Ivano Mugnaini

LEOPARDI VS LEOPARDI

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Viaggio rubrica Dedalus

La seconda “escursione” della rubrica VIAGGI AL CENTRO DELL’AUTORE è dedicata a Giacomo Leopardi.

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LEOPARDI VS LEOPARDI
Pisa, il Lungarno e l’appetito del “giovane favoloso”
Ci sono luoghi che ti entrano dentro, e senza accorgertene, ti trasformano. Fu così anche per Leopardi che a Pisa si trovò a vivere un periodo del tutto nuovo, un’epoca diversa, sia a livello creativo che sul piano esistenziale.

“Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare ad occhi aperti”, scriveva il poeta.
Una distanza minima quella di Pisa rispetto a Firenze, la città dove risiedeva in precedenza, ma resta comunque grande la distanza tra il Leopardi fiorentino da quello pisano. La domanda, the question, è pertanto la seguente: fu la città di Pisa a trasformare il poeta, oppure, semplicemente, gli consentì di manifestare ciò che aveva sempre avuto dentro, una componente essenziale del suo modo di essere e di sentire, una sua natura alternativa, se non, addirittura, preponderante? Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto un illustre collega di Leopardi. Il problema è che noi, hic et nunc, ampiamente posteri, siamo anche ampiamente incerti riguardo ad una possibile risposta.
Parafrasando Montale potremmo dire che tutto ciò che sappiamo è quello che non abbiamo, quello che non è.
Di sicuro Leopardi non era e non è la figura deforme e monocorde stigmatizzata in molti libri scolastici in stile Bignami.
Non era e non è, Leopardi, il pessimista che esalta la fugace bellezza del sabato per poi ripiegarsi frustrato nel disincanto della domenica. Non è quello che gli adolescenti di oggi, con una definizione sbrigativa ma efficace, definirebbero un “gobbetto sfigato”.
Non era e non è, Leopardi, solamente l’omino chino sulle sudate carte o recluso nella biblioteca del padre già del tutto assimilata e metabolizzata in tenera età. Leopardi è questo, ma è anche e forse soprattutto un uomo vorace di vita, quella stessa vita che ha scrutato con occhio filosofico e rigoroso, senza mai però smettere di guardarla con profondo interesse e naturale curiosità.
E’ anche l’uomo che mentre traduce dal greco e dall’ebraico disegna vignette corredate da didascalie, volutamente infantili, dedicate alla saggezza popolare o a freddure dense di spirito lieve. E’ l’uomo di origine nobile che ascolta i rumori del villaggio, i suoni, i canti, la musica, percependo il lusso di una semplicità d’animo che a lui non è toccata in sorte ma di cui subisce la fascinazione. Lo stesso fascino enigmatico e vitale che percepisce nelle donne, da sempre corteggiate e inseguite per la loro sfuggente e imprescindibile malia.
Il poeta di Recanati era immerso nel passato ma anche estremamente attento al suo tempo, quello personale e quello dell’epoca storica in cui visse. Impegnato nella ricerca di un cambiamento, anche quello della nazione, afflitta da schiavitù, ingiustizie, squilibri e miserie rispetto a cui sarebbe bello poterci dire postumi.
Questa creatura complessa e multiforme, arrivò al momento giusto, nella giusta stagione, in una città che forse gli somigliava: radicata nel territorio ma anche punto d’incontro di viaggiatori, scrittori, filosofi, scienziati, fervida di salotti colti ma non ingessati, aperti alle idee nuove, anche rivoluzionarie. Città famosa per gli studi, ma ben lungi dall’essere un museo, avvolta semmai da una bellezza vibrante, come quella che scorre nell’alveo del fiume e nei viali che lo circondano come in un abbraccio, i Lungarni.
A Pisa Leopardi trova il modo di armonizzare la sua sete di vita con la sua necessità di dare ordine al suo patrimonio di ricordi ed emozioni. Trova stimoli ma anche lo spazio per riflettere ulteriormente, facendo nuovi progetti, nuove ipotesi di ponti tra sé e l’esistere.
Partendo da questo presupposto, si fa meno fatica a pensare che il passeggiatore trasognato di via delle Rimembranze sia lo stesso autore che definiva la vita come sventura e inganno. Si fa meno fatica a immaginare il sorriso del poeta lungo le strade che risuonano di voci.
Per Leopardi Pisa fu lo sbocciare di una primavera nel pieno dell’inverno. Egli vi arrivò nel novembre 1827 per sfuggire ai rigori dell’inverno fiorentino, e vi si trattenne fino al giugno ’28.
In una delle lettere inviate dalla città toscana alla sorella Paolina ebbe a scrivere:
“Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo Lungarno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano né a Roma, veramente non so se in tutta l’Europa si trovino vedute di questa sorta. In certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni; vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito”. (12 novembre 1827).
Non sarebbe pertanto un paradosso suggerire agli odierni amministratori della città di apporre una postilla all’iscrizione sul Lungarno dedicato a Leopardi sottolineando che a Pisa oltre che a ritrovare la vena ispiratrice il poeta ritrovò anche l’appetito. Perché in questa annotazione, apparentemente banale e prosaica, in realtà c’è moltissima poesia e la sintesi tra grandezza e umanità, natura eterea e carnalità.
In quest’epoca che tende a “smaterializzarci”, a ridurci a icone di smartphone, sorridiamo a nostra volta immaginando gli impulsi genuini di un uomo che aveva fatto della parola e del pensiero, del ragionamento poetico-filosofico, la sua essenza. Pisa gli conferma ciò che ha già insito: la sua fame di vita. Gli permette di osservare la bellezza senza essere soffocato dal gelo della riflessione. La mescolanza dell’urbano e del contadino, della Pisa mondana e della Pisa intimista, lo affascina e lo coinvolge. In questo clima potrà scrivere due delle sue più importanti composizioni, così apparentemente distanti l’una dall’altra, ma in fondo accomunate dal filo di un sentimento identico declinato in forme diverse, l’amore: “A Silvia” e “Risorgimento”.
Pisa dunque, come zona franca, opportunità rara e preziosa per il lusso di dialogare con il vero se stesso. Forse anche Leopardi avrebbe condiviso le parole scritte molti decenni dopo da Albert Camus: “ Solitudine e sete d’amare. Pisa, finalmente, viva e austera, coi suoi palazzi verdi e gialli, le sue cupole e, lungo l’Arno, la sua grazia. Città pudica e sensibile. E così vicina a me di notte nelle strade deserte che passeggiandovi solo, la mia voglia di lacrime finalmente si sfoga. Qualcosa di aperto in me incomincia a cicatrizzarsi”.
Con le parole di un altro scrittore, Gianni Rodari, si può arrivare forse ad una conclusione che, pur nella sua forzata semplicità, ci avvicina di un passo, come in una marcia infantile e sorridente a un’ipotesi: “Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa”. A Pisa Leopardi scopre che nell’errore della vita, così storta e asimmetrica, c’è la tenacia della bellezza e la bellezza di una tenacia che ha in sé qualcosa di semplice e arcano, ostinatamente ammaliante.
O magari siamo noi, proprio noi, a scoprire o riscoprire nelle nostre rispettive città, nelle nostre affollatissime solitudini, che ci sono “errori”, persone fuori da ogni schema, che contengono in sé tutta la complessità e la ricchezza della natura umana, persone non riducibili a formule univoche, connotate dalla sola costante di una cangiante ma ininterrotta ricerca di territori adatti alla bellezza e alla poesia.
Ivano Mugnaini

Leopardi Pisa 3

VIAGGIO AL CENTRO DELL’AUTORE – nuova rubrica

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Viaggio rubrica Dedalus

Inauguro oggi, con un articolo dedicato a Moravia, una nuova rubrica, VIAGGIO AL CENTRO DELL’AUTORE.

Un modo per indagare sul rapporto, spesso complesso e contraddittorio, tra alcuni scrittori e poeti e i luoghi in cui hanno vissuto. Luoghi di residenza o di elezione, spesso tutt’altro che idialliaci, ma sempre fertili di ispirazioni, sogni o incubi, amore e odio, volontà di fuga e desiderio di eterni, ineluttabili ritorni.

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VIAGGIO AL CENTRO DELL’AUTORE

Un viaggio è un’opportunità unica per conoscere, scoprire, stupirsi, apprendere ma anche un modo per ricordare, per non dimenticare. In questa mia rubrica, non parlerò di viaggi o di luoghi ma di scrittori, letterati e poeti che con la loro opera hanno impresso una traccia forte sul territorio, l’ambiente e il contesto che li ha ospitati o che essi hanno eletto come loro topos ideale, fonte di ispirazione e di ricerca.

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Qui di seguito la prima “esplorazione”: Moravia e la sua Roma.

Alberto_Moravia

Roma è davvero solo un fondale?

In occasione dell’anniversario della morte di Alberto Moravia, avvenuta il 26 settembre 1990, mi accingo a scrivere di Roma, di quella Roma vissuta ed interiorizzata dallo scrittore che ne fa non semplicemente lo sfondo dei suoi romanzi ma uno specchio della società di profondi cambiamenti. Da via Sgambati dove Moravia ebbe i natali in zona Pinciana alla sua casa a Lungotevere Vittoria. Per Moravia Roma è un misto di vitalità e decadimento, un humus letterario nel quale immergere le sue storie, i suoi personaggi, le contraddizioni di una società che va progressivamente disgregando e corrompendo.

Così ebbe a scrivere Moravia su Roma: “Sono nato e vissuto a Roma e ho avuto sempre gli stessi problemi insoluti e insolubili nel mio rapporto con la città”. «Una piccola città mediterranea, quasi più piena di monumenti che di case», una città che ha tentato sempre invano di trasformarsi in una vera capitale europea senza riuscirci poiché sempre un po’ provinciale.

Una città costretta dalla Storia ad assumere un ruolo internazionale senza essere mai riuscita tuttavia a staccarsi dalle radici antiche, fino a costituire un reticolo sconfinato di rioni e quartiere, quasi cittadine adiacenti, repliche infinite di un modello antico, un ibrido immenso.

Ma forse proprio per questa natura ambigua, accattivante e straniante, gentile e spietata, rozza e raffinata, Moravia trova a Roma l’humus ideale, lo specchio per la sua stessa indole, umana e letteraria. Lo scrittore Pincherle era allo stesso tempo aristocratico e immerso nella carnalità, o almeno nel desiderio della carnalità, come un gourmet cerebrale e combattuto che non tocca gli oggetti ma si inebria in segreto di odori e profumi, senza confessarlo neppure a se stesso. Pincherle, mezzo marchigiano e mezzo veneto, per metà nordico e per metà dell’Italia centrale, con una voglia di solarità contrastata da uno Stato Pontificio ancora presente a dispetto dei secoli, trova a Roma l’oggetto ideale per il suo amore ed il suo odio. Perché si può odiare solo ciò che si ama profondamente, ciò che ci assomiglia, e quindi ci spaventa, nell’atto stesso di attrarci in modo irresistibile.

Lo scrittore Moravia, costretto a fare i conti con la sua origine borghese, vissuta come privilegio e colpa, messa a confronto in modo ineluttabile con la radice popolare del suo amico-collega Pasolini, a Roma, negli ambienti della sinistra fedele ai dettami ideologici, vive da straniero, come il protagonista del romanzo di Camus, alla ricerca di una verità autentica che sfugge continuamente. E allora non gli resta che utilizzare le armi che ha a disposizione, la parola, la scrittura, la fuga e il ritorno.

Moravia ridisegna la città nei suoi libri e nei suoi scritti. Non per trasformarla in una improbabile Arcadia. Per tramutarla, piuttosto, in un luogo vivibile, per lui e per tutti gli esseri complessi e multiformi, gli stranieri che necessitano radici e gli indifferenti che provano, a bene vedere e sentire, profonde passioni. Riscrive la toponomastica della città, ma in modo che ogni luogo reale sia riconoscibile. In pratica allontana la donna amata ma senza lasciarla uscire dal raggio del suo abbraccio e del suo sguardo.

Lo stesso avviene anche con le sue innumerevoli fughe, i viaggi all’estero, lunghi, infiniti, in luoghi esotici veri, difficile, non da cartolina illustrata. L’India, la Cina, l’Africa, luoghi fertili di umanità sofferente e vitalissima. Distanti, dal suo mondo, dal suo elegante Lungotevere Vittoria.

Eppure, l’eterno ritorno, una volta ritrovata la macchina da scrivere, è quello nei luoghi angusti della città eterna. Moravia rifugge i grandi spazi, ha bisogno di concepire storie che si svolgono tra le stanze di un appartamento, i corridoi, le stanze da letto. Si immerge nelle vastità del mondo per poi ritornare a pensare ai microappartamenti romani,, là dove di svolgono le vere battaglie, là dove l’umanità combatte le battaglie evolutive, quella per la sopravvivenza.

La Roma di Moravia non è mai quella da dépliant turistico ma neppure quella dei quartieri degradati, con il cemento grigio e grezzo che divora prati periferici.

La sua Roma è allo stesso tempo un’idea e una scala reale che conduce ad una casa reale, borghese, con tutto il bene e tutto il male che può contenere, sia l’abitazione borghese che la parola che la definisce.

Per questa ragione Moravia e Roma sono un binomio così forte, perché è una simbiosi autentica, fatta di attrazione e paura. Roma è l’amante imperfetta da cui lo scrittore e l’uomo di staccano per poi ritornare, nel momento stesso in cui si accorge di non essersene mai allontanato veramente, neppure a migliaia di chilometri di distanza.

Roma è l’amante che cambia con gli anni, restando alla fine se stessa. Quella che si vorrebbe vedere cambiare, lasciando dietro di sé le meschinità, le minuscole e becere ruberie, le furbizie da poco e gli intrallazzi autolesionistici. L’amante che si spera possa cambiare dentro, e invece muta solo pelle, diventando solo ricoperta di plastica e dai colori fosforescenti. Dentro, rimane la stessa. Ma tutto ciò non cambia l’amore nei suoi confronti. Non lo muta di segno né di intensità. Perché quella imperfezione, quel mutamento fittizio e sofferto, è lo specchio delle contraddizioni che Moravia sente e percepisce intensamente in ciò che vive e ciò che scrive.

Per Alberto Moravia Roma è forse il luogo dove ritornare dai suoi continui viaggi che lo videro protagonista fino agli ultimissimi anni di vita.

I viaggi gli permisero di sperimentare il cosmopolitismo, di confrontarsi, di conoscere grandi personalità politiche, quali Nehru, Tito, Arafat, Ceausescu e Castro e che egli seppe far rivivere in molti libri ad essi dedicate, ma soprattutto di staccarsi da questa sua città che, anche se fastidiosamente lo rispecchiava nelle sue contraddizioni, amore – odio, provinciale e universale , borghese antiborghese.

La vita romana di Moravia si muove per il centro tra le case di via Sgambati al quartiere Pinciano, via dell’Oca a Ripetta e quella ultima sul Lungotevere della Vittoria. Difficile da inquadrare tanto è distante la Roma dei salotti da quella delle vecchie borgate o delle attuali zone dormitorio. La città è un arcipelago e, il punto di vista di Moravia è necessariamente parziale.

Roma, anche grazie a Moravia, rimane un sentimento che ti lega senza alcuna catena. Non una destinazione, un’icona, un topos, ma parte integrante di chi la vive e l’ha scelta, volente o nolente, come suo “fondale”.

Ivano Mugnaini

Concorso La vita in prosa – letture – proposte di edizione

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La Giuria del Concorso La vita in prosa, composta da Mauro Ferrari (poeta, critico, direttore editoriale di puntoacapo Editrice), Luigi Fontanella (poeta, scrittore, critico letterario, direttore della rivista internazionale “Gradiva”), Roberta Lepri (scrittrice), Ivano Mugnaini (scrittore, consulente editoriale, co-direttore della collana di narrativa di puntoacapo Editrice, Alessandra Paganardi (scrittrice, collaboratrice di riviste letterarie nazionali), Daniela Raimondi (poeta e scrittrice), Valeria Serofilli (scrittrice, presidente del Premio Astrolabio), sta leggendo e valutando tutti i lavori pervenuti,

Al termine delle letture verrà stilata una graduatoria e saranno indicati gli autori selezionati in qualità di segnalati, finalisti e vincitori.

A tutti i partecipanti verranno comunicati gli esiti del Concorso tramite un messaggio di posta elettronica.

Ringrazio tutti i partecipanti, a cui rinnovo il mio in bocca al lupo.

Ricordo inoltre a tutte le autrici e gli autori, anche quelli che non hanno preso parte al Concorso, che, nel caso in cui aveste scritti inediti, sia di poesia che di narrativa, e foste interessati ad una lettura anche ai fini di una pubblicazione, potete inviarmi i vostri lavori tramite un file Word o PDF a questo indirizzo e-mail : ivanomugnaini@gmail.com .

Sarò lieto di leggervi e di concordare con voi l’eventuale invio ad un editore per la pubblicazione.

Ancora in bocca al lupo e a presto rileggerci,

Ivano Mugnaini

La bellezza non si somma

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ImmagineTra materia e tempo, astrazione e concretezza, si muove Roberto Maggiani in questo suo libro. L’impressione è che l’autore senta sempre il bisogno di avere un correlativo oggettivo, anche quando parla di “draghi con ali come lame”. Tutto viene riportato alla solida consistenza dello sguardo, del tatto, della vista. Senza che l’immaginazione e il pensiero ne vengano limitati o condizionati. Anzi, con un effetto di reciproco rafforzamento. Il termine di paragone, il muro, ma anche il ponte costruito con tenace volontà e abilità, è la parola. “Il silenzio circonda la sola parola del mare”. E “parola” in questo caso è voce, immagine, concetto, ma anche acqua percepibile, con un sapore e una fluidità rilevabili. Niente è tolto al gusto della meraviglia, lo stupore di fronte alla vita, e a quella bellezza posta nel titolo come punto di partenza e di arrivo. Ma Maggiani ama dare corpo, nel senso letterale del termine, a quella “mitologia del quotidiano” che è un modo per osservare se stesso, soprattutto, attraverso incontri, luoghi, memorie rese concrete.  “La birra è un inevitabile destino”, è questo il verso finale di una delle liriche. Tra filosofia e film neorealista, tra ironia sapida, sobria potremmo dire, con una sorta di ossimoro, riflessione sulla sostanza del vivere. Maggiani ama le descrizioni puntuali, i dettagli, la cinepresa dell’occhio e della parola che isola un dettaglio e lo rende capace di parlare e parlarci di tutto ciò che lo circonda, la carne sensuale cosparsa di crema solare e la minuscola mosca che si pulisce le ali e la testa e magari, per un attimo, ci fa ragionare su ciò che non ci piace ricordare, o semplicemente, senza alcuna altra pretesa, racconta se stessa e un frammento di tempo. L’oscillazione tra corporeo e incorporeo è condatta in questo libro con genuina naturalezza, senza indulgere in commenti autoriali o altre esibizioni di verità presunte. L’antidoto alla retorica è l’esattezza, sono i dati cronologici e geografici, a volte messi in parallelo, come nella poesia “Cratere Gale, 6 agosto 2012, ore 7:31”. L’antidoto è prendere Beckett, il nome di un mito, e affibbiarlo ad un cane che scondinzola. Niente perde di sacralità, è giusto confermarlo, ma assume anche un volto umano, nel senso migliore del termine, in grado di abbinare leggerezza e spessore, dolore della riflessione e lievità dello sguardo, ricerca ostinata e vivida, nonostante tutto, di quella bellezza che non si somma, non si accumula neppure, non si può mettere in banca, ma senza la quale, tutto, perfino la parola, perfino il viaggio della poesia, perdono meta, senso, e verso.  IM

nuova scadenza Concorso LA VITA IN PROSA 2014

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A seguito delle richieste di numerosi autori,  la scadenza del Concorso LA VITA IN PROSA è prorogata al  31  LUGLIO 2014.

Il concorso è aperto a tutti i generi narrativi, comprese quindi anche le lettere (di qualsiasi genere, amore, rabbia, gioia, dolore, protesta, ironia…) , le fiabe e le favole,  i brani di diario e le considerazioni in forma di prosa su qualsiasi argomento, politica, sport, attualità. Per quanto riguarda il gossip… siamo di manica larga, ma non fino a questo punto.

Buona scrittura e spero di leggervi o rileggervi presto, IM

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LA VITA IN PROSA

CONCORSO NAZIONALE DI NARRATIVA

Terza edizione, 2014

nuova scadenza:  31  luglio  2014

NORME DI PARTECIPAZIONE

Il Concorso prevede la selezione di scritti inediti in prosa (racconti, lettere, considerazioni, brani di diario e qualsiasi altro testo creativo scritto in prosa).

Periodicamente alcuni dei testi migliori pervenuti potranno inoltre essere inseriti, indipendentemente da quella che sarà la classifica finale del Concorso, nella rivista telematica DEDALUS: corsi, concorsi, testi e contesti di volo letterario, http://www.ivanomugnainidedalus.wordpress.com. Nel sito DEDALUS sono presenti, preceduti da un commento introduttivo, liriche, prose e interventi critici di alcune delle voci più significative del panorama letterario contemporaneo e alcuni autori giovani o emergenti dotati di personalità e talento.

La Giuria del Concorso, composta da MAURO FERRARI (poeta, critico, direttore editoriale di puntoacapo Editrice), LUIGI FONTANELLA (poeta, scrittore, critico letterario, direttore della rivista internazionale “Gradiva”) ROBERTA LEPRI (scrittrice), IVANO MUGNAINI (scrittore, consulente editoriale, co-direttore della collana di narrativa AltreScritture di puntoacapo Editrice, ALESSANDRA PAGANARDI (scrittrice, collaboratrice di riviste letterarie nazionali), DANIELA RAIMONDI (poeta e scrittrice), VALERIA SEROFILLI (scrittrice, presidente del Premio Astrolabio), valuterà tutti gli scritti pervenuti e proporrà infine a puntoacapo Editrice una rosa di Finalisti, tra cui tre Vincitori.

I lavori Vincitori saranno pubblicati da puntoacapo Editrice, http://www.puntoacapo-editrice.com http://www.puntoacapoeditrice.wix.com/puntoacapo in un numero speciale dei “Quaderni di Narrativa Dedalus”, vero e proprio “Annuario” della narrativa italiana, in cui i primi tre classificati saranno ospitati con una vetrina dei loro testi e alcuni degli autori selezionati potranno comparire con il loro racconto più significativo.
Al volume contenente i racconti vincitori e segnalati sarà dato ampio rilievo e godrà di una promozione di assoluto rilievo grazie alla mailing-list dell’Editrice e a tutti i canali di informazione ritenuti utili ed efficaci.

Agli Autori che invieranno al Concorso La Vita in Prosa testi ritenuti interessanti potrà inoltre essere proposta la presentazione critica dei lavori con cui hanno partecipato, o di altri, anche già editi, presso lo storico Caffè letterario dell’Ussero di Pisa, o presso la Villa di Corliano, http://www.corliano.it , a San Giuliano Terme (Pisa), nell’ambito degli eventi letterari promossi dall’Associazione “AstrolabioCultura”, appuntamenti che hanno visto avvicendarsi nei mesi scorsi alcune personalità interessanti della prosa e della poesia contemporanea.

MODALITÀ DI INVIO

Gli autori interessati devono inviare i loro testi inediti entro il 31  luglio  2014 . 

I partecipanti potranno inviare da uno a tre racconti, lettere, fiabe, favole, articoli di qualsiasi argomento, pagine di diario o brani di prosa creativa, a tema libero e di lunghezza compresa fra le due e le dieci cartelle per ciascun testo, tramite file in formato Word .doc (non .docx) oppure RTF, allegato ad un messaggio e-mail indirizzato al seguente indirizzo: ivanomugnaini@gmail.com, indicando come oggetto del messaggio: “Concorso La Vita in Prosa 2014”.

I dati personali dell’autore (nome, recapito postale, telefono, cellulare e indirizzo di posta elettronica) dovranno essere riportati esclusivamente nel corpo del messaggio, non nel file dei racconti. Nel corpo del messaggio dovrà anche essere trascritta la seguente dichiarazione: “I testi sono inediti e di mia esclusiva creazione. Autorizzo il trattamento dei miei dati personali ai sensi del decreto numero 196/2003 nell’ambito del Concorso LA VITA IN PROSA”.

È previsto un contributo spese di 10 € da inviarsi tramite pagamento sulla Carta Postepay numero 4023 6006 5865 2286 intestata a Ivano Mugnaini (codice fiscale MGNVNI64H12L833T);
oppure tramite contante in una lettera (preferibilmente raccomandata, purché non Raccomandata 1, va bene una raccomandata ordinaria) inviata a: Ivano Mugnaini – via delle Sezioni, 4348 – Località Bargecchia – 55040 Corsanico (Lucca).

La partecipazione al Concorso implica l’accettazione del presente regolamento in tutti i suoi punti. Il corretto ricevimento del messaggio e dei file con il racconto o i racconti, e la conseguente iscrizione al Concorso, saranno comunicati via e-mail a tutti i concorrenti. Il nome dei Vincitori sarà comunicato sul sito Dedalus, su diversi portali letterari e sul sito di puntoacapo Editrice.

Per eventuali richieste di maggiori informazioni, o per qualsiasi altra richiesta riguardante il Concorso, scrivere all’indirizzo e-mail: ivanomugnaini@gmail.com.

Quando anche le foglie si accorgono di dover morire

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ImmagineUn autore giovane, una poesia già dotata di un’impronta, una voce, una fisionomia ben definita. Ne parla in termini molto elogiativi Gavino Angius, in una prefazione che non si limita a spiegare in modo didascalico, ma interagisce, dialoga, crea a sua volta su brani e versi estrapolati ed assaporati.

Buona lettura,  IM

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PREFAZIONE ALESSIO SALVINI

S’incomincia a leggerla, la poesia di Alessio Salvini, e ci si ritrova a studiarla.

Non come lettera scritta e morta. Come si studiano le mosse di un predatore, piuttosto. Imprevedibile se non per la sua prima qualità, quella di essere imprevedibile.

Eviterò di soffermarmi sulla giovanissima età di Salvini, elemento avventizio, che in poesia non conta. Specialmente se, come nel suo caso, la sua poesia viene da molto lontano.

Quanto lontano?

Vi sono possibilità, nel momento aurorale della tradizione novecentesca, che per troppa ricchezza o poca consapevolezza, sono state abbandonate o disperse, con gesto magnifico e un poco incosciente. Possibilità andate disperse o cancellate, naufragate nel diluvio di koinai poetiche succedutesi fino al presente.

Possibilità protonovecentesche, fermenti rimasti a incubare, senza che la poesia successiva abbia potuto o voluto condurli alle loro necessarie conseguenze, saldare i conti con essi.

Di queste possibilità Salvini si fa interprete consapevole e attento, con una pietas che non vuol essere tentativo di restaurazione, o di proposta di canoni alternativi (ne circolano fin troppe, ultimamente). Se il proposito di Salvini è quello di ri-fare, l’accento batte più sul “fare” poetico, che sul prefisso iterativo. Un fare che si spinge oltre il singolo componimento, instaurando un’architettura binaria, solida e avvertibile, pur nell’esiguità di questo laconico canzoniere.

Perciò, se nella poesia di Alessio Salvini si dà un preservare e un rinverdire, questo si verifica per traslazione, non per imitazione o parafrasi, attraverso un dettato originario, fresco quanto è lecito aspettarsi, maturo quanto le severe scelte (metriche, lessicali, d’atmosfera) richiedono. Una lingua poetica che sortisce strani effetti d’inattualità, che sembra appena inventata, alle sue prime prove.

Perciò sarebbe vano, ingeneroso e anche frustrante cercarvi con la lente d’ingrandimento una deriva-Rilke, un’intonazione-Campana, una qualsiasi traccia di citazionismo. Più proficuo sarà leggere soppesare e giudicare quest’opera prima secondo i suoi stessi princìpi, magari facendo tesoro di notazioni teoriche acute e spregiudicate come quelle di Marjorie Perloff, situando la poesia di Alessio Salvini, più che contro o fuori dal moderno (e dal postmoderno), lateralmente a entrambi, in una dialettica di rispecchiamento critico, svincolata da ogni automatismo.

Ci accontenteremo di leggerla come fenomeno, questa poesia, in fondo è ciò che legittimamente chiede, riconoscendola decifrabile per approssimazioni e scarti successivi, mappandola per aree di senso, scandendo le sue cadenze, scoprendo che ne resteranno sempre margini sfuggenti, alonati di unheimlich.

GAVINO ANGIUS

IO ERO L’AFRICA – di Roberta Lepri

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ImmagineL’Africa continente reale, pulsante di vita, dolore e passione, ma anche dimensione interiore, ineluttabile zona di confine tra paradiso e abisso, Cuore di Tenebra e Karen Blixen, sudore, sangue, incubo e sogno.

Un libro, quello di Roberta Lepri, da leggere come testimonianza di una storia, la vicenda di una famiglia, ma anche come un libro di formazione e di viaggio, dentro la geografia interiore, i meandri delle verità.

Pubblico qui di seguito la scheda del libro e una recensione firmata da Massimo Onofri.

Buona lettura, IM

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IO ERO L’AFRICA

di Roberta Lepri

La piccola Bianca sembra avere un unico scopo nella vita: ricostruire le vicende dei nonni in Africa. Così, scava con mille domande nella loro memoria, fino ad avere due versioni diverse della stessa storia. Angela è stata amata dalla gente del luogo ed è riuscita a realizzare il sogno di suo fratello, il più giovane vescovo d’Italia: fondare una missione vicino al fiume Giuba. L’appassionato racconto della nonna è la celebrazione di un’Africa amica, è l’inno alla gioia di chi si è trovato in armonia con tutta la natura. Teo, invece, socialista ed ex colono, è ancora prigioniero dei propri pregiudizi. Ha sofferto per la lontananza dalla famiglia d’origine, ha avuto verso i Somali un atteggiamento brutale e non ha disdegnato avventure con le giovanissime ragazze del posto pur disprezzandole. Ambientato negli anni Cinquanta, il libro narra, attraverso una scrittura luminosa e di gran fascino, una storia vera di emigrazione e razzismo al centro di un’Africa spietata e bellissima.

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Romanzi

Nell’Africa nera l’epopea famigliare di Roberta Lepri

MASSIMO ONOFRI

Un nonno: Teo. Una nonna: Angela. E una villa, piena di buone cose di pessimo gusto, esotico e coloniale, che alla piccola Bianca appaiono cariche di mistero: «Era stata costruita alla fine degli anni Sessanta con i soldi ricavati da quella che in famiglia veniva chiamata la campagna d’Africa del nonno, più o meno cinque anni che lui diceva di aver passato a coltivare le banane che invece avevano coltivato altri.

Cioè i neri».Io ero l’Africa,l’ultimo romanzo di Roberta Lepri, muove da qui, dalla discrasia d’uno sguardo, quello di Bianca, che oscilla, sempre più attratta dal fascino di quelle remote latitudini, tra i punti di vista dei nonni, i quali, nel 1954, erano partiti per la Somalia lasciando a casa i figli. Il punto di vista di Teo, mezzadro socialista: che, nonostante il socialismo, considera i somali, che disprezza, come animali da soma o da preda concupiscibile.

Quello di Angela, che è invece riuscita a realizzare il sogno del fratello vescovo, il più giovane d’Italia, fondando una missione nei pressi del fiume Giuba. E in mezzo i figli: che avranno una decisiva importanza in quanto accadrà. Lepri è brava nel far affiorare la storia – una storia di dolori e violenze, cambiamenti drastici come rinascite, fragilità, risentimenti – sull’onda di un’oscillazione che prova, da subito, a riequilibrarsi.

Malgrado l’iniziale reticenza o, forse, proprio in sua virtù: che cala, magari, sulle foto di giovani somale dal sorriso gentile e senza vestiti.

Mentre i «neri» che emergono dai racconti poco condiscendenti del nonno – sottolineati, quei racconti, dall’imbarazzo della nonna – s’impongono nella loro innocenza di sfruttati senza coscienza, di abitanti inconsapevoli d’un paesaggio che Lepri ci restituisce -soprattutto con gli occhi di Angela- in tutta la sua bruciante, commovente, bellezza.

Ecco: se per il nonno quei «neri erano solo testoni», «superstiziosi», «bugiardi» e maleodoranti, per Bianca (ilnomen si nega così, da subito, all’omen), che ammira «la meraviglia lucida» della loro pelle, il nero cessa d’essere il correlativo del pregiudizio, per diventare sinonimo della stessa allegria del vivere. Tutto questo in una prosa limpida appena increspata da qualche lieve metafora. Così, sulla «voce sottile» della nonna: «Pareva lo spiffero del vento tra i buchi delle tapparelle abbassate». Dal numero dei personaggi qui citati – solo alcuni: e nessuno africano – si capisce che questo è anche il romanzo d’una piccola epopea familiare d’emigranti: come ce ne furono, per l’Africa, negli anni Cinquanta. Ma il suo pregio sta proprio nella disponibilità interculturale, nella capacità d’adesione all’“altro” (che è, poi, innocente adesione alla vita), senza indulgere nel mito rousseauiano del buon selvaggio, magari in declinazione terzomondista. E nella decostruzione del nostro etnocentrismo: tanto più convincente perché generata dal candido e tenero sguardo d’una fanciulla in fiore. E lei lo sa: basta chiudere gli occhi e si vede l’Africa.

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Roberta Lepri

IO ERO L’AFRICA

Avagliano Pagine 176. Euro 13,00

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IL CAVALLUCCIO MARINO e altri racconti – di Cristina Pennavaja

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La tecnica di Cristina Pennavaja, consolidata, affinata nel tempo da numerose pubblicazioni e dall’attività di insegnamento della retorica non isterilisce la sua vis creativa, non la rende paludata o prevedibile. Anche nei racconti contenuti nel volume IL CAVALLUCCIO MARINO E ALTRI RACCONTI, edito dalle Edizioni Di Felice nel 2013, l’eleganza del dettato, curato nei ritmi, nei toni e negli accenti, nelle sfumature e nella struttura, non offusca, anzi accompagna un’urgenza autentica del dire e del dirsi, una volontà genuina e coraggiosa di scavo, nel sé e nell’altro, nel dolore acquattato dietro muri candidi o lividi di apparenti normalità.
Come osserva adeguatamente anche Lidia De Federicis nella nota al libro, lo svolgimento indiziario dei racconti della Pennavaja “tiene il lettore abilmente avvinto per cenni e lo guida allo sconcerto finale.” Lo smarrimento finale a cui si fa cenno è preparato con cura da dialoghi credibili e descrizioni accurate di azioni e gesti, perfino di parole, perché la parola, specialmente nei momenti in cui le donne e gli uomini si trovano a dover mettere a confronto la propria natura più autenticamente umana con le pressioni dell’assurdo e del destino, è essa stesso gesto, azione di difesa, atto di esistenza e resistenza, nonostante tutto.
Emblematico, in tale ottica, è, ad esempio, il racconto intitolato proprio “Smarrimenti”. Inizia in modo brusco: “Imperioso come lo squillo del destino, il telefono suonò mentre Lena teneva il capo sotto il lenzuolo fingendo di dormire.” Il finale, invece, dopo mille vicissitudini, riassesta, anche dal punto di vista visivo, colori ed orizzonti: “Dalla finestra il chiarore della luna penetrava nella stanza. […] Mentre un suono vibrava in lontananza lei accoglieva la cieca, irragionevole felicità”.
Oppure, nel racconto eponimo, l’incipit assume una valenza sia logica che emotiva, un riferimento sospeso tra realtà e fantasia, ricordo e invenzione: “Intorno alle origini del cavallo si erano intrecciate diverse storie. Secondo nonno Alberto era stato creato da un artigiano di Udine, e acquistato, per lui e la sorellina Laura, da suo padre, che lo aveva portato nel Friuli, a Latisana”. Un modo efficace di determinare nel lettore l’attesa e la curiosità, ma soprattutto lo stato d’animo, la predisposizione all’emozione e a quella volontaria sospensione dell’incredulità da affiancare al desiderio di seguire vicende credibili e ottimamente documentate. Lo stesso vale anche per i racconti brevi ma intensi “Lezioni di stile” e “Una formalità sostanzialmente”, anch’esso sospeso tra dolore e speranza.
Lo stile in quanto modo del pensare e dell’immaginare, è la sintesi proposta dalla De Federicis per definire sia questo specifico libro, sia, in senso più ampio e generale, l’approccio di Cristina Pennavaja con la narrativa. Leggendo i racconti si comprende gradualmente la veridicità di questa descrizione e l’efficacia dell’accostamento. L’incalzare del ritmo, il crescendo, ma anche l’alternanza di tempi moderati e meditativi con passaggi più aspri vengono accompagnati e sottolineati da coloriture e accenti, citazioni di brani in varie lingue, lettere riportate come documenti di sentimenti trasmessi senza mediazione, senza filtro alcuno. La riflessione è tra le righe, tagliente, spesso priva di sconti.
Ma la parola, il racconto, la testimonianza, è sempre di per sé fonte di resistenza, è giusto ribadirlo. Come è opportuno sottolineare il ruolo non casuale ma fortemente simbolico della poesia posta ad esergo al libro, quella di Fernanda Romagnoli, dal titolo “Capro espiatorio”. Nei versi finali, come nei racconti di questo libro, si descrive l’uomo, la sorte, il destino, “già caduto sul fianco/ otre di sangue/ già mezzo vuoto”, eppure, a dispetto di tutto, c’è spazio e fiato per esclamare: “come scalci ancora/ forte, mia vita”.  IM

DEDALUS: Quaderno di Narrativa 2014

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Dedalus
Quaderni di narrativa

 

Direzione: Ivano Mugnaini e Luca Ragagnin

Comitato Scientifico: Mauro Ferrari, Ivano Mugnaini, Luca Ragagnin.

n. 2 (aprile 2014)

 

 

puntoacapo prosegue con la pubblicazione di una serie di Quaderni di Narrativa, che hanno cadenza indicativa di 18 mesi e presentano un’attenta scelta di voci nuove accanto ad altre già affermate, invitate o selezionate dal Comitato Scientifico di cui fanno parte Mauro Ferrari, Ivano Mugnaini e Luca Ragagnin. Il primo volume è stato pubblicato nel 2012, con ottimi riscontri da parte del pubblico e della critica, ed è prevista a breve l’uscita del secondo volume.

 

Il progetto editoriale mira a fornire un quadro ampio e fedele dei fermenti e delle tendenze più rilevanti della narrativa attuale, senza proporre sterili e ingessate catalogazioni, ma fornendo ai lettori spunti per ulteriori ricerche di testi e libri degli Autori volta per volta proposti, e, soprattutto, offrendo racconti che rinsaldano e alimentano il piacere della lettura.

 

Autori nel n. 2

 

Tiziana Boccaccio, Antonella Brighi, Caterina Davinio, Laura Ficco, Bianca Garavelli, Roberto Morpurgo, Maria Pia Quintavalla, Andrea Salvini, Valeria Serofilli.


Anche questa selezione di racconti, come già è accaduto con il primo volume, è ricca di spunti e suggestioni. Le storie sono state scritte da Autrici e Autori che in alcuni casi sono anche poeti, in altri narratori puri. Varia la lunghezza dei brani, il taglio, l’approccio, il tono e i meccanismi con cui viene messa in atto l’affabulazione, il richiamo atavico di una vicenda da condividere, a metà tra realtà e immaginazione, verità e creazione di intricati e fascinosi mondi possibili. Il background dai cui provengono gli autori dona ad ogni storia una coloritura differente, un sapore diverso, un canto composto su corde specifiche, individuali, riconoscibili. Ma ogni Autrice e ogni Autore ha voluto esprimere in questo volume il meglio della sua produzione, un sunto significativo e rappresentativo di un modo di vedere, di percepire e di narrare ciò che occupa mente e cuore, pensiero e immaginazione.

 

(Ivano Mugnaini)