note di lettura

Alice Oswald – Nessuno – traduzione di Rossella Pretto

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cop Nessuno, Alice Oswald

As the mind flutters in a man who has travelled widely
and his quick-winged eyes land everywhere
I wish I was there or there he thinks and his mind

immediately

as if passing its beam through cables
flashes through all that water and lands
less than a second later on the horizon
and someone with a telescope can see his tiny thought-form
floating on the sea-surface wondering what next

       

.

 

Come sfarfalla la mente di un uomo che ha molto viaggiato
e le rapide ali dei suoi occhi atterrano ovunque
vorrei essere lì o là egli pensa e la sua mente

all’istante

come passando tra cavi il suo raggio
lampeggia tra tutta quell’acqua e atterra
in meno di un secondo sull’orizzonte
e al telescopio se ne vede l’impalpabile forma-pensiero
fluttuare a pelo d’acqua domandandosi cosa accadrà poi

 

.

 

Il verbo “flutter” avrebbe potuto essere tradotto in modo letterale, prudente, oppure anodino, neutro, di modo che nessuno potesse notarlo e quindi sentirlo, percepirlo o criticarlo. Avrebbe potuto passare inosservato e ciò poteva essere fatto senza sforzo. Ma era un verbo chiave, un segnale, una boa nell’oceano immenso dei significati e dei significanti.

Rossella Pretto lo ha tradotto ricreando poesia. Mettendo nell’impresa tutto lo sforzo e la passione necessari per restituire al lettore anche nella lingua di destinazione il sapore di un gesto allo stesso tempo concreto e metaforico, denso della precisione, dello smarrimento e della ricerca millimetrica che sono propri della poesia.

È difficile riassumere nel breve spazio di un post un lavoro lungo, accurato e complesso e tutti i nodi sciolti con la cura con cui si pettinano i capelli di una persona amata, tutti gli ostacoli e tutti i voli che la Pretto ha incontrato seguendo le tracce del viaggio della Oswald e del suo personaggio dal nome emblematico, simbolo di un mondo parallelo al mito, alla narrazione delle narrazioni, isolato in ogni senso possibile, eppure centrale al punto di far rivivere nella sua area isolata il senso della centralità di ogni storia, collettiva e individuale, di ogni desiderio e ogni necessità di creare un mondo.

Un universo che possa dare un senso al mondo vero e proprio, forse nell’attimo esatto della conferma che nessun mondo è vero e proprio di per sé, e acquista consistenza, forse, solo nell’atto di acquisire la consapevolezza amara e salvifica della sua fluidità, del suo “sfarfallare”, oscillazione tra vero e falso, vita e morte, desiderio di vita e cupio dissolvi.

È veramente complesso riassumere un lavoro in cui ogni pagina contiene dozzine di rimandi e richiami intertestuali a più livelli, e dove tutto, la copertina, le premessa di Marco Sonzogni e la nota introduttiva della stessa Pretto, interagiscono con le due versioni del testo che a loro volta si parlano, conversano tra loro in un dialogo interrotto in cui ogni termine rispecchia e riecheggia l’altro confermandone il senso e mutandolo, facendolo virare di qualche grado per offrire la visione di un braccio di mare più esteso.

Il consiglio, semplice e sentito, è quello di prendere il libro, acquistarlo, osservarlo da vicino per cogliere in modo individuale tutto quanto qui può essere solo accennato.

Qui ed ora, dopo il consiglio, sincero, posso solo aggiungere alcuni preziosi frammenti ulteriori.

Comincio da una citazione tratta dalla premessa di Sonzogni, che merita anch’essa di essere letta integralmente, non solo per l’acume e il gusto di scoprire aneddoti e citazioni, ma anche in virtù della collaborazione che Sonzogni ha fornito contribuendo a sciogliere alcuni dei “nodi” (intesi sia come grovigli che come unità di misura della velocità di chi percorre specchi d’acqua, onde e frangenti):

“Leggendo Nobody, e traducendone in apnea cinque testi – in treno e con l’acqua del mare da un parte e dall’altra del binario nell’ultimo tratto prima d’invenarsi in Venezia – mi è venuto in mente un passo da Alice in Wonderland di Lewis Carroll. Nel settimo capitolo di Through Looking-glass, Alice dice al Re di non vedere nessuno lungo la strada («‘I see nobody on the road,’ said Alice»). E il Re, ansioso, ribatte dicendo di volere occhi come quelli di Alice, capaci di vedere Nessuno anche a distanza («‘I only wish I had such eyes,’ the King remarked in a fretful tone. ‘To be able to see Nobody! And at that distance too!»).

Ecco: servono occhi così per provare a guadare le acque vertiginosamente vitree dell’inglese di Alice Oswald senza essere tirati sotto la corrente dell’interpretazione dai vortici della sua imprevedibile e inesauribile genialità – un looking-glass particolarmente invitante ma anche particolarmente insidioso per chi voglia provare a dire quasi la stessa cosa, come Umberto Eco ha definito la traduzione.”

 

Aggiungo un brano della nota introduttiva, dal titolo IL VIAGGIO (PER ACQUA, NEL TEMPO) di Rossella Pretto:

“In questo viaggio (in tutti), ci sono un punto di partenza e un punto di arrivo che possono essere declinati secondo una linea temporale (passato e presente), oppure intendendoli come stati (fedeltà e tradimento), o ancora in senso spaziale (terra di origine e terra straniera), o semplicemente in termini di andata e ritorno. Tra questi due punti, comunque siano intesi, vi è qualcosa che sfugge alla forma, alla definizione, e inquieta; qualcosa che impressiona anche nel senso che lascia il segno del suo passaggio,

indecifrabile ma presente. E quante presenze ci sono, qui! Che cosa siano non si sa né come meglio definirle. E allora tocca sperimentarle, facendo esperienza dell’acqua.

Mircea Eliade ha insegnato che ogni forma, non appena si stacca dalle acque, cade sotto l’imperio del tempo e della vita: lo ricorda anche Marina Cvetaeva in quello splendido componimento che è ‘Alla sibilla – il bambino’, affermando che nascere è cadere nel tempo, da quel golfo amniotico al giorno; e il movimento contrario, quello del morire, è ancora una caduta:

 

Ma ti alzerai! Ciò che chiamiamo morte

è cadere – nell’alto.

 

Ma tu – vedrai! Le palpebre chiuse

sono: venire alla luce.

 

Dall’oggi –

nel sempre.

 

La morte, bambino, è ritorno.

La morte è andare a ritroso!

 

Per – l’aria! a – nuoto! a –

scesa: indietro: in dentro – in e-

                                            terno.

 

Gli spunti, in  questo libro, sono innumerevoli, tutti degni di essere percorsi, attraversati, percepiti con tutti i sensi a disposizione.

Rendo ancora più complessa (e quindi affascinante) l’impresa, aggiungendo un’altra lirica con la traduzione:

 

Terrified of insects of noon of sunlight
when the sea dilates to let more green in
and the damaged undermost in all its clefts can be seen
when swallows free themselves of their sorrows
and seagulls hang themselves on invisible armatures
and only a few tiny almost magical flashes of light
fall in the form of rain and

 

Stop

those lovers lurk in their indoors wondering
can he hear us now that poet has he finished
his poem about us what kind of a sting in the ending
will he sing of the husband if he is in fact
on his way here knowing by now the craggy out-jut
of that shallow place where the seals bob about like footballs
and did you hear along the shore that chorus of trees
with seaweed hung from their twigs like wept-in tissue
being moved by what a heartfelt sigh the wind is
and have you noticed the way the radius of water
maintains itself in proportion to its circles
as if each raindrip made a momentary calculation
and when it stops there are ruled flat lines
running from one island metrically to another

 

      .

 

Terrorizzati dagli insetti dal mezzodì dalla luce solare
quando il mare si dilata per far entrare più verde
e i corrosi recessi si vedono in tutte le loro crepe
quando le rondini si liberano dei loro dispiaceri
e i gabbiani si appendono su invisibili armature
e solo alcuni piccoli quasi magici lampi di luce
cadono sotto forma di pioggia e

si fermano

 

quegli amanti si acquattano nelle loro dimore chiedendosi
può sentirci ora quel poeta ha finito
il suo poema su di noi che tipo di stoccata infine canterà
del marito se in effetti sta
tornando conoscendo ormai la scoscesa sporgenza
del bassofondo dove le foche beccheggiano come palloni
e hai sentito quel coro di alberi lungo la riva
con alghe appese ai rami come fazzoletti intrisi di pianto
commossi dall’accorato sospiro del vento
e hai notato il modo in cui il raggio dell’acqua
si mantiene proporzionato ai suoi cerchi
come se ogni goccia di pioggia facesse un veloce calcolo
e quando si ferma vi sono tracciate righe piatte
che metricamente scorrono da un’isola all’altra”.

 

Questo libro è utile per comprendere come un lavoro attento, fatto con mente e cuori accesi e vivi, possa generare nella lingua di destinazione nuova poesia senza smarrire il senso e il sapore delle acque e delle terre e del vento salmastro della lingua originale.

Questo libro ci fa capire il senso di essere isole, inesorabilmente.

Ma anche la consapevolezza dell’esistenza, tenace, forse salvifica, forse beffarda, di “righe piatte / che metricamente scorrono da un’isola all’altra”.

Ivano Mugnaini

 

Alice Oswald

Nessuno
traduzione di
Rossella Pretto

Edizioni ETS

Il mito

Voci dal presente

cop Nessuno, Alice Oswald

Alice Oswald è Professor of Poetry all’Università di Oxford, prima donna eletta a questa prestigiosa cattedra. Per la sua produzione poetica – che include The Thing in the Gap-Stone Stile (1996), Dart (2002), Woods etc. (2005), A Sleepwalk on the Severn (2009), Weeds and Wildflowers (2009), Memorial (2001), Falling Awake (2016) e Nobody (2019) – ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui il T.S. Eliot Prize (2002) e il Griffin Poetry Prize (2017). È considerata una delle voci più importanti della letteratura mondiale.

Rossella Pretto è poetessa, traduttrice e scrittrice. Ha pubblicato il poemetto Nerotonia (Samuele Editore 2020) e il romanzo La vita incauta (Editoriale Scientifica 2023). Con Marco Sonzogni ha curato e tradotto Memorial di Alice Oswald (Archinto 2020) e l’edizione delle traduzioni sofoclee di Seamus Heaney, Speranza e Storia (Il Convivio Editore 2022). Ha poi curato La Terra desolata di T.S. Eliot nella traduzione di Elio Chinol (Interno Poesia 2022).

‘Ho chiuso con te’ il nuovo romanzo di Emanuela Esposito Amato

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Pubblico la recensione di Anna Lina Grasso, redattrice del portale “‘900 letterario” https://www.900letterario.it/“, al nuovo romanzo di Emanuela Esposito Amato.

Buona lettura, IM

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Caivano negli ultimi tempi è drammaticamente e tristemente balzata agli altari della cronaca per fatti drammatici. Caivano fa anche da sfondo al nuovo romanzo della scrittrice napoletana Emanuela Esposito Amato, “Ho chiuso con te” pubblicato da Guida Editori.
L’autrice ambienta a Caivano, comune dell’hinterland napoletano noto per il suo degrado, una storia che richiama alla mente le protagoniste dell’Amica geniale di Elena Ferrante. Lola e Nina tuttavia non sono amiche, ma gemelle tanto simili nei tratti somatici, quanto diverse caratterialmente, che assistono alla morte violenta dei genitori che segnerà per sempre le loro vite. Da adulte le loro strade si dividono. Lola vola a Parigi per sfondare nel mondo della moda, mentre Nina vive a Napoli impartendo lezioni di pittura.
Tutto sembra andare per il meglio, ma una tragica notizia costringe Lola a far ritorno in città. Qui incontrerà Alessandro, un avvocato rampante dal passato tormentato. Sospesi in un delicato equilibrio a cavallo tra passato e futuro, tra verità dimenticate e sentimenti inaspettati, le loro strade si intrecciano in un labirinto di emozioni e scoperte, mostrando come tutto ciò che diamo per scontato non risulti tale, perché nessuno è ciò che sembra.
Una serie di elementi ben dosati nel romanzo da Emanuela Esposito hanno reso possibile la buona riuscita di una storia a metà tra il thriller psicologico, il noir (soprattutto per quanto riguarda le atmosfere parigine), il racconto di formazione senza rinunciare al genere romantico.
Violenza domestica, suicidio, traumi, sogni, dipendenze, l’arte come fuga e speranza, sono tematiche che l’autrice riesce a sviscerare senza risultare pesante, e trasformare la storia in un calderone di ingredienti indigesti.
Caivano è un luogo esistenziale, il precoce e drammatico viatico per la vita adulta, per la sofferenza e per il desiderio di cambiamento, la causa principale per dimenticare dolorose verità. Emanuela Esposito, attraverso un’accurata analisi introspettiva, fa emergere uno spaccato di vita contemporanea dove domina la voglia di ricominciare, dimenticando il grigio passato di Caivano, per tuffarsi nei colori di una Parigi frenetica, capitale della moda. Ma non si può fuggire dal passato, né dai propri pensieri e tormenti che spesso ci illudiamo di aver risolto cambiando vita solo apparentemente e tuffandoci totalmente nel presente, nel lavoro e nelle relazioni.
Una storia al femminile che ricorda il rapporto viscerale tra le protagoniste del celebre romanzo di Elena Ferrante, “L’amica geniale”, in quanto Lola e Nina hanno un rapporto sembra continuare anche dopo la morte.
Oltre all’originale impianto narrativo messo in piedi dall’autrice, l’idea delle maschere pirandelliane, secondo cui ciò che appare in superficie spesso nasconde una realtà ben diversa, costituisce un’altra importante peculiarità del romanzo: nonostante la tendenza a presentarsi agli altri in un certo modo, ciascuno di noi nasconde fragilità, inquietudini e desideri profondi che spesso rimangono latenti. La letteratura aiuta a svelare i segreti della nostra anima ed Emanuela Esposito Amato cerca di far emergere l’io profondo delle due protagoniste grazie alla voce di Caivano.

Anna Lina Grasso

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L’autrice

Emanuela Esposito Amato è nata e vive a Napoli. Durante e dopo gli studi universitari ha vissuto e lavorato a Parigi. Laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne è docente di Francese. Ha pubblicato racconti sulle riviste “Inchiostro” e “Il Segnalibro” (2002). Ha vinto il primo premio del concorso letterario “Da donna io racconto”, edizione 2004 con il racconto “Lui dorme”. Nel 2018 ha pubblicato con Alcheringa edizioni “Il diario segreto di Madame B.” a cui è seguita nel 2020 la raccolta “Lui dorme e altri racconti” edita da Homo Scrivens. Nel 2022 ha visto la luce “Uno squillo per Josèphine”, sequel del diario segreto di Madame B., romanzo che ha avuto enorme successo conquistando numerosi prestigiosissimi premi letterari.

Ixòe de aria – Isole d’aria – poesie in tre versi di Donatella Nardin

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Nella nota introduttiva al libro, Donatella Nardin precisa che Ixòe de aria – Isole d’aria è il frutto del suo peculiare interesse per gli haiku, ma precisa che pur avendo tentato di aderire ai canoni sia stilistici che concettuali del genere si è presa “alcune libertà come quella di usare il dialetto odierno delle isole treportine/veneziane”.
Questo brano dell’introduzione (e questa considerazione vale sia per questo specifico volume che a più ampio raggio per tutta la produzione poetica della Nardin) conferma che la poetessa sa affiancare allo slancio e alla passione uno studio, una preparazione preliminare che incanalano l’ispirazione nell’alveo di un’espressione conscia che, senza perdere niente della freschezza e dell’immediatezza, consente di produrre lavori compiuti e maturi.
L’utilizzo degli haiku nell’ambito della poesia occidentale è un’operazione complessa e rischiosa. Perché all’origine del genere haiku ci sono secoli di cultura, usanze, visioni del mondo che sono di difficile comprensione e assimilazione. I poeti consapevoli e attenti, come la Nardin, sentono, per istinto oltre che per riflessione profonda, che un tentativo di riproduzione pura e semplice dell’haiku in una lingua differente e in un contesto estremamente diverso darebbe dei risultati insoddisfacenti, rischiando perfino il tonfo nel bathos, nella comicità involontaria.
Se invece, ed è il caso di Ixòe de aria – Isole d’aria, la forma poetica giapponese viene presa come modello di riferimento per creare una forma di poesia breve che dagli haiku prende il meglio senza tentare un vano scimmiottamento, allora il risultato è pregevole ed aiuta anche noi occidentali a cogliere nel giro di poche sillabe il legame profondo tra la Natura e gli esseri viventi, tra un momento del tempo e l’eternità che è concessa agli uomini, vale a dire l’emozione e la percezione profonda della bellezza.
Come osserva Massimiliano Bardotti nel giudizio espresso riguardo alla raccolta della Nardin risultata finalista al concorso Narrapoetando 2024, si rileva “in questi Haiku una grande aderenza alla tradizione, con la particolare nota del dialetto. E qui si apre un’altra pagina straordinaria di tradizione legata alla poesia dialettale. Ecco, due tradizioni che si incontrano e in maniera così naturale, questo ho molto amato. E poi l’occhio del poeta (o della poetessa) che osserva intorno a sé e tutto vede, e nel cantarlo appunto lo eterna, e ci rende intatta la misura di chi siamo, e di come viviamo.”
È un parere condivisibile, che offre altresì vari spunti di interesse. Il riferimento al dialetto, innanzitutto. La Nardin stessa, nella nota introduttiva in parte già citata, ci offre, a fianco ad alcuni dettagli che sono forse di pertinenza di alcuni specialisti del genere haiku, considerazioni sul dialetto che, al contempo, ci forniscono parole chiave e indicazioni sull’angolazione da cui osservare i suoi ritratti del tempo e del mondo: “pur avendo tentato di aderire ai canoni sia stilistici che concettuali del genere quali, ad esempio, il costrutto canonico dei tre versi espressi in 17 more o sillabe, l’uso del kigo 季語 (riferimento stagionale) anche solo evocato e del kireji 切れ字 […] mi sono presa alcune libertà come quella di usare il dialetto odierno delle mie isole treportine/veneziane per tentare di sottolineare ed evidenziare, nella lingua degli affetti e delle radici, quanto siano intrecciati in modo inestricabile il tempo umano, il paesaggio e il linguaggio nel dare voce a un canto solo apparentemente semplice e sommesso.”
Con acume, forse ancora una volta grazie alla coesistenza di istinto e ragionamento, la Nardin ha compreso che per esprimere e trasferire nel contesto attuale e in ambito occidentale una forma poetica che ricerca l’essenza, il senso privo di orpelli, era utile e forse necessario fare ricorso ad una forma espressiva il più possibile naturale, primigenia, appresa dai sensi prima ancora che della ragione. Il dialetto è una lingua che si assimila senza il filtro dell’apprendimento. Con la visione e con l’ascolto immediati, liberi dai vincoli del pensiero e delle metodiche scolastiche.
Il dialetto come modello espressivo primigenio ben si adatta ad una poesia il cui intento è racchiudere nel giro di poche sillabe l’essenzialità della vita, adeguatamente definita dall’autrice stessa “un canto solo apparentemente semplice e sommesso”.
Altrettanto utili e consone, in quest’ambito, sono le osservazioni che Alessandro Ramberti propone nella postfazione al libro: “subito, nei versi in esergo, Nardin ci invita a sintonizzare il battito. La metrica, la musica si basano del resto da sempre sulle pulsazioni del cuore, sul ritmo del respiro. Come fin dai tempi ancestrali l’uomo osserva il cielo, conscio di quanto mistero lo circondi in alto, attorno a sé e in quanto sta sotto i suoi piedi, così il canto della poetessa lagunare osserva e vibra nitido e ripieno di stupore: “Astri celesti – / il poco visibile / dell’invisibile” (p. 16); “(…) nell’oltretempo è viva / la tua presenza” (p. 47); “Le ultime viole – d’altri mondi il respiro / dentro di noi” (p. 65).
Il paesaggio non è un mero correlativo oggettivo, ma la fonte stessa di una energia che ci è necessaria per vivere, per essere, per empatizzare”.
Efficace, a mio avviso, e in gran parte rivelatore è anche il titolo della raccolta Ixòe de aria – Isole d’aria. L’aria è il più impalpabile degli elementi. Invisibile, incorporeo. Eppure assolutamente vitale, imprescindibile. Ricorda la poesia, e forse in particolare il genere scelto per fare da modello a questa raccolta, l’haiku: un soffio di sillabe che insegue un senso e un’immagine che mentre la esprimi è già mutata, virata verso altri colori e altri orizzonti. Eppure, a dispetto di tutto, resta, nel tempo, quella pennellata, quel tocco lieve di parole. Rimane perché in fondo la natura umana è costituita dallo stesso mistero, da un’identica dicotomia: l’effimero e, sull’altro versante, una tendenza a cercare il senso profondo di un attimo, quello che, per qualche arcana mistura interiore, sfugge alle regole del tempo e alla sua furia distruttiva.
Accade così che le isole, in apparenza i frammenti di terra più fragili ed esposti alla furia del mare e degli altri elementi, in realtà restino, sopravvivano, si vestano di bellezza, di racconti reali e di leggenda, di vita e di mito trasformando l’immagine di un’onda in una metafora concreta di qualcosa che scorre eppure permane.
Così, su questa liaison solo in apparenza impalpabile, Donatella Nardin ha saputo cogliere, intuire ed esprimere la connessione tra il mare del Giappone e la laguna veneta. Ha saputo manifestare connessioni profonde tramite componimenti di tre versi in cui però c’è ogni volta un mondo che il lettore può osservare e confrontare con il suo orizzonte.
In tal modo le isole acquistano la consapevolezza, in quel “ritmo del respiro” che è da sempre universale, che in fondo esistono connessioni prerazionali, innate, che fanno sì che anche mondi distanti possano cantare all’unisono, ognuno con le sue forme, le sue radici, le sue tradizioni. E i canti condivisi, creano (o creerebbero) tra gli uomini, arcipelaghi di armonia.
La raccolta della Nardin contiene ritratti della vita (nel libro resi visivamente in modo mirabile dalle illustrazioni di Dante Zamperini), miniature realizzate con cura orientale e passione mediterranea. Ve ne propongo qui una manciata. Ma l’invito è quello di sempre: cercare il libro, incuriosirsi e mettere a confronto le proprie emozioni con quelle dell’autrice, condividendo la stessa aria e la magia misteriosa ed essenziale dell’esistere.

IM

Copertina della raccolta Ixòe de ària-Isole d'aria di Donatella Nardin_page-0001

page00017b635a4c2471a07c6a20c1092373af19-0Mia foto a colori

 

Curriculum biobibliografico di Donatella Nardin

Sono nata e risiedo a Cavallino Treporti-Venezia. Dopo gli studi classici, ho lavorato nel settore turistico anche con incarichi dirigenziali. Mie poesie e racconti, pluripremiati in numerosissimi Concorsi Letterari, sono stati inseriti in raccolte collettanee di diverse Case editrici, in Antologie di Concorsi Letterari, in alcune riviste di settore, in siti web e in lit-blog dedicati, anche stranieri. Alcune mie liriche sono state tradotte in inglese, in francese, in spagnolo, in polacco e in giapponese.
In poesia, ho pubblicato: per le Ed. Il Fiorino la silloge In attesa di cielo e la raccolta di haiku Le ragioni dell’oro, per Fara Editore i libri Terre d’acqua, Rosa del battito, L’occhio verde dei prati – quest’ultimo con versione inglese a fronte a cura di Ivano Mugnaini – e questa ultima raccolta di haiku Ixòe de ària/Isole d’aria in versione vernacolare con relativa traduzione in italiano, per Aletti Ed. Il dono e la cura con la traduzione in arabo da parte dell’Accademico Emerito Professor Hafez Haidar e per le Edizioni Eikon/Cosmopoli, nella collana diretta da Eliza Macadan, la plaquette Infloriri de Umbre/Fioriture d’ombra nella versione bilingue romeno/italiano.
Mie sillogi brevi sono inoltre risultate vincitrici di selezioni per i volumi antologici L’altra metà del cielo Ibiskos Ulivieri Ed. per Distanze obliterate Puntoacapo Ed. e per il Premio di Poesia Città di Mestre Mazzanti Libri.
A maggio 2023 alcuni miei testi sono stati selezionati per essere presentati ed esposti alla Mostra Pro Biennale di Venezia e a luglio 2023 alcune mie poesie sono risultate vincitrici di selezione nella Sez. Poetry Collection Award e sono state declamate nel corso del Literature Festival Zehng Nian Cup che ha avuto luogo a Quingzhou City, nel Shandong in Cina.

 

L’albergo dei morti – libro di Fabio Dainotti – Manni, 2023

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Fabio Dainotti, L’albergo dei morti, Manni, 2023

Il titolo del libro di questo libro è ineludibile. Impone una riflessione e una risposta emotiva. Il riferimento alla morte, quel nitido memento mori, dovrebbe generare tristezza. Ma il vocabolo “albergo” ha assonanze differenti. Si vive con la morte accanto, in un luogo che non abbiamo scelto; ma si tratta pur sempre di una “vacanza”, seppure a tratti in una struttura che è a volte caserma, a volte ospedale, a volte istituto di pena. Ma è un albergo. Di morti vivi. Che sanno sognare. Che hanno conosciuto la poesia, la bellezza. Che hanno il privilegio di ore d’aria in cui possono creare e dialogare con poeti passati o moderni. I poeti vivono sempre nelle loro poesie. E ci sono modi di rendere migliore il soggiorno: donne giovani o piene di tempo, di primavere, di anni, ma anche di frutti succosi. “Sulle foglie del melo l’amarena / del tramonto: la vecchia signora / ce la offriva in giardino”.

Questa poesia, nitida e suasiva, è preceduta da una dedica, “A Gina”, ed è seguita da un luogo e da una data, “Brescia, 1965”. Questo breve e intenso componimento, possiede, come tutte le liriche di questo libro, la concretezza del vissuto, e, in modo spontaneo, l’offerta sincera di quel dono, oggetto concreto e simbolo, compendio di un tempo che, qui ed ora, rievoca se stesso con dolcezza aspra, autentica. Leggi il seguito di questo post »

L’occhio verde dei prati

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Pubblico qui la mia recensione al libro di Donatella Nardin che ho avuto il piacere di leggere e di tradurre in inglese.

La nota critica parla tra l’altro di musica, di dissolvenze, di ossimori, del mondo che verrà e di una viola che bisogna divorare.

Buona lettura a chi vorrà leggere queste mie annotazioni, ma, come sempre, anche e soprattutto a chi vorrà leggere il libro. IM

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L’occhio verde dei prati

Il riferimento all’occhio presente in modo ineludibile nel titolo del libro di Donatella Nardin richiama il bene della vista, il dono prezioso dello sguardo. Ma non si tratta di un puro fenomeno ottico né tantomeno di semplice acquisizione di dati e immagini. Siamo di fronte nel contesto di questo volume a qualcosa di più ampio, un’osservazione che la vista rende possibile senza tuttavia esserne fine né meta. Lo sguardo parte dall’esterno per poi attraversare le ampie pianure del tempo e dell’interiorità. Al termine del tragitto ritorna a contemplare la bellezza della natura, simbolo di una profondità lineare ma complessa, ricca della consapevolezza del discrimine fondamentale, la linea di demarcazione tra ciò che è umano e ciò che esula dall’umanità vera, autentica.
Le liriche di questo libro sono tessere di un mosaico, o meglio ancora fili di vari colori il cui senso complessivo, la forma e la misura, trovano compimento nell’unità, ossia nella ritessitura di segmenti lacerati dal passare del tempo e dalla perdita di senso e sentimento, a livello individuale e collettivo, per i singoli uomini e le singole donne e per il mondo intero. La cura, intesa sia come farmaco che come riscoperta del gesto attento, appassionato e generoso, è nella poesia vera, fattiva, non di maniera o di facciata. La cura è nel ritrovarsi; e ancora una volta il verbo ha duplice valore, riferendosi sia al patrimonio di affetti di un’unica persona che alla totalità degli individui e dei popoli chiamati a riconoscere ciò che è salvifico. “Bisognerebbe donare un’ora/ buona al tempo, all’insipienza / un pensiero indulgente / come di violaciocche / splendenti tra le pagine nevose di gennaio. / Si potrebbe tentare di svelare / ciò che tiene insieme gli atomi / e le creature, la mano scesa / dall’alto a deporre un seme / d’infinito nella carnalità. / Ma abbiamo perduto l’occhio / svettante nel giusto e nel vero / quel candore che buca le tempie / cercando ricongiunzione”.
Come si evince anche dalla citazione qui sopra riportata, i versi della Nardin possiedono una musicalità innata originata dal gusto della ricerca che tuttavia non cancella la spontaneità. Di notevole valore è la conservazione costante di una “calviniana” leggerezza anche nei punti in cui il dettato assume valenze ampie, quasi allegoriche. In altri termini il senso, quello che in altri tempi si sarebbe definito “il messaggio”, non è mai urlato o imposto con altera retorica. L’autrice parla di sé, con schiettezza e coinvolgimento emotivo profondo, senza perdere la rotta, senza smarrire la lucidità, il rispetto per la parola e per la sua funzione comunicativa, e senza mai dimenticare che anche in poesia, con gli strumenti propri della poesia, si possono narrare le dinamiche della realtà descritta nei suoi eventi e mutamenti. In tal modo il raccontarsi può diventare specchio, tramite l’iride racchiusa nella pupilla e tramite quel verde che, pur con le sue innumerevoli sfumature e tonalità, è abbraccio universale.
Tale suasiva e profonda musicalità ha fatto da trait d’union, ha costituito un punto di connessione tra la lingua in cui le poesie della Nardin sono state concepite e scritte e la lingua in cui sono state tradotte, l’inglese. L’idioma in cui i versi sono confluiti, adattandosi a forme sintattiche e metriche diverse, ha acquisito la coloritura propria della lingua originale, nitida anche nei punti in cui la cupezza del rimpianto e la consapevolezza dell’estraneità rispetto ai modi e ai gesti della società oggi imperante risultano più intense. In tal modo, e in virtù della specificità del dettato poetico, il libro bilingue della Nardin assume ed evidenzia anche sotto l’aspetto squisitamente linguistico una fluida unitarietà.
“Ha immaginato così di svanire / tra le piccole acque che, nel loro / bisogno di assoluto, come lei / sanno il tempo e il gorgogliare / segreto di ogni mancanza. / Nella resa accogliere la finitezza / ché il finire possiede / la mite tracotanza dell’acqua / bambina”. Questa lirica che ha per titolo “Il finire” è per molti aspetti un efficace e in qualche misura riassuntivo parametro di alcune delle tematiche che questa raccolta propone con coerenza. In primo luogo il tempo, a cui si è già fatto necessariamente cenno. Ma non si tratta del solito carpe diem né di una nostalgia vaga e tutto sommato immotivata. Qui la parabola esistenziale è descritta con equilibrio e sincerità (altra parola chiave, quest’ultima). Sì perché sussiste una proporzionalità credibile, anche sul piano del linguaggio, tra la parte iniziale della lirica in cui la ragazza indossa maglietta e infradito, definiti senza sconti e senza abbellimenti edulcoranti. La scena accade oggi e descrive una ragazza come tante, non un’eroina arcadica sospesa in un tempo indefinito e astratto. La ragazza è specchio di ogni donna, così come la riva del fiume in cui tutto accade è imbronciata anch’essa, quasi ad assumere il sentire umano, come se la natura non fosse solo specchio ma respiro e stato d’animo condiviso. E solo allora, quasi a sorpresa, l’occhio finalmente vede, e coglie un dettaglio rivelato da un aggettivo. I capelli sono imbiancati; la ragazza non è più tale, o meglio, porta dentro di sé la gioventù di un tempo in un corpo maturo. Ma ancora quella donna non più ragazza continua ad attendere il risveglio del mattino. E immagina di svanire tra acque che ancora confermano profonda empatia dimostrando di conoscere il gorgogliare segreto di ogni mancanza.
I quattro versi finali della lirica sono “ossimorici” a più livelli. Innanzitutto sul piano del significato, del gesto, della scelta: la resa accoglie la finitezza del finire. Il verbo accogliere, seppure riferito ad una sconfitta, fa pensare ad un sorriso. Amaro, immensamente agro, certo. Ma è un ospite a cui si apre comunque la porta, con un respiro di sollievo, paradossale ma profondo. Si apre la porta e si prende atto che l’ospite una volta entrato non se ne andrà. Bisognerà conviverci. Parlandogli con schiettezza. Tanto già conosce tutto di noi, è sempre stato presente, c’era già prima della maglietta verde petrolio e delle infradito. Parlando con l’ospite nostro malgrado osserviamo e metabolizziamo l’ossimoro più puro e più distruttivo: la mite tracotanza dell’acqua bambina. Forse la nostalgia di una purezza che non è mai esistita. Quella bambina, comunque, non tornerà. Almeno non nella forma di un candore asettico illuminato da un sole mitico che oggi (e forse anche allora) è il riflesso di un riflesso, proiezione di un’idea. Non è un caso forse, ed è un’ipotesi attraente anche questa, che l’unico rimedio alla tracotanza della nostalgia (mite, in apparenza, e quindi ancora più dolorosa) sia svanire. Ossia sparire al mondo, a quella parte del mondo con cui non c’è interazione possibile, non c’è dialogo che possa condurre a sentire in modo analogo. Svanire dunque, come strada necessaria. Andare in dissolvenza, come in ambito cinematografico. E anche nella vita, come nelle pellicole dei film, il passaggio da una scena all’altra non è taglio netto, non è scissione. È continuità nella differenza. L’acqua bambina non tornerà, è passata, trascorsa in direzione di un mare lontano. Non torna ma resta come eco, come sguardo, nel verde della maglietta, dell’occhio e del prato. Sapere svanire è forse la sola arte realizzabile. Sparire senza smettere di essere presente, come mente, pensiero, voce, parola detta e scritta, e anche come corpo (interessante e condivisibile a questo proposito il riferimento alla carnalità come asse portante del libro a cui fa cenno Riccardo Deiana nella postfazione).
Lo sguardo, l’occhio della Nardin, è attento e acuto, proprio perché mai disgiunto dalla mente e dal cuore. Rileva e metabolizza, senza tralasciare niente, senza sconti e senza infingimenti, il buio, la luce e i chiaroscuri. Coglie e annota, seguendo il filo rosso delle varie sezioni del libro, “Le vite care”, “Le creature murate”, “Il fuori”, “Il dentro” e “The next world, Il mondo che verrà”. Descrive una a fianco all’altro la luce e il buio. Ritrae tramite versi fermi, vigilati, non inclini alla retorica né al compiacimento, le violenze, le ferite, la bellezza violata, la perdita della purezza e dell’illusione.
Nella lirica “Amori negati” introduce i suoi versi tramite una citazione da un biglietto di Cesare Pavese a Fernanda Pivano: “La fioraia mi ha detto: le farò fare proprio bella figura. Io non voglio”. La fa seguire da un composizione che contiene anch’essa in nuce i temi chiave di questa raccolta e della poetica della Nardin: il tempo, la speranza, tradita, “mangiata”, divorata dalla realtà; l’invocazione, l’anelito alla rinascita, l’impossibilità di sperare ulteriormente, il nulla come inesorabile sipario:
“Come impetuosi torrenti di sole / rinascere ogni giorno in segreto / alla vita, a pelle nuda rinascere / diade alla preghiera innalzata / – trepida l’invocazione / nella sua dedizione – / se non fosse che in punta di piedi / si è mangiata l’armoniosa / pulsione il timido fiore, / se non fosse che anche il domani / finisce e, finendo, non rifiorisce / con tutto ciò che dovrebbe / fino alla fine accudire / e che invece dispera e nulla più”.
Non è dominata esclusivamente dal gusto della commiserazione la poesia di questo libro, comunque, non è “opera al nero”. Contiene una gamma ampia di colori, a partire dal verde del titolo. Descrive la vita nelle sue sfumature cangianti come i chiarori e le ombre, i raggi accecanti e i riflessi più tenui. La Nardin è poetessa di chiaroscuri, osserva il mondo senza trascurare nessuna delle sue forme e manifestazioni. Dopo l’assimilazione visiva subentra sempre, come detto, la riflessione, il ragionare, mai scevro di sentimento ma allo stesso tempo rigoroso e obiettivo. I colori vengono corrosi dal tempo, che divora, assieme a loro, la lucentezza delle speranze che anni prima sembravano potere splendere in modo imperituro. Alla poesia non resta che ritrarre l’enigma, il mutare inesorabile degli orizzonti. Alla poesia resta il compito di ipotizzare risposte a domande impossibili. O ad enigmi che possiedono infinite soluzioni, una per ogni destino individuale, oppure non possiedono alcuna chiave risolutiva, se non la consapevolezza della finitezza. “Splendori e congedi di ali / troppo grandi per questo / piccolissimo cielo. / Ha raccolto per l’ultima volta / le pesche gialle, succose dagli / alberi piantati quarant’anni / prima. / E ora come faremo – si sono / chiesti i rimasti, sfiniti / dal nulla – come faremo / a respirare, intensa e lieve / la sua luce terrena per mutarla / infine in dolce memoria? / Bisognerebbe forse ingoiare / una viola per ridare vivacità / all’insieme discorde, / come un nuovo nome, magia / che non tiene ma che celebra / la sottrazione”.
Per tutti i lettori alla deriva nel flusso spietato, per tutti i “rimasti, sfiniti dal nulla” di questo nostro tempo impalpabile e feroce, la poesia della Nardin è un modo per riflettere sul senso e sulla funzione di quella viola che racchiude in sé l’armonia perfino del distacco, della nostalgia, della variazione sul tema della caducità di ogni cosa. Quella viola misteriosa e lucente che dovremmo ingoiare si chiama poesia.
Ivano Mugnaini
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Note biografiche di Donatella Nardin

Sono nata e risiedo a Cavallino Treporti-Venezia. Dopo gli studi classici ho lavorato nel settore turistico con incarichi anche dirigenziali.Appassionata da sempre di lettura e scrittura, soprattutto poetica, solo negli ultimi anni ho deciso di dare visibilità ai miei scritti partecipando a vari Concorsi Letterari con risultati soddisfacenti. Mi sono stati infatti attribuiti numerosi premi e riconoscimenti – oltre centosettanta – quali menzioni d’onore, segnalazioni di merito, premi speciali delle giurie e classificazioni ai primi tre posti o da finalista nelle varie graduatorie concorsuali.

Nel 2014, quale premio editoriale di un Concorso, è stata pubblicata per le Edizioni Il Fiorino la mia silloge “In attesa di cielo “  (Premio Giovanni Gronchi, Premio Cinqueterre Golfo dei Poeti, Premio Rivalta-Roberto  Magni, Premio Leandro Polverini). Nel 2015, sempre per le Edizioni Il Fiorino, è stata data alle stampe la mia raccolta di liriche haiku “Le ragioni dell’oro” (Premio Giovanni Gronchi, Premio speciale della Giuria al Premo Letterario Città di Arona)

Nel 2017, essendomi classificata tra i vincitori del Concorso “ Pubblica con noi ”, è stato dato alle stampe per Fara Editore il mio terzo libro di poesie “Terre d’acqua“ (Secondo classificato al Premio Città di Arona, Menzione di merito al Premio Città di Copenaghen, Finalista al Concorso Letterario Poeta per caso e al Premio Michelangelo Buonarroti, Primo Premio alla XXI Edizione del Premio Il Litorale, Menzione di Merito al Premio Poetika, IV Classificato al Premio Maria Cumani Quasimodo e Medaglia Aurea al Premio Emozioni Poetiche.) A maggio 2018, in un felice connubio tra pittura e poesia, una mia silloge breve è stata trasposta su forex ed esposta all’interno della mostra “Meraviglie d’Oriente” accanto ai dipinti del Maestro Luigi Ballarin, noto artista che opera tra Venezia, Roma e Istanbul. Nel febbraio 2020, di nuovo per Fara Editore, è stata pubblicata la mia quarta raccolta poetica dal titolo “Rosa del battito”. A trenta poesie, facenti parte della silloge, è stato attribuito Il Premio Speciale della Giuria al Premio Internazionale di Poesia Besio 1860. Il libro si è inoltre classificato al Primo Posto al Premio Letterario Internazionale Mario Luzi 2020, finalista al Premio Tra Secchia e Panaro e ha ricevuto una Menzione d’onore alla 34 Ed. del Premio Lorenzo Montano-Anterem Ed.  Ad aprile 2023 Fara Ed. ha editato la silloge “L’occhio verde dei prati” in edizione bilingue italiano-inglese a cura di Ivano Mugnaini. Alla raccolta è stata attribuita una segnalazione al Concorso Narrapoetando 2023. E ancora ad aprile 2023 ho pubblicato, sia in versione cartacea che in e-book, “Il dono e la cura” Aletti Editore, opera poetica che è stata tradotta in arabo dal Professor Emerito Hafeiz Haidar.  A maggio 2023 alcuni miei testi sono stati selezionati per essere  presentati ed esposti alla Mostra Pro Biennale di Venezia. La Mostra,  organizzata dal Curatore d’Arte e scrittore Salvo Nugnes presso il padiglione Spoleto dello storico Palazzo Rota Ivancich, è stata  introdotta e commentata da Vittorio Sgarbi ed è stata visitata da numerose personalità del mondo dell’Arte, della Cultura e delle Istituzioni.  Molte mie poesie e alcuni racconti sono stati inseriti in antologie di Concorsi Letterari, in alcuni siti on line e in lit-blog dedicati, in riviste letterarie anche straniere, in raccolte collettanee di Case Editrici come LietoColle, La Vita Felice, Fusibilia, Terre d’ulivi, Empiria e Fara Editore. Alcuni miei testi infine sono stati tradotti in inglese, in francese e in spagnolo  mentre alcuni miei haiku, tradotti in giapponese, sono apparsi sia sulla rivista letteraria Aoi che su quella della Kokusai Haiku Kyokai. Note e contributi critici sulla mia scrittura sono stati stilati, tra gli altri, da Nazario Pardini, Gian Ruggero Manzoni, Antonio Spagnuolo, Fernanda Ferraresso, Fabrizio Bregoli, Fulvio Castellani, Angela Caccia, Vincenzo D’Alessio, Carla D’Aronzo, Ivano Mugnaini, Renzo Montagnoli Giuseppe Vetromile, Salvatore Cutrupi, Claudia Piccinno

Editi ed inediti

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Se avete scritto delle poesie, oppure un romanzo, o dei racconti, inviatemi i file in lettura a:
ivanomugnaini@gmail.com.
Sarò lieto di leggerli per un’eventuale pubblicazione, se si tratta di inediti, o per una recensione nel caso di volumi già pubblicati.
Oppure per la traduzione in inglese di brani di prosa o poesie,  sillogi o interi libri o manoscritti. 

IM

Guardarlo ancora – Paesaggi e miraggi della passione amorosa, di Miriam Bruni

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“Nei miei testi cerco l’esattezza delle parole, la densità naturale dei loro significati; cerco un grembo per ciò che è inconcreto e perlopiù invisibile, e questi aggettivi, questi sintagmi, sono scaturiti in me come una sorgente che in modo limpido riflette il mio volto interiore, il mio profilo umano”, osserva Miriam Bruni nell’intervista rilasciata nel giugno del 2022 a Monica Baldini per la rivista Millecolline.

Leggendo il suo libro «Guardarlo ancora – Paesaggi e miraggi della passione amorosa» le sue parole prendono corpo e concretezza seppure nell’esaltazione di quella “invisibilità” incorporea di cui sono fatti i sogni, i pensieri, i ricordi, anche quelli più aspri e taglienti.

“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita”, ci ricorda Shakespeare nel lavoro più atipico e forse più sentito, più intimamente suo, della sua produzione drammaturgica, «La tempesta». Miriam Bruni dimostra e conferma di avere ottimamente assimilato la lezione shakespeariana. Eppure, con naturalezza, per istinto e volontà, per puro desiderio e sincera inclinazione, produce nei suoi scritti un interessante e coinvolgente ossimoro, anzi, una serie di ossimori che si allacciano e si intrecciano in viluppi che sono essi stessi espressioni variegate e autentiche di un’assoluta passione vitale, e vitalistica.

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Tutte le cose che chiudono gli occhi

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Facendo un’operazione di sintesi estrema, leggendo il materiale che ho ricevuto da Annalisa Ciampalini mi soffermerei su alcune parole, tratte dalla nota personale dell’autrice e dalla recensione di Giancarlo Sissa. L’autrice, parlando del suo libro, osserva: “sentivo che un succedersi troppo veloce e prevedibile degli eventi mi impediva di viverli pienamente, di riconoscerli, di ascoltarli, di averne cura”. Avere cura degli eventi è un’espressione che sfugge agli schemi. In genere ci si preoccupa di affrontarli, gli eventi, di ottimizzarli, di organizzarli e mille altre azioni pratiche e utilitaristiche. Annalisa Ciampalini si ripropone di ascoltarli e riconoscerli. Gli eventi come persone. Forse perché ogni accadimento, ogni attimo che viviamo, ogni passo che percorriamo e che ci percorre, è fatto del pensiero di persone, presenti o assenti, fragili ed effimere e allo stesso tempo assolutamente indelebili.
C’è in questo libro della Ciampalini una sincerità che traspare. Non c’è sfoggio né volontà di stupire. C’è una necessità vera di avere cura per potere ricevere cura. Dagli altri, ma anche dai fatti della vita, dal bene e dal male, dagli occhi dolci e da quelli feroci, dalle cose, dai passi sull’erba ma anche sul fango, sulle rocce, sui rovi.
Alle parole della Ciampalini fa eco adeguata la nota critica di Sissa, anch’essa da leggere nella sua totalità, nella sua struttura completa, organica. Tenendo fede alla promessa della sintesi, propongo, tra i tanti passaggi interessanti della recensione, questo estratto:
 “La stanza condivisa, secondo la definizione di Annalisa: «il luogo dove più luoghi coincidono, stanza di comunità, stanze d’aspetto di reparti difficili, ospizi, talora anche un’aula di scuola », ipotesi insomma comunitaria, ipotesi d’amore e di pietas partecipata, esposta e raccolta al tempo stesso, restituita al mondo e ai suoi soggetti secondo una grammatica anche spirituale ma inedita, da scoprire, da imparare, da far propria con la dovuta attenzione («Ci vollero giorni per capire i compiti che ci erano stati assegnati.») perché l’attenzione all’altro – e a se stessi – esclude ogni infingimento e impone regole severe, atte a testimoniare:
Nessuno di noi
può sostare nei pressi della parete più esposta.
Oltre quel muro
risiedono i malati veri
coloro che per le continue febbri
disertano le lezioni mattutine.
Le menti illuminate
che fissano un punto fuori campo
e colgono nel segno.
In questo brano, seguito da alcuni versi di Annalisa, Sissa individua “ipotesi d’amore e di pietas partecipata”. L’utilizzo della parola “ipotesi” ci conduce su un terreno simile a quello precedentemente accennato. Non ci sono certezze, non c’è un sentiero asfaltato su cui avanzare baldanzosi. L’amore è una scommessa. Non di rado persa. Così come altrettanto di sovente gli eventi di cui cerchiamo di avere cura ci strangolano senza neppure concederci una parola ulteriore. Eppure, ed è qui il percorso che combacia con la meta, esiste quella pietas, quell’atteggiamento difficile da definire e da inquadrare in termini logici, razionali. Forse, la direzione da seguire è quella dello sguardo dei malati veri, dei fragili, dei non integrati né integrabili. Gli occhi che fissano un punto fuori campo e colgono nel segno.
Potrebbe non essere casuale, allora, il titolo del libro, Tutte le cose che chiudono gli occhi. Non è escluso che per avere cura, per ricevere cura, per giungere alla pietas autentica, davvero condivisa, gli occhi si debbano chiudere invece che spalancare. Oppure, ma un’ipotesi non esclude l’altra, che si debba essere fragili, al punto di farsi buio, cecità quasi letale, per potere cogliere il riflesso autentico della luce, quello che, a tratti, risana anche il corpo.

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“La creta indocile” e “Limbo minore” – letture e commenti

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Ringrazio Giulia Sonnante, scrittrice e traduttrice, per la lettura attenta e per il commento, anche in questo caso assolutamente empatico e originale, sia di alcune poesie tratte da “La creta indocile” sia del romanzo “Limbo minore”.

Riporto qui di seguito le note critiche e le “variazioni sul tema” di Giulia, con un nuovo grazie. IM

lungarno-pisa
L’Aria del Lungarno e Altre Liriche: tra vita e poesia  
Non è una madeleine, inzuppata nel tè, a riportare alla memoria un ricordo e non siamo a Combray ma, a Pisa. Al centro della lirica: “L’aria del Lungarno”, di Ivano Mugnaini, in “La creta indocile” (Oèdipus, Salerno, 2018) è l’Arno, placido, forse ignaro di quella vitalità un po’ insensata che si respira tutt’intorno. Anzi, è, esso stesso, parte integrante della Poesia, la determina, e ad essa dà nome.
Uno sciame di ragazzi sgorga dalle stanze di studio come un ampio delta: è il tramonto che strizza l’occhio all’ora violetta di eliotiana memoria: “At the violet hour, when the eyes and back Turn upward from the desk, when the human engine waits Like a taxi throbbing waiting”. (Eliot, The Waste Land, 1922) Gli occhi e le schiene si levano dagli scrittoi e, come taxi, frementi, aspettano. Ed è proprio il palpitare, il pulsare della vita che “L’Aria di Lungarno” riesce efficacemente a cogliere. Così, l’autore, studente d’un tempo, s’incammina lungo la strada che costeggia il fiume; il passo, svelto, da principio, rallenta per divenire nostalgico man mano che il ricordo prende la mano. Non si lascia soffocare, l’aria del Lungarno, il traffico non la sfiora, da essa è fagocitato: “L’aria del Lungarno scorre tra tempo e memoria. / Il traffico non la soffoca, è un cappio di lamiere / che scorre e non la sfiora.”
Scorre, sornione, l’Arno, e quasi percepiamo le urla allegre dei ragazzi che finiscono in piccoli mulinelli d’acqua. Scorre l’Arno, quasi superando gli argini, i limiti stessi del verso. Sì, perché l’Aria del Lungarno è lirica che si fa racconto. L’urgenza dell’autore è quella di cogliere la realtà e poco importa se la poesia, poi, s’incarni in un verso o in una frase.

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Raccontare la poesia

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Raccontare la poesia - cover

Luigi Fontanella, Raccontare la poesia (1970-2020). Saggi, ricordi, testimonianze critiche,

Moretti & Vitali, 2021, 760 pp., € 36,10

 

Molto è già stato detto del libro di Luigi Fontanella Raccontare la poesia. Già detto e detto bene, con passione, acutezza e brillantezza. Sono arrivato in ritardo. Quindi, brechtianamente, tocca sedersi di lato. Non dalla parte del torto, nel caso specifico, ma da prospettive asimmetriche, sperando di poter mettere in luce qualche aspetto non ancora esplorato. Cercando di compensare lo svantaggio cronologico con la possibilità di basarmi su materiali interessanti, in particolare sull’intervista rilasciata dallo stesso Fontanella a Francesco Capaldo per il quotidiano “Pickline”. Utili mi saranno anche alcuni dialoghi che ho avuto di persona con l’autore nel suo studio fiorentino di Via Guelfa, zeppo di libri, di ottimo tè e di sassi di svariate forme e colori, souvenir del suo amato mare greco.

Comincerei dal titolo. In apparenza è lineare, descrittivo. In realtà mi sembra racchiudere un accostamento di mondi, un allineamento tra pianeti, quasi un ossimoro, di forma, di linguaggio, di struttura. Questo libro in fondo è un romanzo in forma di saggio sulla poesia. Di un romanzo ha la diacronicità, il coinvolgimento costante dell’autore e il suo interagire con gli altri personaggi, affini o più distanti, alleati o antagonisti in un conflitto incruento ma costante che ha come scopo primo e come meta finale l’agnizione più significativa, quella che riguarda il volto autentico dell’eroina femminile, la poesia. Il tutto giocato su un piano reso ulteriormente complesso e multiforme dalla coesistenza del piano letterario con quello esistenziale, in senso stretto e in senso lato. Ossia, in poche parole, mi sembra che questo libro non parli della poesia tout court ma della poesia nella vita, o, meglio, della poesia della vita. Quest’ultima definizione non vuole essere un abbellimento estetizzante ma piuttosto un tentativo di definire la necessità, sia della materia trattata sia del progetto che ha condotto alla compilazione e alla pubblicazione del volume.

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