disagio e si impegna, secondo modalità diverse, a ricondurlo nell’accettazione della propria realtà. Egli si rifiuta, il suo Es e il suo Io si alleano e lo conducono lentamente ma inesorabilmente verso quella che per gli altri è follia, ma che per il protagonista è il ritorno a casa, il ritorno al vero sé.
Purtroppo quella notte ero senza pc, l’avevo portato in riparazione e, per non far svanire l’idea, scrissi il racconto con una bic nera e dei fogli di carta bianca da stampante. Lo buttai giù tutto intero, di getto, una parola dopo l’altra, come sotto dettatura, e il giorno dopo lo trascrissi, lo rilessi, mi sembrò buono e lo inviai al concorso nazionale organizzato dal Centro Artistico Culturale Torinese “Arte Città Amica”. Fu selezionato e premiato presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino come primo qualificato nella sezione racconti inediti con la seguente motivazione: “Perdita di memoria”, storia di una discesa nei meandri dell’inconscio, di un percorso fra dettagli psichici e memorialistici, alla ricerca di un’appartenenza perduta; il brano è condotto con stile sobrio e sorvegliato, con felice e raffinata capacità di osservazione e introspezione”. L’anno dopo fu inserito in una antologia di nuovi autori edita dalla casa editrice Ananke di Torino.

Simona Conte

Selve Poetiche , HYLE

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Cubo
Via della Moscova 28
Milano

hyle
Selve Poetiche

HYLE E’ UNA VETRINA SULLA POESIA CONTEMPORANEA ITALIANA. IL FESTIVAL CONSISTE IN TRE GIORNATE DI LETTURA NELLE QUALI VERRANNO PRESENTATE LE VOCI PIU’ SIGNIFICATIVE DELLE ULTIME GENERAZIONI. L’EVENTO DIVENTERA’ ANCHE UN FILM DOCUMENTARIO CON INTERVISTE AI POETI, E UN LIBRO ANTOLOGICO CON GLI STESSI AUTORI.

10 giugno 2012
Lorenzo Chiuchiù, Vincenzo Frungillo, Isabella Leardini,
Carla Saracino, Maria Rita Stefanini

17 giugno 2012
Tiziana Cera Rosco, Franca Mancinelli, Stefano Massari,
Francesca Serragnoli, Sarah Tardino

24 giugno 2012

Maria Grazia Calandrone, Gianluca Chierici, Andrea Leone,
Marilena Renda, Mary B. Tolusso

CHINA di Maria Pia Quintavalla a Corliano

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ANNO 2012 INCONTRI AL RELAIS DELL’USSERO DI CORLIANO A cura di VALERIA SEROFILLI Venerdì 1 Giugno 2012 – ore 18:00 Villa di Corliano, Via Statale Abetone, 50 Loc. Rigoli – S. Giuliano Terme (Pisa) Ambito GIUGNO PISANO 2012 – Valeria Serofilli presenta il volume China (Effigie Edizioni, Milano 2010) di Maria Pia Quintavalla con interventi critici di Giacomo Cerrai e Ivano Mugnaini. Nell’ambito della serata Reading degli Autori “Amici degli Incontri Letterari dell’Ussero”. Segue cena conviviale al Relais della villa. Letture dell’Autrice e di Rodolfo Baglioni La S.V. è gentilmente invitata

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Nata a Parma, vive a Milano. Ha pubblicato: Cantare semplice (Tam Tam 1984), Lettere giovani (Campanotto 1990), Il Cantare (Campanotto 1991), Le Moradas (Empiria 1996), Estranea (canzone, Manni 2000 con postfazione di Andrea Zanzotto), Corpus solum (Archivi ‘900 2002), Album feriale (Archinto 2005), Selected Poems (Gradiva 2008, New York), China (Effigie Edizioni 2010). Presente in antologie, l’ultima, l’ultima : Trentanni di Novecento, a cura di Alberto Bretoni, Book Editore. Pubblica l’antologia Donne in poesia, dagli omonimi festival, (Presidenza Comune di Milano 1985, ristampa Campanotto 1988). E Bambini in rima (la poesia nella scuola dell’obbligo), Atti su “Alfabeta” 1987. Tradotta in lingua inglese, francese, serbo croato, e numerose antologie. Collabora all’Università statale di Milano con laboratori sull’italiano scritto.

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Telefonando o inviando sms al numero 328.5892491 è possibile prenotare la cena che, dopo la presentazione, sarà servita al ristorante della villa al prezzo concordato di 23 € a persona.

La generazione entrante

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Dal blog “UniversoPoesia” riporto qui di seguito la recensione di Elisa Vignali al libro “La generazione entrante” a cura di Matteo Fantuzzi. La recensione, già apparsa sul numero 65 della rivista Atelier, pone in evidenza alcuni aspetti interessanti di questo libro. Non si tratta solo di un’antologia o di una selezione di testi. È anche e forse soprattutto un modo per ragionare sulla nuova poesia italiana, e sulla poesia in generale. Per confermare ai tenaci e agli ottusi detrattori che la poesia non è mero e vano esercizio di stile per cacciatori di farfalle e di vispe terese, ma necessità, urgenza di mutamento, percepibile, genuinamente concreto. Le voci degli autori presenti nel libro dimostrano un impegno reale, non di facciata, non artefatto, non giovanilisticamente impalpabile ed utopico. I loro versi dimostrano a chi ritiene di poter basare il potere su silenzi e parole innocue che non è così, non sarà così, non potranno avere sempre vita facile. La speranza, l’auspicio è che, assieme alle nuove generazioni, entrino anche, senza bussare, tempi nuovi. I.M.
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Recensione a La generazione entrante di Elisa Vignali da Atelier n. 65, Marzo 2012.

Ponendosi in sostanziale linea di continuità con l’iniziativa promossa da Giuliano Ladolfi nel 1999 con l’Opera comune. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta, sempre per «Atelier», il volume La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta, a cura di Matteo Fantuzzi, a sua volta poeta ed editor, si propone di “mappare” le esperienze poetiche più sicure e riconoscibili tra gli autori che oggi abbiano vent’anni. Qualche dubbio è lecito muovere proprio sul ricorso al criterio anagrafico, osservato un po’ rigidamente, per la selezione degli autori, quando un allargamento del campo avrebbe magari attivato connessioni più proficue, consentendo di verificare l’effettiva presenza di certe linee vitali (per esempio, la vivacità della poesia neodialettale o la ricezione di determinate tradizioni, anche straniere). Senza contare che proprio in virtù di un simile approccio rimangono esclusi autori nati a cavallo tra i due decenni, ma afferenti per indole e temperamento forse più agli anni Ottanta che al decennio precedente.

Anche se motivato da criteri di gusto individuale e da ragioni editoriali, appare tuttavia un poco limitato anche il numero delle voci campionate, che registra qualche assenza o che nel complesso appare ristretto rispetto all’orizzonte di possibili altre inclusioni. Nondimeno il volume mantiene una sua validità di fondo nel documentare una realtà per molti versi sommersa, una produzione in versi sovente più affidata alla circolazione in rete che alla carta stampata, consentendo così di misurarsi con un pubblico di lettori che, se nel caso della poesia non può mai dirsi davvero largo e attento, tanto più necessità di un diretto confronto con la parola del testo, fosse anche precaria e in via di necessaria definizione come nel caso di questi giovani autori. Ma non è tanto ora sul criterio generazionale o anagrafico che si vuole qui soffermare la propria attenzione, oscurando la qualità, il quid specifico degli autori selezionati. Su almeno uno degli elementi rilevati da Fantuzzi nella sua introduzione si può, infatti, quasi generalmente concordare: «E proprio dalle opere dobbiamo ripartire se vogliamo risuscitare lo stato della poesia italiana contemporanea, l’unico antidoto […] sono i testi». E sono poi anche altri gli elementi evidenziati dal curatore tali da configurare quest’antologia, al di là di certi limiti in parte inevitabili, come uno strumento di qualche utilità per il lettore che volesse accostarsi ad alcuni dei poeti d’oggi più interessanti: un ritrovato «senso dell’urgenza» del dire, l’intenzione di una «poesia sociale (piuttosto che civile)» che appunto rinsaldi il rapporto un po’ sfilacciato tra letteratura e società (un’esigenza tra l’altro viva anche in altri campi, dalle riviste letterarie a certe piccole e medie case editrici), una differenziazione anzitutto geografica, specchio di una «frammentazione di percorsi che non indebolisce, piuttosto rende possibile una lettura condivisa delle pulsioni che rendono vivo il fare poetico», e infine la ricerca, tutt’altro che pacificata, di una propria identità, come a dire di un proprio stile, non ancora del tutto affinato ma dai tratti già riconoscibili e, nei casi migliori, persino maturi. E ancora, tra gli elementi non rilevati nell’introduzione: la configurazione del rapporto maschile/femminile in termini rinnovati e meno stereotipati, per la disponibilità della voce maschile ad assumere entro di sé quella femminile e viceversa, in accordo con un’identità fluida; e ancora l’allargamento di orizzonti geografici e interculturali, con significative aperture a tradizioni letterarie e lingue sovranazionali, tali da produrre interessanti stratificazioni anche a livello linguistico.

Circa la «necessità sempre più pressante di farsi comprendere, di utilizzare figure, immagini, espressioni, dialoghi vicini al linguaggio comune», procederei invece con maggiore cautela, perché se è vero che la qualità di una scrittura poetica consiste anzitutto, per usare una metafora del grande poeta irlandese Seamus Heaney, in un’operazione di scavo che tramite il pensiero consente di tradurre una percezione interiore in una trama di parole, un eccessivo scadimento del linguaggio a livello della comunicazione quotidiana rischia di abbassarne notevolmente il potenziale espressivo. Anche se poi, in verità, non sono pochi gli autori inseriti nell’antologia, ancorché all’inizio del loro percorso, a mostrare di avere recepito la lezione anche formale dei nostri maggiori poeti, maestri di stile prima ancora che abili costruttori di immagini, non limitandosi a riprodurne stancamente i modi, ma riassorbendone gli echi entro la propria officina verbale. Allo stesso modo, non sempre l’oltrepassamento di un novecento “sperimentale”, di cui si vorrebbe trovare conferma nel volume, si è prodotto o è bene si produca, almeno se s’intende il termine “sperimentale” in accezione più produttiva di quella che vorrebbe confinarlo negli angusti confini dello sperimentalismo, e non lo s’intenda invece, come forse si dovrebbe, come inesausta capacità di sprigionare sempre nuove risorse vitali dalla lingua poetica. Si pensi a un poeta come Porta, peraltro assunto a punto di riferimento da più d’uno di questi poeti nati negli anni Ottanta, capace di superare le secche del neoavanguardismo per riconquistarsi uno spazio di autenticità, verbale, oltre che esperienziale. Certo l’aggancio al reale, (con il suo portato anche traumatico) nelle sue varie declinazioni, il «rifiuto di una lirica concepita come intuizione e libera effusione della soggettività o come espressione poetica di un’individualità assoluta», sottolineati da Giuliano Ladolfi nella lucida e a un tempo appassionata postfazione che chiude il volume, sono il dato che più accomuna gli autori antologizzati, rendendo in fondo ragione di una loro appartenenza a una medesima sensibilità, se non comunità. Se è vero, poi, che a fronte di un futuro fattosi sempre più incerto, non più veicolo di speranza, ma «fonte di apprensione», la generazione dei anni Ottanta ha maturato un senso di smarrimento profondo, di cui è emblematica, in molti testi selezionati, la costante della figura paterna, spesso assente o problematica, è pur vero però che si assiste a un tentativo ininterrotto di dialogare con i padri della tradizione, entro un rapporto più mobile e dunque in parte più libero, senza pretese di autoinvestiture o l’assunzione posticcia di pose compiaciute.

Proviamo allora a predisporci all’ascolto di queste “nuove” voci del panorama poetico italiano, liberi per una volta da pregiudizi e dall’ingombro di categorie interpretative precostituite, lasciandoci guidare nel percorso dalle note di critici e studiosi che nel firmare l’introduzione a ogni singolo autore antologizzato contribuiscono in qualche misura a riannodare i fili con una storia più consapevole e matura. Si avrà allora anzitutto la sensazione, magari un po’ ingenua ma pur sempre stimolante, di trovarsi di fronte a una sorta di cantiere aperto, di laboratorio in atto, secondo un principio del fare poesia che segue non astratte regole esterne, ma una ritmica e una metrica anche interiori. Per ognuna di queste voci non sarebbe improprio ricorrere all’immagine sereniana assai efficace della poesia come «stella variabile»: la raccolta di Vittorio Sereni (una delle presenze sicuramente più certificabili nelle pagine di quest’antologia, insieme ad altri poeti della quarta generazione) usciva proprio nel 1981 e fin dal titolo intendeva riferirsi alla poesia e al suo rapporto col mondo, alla sua condizione, appunto, di stella non fissa, non più in grado di fornire certezze o dispensare verità assolute, e invocata senza che possa promettere nessuna salvezza, nessun risarcimento del vuoto personale e storico. Essere nell’oggi significa appartenere al male: «Oggi si è – e si è comunque male/ parte del male tu stesso tornino o no sole e prato coperti». Nei versi di Sereni, animati da un senso tragico dell’esistenza, eppure ancora resistente di fronte alla forze regressive operate dalla Storia, la violenza e i segni del massacro si nascondono in ogni gesto; la vita quotidiana e ripetitiva del lavoro non fa trasparire alcuna ipotesi di comunicazione umana, ma solo un logoramento che penetra nelle persone e nei luoghi, privandoli di forza vitale. Tra insicurezze e senso lacerante della precarietà, si sperimentano così limiti e insufficienze della condizione umana, mentre il passaggio del tempo rivela il suo fondo amaro nell’immagine di un «gran catino vuoto» che chiede ora di essere riempito con nuove figure di speranza.

Si parte con il compatto manipolo di testi di Dina Basso, che ha esordito appena ventenne con la promettente raccolta Uccalamma (Le Voci della Luna, 2010), in cui l’impasto neodialettale dell’idioma naturale, quello catanese, si piega alla narrazione, spesso in chiave autoironica e già dal piglio sicuro, di accadimenti quotidiani, di esperienze concrete, filtrate da una memoria capace di rimandare tanto a un preciso senso del luogo quanto a un ricco repertorio culturale. Ed è proprio questa naturalità del dire, legata a una concreta «lingua del fare» – come nota nella sua persuasiva introduzione Manuel Cohen –, a una trama di gesti e di parole, il tratto forse più preciso in cui si può far consistere il verso tutto materico di quest’autrice, fisico e mentale insieme.

A seguire, la voce di Marco Bini, nella cui raccolta d’esordio Conoscenza del vento (Ladolfi Editore, 2010), la costante tematica dello smarrimento generazionale è resa mediante un’equilibrata oscillazione di linguaggio colto e linguaggio quotidiano, tra intonazione lirica e cadenze del parlato, nel quadro di una dialettica io/ noi che finisce per intrecciare i fili della storia individuale con quelli della storia collettiva. Ed ecco tornare di nuovo, in uno dei versi selezionati, l’immagine astrologica di Sereni, anche se declinata in altra forma: «Solo che non si ferma là davanti/ come una supernova ciò che accade/ ma più simile a una cometa ostenta/ alle spalle una storia”, perché “il futuro certo non è lì che aspetta». Il senso della scrittura, per questo giovane autore, andrà dunque rintracciato nella ricerca inesausta di un orizzonte in cui consistere, di una misura capace di garantire una giusta prossemica, nel tentativo di mappare il reale, ridisegnandone i confini: «Averla questa forza di accorciare/ le distanze, indicare gli orizzonti/, nuovamente raccogliere le facce/ disparate in un’unica medaglia». E ciò varrà sia nella vita che negli spazi della poesia, dove stile e ritmo spesso sono tutto. Anche il percorso compiuto da Carlo Carabba nei suoi Canti dell’abbandono (Mondadori, 2011) è mosso da un’analoga volontà di ricerca, non necessariamente finalizzata al raggiungimento di una meta, se è vero, come si legge nell’introduzione firmata da Roberto Carnero, che «il miraggio della felicità non consiste nell’arrivare al traguardo ma nel non arrivare, “consumando” esperienze sempre nuove in luoghi, sensazioni, incontri, illuminazioni interiori», secondo una dinamica incessante di fughe e ritorni, partenze e abbandoni. Solo così forse è possibile ritrovare il rapporto perduto con la memoria dei nostri padri, metaforici o reali, rinnovandone lo sguardo nel presente: «Da qui sono partito/ qui dove non arrivo», recita un verso in tal senso emblematico tratto dalla raccolta Gli anni della pioggia (PeQuod, 2008).

E ancora troviamo la dimensione itinerante di un homo viator, il cui peregrinare assume la forma di un cercare senza sosta, nei versi di Giuseppe Carracchia il quale, nei passi estratti dalla silloge La virtù del chiodo (L’arca felice, 2011) esplora il reale con intento anzitutto conoscitivo, per misurarne distanze e traiettorie: «Il piede che calza la terra è centro/ profondo, e ovunque si sposta dentro/ universo tracciato a ogni passo/ baricentro del mondo e compasso».

La poesia di Tommaso Di Dio, autore della plaquette Favole (Transeuropa, 2009), propone seppure con accenti del tutto personali alcuni motivi comuni a molti di questi poeti: la dimensione del poeta viandante, da cui deriva un senso profondo di precarietà e di incertezza del futuro, tra paura e attesa per un avvenire dai contorni oscuri, la dialettica tra mente e materia, fra tradizione e apertura al nuovo, secondo una dinamica in questo caso mediata dall’esempio fondativo di Antonio Porta, rappresentante di una lirica «della memoria» e della «carne», come annota efficacemente Stefano Raimondi nella sua introduzione. Il progetto poetico di Tommaso Di Dio appare già delineato nei suoi tratti fondamentali ed è capace in molti casi si produrre buoni esiti, come nella sequenza poematica seguente, tra le più sicure dell’intera raccolta: «Ti voglio credere vera e impossibile/fuga sotto il ventre dell’ariete. La pietra che chiude./ La forza del gigante. Chiudi la fatica degli occhi e abbassa/ l’arma dello sguardo; lascia tu aperto il passaggio». Di Francesco Iannone, autore della plaquettePoesie della fame e della sete (Ladolfi, 2011)andrà rilevata, come annota intelligentemente Massimo Morasso, la «ricerca di uno spazio condiviso», che convive con la percezione di una «coscienza ferita». La poesia è capace di produrre senso anche tra i tagli e le slabbrature del reale, nel segno di un realismo riportato a ragioni quasi “elementari”, laddove tra i primari impulsi della fame e della sete si misura anche il potere di sopravvivenza della parola: «La resistenza al nulla è una lotta/ che lascia ferite e tagli/ è un labbro squarciato da un pugno/ è un figlio espulso da un utero contuso».

Nella sua partecipe introduzione Antonella Anedda coglie bene i tratti distintivi della poesia di Domenico Ingenito, poesia dalle tante e diverse “grammatiche” possibili: quella del corpo, anzitutto, per l’oscillazione costante di polo maschile e polo femminile, non rigidamente separati ma dialetticamente cooperanti nel processo conoscitivo; il dialogo con la tradizione, qui più che mai intesa anche come traduzione in atto di «linguaggi distanti», tra italiano, persiano e portoghese. E infine la grammatica, per così dire, dell’immaginazione, capace, come accade nell’ultima poesia riportata, di far parlare due autrici separate da due secoli e da quattromila kilometri. Come nel caso di altri poeti qui antologizzati, la poesia vale come strumento per accorciare le distanze, mantenendo aperto il dialogo tra entità lontane nello spazio e nel tempo. La poesia di Franca Mancinelli, che ha già al suo attivo una raccolta, Mala Kruna, uscita da Manni nel 2007, si connota per la capacità di tradurre il senso di precarietà comune, del resto, a un’intera generazione, in interrogazione universale sul senso dello stare al mondo, con ciò rinsaldando le ragioni dell’io con quelle del noi, mediante un linguaggio poetico che dietro la scorza lirica dei versi nasconde le ferite del reale, «in un codice di nervi e sangue, di corpo e mente interiore», per usare le parole del sottile prefatore Gualtiero De Santi. Come avviene in questi versi: «Ora l’infante potrà camminare/ con l’equilibrio che porta le braccia/ a sollevarsi inermi dalla terra./ È un giorno strabico, e le persone/ s’affacciano sul proprio sangue fermo/ chiedendo dove sbuca la corrente/ che spinge rossa e perfora gli occhi».

La poesia di Lorenzo Mari, presente con un campione da Minuta di silenzio (L’arcolaio, 2009), è pronta a cogliere scarti e zone liminari del reale, con affinata sensibilità percettiva e una sottesa intenzione ironica, offrendo altre emblematiche immagini del senso di sospensione e incertezza esistenziali. Ne è significativo esempio la figura «dell’uomo che cadeva» al centro di una delle sequenze più riuscite dell’intera raccolta: «Di tanti posti, in riva al mare/ è dove conta meno il minuto/ di silenzio, stretto tra onda/ e risacca, accanto alla figura/ fetale, a ossa rotte, dell’uomo/ che cadeva. Scrivere sulla sabbia/ è gesto romantico, meglio le glosse:/ tatuate dal sole con certezza,/ e più direttamente, sulla minuta/ di silenzio». Ed è tutta da condividere la nota iniziale di Andrea Gibellini che di questi versi coglie «lo stigma irrevocabile della parola poetica detta in sincerità prima della tecnica e di un sentimento stilistico». I versi di Davide Nota, tratti dalle tre raccolte finora pubblicate e preceduti da un’accurata postilla critica a firma di Giuliano Ladolfi, descrivono una condizione di orfanezza assunta a metafora quasi ossessiva di una condizione esistenziale comune, tra percezione lacerante della colpa e desiderio di rimozione. E anche il dettato poetico, “sporcato” da espressioni gergali e tic verbali, si fa specchio dell’onesta rinuncia a dire verità risolutive: «Così come orfani del mondo/ incatenati nella febbre a vita/ del giorno: è così, sì, va bene…», cui fanno eco i versi «Anch’io sono colpevole del male/ che regna vomitevole e banale».

Nell’introdurre i testi di Anna Ruotolo, Maria Grazia Calandrone ne sottolinea con efficacia la vocazione a innestare un produttivo dialogo tra dimensione celeste e dimensione umana, seguendo la rotta indicata dalle «stelle comuni, evidenze della bontà di ognuno» che «proprio a causa di questa loro presenza ubiqua» fanno segno al «rapporto tra uomo e uomo – e tra uomo e natura». Cifra specifica della scrittura di questa giovane autrice è la tendenza a iscriversi entro costellazioni dialettiche – tra interni ed esterni, solitudine e «tuttitudine», singolare e plurale –, secondo uno sguardo capace di farsi davvero plurale: «I singolari sono plurali/ dico casa e ne dico mille/ perché se guardo fuori da qui/ tante ce ne sono,/ pulsano da non finire […] ma chiama, chiama tutti/ con centomila nomi esatti/ si esce, così, infine, dalle dimore/ e camminiamo in stormi/ si prova a fare bene/ tutto e forte, tutto al plurale/ per una volta tra le altre volte».

Ancora una volta è l’emblema della figura paterna, in senso tanto metaforico quanto reale, a fare la sua comparsa nei versi di Giulia Rusconi, una delle voci sicuramente più originali del panorama poetico attuale per la capacità di combinare psicologia del profondo, «con punte di orrore quasi onirico», per usare le esatte parole di Anna Maria Carpi, con un ordito prosodico semplice, deprivato di orpelli stilistici. Ecco un passo estratto dalla serie L’altro padre: «Mio padre numero quindici/ corregge la mia postura./ Precaria mi aggrappo al suo braccio/ lo conosco a memoria./ Mio padre — l’altro — non lo tocco/ mai neanche per sbaglio./ «È questo che cerchi, il contatto?»/ Il contatto sì il pezzo mancante/ della “casa”, delle cose».

Elementi di originalità presenta anche il percorso poetico di Sarah Tardino, di cui vengono proposti alcuni testi dall’ultima raccolta I giorni della merla (Lietocolle, 2011), preceduti da una nota esegetica di Rosita Copioli che ne rileva i tratti distintivi: la «fascinazione arabizzante», una «passione per il racconto instancabile» e la «pronuncia androgina». Nel segno di un fiabesco quasi stregonesco e del meraviglioso si collocano, per esempio, i versi seguenti: «Sono la merla e i suoi giorni,/ la maga e l’ombra della rosa,/ l’aprile della vendetta sotto mentite spoglie,/ la vita che assalta con un segno,/ il baro salvato dall’ironica sorte,/ la ruota da cui nessuno ha scampo:/ sono la fedele assassina!».

Si può senz’altro concordare con Gian Ruggero Manzoni, secondo il quale la poesia di Francesco Terzago si connota per la dinamica ossimorica di una «presenza-assenza» volta alla messa in scena di figure recuperate a una memoria insieme individuale e storica, secondo una modalità anche teatrale: «Mia nonna mi chiamava tesoro, lipscén/ diceva e mi appoggiava una mano sulla testa/ e mi diceva che era stanca. Vedi lipscén le stelle/ che sono sopra di noi, il cielo, – l’universo che/ non ha confini pensa – a tutte le cose che ci sono/ dentro pensa agli anni che ci separano e pensa/ a quante persone, in questo preciso momento,/ ed è possibile che sia così».

Chiudono l’antologia alcuni testi selezionati da L’estraneo bilanciato (Stampa, 2009), l’ultima raccolta pubblicata di Matteo Zattoni (1980), tra gli autori senza dubbio più maturi della sua generazione, in virtù di uno stile ben calibrato e di una materia poetica mossa da intenti conoscitivi. Attraverso una ricezione attenta della lezione dei grandi poeti del secondo Novecento, la scrittura poetica è investita di una valenza etica, oltre che estetica, riconquistando così la sua originaria funzione sociale. Quella di Zattoni è poesia «in uno stato di attesa» – come scrive nella sua densa introduzione Alberto Casadei – , sospesa in precario equilibrio sul filo dell’esistente. Una situazione ben riflessa da alcuni versi di Trapezisti: «c’è sempre qualcuno che rinuncia a qualcosa/ di certo, alla tranquillità di una casa/ per inventarsi un equilibrio nuovo/ io guardo e non guardo, poi l’applauso/ sorrido; loro non cadono».

A chiusura di questa panoramica, ecco un invito finale: lasciamole sedimentare, allora, queste voci, concediamo loro il tempo – e gli spazi – per tornare a parlarci, prima di sottoporle a nuova e più onesta verifica.

Letteratura Necessaria – Esistenze & Resistenze

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LETTERATURA NECESSARIA – ESISTENZE E RESISTENZE
 
AZIONE  N° 11
 
Domenica 22 Aprile ore 20.30
 
Modì Caffè
Via S. Giorgio 4
MANTOVA
 
 
reading letterario multimediale
 
con
 
Luca Artioli, Anila Resuli, Michele Mari,
Jacopo Ninni & Agnese Leo, Enzo Campi
 
 
Pagina Evento su facebook
 
 
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Luca Artioli
 
È nato a Mantova nel 1976, dove tuttora vive.
Dal 2001 scrive su riviste on-line e siti a carattere letterario, curando rubriche dedicate a scrittori affermati ed esordienti.
Attualmente dirige il blog “Il Divano Muccato”, uno spazio dedicato a recensioni e interviste ad autori (http://ildivanomuccato.wordpress.com).
Fa parte del “Movimento dal Sottosuolo”, gruppo per l’unione delle arti, con sede a Montichiari (BS).
Presente in varie antologie sia di prosa che di poesia.
Ha all’attivo pubblicazioni monografiche.
In ambito poetico: “Fragili Apparenze” (TCM, Mantova 2005), “Suture – La poesia come resilienza” (Ed. Fara, marzo 2011) . Per la narrativa: “Come ladri di vento” (Ed. Albatros – Il Filo per la collana “La trama e l’ordito”, Roma 2012).
Il suo sito internet ufficiale è http://www.lucaartioli.it
 
 
Anila Resuli
 
È nata in Albania nel 1981, pubblicata su numerose riviste nazionali e internazionali, è presente in raccolte collettive quali: Nella borsa del viandante. Poesia che (r)esiste a cura di Chiara De Luca, 2009; nell’antologia di poesia ceca ed italiana Dammi la mano, gioia mia. Podej mi ruku, radosti moje Praha, Vicenza 2010; Sempre ai confini del verso. Dispatri poetici in italiano, Éditions Chemins de tr@verse, Francia 2011. È stata tradotta in portoghese per la rivista di San Paolo “Celuzlose N°5”, dalla poetessa Prisca Agustoni. Collabora a progetti di poesia con diversi poeti contemporanei ed è traduttrice di poesia albanese contemporanea. Nel 2009 fonda la prima editrice di ebook online Clepsydra Edizioni. Nel 2010 scrive la prefazione al libro Sulla via del labirinto di Alessio Vailati, edito da L’Arcolaio.
 
 
Michele Mari
 
È nato a Volta Mantovana nel 1986.
Scrive racconti, canzoni e poesie in italiano e in dialetto lombardo.
La domenica si occupa di cronache di calcio minore.
Ha un sito denominato www.lattadelbardo.it e realizza spettacoli.
Un suo racconto ha vinto l’edizione 2011 di Coopforwords.
Ha partecipato, sempre nel 2011, a RicercaBO.
 
 
Agnese Leo
 
Romana, classe ’77, cresce ad Ancona dove muove i suoi primi passi nel teatro di ricerca, proseguendo poi il percorso a Bologna, dove si forma e collabora con varie realtà teatrali regionali (ERT-EmiliaRomagnaTeatro Fondazione, Teatro Ridotto, Teatro San Martino, ecc) affinando soprattutto le tecniche d’emissione ed espressione vocale.
Dal 2010 inizia la sua collaborazione con il poeta-performer Jacopo Ninni e con il Collettivo Self Poetry, in qualità di lettrice ed organizzatrice di laboratori e performance. Partecipa lo stesso anno all’evento “eaux d’artifice” all’interno del Reggio Film Festival, a seguito del quale si apre la collaborazione con Enzo Campi nella creazione di letture collettive con alcuni poeti della casa editrice Smasher e, a seguire, nel progetto “Letteratura Necessaria – Esistenze & Resistenze”.
Intanto prosegue la sua attività d’organizzatrice d’eventi letterario-musicali in collaborazione con diverse realtà associative bolognesi
È vocalist del gruppo soul ADM e fa parte del coro di canto sociale Hard Coro de’ Marchi di Bologna
 
 
Jacopo Ninni 
 
È nato a Milano, vive a Vicchio (FI), dove scrive per il settimanale locale, suona e collabora con la biblioteca.
Ha pubblicato diversi racconti in antologie (Perrone editore) e in riviste come Toilet e Prospektiva.
Alcune sue poesie sono state selezionate per alcune antologie e segnalate o premiate in alcuni concorsi.
Collabora con l’attrice Agnese Leo ed è redattore del blog collettivo Poetarum Silva.
Diecidita (Smasher, Messina, 2011) è la sua opera prima.
 
 
Enzo Campi
 
È nato a Caserta. Vive e lavora a Reggio Emilia. Autore e regista teatrale. Critico, poeta, scrittore.
È presente in alcune antologie poetiche edite, tra gli altri, da LietoColle, Bce Samiszdat, Liminamentis. È autore del saggio filosofico Chaos – Pesare-Pensare, scaricabile sul sito della compagnia teatrale Lenz Rifrazioni di Parma. Ha pubblicato per Liberodiscrivere edizioni (GE) i saggi Donne – (don)o e (ne)mesi (2007) e Gesti d’aria e incombenze di luce (2008); per BCE-Samiszdat (PR) il volume di poesie L’inestinguibile lucore dell’ombra (2009); per Smasher edizioni (ME) il poemetto Ipotesi Corpo (2010) e la raccolta Dei malnati fiori (2011). È redattore dei blog La dimora del tempo sospeso e Poetarum Silva. Ha curato prefazioni e note critiche in diversi volumi di poesia. Dal 2011 dirige, per Smasher edizioni, la collana di letteratura contemporanea Ulteriora Mirari e cura l’omonimo Premio Letterario. È ideatore e curatore del progetto di aggregazione letteraria “Letteratura Necessaria – Esistenze e Resistenze”.
In fase di pubblicazione per Smasher edizioni: Il Verbaio – Dettati per (e)stasi a delinquere (terzo classificato Premio Giorgi 2010, finalista Premio montano 2011).
 
 
LETTERATURA NECESSARIA – ESISTENZE E RESISTENZE
 
 
Per una co-abitazione delle distanze:

In un’epoca dove ritornano a galla sempre più prepotentemente l’urgenza e il bisogno di rispolverare e ridefinire i concetti di comunità e condivisione, nasce il progetto di aggregazione letteraria  LETTERATURA NECESSARIA – ESISTENZE E RESISTENZE.

Lo scopo del progetto è essenzialmente quello di far CIRCOLARE i libri e le cosiddette “risorse umane” creando dei momenti di aggregazione, scambio e confronto che possano abbattere qualsiasi tipo di divisione ideologica, editoriale, di mercato, ecc., mettendo in comunicazione tra loro diverse e svariate realtà che operano nel settore o che sono impegnate in tal senso.
In parole povere si tratta di costituire una serie di poli geografici di riferimento disseminati lungo tutto l’arco del territorio nazionale. Ogni polo avrà un referente che si occuperà dell’organizzazione in loco e con il quale concordare gli autori (locali e nazionali) da coinvolgere e le modalità di realizzazione dell’evento.

Il progetto è diviso in varie fasi; ad una prima fase quasi esclusivamente performativa seguirà una seconda fase dove gli autori – per rendere ulteriormente “concreto” il concetto di aggregazione – verranno chiamati a leggere e presentare criticamente altri autori.

Visto che il progetto intende caratterizzarsi come un qualcosa di itinerante e ad ampio respiro si cercherà di organizzare e rendere fattiva una terza fase in cui gli autori che intendono contribuire alla realizzazione del progetto ma che si trovano territorialmente distanti e/o impossibilitati a partecipare direttamente agli eventi, potranno rendersi presenti anche nella loro assenza attraverso contributi fonici e visivi.
La quarta fase del progetto prevede la realizzazione di uno o due volumi antologici “comunitari” con contributi letterari e critici di diverse decine di autori che collaborano all’iniziativa. Nella fattispecie, ogni autore antologizzato si impegnerà a realizzare un evento nella propria città e, attraverso le risorse individuate dalla rete, inviterà autori territorialmente vicini a partecipare all’evento. Durante questi eventi, oltre a “spacciare” i contenuti del progetto e l’antologia cosiddetta comunitaria, gli autori coinvolti potranno eventualmente presentare le loro opere e eventualmente altri autori.

Quello che conta qui è una vera e propria “messa al lavoro” della letteratura. Semplificando e riducendo, si potrebbe dire che se le “esistenze” sono riconducibili ai libri, in quanto oggetti fisici, le “resistenze” rappresentano le “azioni” di quei “soggetti” fisici che producono i libri. Aggiungendo una sola caratterizzazione: il fatto di ostinarsi, per esempio, a produrre e a “spacciare” poesia, oggi come oggi, deve essere considerato come un vero e proprio “atto politico”. In tal senso ogni azione di questo tipo viene a rivestirsi di un plusvalore sociale. “Letteratura necessaria” è un progetto che vuole rendersi pratico, concreto e tangibile. Qui si tratta di far sì che la necessità di mettersi in gioco in prima persona diventi l’aspetto preponderante della diffusione della letteratura come atto corporeo, politico e aggregativo. L’idea di fondo è quella di ovviare alla sempre più imperante DISPERSIONE che caratterizza, in negativo, l’attuale panorama letterario nazionale e di creare una sorta di rete che permetta la costituzione e la ripetizione di eventi (“marchiati” e catalogati progressivamente in “azioni”) collegati tra loro ove far interagire realtà letterarie e realtà editoriali, in un regime non competitivo, ma collaborativo.

“Letteratura necessaria”, beninteso, non vuole essere un movimento tematico, ma pluritematico, volto a certificare la propria “esistenza” e a diffondere una sorta di “resistenza”. Resistenza a chi e a cosa? A tutto ciò che è privazione, restrizione, negazione, omologazione, ghettizzazione, a tutto ciò che lede i propri diritti, che ripropone gli stessi, triti e ritriti canoni letterari. In poche parole il progetto, almeno in fase concettuale, nasce “in costruzione” e crescerà sempre “in costruzione”, assorbendo e consolidando, di volta in volta, necessità, urgenze, tematiche e facendosi portavoce di messaggi che possano rientrare nei concetti di necessarietà, esistenza e resistenza.

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Finora, tra Bologna, Milano, Parma, Reggio Emilia, Roma, Capua (CE), Sasso Marconi (BO), sono state realizzate 11 azioni live che hanno coinvolto : Francesco Marotta, Enrico De Lea, Jacopo Ninni, Agnese Leo, Dina Basso, Nadia Agustoni, Ermanno Guantini, Silvia Molesini, Patrizia Dughero, Nina Maroccolo, Alessandra Cava, Anna Maria Curci, Cristina Annino, Vincenzo Bagnoli, Loredana Magazzeni, Luca Ariano, Viola Amarelli, Lucia Pinto, Marco Bini, Alessia D’Errigo, Annamaria Ferramosca, Ada Gomez Serito, Lorenzo Mari, Simonetta Bumbi & Orlando Andreucci, Stefania Crozzoletti, Antonella Taravella, Silvia Rosa, Roberto Ranieri, Marinella Polidori, Sergio Pasquandrea, Marco Palasciano, Daniele Ventre, Gianluca Corbellini, Valentina Gaglione, Enea Roversi, Martina Campi, Fernando Della Posta, Vittorio Tovoli, Francesca Del Moro, Meth Sambiase, Patrizia Rampazzo, Marco Ruini, Claudio Bedocchi.

Le attività proseguiranno ad aprile con un’altra azione a Verona e a maggio con altre 6 azioni tra Torino, Milano, Verona e Bologna. Sono in fase di costruzione altre azioni tra Marche, Veneto, Emilia Romagna e Lombardia.

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E’ stato costruito un blog per documentare le attività del gruppo, per segnalare altri eventi e per pratiche di divulgazione letteraria.

 
 
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Misure del timore

Postato il Aggiornato il

Pubblico qui di seguito una recensione di Sergio Spadaro a Misure del timore di Antonio Spagnuolo. IM

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Misure del timore del napoletano Antonio Spagnuolo (Kairòs Ed., NA, 2011) è un’antologia che raggruppa un venticinquennio di esercizio poetico (1985-2010). Il più antico volume selezionato è Candida, che ha la particolarità – rispetto ai restanti volumetti – di offrire “occasioni” liriche generate da un viaggio in Francia. L’ultima sezione, che è quella che dà il titolo all’antologia, comprende le liriche scritte nel corso del 2010, e che sono pertanto inedite.
Il lasso temporale che l’antologia abbraccia è sufficiente per darci una visione a tutto tondo del fare poetico di Spagnuolo, che la lettura di un singolo libretto poteva limitare (come è capitato a chi scrive). Questo fare poetico è caratterizzato da una proliferazione delle immagini inconscie, che nei testi si presentano spesso in maniera spiazzante, a volte tuttavia voluta, come per perseguire quello
“choc percettivo” già teorizzato da Umberto Eco in tempi d’avanguardia dispiegata. C’è al riguardo un’epigrafe, ripresa da un’intervista rilasciata a Maurizio Vitiello (nel sito “on line” Positanonews del 17.8.2011), che è bene riportare: “La libido produce il sapere senza oggetto in disarmonia con il reale. La poesia è legata all’inconscio e l‘inconscio è il luogo della poesia”. Da questo punto di vista
era felice il titolo del libretto pubblicato da Spagnuolo nel 2009, Fratture da comporre, perché la ricomposizione delle fratture della realtà in unità di coscienza logico-razionale diventava la meta da perseguire, almeno per quanto possibile.
Ma quello che può non riuscire all’autore troppo sollecitato da un inconscio a ruota libera, rientra invece nei còmpiti di un lettore, che abbia gli strumenti per farlo. Cerchiamo di vedere allora quali frammenti “significativi” la lenza introspettiva dell’autore riporta in superficie. C’è innanzitutto una attenzione insistita sull’io, che in mancanza di relazione con l’altro, genera malinconia e solitudine, fino ad arrivare a un marcato solipsismo. Si veda: “apro incisioni / nella mia solitudine” (p. 15), “in fotogrammi precipito / a riempire il mondo che sparisce” (p. 37), “quando ho perso il reale” (p. 39), “io scrivo distorsioni” (p. 42), “nelle mie proiezioni / l’occhio non varia” (p. 50), “proietto indecifrate ambientazioni” (p. 67), “ad esplorare la mia malinconia” (p. 84), “dimentico tutto quanto ho scritto / […] o già pensato per infingimenti” (p. 96), “le mie orecchie / hanno ascoltato l’inganno della solitudine” (p. 129), “per rinchiudermi nella solitudine” (p. 151). Infine sono innumerevoli le volte che ricorrono nei testi i singoli lemmi solitudine, malinconia/tristezza.
Si potrebbe emblematicamente racchiudere questa discesa agli inferi dell’inconscio nel sintagma “il terrore è me stesso”, cui ricorre Spagnuolo a p. 67, che da un certo punto di vista richiama il rimbaudiano “l’io è un altro”, quando questo protagonista francese della rivoluzione poetica del modernismo scopriva che nel là-bas non esisteva più un io unitario.
Ma ricomporre i frammenti psichici in un percorso coerente della coscienza – attraverso quel processo che C.G.Jung chiamava individuazione – non è facile: in tale direzione comunque la “via” più immediata è quella della relazione amorosa, che è poi quella sperimentata dall’autore. Il quale distingue charamente tra Eros e Amore, anche se poi pratica più frequentemente i sentieri erotici ( Eros è l’altra faccia di Thanatos, dice Spagnuolo nella succitata intervista). Ecco perché nei testi
ricorrono costantemente “immagini” erotiche, che stavolta – rispetto al lessico per lo più astrattizzante del normale procedere – è di una concretezza e di una corporalità inusitate (in questa poetica sono i contrasti a prevalere). Non si tratta però di una forma di “realismo”, ma di una datità corporea a cui si aggrappa per sopravvivenza un naufrago che si sente risucchiato nell’abisso (come – si
parva licet componere magnis – accadeva con gli “scandalosi” piedi sporchi della Madonna nella Morte della Vergine di Caravaggio ). Ecco allora qualche ricorrenza: “gusto di beccare improvvise le tue cosce” (p. 31), “ed io sbrindello versi / penetrando il tuo ventre” (p. 77), “sullo sfondo il candore delle cosce” (p. 78), “ha il gusto dei capezzoli / il morbido viluppo del tuo ventre” (p. 98), “fammi accostare […] / al tuo calore, al ventre, al tuo cespuglio” (p. 137), “con entrambe le mani nel tuo sesso” (p. 148). E si potrebbe continuare a lungo.
Quanto al versante di Thanatos, ci limitiamo a citare l’anafora “il cimitero è qui, è qui a due passi”, che termina con la meditatio mortis “ed il tempo approda alla vecchiaia” (p. 123). Già il titolo di uno dei libretti selezionati nell’antologia era Fugacità del tempo (2007). D’altronde mortalità e vecchiaia, specie nei testi più recenti, sono ricorrenti: “per tutto il tempo fallito, / conteso alle mie rughe nello specchio” (p. 127). Il mondo esterno, fuori della caverna psichica, si fa sempre più uniforme e senza colori, catamorfico. Si possono in questa direzione interpretare persino i titoli dei testi dell’ultima sezione dell’antologia, quelli inediti: Illusioni, Ricordi (2 volte), Riflessi, Labirinto,
Tremori, Rimbalzi, Falsetto, Vertigini, Declino. Sicché è il risultato di questa protratta esplorazione che si fa negativo anche per l’autore: “ormai la tua poesia / è diventata un tappeto di muschio, / una sottile leggera sospensione / dai rigurgiti del quotidiano rincorrere” (p. 147), “questo capogiro di parole, e parole, e parole” (p. 135), “forse è il tempo del nulla: /un’infinita poesia del disinganno” (p. 159).
Per quanto riguarda il lessico, essendo l’autore medico, sono molto frequenti i termini ripresi dalla medicina, soprattutto nel libretto iniziale Candida (si veda esemplarmente il testo Melania). Poi però le “valvuloplastiche buie nelle parole” (p. 41) si attutiscono. C’è tuttavia da segnalare il ricorso a voluti arcaismi, come la mancata articolazione delle preposizioni “di” e “da” (p. 73, p. 107), che
sembrano rifarsi alla poesia d’inizio del Novecento di Dino Campana. Ma se si passa alla metrica, il versoliberismo di Spagnuolo è tipicamente novecentesco e molto fluido, tranne quando spezza le lineee in emistichi, secondo quelle rientranze grafiche in cui è maestro Mario Luzi (a es. Tracce a p. 48 o da Rapinando alfabeti a p. 83).
In conclusione, è l’autore a parlare di “arsure barocche” (p. 107) per la collocazione generale di questa poesia, forse facendo eco a quanto già ebbe a scrivere su di essa Plinio Perilli. Certo è che il “senso del fugace passare e morire delle cose – come scrisse Giovanni Getto (Barocco in prosa e in poesia, Rizzoli, MI, 1969, p. 41) – , […] del sorgere e del dileguare delle illusioni della vita, […] qui è soltanto un motivo marginale, rilavorato e impreziosito, che s’accorda con quella diffusa atmosfera di tristezza, pervasa di un funebre sentimento del tempo e oppressa da una desolata coscienza della morte incombente, che avvolge tutta la civiltà barocca”.
Infine – come osservava Lienhard Bergel (Dopo l’Avanguardia, Vallecchi, FI, 1963, pp.29/30) – “l’avanguardia postbaudelaireiana prende dalla tradizione romantica il concetto dell’unicità e creatività dell’individuo, e lo trasforma, o se si vuole lo deforma, a suo modo. L’ideale individualistico è reso assoluto, viene concepito in modo letterale, solipsistico; l’individuo, distaccato sempre più dalla realtà, finisce con l’ondeggiare nel vuoto, in completo isolamento, […] sceglie di astrarsi dalla realtà per dedicarsi completamente al compiacimento di sé”.

SERGIO SPADARO

ANTONIO SPAGNUOLO, Misure del timore, Kairòs Ed., NA, 2011, € 14,00.