lucetta frisa

Colloquio con l’ombra

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Il doppio, l’altro da noi. L’enfer c’est les autres, è vero. Ma senza gli altri l’inferno è già qui ed è ugualmente garantito. Forse ancora di più. Inoltre, che sia beffa, condanna, privilegio o sfida ulteriore, l’altro è anche, e forse soprattutto, dentro di noi. È l’ombra. Quella che la letteratura, e la vita, ci mostrano sfuggente, ribelle, indocile, a volte smarrita, e proprio in quel frangente assolutamente indispensabile.  

Ritengo che Lucetta Frisa sia un’autrice particolarmente adatta a trattare argomenti come quello a cui si è fatto cenno. Perché lo fa senza sfoggio, senza narcisismi, senza pose da artista tormentata, senza la pretesa di possedere la pietra filosofale o una lente magica, un brevetto sensazionale che consenta di distinguere il bene dal male e il falso dal vero.

La Frisa ha il dono della sincerità. Sembra scontato, ma nel mondo della scrittura e non solo tale dono è molto di più di una chimera o di un unicorno. Ha la capacità, Lucetta, di chiamarsi in causa senza diventare in virtù di questo il centro esclusivo del suo stesso pensiero. In poche parole possiede la profondità dello sguardo ma anche una musicalità verlainiana. E possiede in ugual misura la caratteristica di cui ho già parlato in riferimento ad altri suoi lavori di conservare anche nelle tematiche più aspre una “leggerezza” che non vuol dire appiattimento o diluizione (per così dire) ma volontà di trovare uno spiraglio, la traccia di un residuo di un riflesso di luce.

Per queste ragioni, quando Lucetta Frisa mi ha inviato in lettura la sua Conversation avec l’ombre, scritta originariamente in francese e pubblicata sul catalogo della mostra intitolata “Deux” curata da Gustavo Giacosa tenutasi alla Galerie Zola di Aix-en Provence nel 2019, le ho proposto di postarle qui su Dedalus.

Pubblico il file come l’ho ricevuto da Lucetta, con i testi in francese nella parte iniziale e nella parte successiva la traduzione in italiano a cura dell’autrice stessa.

A corredo del post pubblico la foto del catalogo della mostra e due opere significative sul tema del doppio.

È un’ottima occasione per leggere poesia non scontata, non “addomesticata”, e per riflettere sulla tematica dell’altro, la nostra parte oscura, il taciuto e ciò che per quieto vivere tendiamo a censurare e ad oscurare, con il solo effetto di rendere quell’ombra ancora più gigantesca,  assetata e affamata di pensieri, di verità possibili e di conversazioni sincere.

IM

 copertina catalogo A

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On the other side of the moon – Cronache di estinzioni

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Nel weekend lo spettacolo della Luna piena della Neve - Tiscali Ambiente

On the other side of the moon

Osservazioni e note di viaggio

su

Cronache di estinzioni

di Lucetta Frisa

Cronache di estinzioni. Si intitola così il libro che vi propongo oggi in questo spazio riservato alle segnalazioni di libri, spesso atipici (per loro merito e nostra fortuna) che ho letto con piacere. Questa rubrica di segnalazioni si chiama “Letti sulla luna”, e, nel caso specifico di questo libro, il luogo in cui idealmente sfogliamo le pagine appare quanto mai adeguato.

Ci siamo estinti, ci dice l’autrice, Lucetta Frisa. Più che una previsione per il futuro, la cronaca è un commento in fieri, se non addirittura un resoconto di eventi che già hanno avuto luogo. Ma immaginiamolo come il commento di una partita. Un match tra la bellezza del mondo e la stupidità umana. Anzi, potremmo sintetizzarla in questo modo: in diretta dallo stadio Azteca, il Peggio dell’Atletico Sapiens Sapiens contro il Resto del Bello del Mondo.

Questo non è tuttavia, è bene chiarirlo, solo un resoconto di eventi catastrofici, disastri ecologici e altre esiziali amenità. È un libro in cui l’autrice si chiede, e ci chiede, se abbia senso continuare ad essere come siamo e a vivere come viviamo.

Una domanda da un milione di dollari, o di talleri, a seconda delle epoche, in quanto è su questo interrogativo che si gioca da sempre il senso del fare poesia. Piera Mattei in una recensione al libro apparsa su “Perigeion” ha scritto: «Cronache di estinzioni è la raccolta poetica di Lucetta Frisa che più ho amato». Al di là delle classifiche, concordo anch’io sul fatto che questo libro abbia concesso a Lucetta di esprimere al meglio la gamma dei temi, dei modi e degli sguardi su sé stessa e sulla vita che le sono cari e consoni.

Ho incontrato Lucetta Frisa in varie occasioni. L’impressione dominante è una solarità assoluta e una grande capacità di dialogo, in grado di mettere a proprio agio perfino i timidi più ostinati. Eppure, nella sua tendenza alla giovialità c’è una parte della mente e del cuore che osserva e annota. Collocata on the other side of the moon, nella parte più silenziosa dei luoghi e dei tempi, la Lucetta cronista estrae il taccuino e scrive. Si appunta gesti, azioni, comportamenti e soprattutto il materiale di base, il combustibile che può accendere un falò nel buio ma anche generare tragicomici incendi: le parole.

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SONETTI DOLENTI E BALORDI

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Frisa sonetti copert“Presenze e paesaggi familiari emergono e si profilano lungo quel sentiero, ombre mute di guardia al vivo e straziato incanto di un universo dove ciò che è polvere riacquista corpo e voce e parla la lingua indivisa degli antri e delle fonti, della sabbia e della goccia che la fa rifiorire, del faro che smania luce dalla voragine oscura che si spalanca al richiamo del suo desiderio e la lascia sciamare libera nell’aria.”
Parto da questo brano della intensa e profonda prefazione di Francesco Marotta per parlare del libro Sonetti dolenti e balordi di Lucetta Frisa. Il sentiero è quello che l’autrice percorre con coerenza da anni nella sua attività letteraria: una lievità densa, una gravità percepita con consapevolezza ma senza mai cedere al gusto autolesionistico (anche nell’ambito della scrittura) del patetismo senza sbocco. E’ la parola che dà forma al dolore ma è la parola stessa che fa rifiorire questi sonetti. Dolenti ma non sconfitti prima di una danza di sfida, simile a quella dei Maori, tra forza e sberleffo, vitale, ironico, tenace. In questo senso forse i Sonetti sono anche “balordi”. Con quella follia che smania dalla voragine oscura ma è anche capace di sciamare libera nell’aria.
Il grido di Pessoa posto ad esergo della sezione Sequenza del dolore è esemplificativo: “sento il tempo come un enorme dolore”. Ma, poco oltre, due versi aprono una ferita che è anche feritoia, spazio aperto su prospettive altre: “Ma s’impara/ che [il dolore] ha mille nomi mille teste vive”. Ciò che si può nominare non diventa meno feroce, però diventa in qualche modo pensabile, oggetto di interazione, quasi soggetto vivo con cui dialogare.
Ho la possibilità di pubblicare la dettagliatissima prefazione di Francesco Marotta e lo faccio molto volentieri. Contiene riferimenti intertestuali ampi e precisi, ma anche una passione di lettore autentica e un apprezzamento non artefatto, non di maniera. Chi lo vorrà potrà trovare nella prefazione riferimenti puntualissimi in grado di approfondire svariati aspetti delle liriche che pubblico qui di seguito.
Follia, mistero, sogno.. ci sono in questo libro tutti gli ingredienti che costituiscono l’orizzonte espressivo di Lucetta Frisa. Miscelati in modo sempre nuovo, con ulteriori scoperte, passi lungo un sentiero che sembra identico ma muta, passo dopo passo. Questo rinnovamento nell’apparente immobilità rinnova la pena ma anche l’emozione, genuina. Quella che nella sequenza più privata viene sintetizzata dalle parole di René Char: “rido meravigliosamente con te/ ecco l’unica fortuna”. Nel dominio dei sonetti dolenti c’è spazio per il riso, se c’è ancora la sorpresa, la scoperta, la volontà di esplorare, perfino terreni bruciati dalla lava o spazzati da venti di uragano.
Scelgo alcune poesie. Anche se una lettura globale del libro, e, lo confermo, della sentita prefazione, parte integrante del testo stesso, forniscono una visione molto più adeguata del viaggio in forma di parole. Per confermare a noi stessi che leggere è “uscire da sé come un giorno/ chiudemmo la porta di casa dietro/ di noi senza le chiavi e il permesso/ dove vai – ci chiesero – non lo so./ Non contavamo i passi le parole/ degli altri credevamo nei numeri/ senza interruzione”. IM

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Sonetti dolenti e balordi

Aprendo i suoi sensi umani il dolore
si fece insopportabile come la gioia
lui volle proteggersi dalla rovina
degli eccessi e dal presente che costringe
azioni ed emozioni a recitare
qui il loro teatro e cominciò a salire
il colle sopra la città e comprese
tempo spazio ironia camminando
in salita respirando pensando
e non pensando più. Il corpo pensava
da solo i suoi occhi pensavano
tutte le direzioni: si fermò
a tradurre il suo grande sogno in libro
ma sapeva che l’amore non si legge.

***

Il dolore è lava di vulcani
colata a valle divenuta nera,
della polvere gli invisibili grani
sono sostanza dell’infinito nero
dei vulcani spenti. Ma s’impara
che ha mille nomi mille teste vive
moriranno insieme a te nel bianco
riflesso dell’occhio di chi ti vede
accartocciarti con il tuo dolore
senza nome e al tuo nome perduto
e a tutti i nomi degli amati giochi
– ferite e cicatrici disseccate –
e con le prime materne carezze
alle ebbrezze esplose ai primi fuochi.

***

La via Lattea non mi scivola sugli occhi
rivolti alla sua perlata scia.
Qui l’ombra di una formica la memoria
confusa del mondo con la sua storia
ottusa persa la sua antica follia.
Dicono i saggi che prima di noi
e dell’umano tempo saturnino
lei regnava indistinta dall’aria.
Ed io quando vado oscillando in bilico
tra pensieri e pensieri e poi slitto
su cose perfide infide e strappo
pelle pupille sesso mi possiede
follia di cullarmi nel suo grembo
snodata da tutti i qui e gli adesso.

***

Per vivere ho bisogno del mistero
occhi di un’altra specie sacre pietre
dipinte o incise nel buio delle grotte.
Scende tiepido dal polso alle caviglie
il mistero delle cerimonie
trattenuto e sfuggito al presente
perché anch’io m’inchino ancora e tendo
braccia mani gola e canto a chi non sente
e non mi vede ora che sono ombra
che vorrei sanguinasse come un corpo
stremato senza più metafore.
Vorrei credere un messaggio sacro
l’imprevista invasione della luce
sul mio scuro letto addolorato.

***

So che il congedo è solo mio solo io
posso gioire o piangermi addosso
solo io conosco il mio inferno lo strato
di terra l’ipogeo dell’inverno
lì mi stendo muta e nuda senza udito
né vista né storia né memoria
e lo specchio non c’è di maga che
mi ricordi chi ero se ero. Bellezza
intravidi da strappi, dai morsi
alle mele ho succhiato veleni,
sputai gli attimi e i lunghi respiri
tutto sembrava insipido da bere
e di tutto mi rimane il desiderio
che svuota e colma d’aria il bicchiere.

***

Non sento non sento nulla qui dentro
e si batte il petto secco con le dita
secche e l’occhio triste lei che sta
per morire vive l’incubo del cuore
svuotato come l’anfora che portò
l’acqua fresca e ora è riversa rotta
nel museo. Soffre di non più soffrire
nel dormiveglia del suo sonno futuro
non ama più né più domanda amore
mi guarda come la parete bianca
che ha davanti: unica cosa insensata.
E quando piango la penso e sentire
devo sentire sentirmi annegare
nell’acqua delle mie torbide lacrime.

***

Bisogna uscire da sé per entrare
negli altri nel loro dolore come
nella loro gioia entrare nell’erba
negli occhi dei cani nel cuore algido
dei metalli e dei sassi docilmente
entrare ovunque dicendo scusate
non siamo invadenti ma è per conoscenza
siamo divisi solo in apparenza
ad ognuno la sua parte e la sua voce
e la sua futura polvere. Sapete
chi siete e dove andate? Amateci
fate finta di parlarci compatirci
anche noi come voi siamo gli attori
di questa tragedia d’odio e d’amore.

***

Questi brandelli di sapienza astri
soli in mezzo al cielo vuoto apparsi
su pagine quasi tutte bianche
riempite da noi da chi ora vive
e li interroga qui tra vita e morte
cauterizzati come un’ustione
antica che ha perduto per sorte
la sua tenera pelle protettiva.
Si deve dire e intuire: ciò che è, è
perché può essere mentre il nulla non è,
allora noi non siamo o da un’altra riva
siamo o non siamo nulla ma potremmo
essere. Uomini ? Chiudo il libro
sotto questa perturbante luce

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Prefazione di Francesco Marotta

La passione dell’origine

In una pagina particolarmente significativa e premonitrice del Libro delle Interrogazioni, nel fervore di un dialogo serrato, estremo, con una parola che è vertiginosa coscienza del vuoto su cui il suo dire si staglia (il deserto che si profila in forma di risposta ad ogni domanda, l’assenza inesprimibile che il segno annuncia nell’attimo in cui depone sulla pagina la traccia febbrile del suo passaggio), Edmond Jabès annota, e ci lascia in eredità come una testimonianza gravida di futuro, una riflessione che è anche un preciso e inequivocabile indirizzo di poetica e di ricerca di senso: “Scrivere è avere la passione dell’origine; provare a toccare il fondo. Il fondo è sempre l’inizio. Anche nella morte, certo, una moltitudine di fondi costituisce l’abisso, tanto che scrivere non significa fermarsi alla meta, ma oltrepassarla senza fine”. La vocazione al superamento e all’oltranza, quantunque l’approdo finale del percorso, una volta varcata la soglia che la domanda dischiude come un precipizio, non sia altro che la certezza del silenzio, la memoria metamorfica di tutti i silenzi attraversati e da attraversare in un movimento infinito e circolare, si definisce nell’idea in atto di una sostanziale restituzione al pensiero della visione originaria, raccolta e addensata in tracce e in barlumi affioranti dal profondo, della caotica dismisura delle sue radici, ovvero nel disvelamento dell’enigma che la sua luce inglobante, ordinatrice e categoriale, riversa sulla superficie accompagnando gli esseri e le cose in tutto il tragitto della loro terrestre vicenda.

L’estrema tensione augurale del testo jabesiano, “alba e tramonto in una sola luce”, si materializza netta e inequivocabile davanti agli occhi della mente, con tutta la sua elementare progettualità di ethos nascente e la sua naturale inclinazione a definirsi in misura di paradigma estetico, ad ogni approccio a questi Sonetti dolenti e balordi di Lucetta Frisa, imponendosi come chiave gnoseologica ed ermeneutica privilegiata, disponendo ed orientando non solo la lettura e l’analisi dei testi, ma fornendo al contempo la mappa più precisa per collocare quest’opera in posizione di rilievo all’interno della produzione complessiva dell’autrice. Le liriche, infatti, non sono il frutto di una occasionale o momentanea e, quindi, immediatamente contestualizzabile accensione, quanto piuttosto “sogni” che “si sarebbero un giorno fatti carne”, il riaffiorare, in natura di lampi ed intuizioni erratiche, di frammenti lungamente covati nel corso degli anni, cresciuti sui margini in ombra di un disegno poetico che da La follia dei morti a Se fossimo immortali, da Ritorno alla spiaggia a L’emozione dell’aria, è venuto costruendosi nel tempo, con rigore, sapienza ideativa e padronanza crescente delle linee e delle strutture fondanti, come un’architettura intimamente e intellettualmente riconoscibile, solida e lineare nella sua voluta e ricercata esposizione ai punti cardinali della percezione e dello sguardo.

La passione delle origini, allora, quasi a sparigliare volutamente l’ordine del discorso, si ammanta in quest’opera di sfumature e colori affatto nuovi e li ricombina declinandosi in forme e modalità “balorde”, sottilmente e deliberatamente “sovversive”, refrattarie all’imperativo di poetiche organizzate unicamente in funzione della trasparenza e costrette, inevitabilmente, entro i reticoli e i codici escludenti di un orizzonte rappresentativo asettico e uniforme, monocromatico e monodico. Tutto ciò riesce possibile, e si realizza con esiti sorprendenti, in forza di scelte lessicali etimologicamente spurie e perturbanti, di un balzo nella penombra del non-detto e del non-ancora tanto sul piano dell’utilizzo sghembo e obliquo, disarmonico e dissonante, di strutture metrico-sintattiche consolidate (il sonetto richiamato dal titolo), quanto su quello di una suggestiva e spiazzante inversione del moto ascensionale che caratterizza, per tradizione o per consolidata convenzione filosofica, ogni processo consapevolmente e compiutamente conoscitivo. Un processo la cui progressione verticale viene rovesciata in una vertiginosa discesa nell’abisso, fino alle viscere ribollenti della materia e dell’essere (“Per vivere ho bisogno del mistero / occhi di un’altra specie sacre pietre / dipinte o incise nel buio delle grotte”): una metamorfosi tutta inglobata e interiorizzata, che comporta la rinuncia a ogni pregressa coordinata razionale e a qualsivoglia permanenza statica del soggetto nel cerchio di una verità e di un senso dati, capace di tramutare in mistero il chiarore, di farne avvertire tutta l’insostenibilità, tutto il peso della carica radiante che ci tiene indissolubilmente legati all’esistenza attraverso una rappresentazione astratta e geometricamente riproducibile del creato, attraverso la ricezione unilaterale della molteplice e polifonica cadenza dei nostri stessi passi (“un enigma per me / camminare in superficie”): da qui la necessità, pungente fino allo spasmo ultimo e alla dissoluzione, dello svelamento, l’urgenza della restituzione di ogni luce alla matrice oscura da cui promana (perché solo “il nero nel sottosuolo / tiene il seme del mondo”), di ogni orma sonora alla dimora da cui si parte, si diffonde e si fa eco e pensiero, mappa udibile e leggibile, plurale, di ogni possibile cammino.

Il poeta sa che il suo canto, parto ed erede della dicibilità del mondo e della progressione razionale della voce tra le maglie di un universo che si rende decifrabile solo nella persistenza inclusiva ed univoca dell’ordine e della luce, ha bisogno di sguardi altri (“occhi di un’altra specie”) ai quali sorreggersi e dai quali lasciarsi guidare in questa catabasi fino alla dimora abissale del principio: altri occhi che parlino, attraverso lo stupore ammutolito dei suoi, la lingua umbratile delle origini, il verbo oltraggioso e inafferrabile di un panteismo apocrifo e pagano, l’alfabeto ferito e sanguinante di chi ha lungamente sperimentato il dolore, la follia, l’esclusione, l’inesistenza, la morte pur di aprire una breccia, con lo stilo, la passione e il furore del suo “grido inascoltato”, nel “silenzio di dio”. Il dolore e il lutto cercano i suoi occhi e la sua bocca, finalmente liberi dalle catene di una luce che esclude il suo rovescio simmetrico, per farsi specchio e visione, per seminare nella nudità del giorno il loro carico di spine e di memorie, la loro sete inappagata di riconciliazione.

Il viaggio oracolare, ossimoricamente dissoluto e aggregante (“io dei balordi sono la vestale”), si articola in sequenze pulsanti come partiture di un coro senza requie, dove le parole si cercano, si allontanano, si rincorrono e si riafferrano come respiri vaporati dai pori di un unico immenso corpo danzante: in ognuna di esse si apre un vortice visivo, un centro immaginale che raccoglie e recupera voci e volti privi di ogni anteriorità e di ogni futuro, presenti da sempre come macchie invisibili d’inchiostro sui bordi levigati di testualità già precedentemente meditate e scritte, come stimmate che, ora, dalla pagina irraggiano nella carne la luce demente o saggia dell’attesa – che covano, all’insaputa dei giorni, il sogno inesauribile di una vita sul limitare di una nuova“’apertura”, la risalita dal caos informe della morte agli orizzonti della ricomposizione. Sono profili che parlano, da lontananze estreme, l’alfabeto familiare dell’insonnia, ombre protettive con le quali lungamente abbiamo dialogato perché le sapevamo, da sempre, portatrici di un verbo innominabile, di un dolore inesprimibile, l’unico capace di contenere e di rivelare “divinità nascoste” scorticandole “fino alla nudità”: sogni senza tempo di un’epifania suprema, lo squarcio tra le pieghe del reale che annuncia la risalita dagli abissi di Kitež, la città invisibile che dimora gli spazi inesplorati e incontaminati delle nostre esistenze.

Presenze e paesaggi familiari emergono e si profilano lungo quel sentiero, ombre mute di guardia al vivo e straziato incanto di un universo dove ciò che è polvere riacquista corpo e voce e parla la lingua indivisa degli antri e delle fonti, della sabbia e della goccia che la fa rifiorire, del faro che smania luce dalla voragine oscura che si spalanca al richiamo del suo desiderio e la lascia sciamare libera nell’aria. Qui si respira la follia di dio: un soffio che per la pupilla murata del presente, per la sua cecità “che costringe / azioni ed emozioni a recitare”, è canto balordo, illusione demente e distorta, ma che, per armonia e risonanza indicibile di poesia, si trasforma in matrice di stupori impensabili, stupori di un tempo senza tempo, di una terra senza nascita e senza morte. Qui Nadežda può ricomporre il volto dell’amato strappandolo agli artigli della storia, custodire il segreto del suo nome a “protezione dal male / della terra”, e col suo canto trasformare in preghiera il furore dei lupi che l’assediano; qui Andrea Salos, investito dalla stessa pazzia celeste, può riaprire la sua bocca, muta da secoli, che ha conservato e vegliato parole potenti e fraterne come un abbraccio, pronte ad accogliere l’ultimo volo dei perseguitati dal destino; qui la donna velata di Elea ancora ritorna a riprendersi la “luce sparsa” dal suo corpo sotterrato e la ridipinge “per chi resta”, ripetendo il miracolo della vegetazione, degli astri e delle stagioni, del disfacimento e della rinascita. Qui il lutto di Alejandra è il dolore taciuto di tutte le creature che trascorrono la loro esistenza “acquattate come bestie in allarme”, che “si dolgono di solitudine / incurabili, inascoltate”: volti perduti per sempre, ai quali può ridare voce solo chi stringe nelle sue mani il filo che tiene i vivi e i morti insieme: solo chi sa farsi lacrima che eternamente migra, di vita in vita, fino a lambire l’immobile riva degli occhi di dio.

La torre della luna nera

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L’IPNOTICA, ARTISTICA E CTONIA LUNA NERA DI LUCETTA FRISA Nota di lettura di Valeria Serofilli al volume La torre della luna nera ed altri racconti (puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2012) di Lucetta Frisa.

 

Dei racconti di Lucetta Frisa, nota scrittrice, poetessa e traduttrice, che ho avuto a suo tempo l’onore di premiare all’Astrolabio 2011 con il Premio Speciale della Critica per il volume di poesia Ritorno alla spiaggia nonché di ospitare nell’ambito degli Incontri Letterari dell’Ussero, mi ha colpito la capacità dell’autrice di dare corpo alle storie, alle immagini e all’arte del proprio mondo interiore. Anche in virtù dei miei studi nel campo storico artistico ho apprezzato in particolare i racconti dedicati a tele famose e meno note, ma tutte ugualmente molto suggestive in grado di suggerire riflessioni profonde. E’ stato interessante per me vedere che l’attenzione di Lucetta Frisa spesso non segue le direttive canoniche della critica d’arte, ma si concentra su dettagli che sembrano minori e secondari ma in realtà aprono squarci su mondi nascosti, visuali e mentali. Interessanti anche le storie dedicate ai libri, al racconto nel racconto, alla parola che ragiona sulla parola, la osserva, la soppesa, la rigenera e la ricrea. Fin qui arte, storia, quadri. Ma c’è di più, ed è la luna nera del titolo a fornirci ulteriori chiavi di lettura. Autorevoli studiosi attribuiscono alla luna nera e alla notte la rappresentazione simbolica dell’immaginazione e del sogno che escono dall’inconscio, definito da Paul Diel “l’immaginazione esaltata e sfera della rimozione”. E’ forse proprio nel magico momento di passaggio rappresentato dal sé / parola / luna nera, che l’autrice individua l’incontro con il proprio mondo interiore, quel “luogo intermedio” tanto auspicato da Marsilio Ficino. Nell’articolo L’Inconscio del 1915, Freud dichiara che i contenuti dell’inconscio sono sostitutivi di pulsioni che non possono divenire oggetto di coscienza, pertanto le rappresentazioni inconsce sono organizzate in fantasmi (dal greco apparizioni) e trame immaginarie alle quali le pulsioni si fissano e che possono essere concepite come “vere messe in scena del desiderio”. In tale prospettiva il contenuto dell’inconscio è assimilabile a ciò che è stato rimosso con in più, “un nucleo originario di contenuti filogenetici”. In quest’ottica il cane del racconto “Un perro (lettera a Goya) ”solo.Separato minuscolo, senza speranza di redenzione”, se da un lato costituisce uno spunto per ragionare sul destino degli emarginati, rappresenta dall’altro un’antica fobia, un fantasma che l’autrice porta alla luce e rimuove. Adeguato e consono è a mio avviso anche lo stile con cui sono proposte le varie vicende: una scrittura che si muove ariosa, ampia e ricca, con un procedimento quasi teatrale, giungendo all’apice dell’emozione per gradi, quasi per cerchi concentrici. Il tutto ha come perno le citazioni, scelte con cura e del tutto adatte volta per volta a riassumere il senso delle storie narrate. Per concludere non posso che dedicare a Lucetta, sorella d’ispirazione, il pensiero di Croce riportato ad esergo del mio racconto “Sindrome di Stendhal: l’anacronismo dei classici”, contenuto nella raccolta Come esser tondi in un mondo di quadrati (Quaderni di Dedalus n° 1, puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2011):

 

<>1. 1 Benedetto Croce, Breviario di Estetica, I E’ stato inoltre consultato il testo Dizionario dei simboli, J. Chevalier, A. Gheerbrandt, Bur, Rizzoli 1999.