cesare pavese

L’occhio verde dei prati

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Pubblico qui la mia recensione al libro di Donatella Nardin che ho avuto il piacere di leggere e di tradurre in inglese.

La nota critica parla tra l’altro di musica, di dissolvenze, di ossimori, del mondo che verrà e di una viola che bisogna divorare.

Buona lettura a chi vorrà leggere queste mie annotazioni, ma, come sempre, anche e soprattutto a chi vorrà leggere il libro. IM

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L’occhio verde dei prati

Il riferimento all’occhio presente in modo ineludibile nel titolo del libro di Donatella Nardin richiama il bene della vista, il dono prezioso dello sguardo. Ma non si tratta di un puro fenomeno ottico né tantomeno di semplice acquisizione di dati e immagini. Siamo di fronte nel contesto di questo volume a qualcosa di più ampio, un’osservazione che la vista rende possibile senza tuttavia esserne fine né meta. Lo sguardo parte dall’esterno per poi attraversare le ampie pianure del tempo e dell’interiorità. Al termine del tragitto ritorna a contemplare la bellezza della natura, simbolo di una profondità lineare ma complessa, ricca della consapevolezza del discrimine fondamentale, la linea di demarcazione tra ciò che è umano e ciò che esula dall’umanità vera, autentica.
Le liriche di questo libro sono tessere di un mosaico, o meglio ancora fili di vari colori il cui senso complessivo, la forma e la misura, trovano compimento nell’unità, ossia nella ritessitura di segmenti lacerati dal passare del tempo e dalla perdita di senso e sentimento, a livello individuale e collettivo, per i singoli uomini e le singole donne e per il mondo intero. La cura, intesa sia come farmaco che come riscoperta del gesto attento, appassionato e generoso, è nella poesia vera, fattiva, non di maniera o di facciata. La cura è nel ritrovarsi; e ancora una volta il verbo ha duplice valore, riferendosi sia al patrimonio di affetti di un’unica persona che alla totalità degli individui e dei popoli chiamati a riconoscere ciò che è salvifico. “Bisognerebbe donare un’ora/ buona al tempo, all’insipienza / un pensiero indulgente / come di violaciocche / splendenti tra le pagine nevose di gennaio. / Si potrebbe tentare di svelare / ciò che tiene insieme gli atomi / e le creature, la mano scesa / dall’alto a deporre un seme / d’infinito nella carnalità. / Ma abbiamo perduto l’occhio / svettante nel giusto e nel vero / quel candore che buca le tempie / cercando ricongiunzione”.
Come si evince anche dalla citazione qui sopra riportata, i versi della Nardin possiedono una musicalità innata originata dal gusto della ricerca che tuttavia non cancella la spontaneità. Di notevole valore è la conservazione costante di una “calviniana” leggerezza anche nei punti in cui il dettato assume valenze ampie, quasi allegoriche. In altri termini il senso, quello che in altri tempi si sarebbe definito “il messaggio”, non è mai urlato o imposto con altera retorica. L’autrice parla di sé, con schiettezza e coinvolgimento emotivo profondo, senza perdere la rotta, senza smarrire la lucidità, il rispetto per la parola e per la sua funzione comunicativa, e senza mai dimenticare che anche in poesia, con gli strumenti propri della poesia, si possono narrare le dinamiche della realtà descritta nei suoi eventi e mutamenti. In tal modo il raccontarsi può diventare specchio, tramite l’iride racchiusa nella pupilla e tramite quel verde che, pur con le sue innumerevoli sfumature e tonalità, è abbraccio universale.
Tale suasiva e profonda musicalità ha fatto da trait d’union, ha costituito un punto di connessione tra la lingua in cui le poesie della Nardin sono state concepite e scritte e la lingua in cui sono state tradotte, l’inglese. L’idioma in cui i versi sono confluiti, adattandosi a forme sintattiche e metriche diverse, ha acquisito la coloritura propria della lingua originale, nitida anche nei punti in cui la cupezza del rimpianto e la consapevolezza dell’estraneità rispetto ai modi e ai gesti della società oggi imperante risultano più intense. In tal modo, e in virtù della specificità del dettato poetico, il libro bilingue della Nardin assume ed evidenzia anche sotto l’aspetto squisitamente linguistico una fluida unitarietà.
“Ha immaginato così di svanire / tra le piccole acque che, nel loro / bisogno di assoluto, come lei / sanno il tempo e il gorgogliare / segreto di ogni mancanza. / Nella resa accogliere la finitezza / ché il finire possiede / la mite tracotanza dell’acqua / bambina”. Questa lirica che ha per titolo “Il finire” è per molti aspetti un efficace e in qualche misura riassuntivo parametro di alcune delle tematiche che questa raccolta propone con coerenza. In primo luogo il tempo, a cui si è già fatto necessariamente cenno. Ma non si tratta del solito carpe diem né di una nostalgia vaga e tutto sommato immotivata. Qui la parabola esistenziale è descritta con equilibrio e sincerità (altra parola chiave, quest’ultima). Sì perché sussiste una proporzionalità credibile, anche sul piano del linguaggio, tra la parte iniziale della lirica in cui la ragazza indossa maglietta e infradito, definiti senza sconti e senza abbellimenti edulcoranti. La scena accade oggi e descrive una ragazza come tante, non un’eroina arcadica sospesa in un tempo indefinito e astratto. La ragazza è specchio di ogni donna, così come la riva del fiume in cui tutto accade è imbronciata anch’essa, quasi ad assumere il sentire umano, come se la natura non fosse solo specchio ma respiro e stato d’animo condiviso. E solo allora, quasi a sorpresa, l’occhio finalmente vede, e coglie un dettaglio rivelato da un aggettivo. I capelli sono imbiancati; la ragazza non è più tale, o meglio, porta dentro di sé la gioventù di un tempo in un corpo maturo. Ma ancora quella donna non più ragazza continua ad attendere il risveglio del mattino. E immagina di svanire tra acque che ancora confermano profonda empatia dimostrando di conoscere il gorgogliare segreto di ogni mancanza.
I quattro versi finali della lirica sono “ossimorici” a più livelli. Innanzitutto sul piano del significato, del gesto, della scelta: la resa accoglie la finitezza del finire. Il verbo accogliere, seppure riferito ad una sconfitta, fa pensare ad un sorriso. Amaro, immensamente agro, certo. Ma è un ospite a cui si apre comunque la porta, con un respiro di sollievo, paradossale ma profondo. Si apre la porta e si prende atto che l’ospite una volta entrato non se ne andrà. Bisognerà conviverci. Parlandogli con schiettezza. Tanto già conosce tutto di noi, è sempre stato presente, c’era già prima della maglietta verde petrolio e delle infradito. Parlando con l’ospite nostro malgrado osserviamo e metabolizziamo l’ossimoro più puro e più distruttivo: la mite tracotanza dell’acqua bambina. Forse la nostalgia di una purezza che non è mai esistita. Quella bambina, comunque, non tornerà. Almeno non nella forma di un candore asettico illuminato da un sole mitico che oggi (e forse anche allora) è il riflesso di un riflesso, proiezione di un’idea. Non è un caso forse, ed è un’ipotesi attraente anche questa, che l’unico rimedio alla tracotanza della nostalgia (mite, in apparenza, e quindi ancora più dolorosa) sia svanire. Ossia sparire al mondo, a quella parte del mondo con cui non c’è interazione possibile, non c’è dialogo che possa condurre a sentire in modo analogo. Svanire dunque, come strada necessaria. Andare in dissolvenza, come in ambito cinematografico. E anche nella vita, come nelle pellicole dei film, il passaggio da una scena all’altra non è taglio netto, non è scissione. È continuità nella differenza. L’acqua bambina non tornerà, è passata, trascorsa in direzione di un mare lontano. Non torna ma resta come eco, come sguardo, nel verde della maglietta, dell’occhio e del prato. Sapere svanire è forse la sola arte realizzabile. Sparire senza smettere di essere presente, come mente, pensiero, voce, parola detta e scritta, e anche come corpo (interessante e condivisibile a questo proposito il riferimento alla carnalità come asse portante del libro a cui fa cenno Riccardo Deiana nella postfazione).
Lo sguardo, l’occhio della Nardin, è attento e acuto, proprio perché mai disgiunto dalla mente e dal cuore. Rileva e metabolizza, senza tralasciare niente, senza sconti e senza infingimenti, il buio, la luce e i chiaroscuri. Coglie e annota, seguendo il filo rosso delle varie sezioni del libro, “Le vite care”, “Le creature murate”, “Il fuori”, “Il dentro” e “The next world, Il mondo che verrà”. Descrive una a fianco all’altro la luce e il buio. Ritrae tramite versi fermi, vigilati, non inclini alla retorica né al compiacimento, le violenze, le ferite, la bellezza violata, la perdita della purezza e dell’illusione.
Nella lirica “Amori negati” introduce i suoi versi tramite una citazione da un biglietto di Cesare Pavese a Fernanda Pivano: “La fioraia mi ha detto: le farò fare proprio bella figura. Io non voglio”. La fa seguire da un composizione che contiene anch’essa in nuce i temi chiave di questa raccolta e della poetica della Nardin: il tempo, la speranza, tradita, “mangiata”, divorata dalla realtà; l’invocazione, l’anelito alla rinascita, l’impossibilità di sperare ulteriormente, il nulla come inesorabile sipario:
“Come impetuosi torrenti di sole / rinascere ogni giorno in segreto / alla vita, a pelle nuda rinascere / diade alla preghiera innalzata / – trepida l’invocazione / nella sua dedizione – / se non fosse che in punta di piedi / si è mangiata l’armoniosa / pulsione il timido fiore, / se non fosse che anche il domani / finisce e, finendo, non rifiorisce / con tutto ciò che dovrebbe / fino alla fine accudire / e che invece dispera e nulla più”.
Non è dominata esclusivamente dal gusto della commiserazione la poesia di questo libro, comunque, non è “opera al nero”. Contiene una gamma ampia di colori, a partire dal verde del titolo. Descrive la vita nelle sue sfumature cangianti come i chiarori e le ombre, i raggi accecanti e i riflessi più tenui. La Nardin è poetessa di chiaroscuri, osserva il mondo senza trascurare nessuna delle sue forme e manifestazioni. Dopo l’assimilazione visiva subentra sempre, come detto, la riflessione, il ragionare, mai scevro di sentimento ma allo stesso tempo rigoroso e obiettivo. I colori vengono corrosi dal tempo, che divora, assieme a loro, la lucentezza delle speranze che anni prima sembravano potere splendere in modo imperituro. Alla poesia non resta che ritrarre l’enigma, il mutare inesorabile degli orizzonti. Alla poesia resta il compito di ipotizzare risposte a domande impossibili. O ad enigmi che possiedono infinite soluzioni, una per ogni destino individuale, oppure non possiedono alcuna chiave risolutiva, se non la consapevolezza della finitezza. “Splendori e congedi di ali / troppo grandi per questo / piccolissimo cielo. / Ha raccolto per l’ultima volta / le pesche gialle, succose dagli / alberi piantati quarant’anni / prima. / E ora come faremo – si sono / chiesti i rimasti, sfiniti / dal nulla – come faremo / a respirare, intensa e lieve / la sua luce terrena per mutarla / infine in dolce memoria? / Bisognerebbe forse ingoiare / una viola per ridare vivacità / all’insieme discorde, / come un nuovo nome, magia / che non tiene ma che celebra / la sottrazione”.
Per tutti i lettori alla deriva nel flusso spietato, per tutti i “rimasti, sfiniti dal nulla” di questo nostro tempo impalpabile e feroce, la poesia della Nardin è un modo per riflettere sul senso e sulla funzione di quella viola che racchiude in sé l’armonia perfino del distacco, della nostalgia, della variazione sul tema della caducità di ogni cosa. Quella viola misteriosa e lucente che dovremmo ingoiare si chiama poesia.
Ivano Mugnaini
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Note biografiche di Donatella Nardin

Sono nata e risiedo a Cavallino Treporti-Venezia. Dopo gli studi classici ho lavorato nel settore turistico con incarichi anche dirigenziali.Appassionata da sempre di lettura e scrittura, soprattutto poetica, solo negli ultimi anni ho deciso di dare visibilità ai miei scritti partecipando a vari Concorsi Letterari con risultati soddisfacenti. Mi sono stati infatti attribuiti numerosi premi e riconoscimenti – oltre centosettanta – quali menzioni d’onore, segnalazioni di merito, premi speciali delle giurie e classificazioni ai primi tre posti o da finalista nelle varie graduatorie concorsuali.

Nel 2014, quale premio editoriale di un Concorso, è stata pubblicata per le Edizioni Il Fiorino la mia silloge “In attesa di cielo “  (Premio Giovanni Gronchi, Premio Cinqueterre Golfo dei Poeti, Premio Rivalta-Roberto  Magni, Premio Leandro Polverini). Nel 2015, sempre per le Edizioni Il Fiorino, è stata data alle stampe la mia raccolta di liriche haiku “Le ragioni dell’oro” (Premio Giovanni Gronchi, Premio speciale della Giuria al Premo Letterario Città di Arona)

Nel 2017, essendomi classificata tra i vincitori del Concorso “ Pubblica con noi ”, è stato dato alle stampe per Fara Editore il mio terzo libro di poesie “Terre d’acqua“ (Secondo classificato al Premio Città di Arona, Menzione di merito al Premio Città di Copenaghen, Finalista al Concorso Letterario Poeta per caso e al Premio Michelangelo Buonarroti, Primo Premio alla XXI Edizione del Premio Il Litorale, Menzione di Merito al Premio Poetika, IV Classificato al Premio Maria Cumani Quasimodo e Medaglia Aurea al Premio Emozioni Poetiche.) A maggio 2018, in un felice connubio tra pittura e poesia, una mia silloge breve è stata trasposta su forex ed esposta all’interno della mostra “Meraviglie d’Oriente” accanto ai dipinti del Maestro Luigi Ballarin, noto artista che opera tra Venezia, Roma e Istanbul. Nel febbraio 2020, di nuovo per Fara Editore, è stata pubblicata la mia quarta raccolta poetica dal titolo “Rosa del battito”. A trenta poesie, facenti parte della silloge, è stato attribuito Il Premio Speciale della Giuria al Premio Internazionale di Poesia Besio 1860. Il libro si è inoltre classificato al Primo Posto al Premio Letterario Internazionale Mario Luzi 2020, finalista al Premio Tra Secchia e Panaro e ha ricevuto una Menzione d’onore alla 34 Ed. del Premio Lorenzo Montano-Anterem Ed.  Ad aprile 2023 Fara Ed. ha editato la silloge “L’occhio verde dei prati” in edizione bilingue italiano-inglese a cura di Ivano Mugnaini. Alla raccolta è stata attribuita una segnalazione al Concorso Narrapoetando 2023. E ancora ad aprile 2023 ho pubblicato, sia in versione cartacea che in e-book, “Il dono e la cura” Aletti Editore, opera poetica che è stata tradotta in arabo dal Professor Emerito Hafeiz Haidar.  A maggio 2023 alcuni miei testi sono stati selezionati per essere  presentati ed esposti alla Mostra Pro Biennale di Venezia. La Mostra,  organizzata dal Curatore d’Arte e scrittore Salvo Nugnes presso il padiglione Spoleto dello storico Palazzo Rota Ivancich, è stata  introdotta e commentata da Vittorio Sgarbi ed è stata visitata da numerose personalità del mondo dell’Arte, della Cultura e delle Istituzioni.  Molte mie poesie e alcuni racconti sono stati inseriti in antologie di Concorsi Letterari, in alcuni siti on line e in lit-blog dedicati, in riviste letterarie anche straniere, in raccolte collettanee di Case Editrici come LietoColle, La Vita Felice, Fusibilia, Terre d’ulivi, Empiria e Fara Editore. Alcuni miei testi infine sono stati tradotti in inglese, in francese e in spagnolo  mentre alcuni miei haiku, tradotti in giapponese, sono apparsi sia sulla rivista letteraria Aoi che su quella della Kokusai Haiku Kyokai. Note e contributi critici sulla mia scrittura sono stati stilati, tra gli altri, da Nazario Pardini, Gian Ruggero Manzoni, Antonio Spagnuolo, Fernanda Ferraresso, Fabrizio Bregoli, Fulvio Castellani, Angela Caccia, Vincenzo D’Alessio, Carla D’Aronzo, Ivano Mugnaini, Renzo Montagnoli Giuseppe Vetromile, Salvatore Cutrupi, Claudia Piccinno

Verso un altrove – recensione con intervista

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Verso un Altrove

Cristina Lastri Verso un Altrove, Le Mezzalane, 2019

Recensione di Ivano Mugnaini

 
“In sana sommossa / verso l’isola che forse c’è”, scrive Cristina Lastri in una delle liriche di questo suo recente libro. I versi ci indicano una strada fatta di rettilinei e di curve oltre cui bisogna trovare il coraggio di andare. La sommossa, innanzitutto, è un momento di svolta, un deliberato scarto; ma il vocabolo si integra con quell’aggettivo “sana” fino a costituire un binomio inscindibile, un tutt’uno. La natura dell’aggettivo non modifica la forza e la schiettezza della rivolta. Anzi, semmai la rafforza. Una vera sommossa nasce da radici salde, dall’esperienza delle cose viste e percepite, perfino dagli errori, dagli sbagli di valutazione. Solo con quel bagaglio di esperienze si può intraprendere il viaggio verso la meta auspicata, quell’isola che, ribaltando un noto riferimento letterario, in questo caso c’è, esiste. Il libro è la sintesi dettagliata di un viaggio, un tragitto che, come ci indica il titolo, ci porta lontano.
Come ha sottolineato Cristina Lastri nell’intervista per la rubrica A TU PER TU, il timone idealmente è rivolto verso “un altrove”, non verso l’Altrove indistinto e assoluto.  Il cammino personale dell’autrice si estrinseca in varie “tappe” all’interno di questo libro.  Si può rilevare una prima forma di “evoluzione”, un mutamento di prospettiva, sia cronologico che “visivo”, per così dire, un differente punto di vista: “La sete di conoscenza mi ha permesso di emergere da una sorta di eremitaggio introspettivo e di rivolgere lo sguardo oltre, verso un fuori da sé”.  

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Dialoghi con Pavese

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DIALOGHI CON PAVESE
a cura di Milo De Angelis

Cesare Pavese

Casa della Poesia – Largo Marinai d’Italia 1 – Milano

Giovedì 7 marzo ore 21

Milo De Angelis Presentazione

Giancarlo Pontiggia La belva

Angelo Lumelli L’orizzonte nel sacco o la teoria della calza rovesciata in Paesi tuoi

Viviana Nicodemo Piccola antologia pavesiana

Giovedì 18 aprile ore 21

Milo De Angelis Presentazione

Giovanni Tesio Pavese e la gloria: uso e consumo di un mito

Gianfranco Lauretano Letture pavesiane del mito

Dario Capello La valigia di Leucò (letto da Viviana Nicodemo)