puntoacapo editrice

Distanze obliterate

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Distanze obliterate è un bel titolo. Proprio in virtù della sua natura quasi ossimorica: se viene obliterata la distanza non è più tale, muta nome e sostanza, diventa dialogo, avvicinamento, fertile commistione. Perché tutto ciò che è ibrido, polimorfo, è fertile per natura e per definizione.
Non è solo un titolo e non è solo un libro. Distanze obliterate è anche un progetto, anzi una realtà. È portata avanti da Alma Poesia con il sostegno di puntoacapo Editrice. È frutto delle idee di un gruppo di giovani competenti e appassionati ed è un interessante viaggio nel tempo e nello spazio, tra varie generazioni di autori e tra le diverse regioni italiane, percorse sulle onde di Internet, ma anche sui binari delle Ferrovie dello Stato, soprattutto da Alessandra Corbetta che sta accompagnando la sua creatura cartacea per paesi e città, con grande affetto e grande cura.
Il progetto di Distanze obliterate è illustrato qui di seguito nei dettagli, tramite la pagina che ho ricavato dal sito di puntoacapo Editrice.
Copio anche dalla pagina Facebook di Alessandra Corbetta alcune foto della presentazione del libro che si è tenuta a Pisa sabato scorso. Pubblico inoltre la locandina della presentazione che avrà luogo domenica prossima, 17 ottobre, a Livorno; e un riferimento al programma “Poème électronique” previsto a Genova il 16 ottobre.
Buona partecipazione agli eventi, a chi potrà e vorrà, e buona lettura di Distanze obliterate.
IM
In che modo la velocità della Rete, gli effetti del mediashock e tutte le affascinanti promesse del web – come accorciare le distanze o ridurre i tempi di comunicazione – hanno cambiato il modo di fare poesia e hanno influito sul senso di identità e di relazione di ciascuno? I testi raccolti in questo volume, scritti da poeti nati tra il 1940 e il 1999, provano a tracciare alcune possibili traiettorie di senso per rispondere a questa domanda e fare nascere altre quesiti capaci di alimentare consapevolmente il dibattito intorno a poesia e Rete. Il volume si articola in due sezioni: la prima è dedicata agli omaggi di poeti affermati che hanno concesso alcuni contributi inediti sul tema; la seconda ospita invece gli inediti di poeti che hanno risposto alla call per la composizione del volume e che sono stati ritenuti meritevoli di farne parte dal comitato editoriale di Alma Poesia, che si è occupato anche della stesura di commenti critici che intervallano i testi delle autrici e degli autori proposti. Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla Rete, in un viaggio tra le generazioni, prova a riassumere in sé le diverse accezioni del rapporto poesia-Rete e a restituirle nella forma organica di questo volume, con l’auspicio che possa essere da stimolo e da supporto a studi successivi del fenomeno.

La curatela:
Alma Poesia è un blog di poesia, nato il 4 aprile 2020, fondato e diretto da Alessandra Corbetta; si configura come un progetto editoriale articolato, che si avvale di una redazione composta da persone con percorsi di studio e ruoli professionali differenti, e dell’integrazione con gli strumenti comunicativi offerti dalla Rete. A oggi Alma Poesia, oltre che di Corbetta, si compone della Crew costituita da Valentina Demuro, Francesco Destro, Luca Gamberini, Emanuele Andrea Spano e dei Contributors Alessia Bronico, Giuseppe Cavaleri, Sara Serenelli, Martina Toppi e Sara Vergari. (www.almapoesia.it)

Il caffè letterario Volta Pagina di Pisa, ieri sera ha sentito le voci delle distanze obliterate: voci di generazioni diverse, ognuna con la propria idea di cosa rappresenti la Rete e cosa la Poesia, ognuna pronta a mettersi in ascolto di quella degli altri per crescere, confrontarsi, ampliarsi.
Grazie, quindi, agli autori che hanno reso possibile tutto questo: Fernando Lena, Jonathan Rizzo, Marco Bini e Massimo Del Prete.
A Jonathan un ulteriore ringraziamento per avere organizzato questa bellissima serata con sincero altruismo e al Caffè Volta Pagina per l’attenta ospitalità❗️❤
Potrebbe essere un'immagine raffigurante 5 persone, tra cui Alessandra Corbetta e Jonathan Rizzo e spazio al chiuso

Potrebbe essere un'immagine raffigurante 4 persone, tra cui Jonathan Rizzo, persone sedute e spazio al chiuso

Potrebbe essere un'immagine raffigurante una o più persone e il seguente testo "Reading e presentazione del volume, DISTANZE OBLITERATE (PUNTOACAPO EDITRICE 2021) a cura di Alma Poesia DOMENICA 17/10, ORE 21.00, C/O CAFFE LETTERARIO LE CICALE OPEROSE, C.SO AMEDEO 101- LIVORNO- Interverranno Alessandra Corbetta, Sara Vergari, Francesca Del Moro,Jonathan Rizzo."

“Distanze obliterate” (Puntoacapo Editrice 2021) continua il suo viaggio:
sabato 16 ottobre, ore 20.30, sarà a Genova, all’interno del programma di “Poème électronique”: ne parleranno l’editrice Cristina Daglio insieme a Emanuele Andrea Spano e Roberto Chiapparoli, con un focus sulle nuove tecnologie e la necessità di studiarle in relazione alle forme comunicative, comprese quelle della poesia;
domenica 17 ottobre, ore 21.00, arriva invece a Livorno, presso il Caffè Letterario Le Cicale Operose: con me e Sara Vergari ci saranno gli autori Francesca Del Moro e Jonathan Rizzo.
Ringraziamo Ksenja Laginja, Federico Tortora e Maristella Diotaiuti per l’attenzione e l’accoglienza al nostro progetto.
E vi aspettiamo❗❤

THE COLOR OF SUNSHINE – Il colore del sole

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Questo mio racconto, uscito sull’Almanacco PUNTO, https://www.almanaccopunto.com/single-post/ivano-mugnaini-il-ponte-dei-suicidi, ha per titolo “Il ponte dei suicidi”, ma in realtà il titolo originale è “The color of sunshine”.
Inizia parlando del volo da un ponte e finisce parlando del colore di un bikini. Giallo. Come il sole.
Spero sia beneaugurante. IM

bellissimo - Recensioni su Sunshine Skyway Bridge, Tampa - Tripadvisor

The color of sunshine

Lo Skyway Bridge.
Tampa, Florida.
Il mare è di un blu da cartolina. Come se milioni di nani schiavi della bellezza lo dipingessero ogni istante per renderlo più bello di quello di Toronto o di Adelaide, più patinato, più americano. In fondo è solo un ponte. Anzi no: è la via del cielo. La strada che porta altrove, dove il blu non ha bisogno di essere dipinto e lucidato ogni giorno con il sudore della fronte e delle braccia.
Lì vicino abita la mia bellezza americana.
Lei adora l’Italia, e io adoro lei.
Dice che ha radici siciliane. Ma è come la Statua della Libertà: viene dall’Europa ma nessuno lo ricorda. Ride, con quei denti eternamente giovani e quella mente lontana dai miliardari egocentrici con gatti gialli al posto dei capelli. Ride e corre, ogni giorno, tra i suoi gatti neri e sani e i suoi prati lisci, senza muri, senza recinzioni. Oggi è corsa all’aeroporto, a prendere me, il bradipo italiano portato da lei, dal suo pensiero in carne ed ossa, in questo enorme parco giochi dove ogni passo è stupore. Dove perfino il mattino è più grande, assetato, e la sera è un prato liscio di paura.
Parla e ride, con quella voce che ondeggia come una canzone sulla pelle ed entra nelle vene. Ride, e prima che riesca ad abbracciarla, mi ha già raccontato la sua vita, i cugini, i parenti, il lavoro, i bicchieri di bevande sempre più colorate e alcoliche, gli amici, le palestre, i massaggi, i passaggi di una vita tra afa e vento, riso e pianto, costanza e sogno.
Salgo sulla sua macchina gigantesca. Mi dice che lì, da loro, è un’utilitaria, quella che da noi è una Panda, di quelle vecchie e squadrate, non ancora del tutto estinte. È stata in Italia, con un suo amore ora lontano. Ha visto San Pietro e San Siro, il sole e il gelo. Ha portato valige e ricordi pesanti, rimpianti di ghisa e serate di piombo. Ma non ha smesso di amare questo folle e strano paese che è il nostro. Ma è adesso è qui, nel suo mondo. Gioca in casa, è favorita. È il capitano della squadra di soccer, come dicono loro, dei miei sogni d’oltreoceano.
Guida, senza quasi mai guardare la strada, lungo strade larghe e diritte. Io guardo con un occhio davanti e con uno lei, e mai strabismo fu più pieno di paura e eccitazione. Mi porta, per prima cosa, a vedere il loro più bel monumento: l’Oceano. Un enorme installazione su cui nessun uomo ha messo mano.
Attraversiamo lo Skyway Bridge. Ed è come volare. Rapidi e instabili, lontano dal suolo. Vicini alle parole della storia di cui, con un riso più intenso, mi fa dono.
Mi racconta di Kathy Freeman. Il nome è simile a quello dell’ex atleta australiana specializzata nella velocità. Ma la nostra Kathy è un’altra. Lei camminava lenta. Solo nel finale ha accelerato.
La nostra Kathy Freeman una mattina, quella mattina, ha preparato dei biscotti fatti in casa, ha fatto il bagnetto alla bambina di una sua amica, ha amabilmente chiacchierato con i vicini nel primo pomeriggio, poi, qualche ora dopo, ha sparato una decina di colpi di pistola al suo ex marito, un avvocato di successo.
Subito dopo ha tentato di strangolare la compagna del suo ex marito, poi, all’alba del giorno dopo, è salita sulla sua Cadillac del 99 e si è diretta al Sunshine Skyway Bridge. Sì, il Ponte del Sole. Proprio questo, infinito, ineluttabile, che stiamo percorrendo. Sì è gettata nel vuoto dalla campata centrale.
È sopravvissuta. Kathy ha voluto fare un’opera completa: ha violato anche le leggi della fisica.
Secondo gli esperti della polizia i forti venti della baia hanno rallentato il salto nel vuoto dei suoi 63 chili e mezzo.
Era ancora cosciente quando, dopo essere stata in balia dell’Oceano per 40 minuti, è stata ripescata come un relitto dai vigili del fuoco di St. Petersburg. Un primo controllo delle sue condizioni fisiche ha rivelato la frattura delle gambe e della zona pelvica. È stata portata al Centro Medico di Bayfront e sottoposta ad un intervento chirurgico. Le sue condizioni erano critiche per le ferite interne.
Il pomeriggio seguente, meno di ventiquattr’ore dopo, lo sceriffo di Hillsborough ha accusato la casalinga, ex broker finanziario, di omicidio di primo grado, furto a mano armata e aggressione aggravata.
Gli eventi hanno sconvolto i suoi amici e i vicini. Secondo la testimonianza di una sua cara amica, Michelle, Katherine Freeman era una persona gioviale che si prendeva cura amorevolmente di sua figlia ed aveva mantenuto un rapporto amichevole con il suo ex marito nonostante il loro divorzio nel 1996 dopo dieci anni di matrimonio. Lei e suo marito erano due migliori amici che si erano sposati. Michelle ricorda che a volte Kathy diceva che suo marito le mancava. E aggiungeva, riferendosi a lui, “adesso mi accorgo di quanto mi piacesse come persona”.
Katherine era entrata a casa di suo marito alle undici e mezza di sera, e gli aveva sparato numerosi colpi.
Poi dopo aver lottato con la sua attuale moglie, era fuggita.
Non era tornata a casa dalla figlia, che adorava e nei cui confronti era estremamente protettiva. Secondi alcuni era stato proprio un litigio tra la figlia e la moglie del suo ex marito a far scattare la furia di Kathy.
L’accaduto ha sorpreso tutti coloro che sapevano bene quanto Kathy e il suo ex sposo fossero un esempio da additare a tutti di separazione amichevole.
Dagli atti del divorzio si è ricavato che dopo la separazione al marito è stata assegnata la casa, del valore di 650.000 dollari, vari appartamenti, macchine sportive, e numeri conti bancari e azioni. A Kathy erano toccati 110.00 dollari in contanti e 96.000 dollari di alimenti, più metà del mobilio e delle fotografie. Grover Freeman, avvocato di successo, si era risposato sei mesi dopo con Constance (Costante) Elaine King. Era il dì 12 Ottobre. La scoperta dell’America.
Noi italiani c’entriamo sempre. Non ne possiamo fare a meno.
Comunque, ciò che conta è che gli amici della ex coppia affermavano in coro che se Kathy avesse in qualche modo sofferto della separazione, e della spartizione, non dava modo di farlo notare. In fondo era solo una delle tante sfide che ha aveva dovuto affrontare, e superare, nella vita.
Nel 1983 il fidanzato di Kathy era stato ucciso a colpi di pistola. Un anno dopo era stata presa in ostaggio e malmenata durante una rapina nella sua gioielleria di E Busch Boulevard a Tampa. Nell’86 Kathy era stata aggredita da uno sconosciuto che era entrato un casa sua mentre suo marito era fuori città. Nonostante tutto questo, dicono ancora gli amici, Kathy non era aggressiva né piena di risentimento.
“La vita va avanti”.
Era questa la sua filosofia.
Recentemente, continua la sua amica Michelle, era molto piena di ottimismo, ed aveva pianificato di portare sua figlia alle Hawaii.
Quando parlava del suo ex marito, sostiene Janine Rosen, lo faceva con rispetto. Anzi, con ammirazione, per i successi che era riuscito ad ottenere grazie al suo lavoro. Ma forse, sostiene Janine, Kathy nascondeva dietro i suoi scherzi, le battute che diffondeva alle amiche via mail e le festicciole che organizzava per i ragazzi del quartiere il suo dolore.
Il Ponte è quasi finito.
Di sicuro è finita la storia di Kathy che la mia amata amica americana (splendida allitterazione) mi ha raccontato nei dettagli.
Aggiunge alcune immagini. Lo fa sempre. Lo fa come solo lei sa fare: con dolce cattiveria, come l’Oceano sotto di noi, che ci culla e ci vorrebbe ingoiare.
Mi fa riflettere sul processo per direttissima. Qui li fanno presto sul serio, forse perfino troppo. A volte meglio di un diretto sarebbe un accelerato. Mi dice di provare a visualizzare Kathy completamente ingessata e immobilizzata che presenzia come una statua tragica e ridicola al processo in cui si fa pezzi e si rimonta la sua vita.
Mi informa che lo Skyway Bridge è il ponte dei suicidi.
Ogni giorno c’è la fila di aspiranti uccelli senza ali.
Aggiunge che in alcuni giorni, soprattutto la notte di Natale, ci sono ronde di volontari antisuicidi che presidiano il ponte per provare a dissuadere i depressi dal compiere il gesto estremo.
Mi dice che anche lei, spesso, ha pensato allo Skyway Bridge.
Con amore.
Io ora, non la sopporto, non la riesco neppure a guardare.
Ho un crampo allo stomaco.
Vorrei tornare in Italia.
Passando però per vie aeree ed acquatiche.
Vorrei buttarmi in quel mare più grande del mare.
Poi la mia amica-amore apre di nuovo la bocca.
Mi invita a pensare come dovevano essere belli i capelli rossi di Kathy nel vento del suo volo.
Prima dell’impatto.
Quando lei era ancora aria e libertà.
Io, ora, la voglio baciare.
Non vedo l’ora che il Ponte sia alle spalle. Non vedo l’ora di arrivare alla casa di Alice con il suo patio, la sua piscina, il suo letto rosso sempre pieno di gatti, libri e telefoni. Sempre caldo, sempre da rifare.
Io, ora, la voglio abbracciare.
Skyway Bridge mi perdonerà.
Magari al ritorno ci faccio un pensierino, al salto.
Ora no.
Devo pensare cosa dire per convincerla a indossare per me quel suo bikini giallo. The color of sunshine, anche lui. Come il ponte.
Ivano Mugnaini
 

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A TU PER TU – Alessandra Corbetta

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Risponde oggi alla domande di A TU PER TU Alessandra Corbetta, autrice giovane ma già in possesso di una personalità ben definita, capace di abbinare la passione e la creatività poetica ad un’accurata osservazione, quasi di impronta scientifica, della realtà, dei tempi, della società e degli individui che la compongono, la determinano e ne sono condizionati.
Anche in questo caso queste mie note fanno solo da “teaser” (giuro che non è una parolaccia), da stimolo ad una lettura accurata.
Sono molto interessanti gli spunti e i modi con cui Alessandra tratta argomenti complessi e di estrema attualità: la sexual objectification e le pratiche di body modification, l’esperienza del singolo, il frame sociologico e diversi altri temi.
Con grande sincerità e schiettezza ci parla anche del Covid, dei suoi effetti sul modo di vivere, di pensare e di scrivere.
Il consiglio è quello di sempre:
chi vuole e può, legga l’intervista nella sua interezza.
Io nell’ambito di questa rubrica sono solo un dispensatore di Spritz, di aperitivi.
IM

Corpo della gioventù - copertina

A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.
Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.
Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.
Saranno volta per volta le stesse domande.
Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.
IM
 

5 domande

a

Alessandra Corbetta

 

1) Il mio benvenuto, innanzitutto.

Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?

 

Ho sempre detestato il momento delle presentazioni, anche quando ero bambina; con la crescita, ancora di più. Per i boriosi diventano un’occasione per lo sfoggio, spesso iperbolico, di sedicenti qualità e mansioni, per i timidi attimi di imbarazzo, per quelli, come me, che mal sopportano le etichette, qualcosa di inutile.

Allora dico solo che sono Alessandra Corbetta e riporto due versi di Umberto Fiori che sento molto vicini: «Potessi io / essere il prato, / non il tremore / di questo filo d’erba.»

 

2) Ci puoi parlare del tuo ultimo libro (o di un tuo lavoro recente che ti sta a cuore), indicando cosa lo ha ispirato, gli intenti, le motivazioni, le aspettative, le sensazioni?

Cita, eventualmente, qualche brano di critica che ha colto l’essenza del tuo libro e del tuo lavoro più in generale.

Particolarmente gradita sarebbe, inoltre, una tua breve nota personale sul libro (o sull’iniziativa artistica).

Qualche riga in cui ci parli del tuo rapporto più intimo con questa tua opera recente.

 

La mia ultima pubblicazione in versi si intitola Corpo della Gioventù, ed è uscita il giugno dello scorso anno per Puntoacapo Editrice.

La raccolta parte da una riflessione di stampo sociologico, il mio ambito di afferenza accademica, sul corpo che, soprattutto negli ultimi anni, è diventato lo strumento attraverso il quale indagare e rappresentare molte questioni sociali. I discorsi sulla sexual objectification e le pratiche di body modification non sono che due delle dimostrazioni più evidenti di come la corporalità funga da capro espiatorio per dire di altro. Ad esempio, ed è quello su cui Corpo della gioventù prova a interrogarsi, la difficoltà, nella nostra società occidentale, di uscire dalla giovinezza per entrare nell’adultità; il corpo, nelle modificazioni che subisce e nella sua facile esposizione, diventa il paradigma della paura nell’affrontare questa transizione e suggella la tendenza del nostro tempo a procastinare oltre misura l’inizio dell’età adulta. L’opera, nelle sue cinque sezioni Fessure, Attraverso, Rintocchi, Battenti, Esplosione, interseca a questa cornice macro l’esperienza del singolo, e quindi la dimensione micro, nella quale l’elemento autobiografico compare solo in qualità di mezzo di congiunzione al frame sociologico. Il libro è introdotto da due note, una a cura di Tomaso Kemeny, l’altra di Lamberto Garzia che evidenziano il moto di resistenza posto in essere dall’io per non adattarsi a un diktat sociale che vorrebbe imporre una cronologia unificata al tempo personale del soggetto; la postfazione, invece, realizzata da Ivan Fedeli, si concentra sulla dimensione esistenziale del corpo; scrive, infatti, Fedeli: «Il corpo assume allora dimensione esistenziale: avvolta nei corpi di tutti / nessuno è barbaro / qualcuno resiste: avvolgente in sé, si copre di carne per nascondere, come una matrioska, le fratture interne, le smagliature di un essere che è solo in funzione di ciò che percepisce, abita. Pensare alla ricerca poetica della Corbetta è, quindi, condividere l’idea di una continua evoluzione, magmatica, dell’Io in funzione di una realtà sfuggente, che si dimostra talvolta insidiosa nella metafora di una casa vuota, di uno specchio che non riconosce, di posti che non attraversano, talvolta più rassicurante, nell’idea di un porto che accoglie in silenzio proprio mentre tutto tace e diventa possibile la quiete. In questa cornice accade la poesia: essa si addensa in una forza immaginativa mai scontata, in cui l’identità personale si consuma lasciando spazio alla matrice di un’esperienza comune di spaesamento, incredulità.»

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I nomi delle cose

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BARONI COP fronte ridotta

Giancarlo Baroni, I nomi  delle cose, puntoacapo, 2020

Nota di lettura di Ivano Mugnaini

«Kangarù risponde all’esploratore / che gli domanda il nome / di quel buffo animale saltellante / Kangarù ripete non capisco». L’impressione è che in questi versi ci sia il tono, il senso e anche l’esplorazione, è il caso di dirlo, del libro di Giancarlo Baroni. Tra serietà e ironia, in transito sui sentieri di una disperazione lieve e tenace, un’allegria di naufragi nei mari e nelle lande del senso, del significato delle parole, e, di conseguenza, di tutto il pianeta in costante rotazione e rivoluzione, senza che nulla cambi. Il nome delle cose nasce da un errore di comprensione. Tuttavia quel messaggio decodificato in modo inesatto viene a costituire comunque un canone condiviso. L’errore diventa norma, lemma inserito nei dizionari. La poesia, forse, ha il compito di muoversi tra i due estremi, la regola e l’eccezione, l’errore e il ritratto di una cosa e di un pensiero. Forse la poesia è quell’animale saltellante. O forse è l’esploratore che, nell’atto di non comprendere, crea l’oggetto, gli dona forma ed esistenza. O magari, al di là di tutto, Baroni voleva soltanto giocare a raccontare un episodio, un malinteso epocale. Ma si tratta di un gioco particolare, in cui, per la logica illogica degli ossimori, ancora una volta il vero equivale al suo contrario, e viceversa.

In questa “Segnalazione” proporrò alcune mie considerazioni che potrei definire, per usare un termine mutuato dalle arti visive, “impressionistiche”. In senso improprio e immediato, ossia, in questo contesto, basate su sensazioni filtrate il meno possibile. Per un’analisi ulteriore vi rimando alla nota introduttiva di Ivan Fedeli riportata qui di seguito, e, come sempre, alla lettura diretta di questo libro dotato di un taglio e di un approccio del tutto originali.

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LETTI SULLA LUNA (10): Ulisse, Vestali e altri testi in poesia e prosa di Valeria Serofilli

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vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.

LETTI SULLA LUNA (10): Ulisse, Vestali e altri testi in poesia e prosa di Valeria Serofilli

Propongo qui alcuni scritti di Valeria Serofilli. Poesie ispirate al mito ma anche viaggi ed esplorazioni della realtà attuale attraverso liriche e brevi racconti.

Come introduzione utilizzo, con riferimenti specifici al testo in questione ma anche con intenti di presentazione di carattere più ampio, la mia prefazione al volume “Ulisse”, a cui aggiungo per ampliare ed estendere la visuale gli interventi critici di Floriano Romboli e Andrea Salvini. IM

 

Ulisse ”

Un caleidoscopio di immagini in grado di mettere in contatto presente , passato e ipotesi di futuro. Racconti che non temono di navigare verso e oltre le Colonne d’Ercole della fantasia senza però mai scordare la terra ferma dei ricordi e dell’osservazione diretta e concreta della realtà. Tramite un linguaggio stringato ma mai ignaro della forza dell’armonia e della lirica, fonte primaria e punto di partenza sia della produzione letteraria dell’Autrice che della sua ispirazione. I racconti sono preceduti da citazioni che orientano la ricezione, o meglio, fanno presagire contenuti e impressioni, incontri e sensazioni, contesti da scoprire passo dopo passo. Il ragionamento sul tempo e sul destino, sulla ragione di ciò che è di per sé, per sua natura intrinseca, irrazionale e imprevedibile, non può avere basi di appoggio certe, se non nella certezza effimera e vitale di una scommessa: quella del viaggio intorno al mondo immaginato e descritto da Jules Verne, oppure quello di Ulisse, ancora lui, figura imprescindibile, il cui percorso dura anni ed è preceduto da immense attese e seguito da lidi sconfinati di rimembranze, rimpianti e volontà di partire di nuovo, nonostante tutto. Ma l’interpretazione soggettiva e l’accorato auspicio dell’Autrice la conducono a dare vita ad un Ulisse atipico, lontano dall’immagine consolidata e prevalente, spinto dalla volontà di un ritorno definitivo in quanto appagato dall’amore finalmente  raggiunto, privo quindi di ulteriori pulsioni di fuga.
I riferimenti autobiografici, caratteristica propria della Serofilli, sia in ambito narrativo che nella sua scrittura poetica, compensano in parte la componente fluida del moto mentale e narrativo. Senza tuttavia fare evaporare del tutto quel senso di mistero che si cela a volte, in modo preponderante, proprio dietro e dentro gli atti e gli oggetti in apparenza più quotidiani e prevedibili, come ad esempio nel racconto “Qui c’è il sole”dedicato alla madre e al suo mondo circoscritto nell’ambito delle mura di una casa, che, in virtù del potere immenso della fantasia e del ricordo, risulta in ultima istanza assolutamente libero, privo di barriere e autenticamente poetico.  Questo racconto sembra esulare dai temi prevalenti del viaggio, ma, per la sua natura ossimorica, in realtà risulta del tutto consono ed anzi in grado di illustrare ulteriormente, per analogia e contrasto, i simboli e i contenuti di maggior rilievo e presa emotiva.
Del tutto esplicite in uno dei racconti da cui non a caso la raccolta prende il titolo, le tematiche del viaggio e della ricerca del sé si ritrovano nelle varie storie in forme diverse ma in ogni caso similari e cariche di risvolti simbolici e allegorici a seconda delle situazioni dei protagonisti e degli intrecci. Anche il testo “Sirena”, il cui  titolo stesso rientra nel campo semantico del mare, è unito agli altri racconti dal sottile fil rouge del potenziamento delle normali capacità percettive condotte al di là delle comuni caratteristiche e capacità umane. In questo contesto Il titolo di un altro  dei racconti, “Un viaggio dentro”, assume una valenza altamente simbolica al punto da poter essere considerato alla stregua di un potenziale titolo alternativo per l’intero volume. Il viaggio della Serofilli, per scelta dell’Autrice, supera con levità le barriere del tempo e dello spazio, consentendo in tal modo anche l’inserimento di racconti di tono quasi fiabesco come Natale da Gatti, dalla raccolta Comete per la coda, per adulti che si sentono ancora bambini.

La narrazione della Serofilli in questo suo libro costituisce quindi un’esplorazione di ciò che è percepibile e, in modo ugualmente presente e urgente, di ciò che non si riesce a visualizzare, quello che resta al di là delle facoltà umane. Ciò che assilla e impaurisce ma al contempo attrae, quell’onda che cela l’orizzonte ma verso cui si dirige la prua, con una sorriso folle ma irrinunciabile.
Alcuni racconti sono di impronta più “lirica”, vele aperte ad un vento malinconico ma lieve. Altri sono tenacemente improntati alla ricerca di una logica ferrea che sfugge, si eclissa o si sposta di qualche grado, in modo costante e beffardo. Una sconfitta accettata in partenza, quella della navigazione cieca, quindi, a suo modo, una sorta di paradossale vittoria. “Perché il bello consiste nell’essere di ritorno da ogni dove senza essere andati da nessuna parte se non dentro se stessi e il proprio animo”, scrive la Serofilli. Il paradosso si fa ossimoro e viceversa, in un gorgo continuo, immutabile e cangiante, che induce a smarrire la rotta, oppure a ritrovarla, nell’attimo in cui si accetta che il viaggio non è il punto d’arrivo ma il percorso.Nei racconti di questo libro la memoria si unisce alla riflessione sul presente e sul futuro, su timori e aspirazioni dalla cui coesistenza emerge il senso del viaggio la cui meta è, per la voce narrante e per ogni viaggiatore di parole e di sogni, un’Itaca da definire e ridefinire gradualmente tramite una narrazione sempre viva e aperta all’incontro con istanti ed echi della storia, individuale e collettiva. Perché, citando l’epigrafe del racconto eponimo, possiamo affermare che, nel subconscio, molti pensieri hanno “nostalgia di casa”. Un’estensione logico-etimologica del termine “nostalgia”, che nega il concetto nell’atto di confermarlo, oppure il contrario. Il tutto ulteriormente complicato dal fatto che il subconscio è un luogo altro della coscienza, quasi un alter ego, una persona estranea che abita dentro di noi. Sulla base di questi contraddizioni e di questi attriti, fertili, o almeno in grado di generare scintille che illuminano per qualche attimo il panorama, la Serofilli ha messo insieme tessere narrative che costituiscono un mosaico interessante, di impronta personale, una prosa che ammicca a tratti alla poesia ma senza mai scordare l’assillo dell’osservare per tentare di comprendere, se non la verità, qualcosa che, nel bagliore dei mari, tra la Colchide e le nostre città, tra i secoli passati e le asprezze del presente, le possa somigliare.
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Testi da Vestali, poesia (Ibiskos Ulivieri Editrice, 2015)

 

Penelope”

Scriverò sul tuo corpo i miei rimpianti

fra i tuoi capelli neri e bianchi

Ci siamo lasciati e ripresi mille volte

tra infinite voglie

Il filo interrotto e saldato è diventato tronco

su cui arrampicarsi:

voglio un cambiamento/ una catarsi

Sul tuo corpo tracce

del nostro amplesso/ miste ad altri odori

di cui non mi spiego il senso

 

Invoco venti che dissipino i tuoi torti/ tutti

i ti amo estorti

 

Tesso e intarsio

di te mai sazia

 

All’amore, al fuoco di passione

non chiedo verità

tra il limite del sogno e recriminazione.

 

Lo specchio”

Il tempo impazzisce i suoi ricordi

Chi è la più bella – chiedesti

ed io risposi

Capelli bianchi, chili in eccedenza

incolmabile perdita d’amplessi

Fai la somma: assai probabile crisi d’astinenza

Non scriverei più cuori sulla sabbia

né sullo specchio/ appannato dai nostri amplessi

ma il contenuto è lo stesso:

di te non so far senza

-Illusa Penelope/ lui non tornerà

e se lo farà, non sarà poi il tuo telaio a trattenerlo

né potrai recidergli le ali o sabotare il suo vascello

spezzandone l’albero maestro

che inesauribile è la sua sete-

– Intanto ho messo il telaio accanto alla finestra

per essere la prima a gridargli ben tornato –

Quando incontrerò i tuoi occhi”

Quando incontrerò i tuoi occhi

sarà connubio/ stasi e Paradiso

sarà che tutto tornerà sorriso

e la mia mente in volo, iconostasi

di territori dall’amore invasi

Quando incontrerò i tuoi occhi

estati d’estasi

per tutti gli inverni trascorsi/ senza i tuoi occhi

senza che mi tocchi

Uniti nella distanza/ distanti e

più che mai uniti /proprio perché distanti

ma troppo lontana è la Colchide.

SEZ.4 – Itaca

Malata di tua perdizione”

(Omaggio a “Folle, folle, folle di Amore per te”Folle, folle, folle di Amore per te”olle, folle, folle di Amore per te”

di Alda Merini)

Ho avuto a lungo un uomo

che viveva della mia stessa essenza,

empatia/ dedizione meravigliose

ma che senza accorgermene/ mi portava nei suoi abissi

gabbia di cristallo mai infranta

E la sete, la pazzia/ la cieca corsa verso il mare aperto

smarrendo il mio sguardo/ oltre la soglia dell’amore

Tout passe

tout casse

tout lasse et

tout se remplace” mi disse

A chi interessa ora/ il mio pianto

mentre nuvole di aceto corrugano il mio canto

tra le parole derise di un risveglio ancora vago

A chi interessa

se ha trasformato ogni mio gemito in tormento

se folle/ cerco il suo calore adorato

nel buio e gelo di una stanza vuota?

Mi trovo ora a vacillare incerta

sui colori accesi di quei nostri giorni.

valeria-serofilli-ulisse-jpg

POSTFAZIONE DEL PROF FLORIANO ROMBOLI A ULISSE

Sotto il segno di Ulisse*

In questo intervento intendo soffermarmi su due recentissimi lavori di Valeria Serofilli, l’e-book Ulisse (La Recherche, 2014), una raccolta di brevi racconti, e la silloge poetica ancora inedita, Vestali; si tratta di opere differenti, pensate e realizzate autonomamente eppur non prive di molteplici rapporti ideali e formali, tali da rendere criticamente proficuo un attento esame comparativo.

Occorre comunque muovere da una premessa: la ricerca della scrittrice, ormai piuttosto ricca di testi, appare caratterizzata dall’interazione di intensa esperienza personale e di raffinata elaborazione culturale-letteraria la quale canalizza e sublima i dati emozionali e sentimentali attraverso una strategia di allusioni prestigiose, di riferimenti archetipici di rilievo pregnante e dall’effetto universalizzante.

Nelle prose che compongono Ulisse – spesso di “impronta lirica”, come bene ha visto il prefatore Ivano Mugnaini – i richiami formano grappoli associativi:

Il mio uragano personale con te, che mi prendi e mi lasci come l’onda che sbatte sullo scafo. Ulisse sirena, naufragio d’anime. O Adamo e la sua donna, dai tempi (racconto Ulisse (il mio Ulisse);

Ora e da ora, con te, sarà un nuovo viaggio. Riprende il volo d’Icaro, ma con ali che non siano di cera, che non si sciolgano al fuoco di nuove passioni: basi più solide per nuove fondamenta. Così ti dico – Buon viaggio, mio Ulisse – ( ivi, corsivo nel testo ).

E’ indubbia d’altronde la centralità dell’antico eroe greco, stando altresì all’indicazione dell’autrice presente nell’explicit del racconto eponimo, racconto d’apertura che fin dal titolo – Ulisse (il mio Ulisse) – rivela quell’interazione compositiva a cui si è in precedenza fatto cenno:

Con l’augurio, più che altro a me stessa, che tu sia un Ulisse omerico, che torna a casa dopo il varco delle colonne d’Ercole, e non dantesco, a perdersi nell’illimitato.

Il rinvio alle grandi auctoritates poetiche, a due delle massime della letteratura europea, è di certo stimolante e giustifica una serie di considerazioni introduttive di carattere storico.

Per quanto riguarda Omero, è da tener presente specialmente l’Odissea, giacché, se nell’Iliade l’argomento principale consegue da una puntualizzazione tematica sul filo del discorso narrativo ( l’ira di Achille e i suoi effetti rovinosi per l’esercito degli Achei), nel secondo poema fin dall’inizio s’intende prevalentemente “cantare un uomo”( Àndra moi ènnepe, Musa…”), ovvero delineare e proporre un modello antropologico-culturale, suggerire le peculiarità tipologiche di una figura esemplare e nondimeno assai complessa, di grande interesse proprio in forza delle tante sfumature che la contraddistinguono.

Definire Ulisse “eroe del viaggio” può risultare banale; lo è meno porre in evidenza l’àmbito di costrizione, di sofferenza e di privazione in cui il paradigma “viatorio” si realizza ( la persecuzione del dio del mare Poseidone) e che induce nel navigatore il desiderio struggente del nostos, del ritorno.

Gli episodî della guerra di Troia che rivivono nel canto dell’aedo Demodoco alla reggia di Alcinoo, re dei Feaci, provocano in lui un pianto accorato: egli è l’uomo che “molto sopporta” (polýtlas).

Numerosi altri epiteti il poeta attribuisce al suo personaggio, con chiara volontà di qualificazione etica e psicologica; Ulisse è infatti ora polýmetis ( uomo dai molti pensieri, simbolo stesso della libido sciendi, come quando, nella caverna di Polifemo, si trattiene nell’antro perché vivamente interessato a conoscerne gli abitatori, o in occasione dell’incontro con le Sirene, allorché vuole ascoltarne il pericoloso canto ammaliatore), ora polýtropos (dall’ingegno multiforme, dall’intelligenza duttile e, tra l’altro, capace di controllo razionale degli impulsi istintivi, come nell’atto di punire il Ciclope omicida o nel compiere la vendetta sui Proci), ma è pure polymèchanos (dalle tante astuzie, dai mille disegni ingannevoli, sostenuto in questo dall’avvincente, efficacissima, inarrivabile eloquenza).

La tradizione post-omerica e segnatamente virgiliana operò con riduttivo schematismo sulla varietà e densità di quel modello, privilegiando le doti intellettive, ma sovente connotandole in senso negativo, poiché stimate coefficienti decisivi di obliquità fraudolenta, quando non di aperta malvagità: Ulisse è infatti designato quale dirus, saevus, durus, pellax e fandi fictor, scelerum inventor

In Dante la sottolineatura valorizzante l’esigenza assoluta della conoscenza, la narrazione dell’avventura estrema dell’intelligenza esplorativa giungono a una tensione acuta al punto di configurare il “folle” ardimento e, secondo taluni interpreti, la dismisura di un comportamento passibile della condanna divina.

Non è possibile in questa sede diffondersi ulteriormente sulla fortuna poetica di Ulisse, anche soltanto nella letteratura italiana, da Tasso a Foscolo; la sua figura così variamente e intensamente emblematica ha nel tempo sollecitato molti scrittori al confronto e all’appropriazione critico-culturale che nel Novecento si sono risolti in un significativo processo di frantumazione del profilo dell’eroe, attraverso la disgregazione dell’apparato mitologico solitamente ad esso connesso e un proposito selettivo mirante all’apprezzamento di un solo frammento della vasta costruzione omerica.

Avendo ormai alle spalle decenni di esperienza didattica, ricordo lo stupore degli studenti disorientati per la non immediatamente individuabile presenza di Ulisse nel celebre, omonimo componimento di Umberto Saba:

Nella mia giovinezza ho navigato

lungo le coste dalmate. Isolotti

a fior d’acqua emergevano…

(…) Oggi il mio regno

è quella terra di nessuno. Il porto

accende ad altri i suoi lumi, me al largo

sospinge ancora il non domato spirito… ( vv. 1-3 e 9-12 )

Gli è che il riferimento alla terra di “nessuno” (noto eteronimo dell’Itacese) vale un atto di sfida morale, la rivolta contro l’ordinarietà delle comode, ma trite consuetudini, significa l’aspirazione a una vita libera, all’indipendenza etico-intellettuale insita nell’idea di “spingersi al largo”, di raggiungere il “mare aperto” che garantisce all’esistenza la qualità di un’avventura gratificante perché imprevedibile.

Nella cultura del secolo appena trascorso prevale perciò un approccio personale alla vicenda del guerriero-navigatore, un’adibizione spiccatamente soggettiva di essa mediante l’utilizzo meditato di un particolare suggestivo, di un tratto che risulti connaturale e coinvolgente.

Analoga è la disposizione mentale di Valeria Serofilli, secondo quanto è possibile acquisire tramite l’analisi testuale; comincio pertanto con due citazioni, la prima proprio dall’inizio del racconto Pagina mare:

Liquidità e fisicità, due realtà così diverse, come possono del resto andare d’accordo? Forse solo in virtù del fatto di essere entrambi, uomo e mare, simboli della dinamica della vita e della creazione in senso ampio. Ma cos’è mai l’uomo? Non è forse un abisso, non è forse, come l’acqua, un fluire continuo in continua transizione tra le cose da compiere e il già portato a termine?

E l’altra dalla quarta sezione (Itaca) della raccolta poetica Vestali:

Ma che senza accorgermene/ mi portava nei suoi abissi

gabbia di cristallo mai infranta

E la sete, la pazzia/ la cieca corsa verso il mare aperto

smarrendo il mio sguardo/ oltre la soglia dell’amore ( Malata di tua perdizione, vv.4-7 )

E così il motivo “viatorio” e la prospettiva della libera espansione vitale dell’individuo si precisano in queste pagine nel senso dell’incontro con l’altro, nell’intesa “empatica” con il “compagno della vita”, nella relazione anche e soprattutto fisico-amorosa, sensualisticamente appassionata; e questo si determina all’interno di una concezione della realtà inequivoca e incardinata sui concetti di liquidità e di solidità, del resto fondamentali pure quali fattori dell’organizzazione formale dei testi.

La liquidità rimanda al costante fluire tipico dell’ordine delle cose e in particolare della condizione umana, nella sua dimensione esteriore (quella dei rapporti interpersonali) e in quella intima:

E la notte il sub, piccola anima errabonda, mi ha chiesto scusa con un bacio e un dolce abbraccio ( racconto Il sub, corsivo mio );

Si decise infine che la piccola anima errabonda potesse continuare a “nuotare” fino alla vita… ( racconto La sirena, corsivo mio );

Perché il bello consiste nell’essere di ritorno da ogni dove senza essere andati da nessuna parte se non dentro se stessi e il proprio animo ( racconto Un viaggio dentro)

Fluire è il continuo mutamento, la lotta all’abitudine, all’impersonalità delle situazioni cristallizzate (“Passavano le stagioni, mutavano i luoghi, non la nostra anima. Presto avremo fatto ritorno alla nostra vita di sempre ma ora eravamo felici e il fatto che non ci accorgessimo di esserlo, voleva dire che lo eravamo”, da Un viaggio dentro ), ma comporta altresì variabilità, incertezza, precarietà, potenziale disordine:

Ma vento che va e viene

ed io disillusa penelope che

tesse e disfà

Quale più annichilente vertigine a stordirmi

e rinsavire? ( Scirocco, in Sezione prima, Sirtaki, vv.12-16)

Ora l’incessante mutabilità – e la conseguente instabilità intellettuale e sentimentale-morale – non sono congeniali all’animo umano, che sa di certo godere dell’intensità dei momenti straordinarî, ma non si appaga dell’attimalità esaltante: pretende di fissare, dare consistenza stabile, continuità e durata alle situazioni, anche sensuali e voluttuarie, fisico-corporee:

Tutti gli incensi/ dall’ambra al muschio selvatico

non valgono una stilla/ del profumo della tua pelle

Dopo l’amore

sul tuo corpo tracce

del nostro amplesso/ miste ad altri odori

di cui non mi spiego il senso (Penelope,in Sezione , Ulisse,vv.13-15);

mentre intesso tasselli musivi sul tuo corpo/ ogni tassello un ricordo (ivi,vv.7-11);

E’ che l’amore lo riconosci dall’odore e tu hai l’odore dell’uomo della mia vita (racconto Ulisse).

Viaggiare affascina, eppure è necessario il “rientro in porto”, e quindi il possesso sicuro, il saldo legame, l’appartenenza profonda che trasformi l’ebbrezza dei sensi, la vibrazione passionale in relazione duratura, in tela solida e resistente, lungi dalle cadute nell’amarezza dell’abbandono, nella solitudine del freddo, sterile ricordo:

A chi interessa

se ha trasformato ogni mio gemito in tormento

se folle/ cerco il suo calore adorato

nel buio e gelo di una stanza vuota?

Mi trovo ora a vacillare incerta sui colori accesi di quei nostri giorni ( Malata di tua perdizione, cit., vv. 15-19)

In questi versi della poetessa moderna si avverte l’eco dei lamenti di donne d’altri tempi rivolti agli amanti lontani, del tipo di quelli consegnati, per esempio, all’elegia amorosa di Ovidio nelle Heroides, che non casualmente principiano proprio con la lettera di Penelope allo sposo assente da anni:

Hanc tua Penelope lento tibi mittit, Ulixe/ nil rescribas attinet: ipse veni! (vv.1-2: “E’ tua moglie Penelope a inviarti questa lettera, Ulisse, tardivo a ritornare; non c’è bisogno che tu risponda: vieni di persona!”);

Tu citius venias, portus et ara tuis! (v.110 : “Torna al più presto, tu che per i tuoi cari sei porto e altare di salvezza!”)

Il libro ovidiano raccoglie il dolente messaggio d’amore di molte eroine del mito, da Arianna a Didone.

Lo strazio della regina cartaginese abbandonata da Enea era stato già rappresentato con insuperati accenti patetici da Virgilio nel quarto libro dell’Eneide, ove si legge uno spunto, che forse sarà stato presente alla Serofilli, perché corrispondente appunto a quella necessità di assicurare tangibile continuità, carattere non transeunte all’incontro erotico-sentimentale:

Si quis mihi parvulus aula/ luderet Aeneas, qui te tamen ore referret/ non equidem omnino capta ac deserta viderer (vv.328-330: “Se giocasse per me nella sala del trono un piccolo Enea che nondimeno riportasse nel volto la tua fisionomia, non mi sembrerebbe di essere del tutto umiliata e abbandonata”)

Invero nella lirica Penelope prima citata si leggono versi siffatti:

Ci siamo lasciati

e ripresi mille volte

tra infinite voglie

Il filo interrotto e saldato

è diventato tronco

su cui arrampicarsi:

voglio un cambiamento

una catarsi (vv.5-12)

L’uomo è per sua natura incline a fermare, a stabilizzare, non si rassegna facilmente al flusso permanente, come annotava con incisiva lucidità Luigi Pirandello in un passo famoso del saggio L’umorismo (1908):

La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo di arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi siamo già forme fissate…Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini…

Al netto dell’impianto critico-riflessivo del discorso del grande scrittore e drammaturgo siciliano e a prescindere dalle deduzioni che egli ne ricavava sul fondamento di un radicale scetticismo corrosivo e demistificatore, un atteggiamento simile si riscontra anche in queste ultime opere di Valeria Serofilli, dominate dall’antitesi fra attimalità e continuità, fra dionisismo e vestalità (intesa quale vocazione alla custodia del sacro fuoco dell’amore: “Eccomi Vestale/ in estasi di te”, Sirtaki, in Sezione prima, Sirtaki,v.1).

La visione dell’autrice è a ben vedere in buona parte contraddittoria, per cui non sorprende che a conclusione dell’ultima sezione di Vestali i versi appaiano strutturati secondo un insistito, elegante gioco di antitesi:

Ma questa è l’ora/ in cui ti desidero forte:

Ferita ormai cauterizzata

torna più acceso di prima/ più tenace (…)

nel freddo eri la luce che scaldava il cuore

ora tu il buio, il buco nero

nel mio nuovo, vano tentativo di luce ( vv.11-12 e 20-23)

Floriano Romboli

. . . . . . . .

*Questo è il testo lievemente adattato della relazione tenuta a Pisa il 20 marzo scorso nella Sala del Consiglio dei Dodici in occasione della presentazione dell’e-book antologico di racconti brevi Ulisse (La Recherche, 2014) e del Quaderno dell’Ussero (Puntoacapo Edizioni, Collezione 2014) di Valeria Serofilli. Ho conservato largamente alla struttura dell’intervento la forma originaria della comunicazione orale che mi auguro non dispiaccia all’autrice e ai lettori.

ulisse-2

Testi da Ulisse, racconti,( Ibiskos Ulivieri Editrice, 2015)

ULISSE

(Il mio Ulisse)

Felice come Ulisse chi ha varcato i mari,

o chi fino alla Colchide si è spinto, Giasone,

che poi tornando esperto e ricco di ragione

il tempo che gli resta si gode fra i suoi cari!”

J.Du Bellay, Les regrets

Fuori piove. Ma io a combattere la mia tempesta privata, il mio uragano personale con te, che mi prendi e mi lasci come l’onda che sbatte sullo scafo. Ulisse sirena, naufragio d’anime. O Adamo e la sua donna, dai tempi.

Mi chiedono di scrivere, ma questa delusione blocca i miei sensi e la mente, mentre mi trovo a ragionare con la parte debole della testa, che viene chiamata cuore, con la viva convinzione che se tutti cominciassimo a pensare e decidere col cuore, l’intero universo ne trarrebbe giovamento.

Poi un lampo, uno squarcio di luce, un cambio di rotta: una telefonata ad aprire un nuovo mondo.

E torni da me, ed io a riprenderti ancora, perché anch’io ho tanto da farmi perdonare. Anche se mai quanto te. E’ che l’amore lo riconosci dall’odore e tu hai l’odore dell’uomo della mia vita, un po’ macchiato d’inchiostro e penna.

Quest’ultimo periodo abbiamo avuto grossi problemi, è vero, così accettando ogni compromesso che possa portare un qualche vantaggio, tra il vissuto e l’immaginato io in cucina a comporre inutili poesie e racconti pseudo calviniani, e tu romanzi nella camera da letto.

E a sprazzi riemerge la nostra storia, mentre sempre più labili i confini tra dentro e fuori, coscienza frammentaria di una unione. Ed è ancora poesia.

Ora e da ora , con te, sarà un nuovo viaggio. Riprende il volo d’Icaro, ma con ali che non siano di cera, che non si sciolgano al fuoco di nuove passioni: basi più solide per nuove fondamenta.

Così ti dico – Buon viaggio, mio Ulisse – .

Con l’augurio, più che altro a me stessa, che tu sia un Ulisse omerico, che torna a casa dopo il varco delle colonne d’Ercole, e non dantesco, a perdersi nell’illimitato.

Perché il vero viaggio consiste nell’ essere di ritorno da ogni dove senza essere andati da nessuna parte se non dentro se stessi e il proprio animo. Per darsi alla luce, preparando il terreno all’altro viaggio di scoperta che inizia con un piccolo passo: quello in direzione dell’altro.

PAGINA MARE

(Figlio dell’onda)

Solo dopo aver conosciuto la

superficie delle cose … ci si può

spingere a cercare quel che c’è

sotto. Ma la superficie delle

cose è inesauribile.

Italo Calvino, Palomar

Vi sono state due rivoluzioni, una tra l’uomo e la terra e una tra la terra e il mare”, era solito spiegare il mio professore di geografia nel corso delle lezioni universitarie. Per la proprietà transitiva, aggiungo, ve n’è stata dunque una tra l’uomo e il mare. Liquidità e fisicità, due realtà così diverse, come possono del resto andare d’accordo? Forse solo in virtù del fatto di essere entrambi, uomo e mare, simboli della dinamica della vita e della creazione in senso più ampio.

Ma cos’è mai l’uomo? Non è forse un abisso, non è forse, come l’acqua, un fluire continuo in continua transizione tra le cose da compiere e il già portato a termine?

Posso provare a dire, semmai, cosa non è: non è certo un essere puramente fisico, come sostiene l’Holbach. Se infatti le ossa si ricollegano alla terra, il suo sangue non richiama forse l’acqua, tanto che la medicina cinese nella teoria dei quattro mari cosmici stabilisce una stretta connessione tra il corpo umano e il cosmo in cui la testa è il cielo, gli occhi il sole, il sangue la pioggia e gli umori e le vene i fiumi?

E’ forse in quest’ottica che il Martin Eden di London si getta nell’acqua restandone per sempre inglobato, diventando, da buon marinaio aspirante scrittore, un tutt’uno con la pagina mare, inchiostro di vita per sempre impresso sul foglio in cui, profumi, colori, suoni, ricordi, aspirazioni e desideri si corrispondono in un infinita sinestesia.

Perché, facendo mio il pensiero di Calvino,“ solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose… ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile”.

Il SUB

L’inconscio è un particolare regno della psiche

con impulsi di desiderio propri, con una propria

forma espressiva e con propri meccanismi psichici

che non vigono altrove”.

S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi,1915/32

La Sarda la chiamavo, la mia compagna d’Università con cui studiavo Lettere e Teatro. Conviveva, e per quel periodo non era così usuale tanto che altre mie amiche mi chiedevano- Ci hai studiato insieme? E’ vero che ha il letto matrimoniale nella stessa stanza vicino alla scrivania?-. E la Sarda, con quel suo parlare preciso, essenziale, ben scandito , senza saperlo mi rivelò la più grande delle verità: – di giorno litighiamo, peggio, non mi guarda; la notte però mi cerca-.

Ne è passato di tempo.In quest’ultimo periodo di giorno litigavamo, peggio, non mi guardava; la notte però mi cercava.

Poi nel buio alcune sue parole tra l’interrogazione e la discolpa, come svelare un segreto, mettermi al corrente di un qualcosa d’importante.

Perché l’uomo è antico. Ma io non gli diedi peso. Poi lo strappo definitivo, perché una donna dovrebbe capire da sola quando è il momento della scissione da tanti piccoli infiniti indizi, ed io non l’avevo capito. Forse perché in fondo non lo era, la fine. Perché l’amore vero va “oltre”: e dopo giorni eterni il tuo richiamo forte -_”La casa senza di te non ha senso né vita. E non solo la casa”- e quella canzone con dedica speciale.

Sono tornata.

E la notte il sub, piccola anima errabonda,mi ha chiesto scusa con un bacio e un dolce abbraccio. Per poi diventare di notte in notte sempre più acceso.

E mentre rifletto se il campo d’esperienza dell’inconscio sia una realtà propria o vi influisca la quotidianità, mi trovo a chiedermi se succederà ancora che il giorno litighiamo, peggio non mi guardi, e che la notte però mi cerchi.

Ed a rispondermi –pazienza, la notte aspetterò il sub- o meglio –Attento amore, non dirò pazienza aspettando la notte il sub-.

Secondo le più recenti ricerche il subconscio

sembra essere una specie di ghetto dei pensieri.

Ora molti di essi hanno nostalgia di casa.”

Karl Kraus, Di notte, 1918.

UN VIAGGIO DENTRO

Di solito a chi mi chiede perché amo viaggiare in treno rispondo che, treno o non treno, il vero viaggio è quello dentro noi stessi.

Rispondo che so quello da cui fuggo ma non quello che cerco.

E se è vero che nei più giovani il viaggio fa parte dell’educazione mentre negli adulti dell’esperienza, è anche vero che io, di questa esperienza, ne ho ben poca.

Non ho viaggiato molto.

Ma ricorderò sempre la volta che il controllore ci chiese scusa per essere entrato nel nostro scompartimento, l’ultimo del vagone. Eravamo abbracciati, stretti, i sedili un letto di petali, i cuscini sdruciti che hanno ospitato migliaia di persone, la più bella imbottitura: il cielo in uno scompartimento direi e quel gesto di aprirlo con forza suonò come una violenza nei confronti di quella bolla spaziotemporale propria solo degli innamorati.

La cosa che l’amore sopporta con maggior fatica è l’intrusione di estranei. Se poi tocca anche pagare, questo diventa veramente insopportabile.

Il treno scivolava sulla rotaia e noi custodi del più grande segreto, con l’infinito a portata di mano, ed io con la tua mano nella mia, felici come Ulisse, senz’altra cura che noi stessi e il nostro viaggio: quel vagone il solo posto, l’unico, per incontrarci.

– Il treno viaggia con trenta minuti di ritardo – annunciava l’altoparlante, ma per noi non c’era ritardo, perché non c’era tempo. Era il treno stesso a scandire i nostri battiti oltre il vetro opaco. Passavano le stagioni, mutavano i luoghi, non la nostra anima. Presto avremo fatto ritorno alla nostra vita di sempre ma ora eravamo felici e il fatto stesso che non ci accorgessimo di esserlo, voleva dire che lo eravamo. Un po’ come per la salute. Ed io mi sentivo l’ape di Trilussa, piena di felicità per essersi posata su un bocciolo di rosa, e il mio bocciolo eri tu. Si, presto avremo fatto ritorno alla nostra vita di sempre ma ora nessuno, neanche il controllore, ci avrebbe separato. Neanche l’insistente e martellante annuncio dell’arrivo ad ogni prossima stazione, utile ma quanto mai disarmonico e dissacrante. – E’ la rapidità a generare il vizio della fretta – mi trovai a pensare . Un vizio che ora ci era estraneo.

E se Marinetti lodava la bellezza della velocità, per noi, in quel momento, il treno in corsa era bello solo perché ci permetteva di stare insieme. Avrebbe potuto anche star fermo, quel treno, perché ugualmente in corsa verso il nostro amore.

Ciò che provavamo era un alternarsi di calma serenità, propria di chi si muove tra gli oggetti dei sensi con animo sgombro d’odio e d’amore; serenità dunque, piacere e pazzia.

Pazzia, si, con quel certo compiacimento che solo i pazzi conoscono mentre tracciano la via che percorreranno i savi. Presto avremo fatto ritorno alla nostra vita di sempre e di questa rosea pazzia non sarebbe restata traccia, se non sulle nostre guance ancora rosse di baci. Saremo tornati alle nostre abitudini a cui è difficile dire addio. E l’abitudine, triste surrogato della felicità, avrebbe preso il sopravvento su questo nostro tempo, su questo nostro viaggio. Ma ora il treno in corsa scandiva quel nostro tempo altro.

Giungemmo. Dove? Alla stazione della nostra meta, con quel distanziamento necessario per giungere alla conoscenza. Per capire che molto spesso quelle verità per raggiungere le quali ci mettiamo in cammino, già le abbiamo davanti agli occhi e non ce ne accorgiamo.

Il treno ripartì per tornare alla partenza.

Perché il bello consiste nell’ essere di ritorno da ogni dove senza essere andati da nessuna parte se non dentro se stessi e il proprio animo. Per darsi alla luce, preparando il terreno all’altro viaggio di scoperta che inizia con un piccolo passo: quello in direzione dell’altro.

E tu,mio Ulisse, figlio dell’onda sei tornato.

paoloefrancesca

da Amalgama, I quaderni di Poiein – Valeria Serofilli, (puntoacapo editrice 2008) 

 

Paolo e Francesca

(Inferno, canto V)

 

Lo sguardo complice

il furto di una vita

in quella mela / labbra rosse

 

Adamo ed Eva

clonati dal peccato / prima radice

rinati pallidi dalle pagine

di un libro/ da quel bacio

unico / sia pur imitativo

 

A tanta passione / troppa condanna

 

Con Dante io vi comprendo!

(da Amalgama,I quaderni di Poiein – Valeria Serofilli, puntoacapo editrice 2008) 

amalgama 

 

 Nota dell’Autrice

Il testo è tratto dalla raccolta Amalgama che si articola  in tre sezioni di cui la seconda, Dantesche,che accoglie questo testo su Paolo e Francesca, intende porsi come una rilettura in ottica personale ed individuale di alcune delle vicende più toccanti narrate in versi nella Divina Commedia (Paolo e Francesca ma anche Ulisse, Il Conte Ugolino, Pier delle Vigne).Personalmente concordo dunque col Bardi che la condanna possa suonare beffarda in quanto essi in fondo non hanno seguito che l’impulso irresistibile dell’amore che nasce dalla visione della bellezza dell’uno e dell’altro: può bastare un solo gesto, una parola, uno sguardo, per scendere nell’abisso, ed è quello che successe ai due amanti (v 132-138 ma solo un punto fu…”).Quel giorno s’interruppe e per sempre la lettura del libro galeotto.

 

Su Paolo e Francesca in “Amalgama” di Valeria Serofilli

Pochi canti danteschi come il V dell’Inferno sono stati letti, discussi, analizzati, rivissuti e, a volte, anche traditi. In pochi altri testi letterari ci troviamo a confronto con il dissidio fra l’abbandono, che pare così ovvio, alla più travolgente delle passioni umane e le sue possibili rovinose conseguenze, tra cui, la più terribile, consiste nella dannazione eterna. Ha talmente esercitato da subito il suo fascino sui lettori da diventare uno dei canti più letti e diffusi anche prima del completamento della Divina Commedia, come ha mostrato la ricognizione di uno dei “Memoriali bolognesi” risalente al 1304. I critici si sono divisi a lungo su di esso. Canto dell’amore o canto della pietà? Il Caretti trovò una brillante soluzione critica: amore e pietà sono due “parole‑tema” che non hanno un vero significato se considerate separate, ma che si rafforzano potentemente se viste l’una nell’ottica dell’altra. Il Canto genera il senso di una scissione dolorosa e mai pacificata. Paolo e Francesca sono uniti per sempre dal loro amore, ma in questa unione non troveranno mai pace. L’amor cortese che anche Dante ha sentito come fonte di elevazione spirituale e di poesia nella sua giovinezza, fallisce clamorosamente di fronte alla condanna divina, come un sogno che svanisce quando si viene destati da un evento catastrofico. Dante personaggio del Canto rivive in sé la sua stagione creatrice giovanile e sembra non accettare questa condanna: prima si turba sempre più e alla fine sviene, tronca il confronto, quasi si autocensura probabilmente per accettare la condanna divina senza esprimersi contro di essa.

Valeria Serofilli ripropone in questa sua lirica-gioiello il dramma dei due cognati, con il suo stile giocoso e insieme pregnante, sempre leggero ma dall’impronta indelebile. All’inizio i due appaiono come due ragazzi birichini che progettano di rubare una mela: è il furto di una vita, quasi un gesto che segna il passaggio alla vita adulta, o, forse, una liberazione da un ambiente familiare costrittivo. Le labbra rosse di Francesca diventano un altro frutto proibito, come quello gustato da Adamo ed Eva. La genialità di questa lirica consiste, secondo noi, anche in questa assimilazione di Paolo e Francesca proprio con Adamo ed Eva. In una chiave modernissima i due Romagnoli diventano i cloni dei Progenitori, rinati attraverso un libro, il romanzo arturiano che stavano leggendo insieme.

Se si guarda oltre, però, notiamo che la Serofilli è riuscita a ricreare nel breve volgere di questa lirica quel senso di scissione insanabile che abbiamo visto essere una delle caratteristiche del Canto dantesco. Il senso del doppio è un filo conduttore di tutta la produzione della Serofilli, come andiamo ripetendo da anni, e forse proprio per questo la sensibilità dell’Autrice si è lasciata attrarre dai due cognati romagnoli, uniti e al contempo divisi per l’eternità. Il senso della scissione balza agli occhi in certi accostamenti semantici fra parole in posizione di rilievo: uno è “verticale” (clonati – rinati), e qui i termini sono semanticamente omogenei, ma osserviamo che li divide un abisso culturale. Poi ne abbiamo altri “orizzontali”: ad esempio: unico ‑ imitativo, dove invece abbiamo una netta opposizione. La più significativa di queste opposizioni è passione ‑ condanna, sottolineata dalle allitterazioni circostanti (passione…troppa). È qui che la Serofilli non sfugge, come fa il Dante personaggio, alla espressione libera di una non accettazione e coglie, nel contempo, quello che il Poeta non ha voluto dire: Con Dante io vi comprendo! Tutto questo ci appare coerente con la vena passionale e dionisiaca che affiora in tutta la produzione serofilliana e che ci risulta evidente fin dalle sue prime raccolte. Ricordiamo appena le sue Vendemmia in “Acini d’anima” e Estasi panica in “Tela di Erato”: quest’ultima, inoltre, già si abbinava al motivo della divisione insanabile e, appunto, cominciava con la parola “scissa”

Andrea Salvini

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CURRICULUM DI VALERIA SEROFILLI

Valeria Serofilli, insegnante di Lettere, come operatrice culturale è Presidente del Premio Nazionale di Poesia “Astrolabio”e degli Incontri Letterari presso il Caffè storico dell’Ussero di Pisa e di Villa di Corliano. (www.corliano.it). Ha diretto dal 2004 le collane “Passi – Poesia, I libri dell’Astrolabio” per puntoacapo Editrice di Novi Ligure, annessa all’omonimo premio letterario e “I Quaderni dell’Ussero” (Collezione di puntoacapo) nonché dal 2015 “Le PetitUssero”, Quaderni collettivi per l’editrice Ibiskos Ulivieri di Empoli (Pisa); cura il sito personale http://www.valeriaserofilli.it .E’ autrice di poesia, saggistica,critica letteraria e testi di prosa.

Poesia

Sua opera prima è Acini d’Anima (Pisangrafica, Snc,Pisa, 2000);

Tela di Eràto, (Sovera Multimedia, Roma, 2002) nella Collana “La Fronda Peneia”, con nota critica di Giorgio Bàrberi Squarotti;

Fedro rivisitato (Ed. Bastogi, Foggia 2004), collana di poesia “Il Capricorno”, curata da Maria Grazia Lenisa, con prefazione di Dino Carlesi e nota critica di Giorgio Bárberi Squarotti;

il cofanetto libro con audiolibro Nel senso del verso (Ed. ETS, Pisa 2006), contenitore multimediale che comprende un estratto delle varie raccolte poetiche dell’autrice e nuove poesie, recitate e interpretate liricamente, con accompagnamento musicale al pianoforte e clarino, rappresentato al Teatro Verdi di Pisa in forma di spettacolo;

Chiedo i cerchi (puntoacapo editrice, Novi Ligure, 2008);

Nel senso del verso – Nuovo Volume (Leonida Edizioni, Reggio Calabria 2009) opera vincitrice del Premio Gaetano Cingari 2008;

Amalgama in Valeria Serofilli – La parola e la cura (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2010), Collana I quaderni di Poiein.;

I Quaderni dell’Ussero – Valeria Serofilli (Collezione di puntoacapo Editrice 2013) nell’ambito della Collana da lei stessa diretta fino al 2015;

l’ebook antologico di poesia Resoconto e senso ( LaRecherche 2013);

Vestali, ( Ibiskos Ulivieri Editrice, Empoli,Pisa, 2015);

Racconti

Racconti brevi, (alcuni inseriti in Pisanthology della collana antologica di Perrone editore, già finalisti al premio Teramo 2005 e vincitori del Castelfiorentino 2007); raccolte di racconti brevi per ragazzi “Comete per la coda pubblicati nei volumi antologici I Quaderni di Dedalus – Annuario di narrativa contemporanea 1 (puntoacapo Editrice , Novi Ligure 2014);

Come essere tondi in un mondo di Quadrati” e altri racconti, pubblicati nei volumi antologici I Quaderni di Dedalus – Annuario di narrativa contemporanea 2, (puntoacapo Editrice , Novi Ligure 2014);

l’ebook antologico di racconti Ulisse (LaRecherche, 2013);

Ulisse, versione cartacea dell’ebook ( Ibiskos Ulivieri Editrice, Empoli,Pisa,2015);

Critica letteraria

Serie I Quaderni dell’Ussero da lei curati e prefati (puntoacapo di Collezione,2010,11, 12, 13, 14.).

La figura femminile nella poesia barberiana in:

Passione Poesia, letture di poesia contemporanea 1990-2015 (CFR Edizioni) a cura di Aglieco, Cannillo,Iacovella.

Passione Poesia, letture di poesia contemporanea 1990-2015 (CFR Edizioni) a cura di Aglieco, Cannillo,Iacovella.

E’ inserita in Letteratura Italiana dal secondo Novecento ad oggi (Bastogi, Foggia 2007, vol. 1) e in numerose antologie e riviste italiane e straniere fra cui “Gradiva” e “Lo Scorpione Letterario”.

E’ stata ospite di trasmissioni televisive nonché radiofoniche tra cui Radio Alma di Bruxelles, la rubrica culturale La Tela Sonora, e nel programma Carta Vetrata curato da Gaffi Editore di Roma.

In qualità di saggista ha pubblicato il volume I Gigli di Nola, pp. 254, Rotary Club, Nola – Pomigliano d’Arco, 1993 mentre in poesia ha pubblicato sette libri: sua opera prima è Acini d’Anima (Pisangrafica, Pisa, 2000), vincitrice del Premio Astrolabio 2000, sez.poesia, poi rinnovato e presieduto dall’autrice; Tela di Eràto, (Sovera Multimedia, Roma, 2002); Fedro rivisitato (Ed. Bastogi, Foggia 2004); il libro con audiolibro Nel senso del verso (Ed. ETS, Pisa 2006), contenitore multimediale con un estratto delle varie raccolte poetiche dell’autrice e nuove poesie, recitate e interpretate liricamente, rappresentato al Teatro Verdi di Pisa in forma di spettacolo; Chiedo i cerchi (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure, 2008); Nel senso del verso – Nuovo Volume (Leonida Edizioni, Reggio Calabria 2009) opera vincitrice del Premio Gaetano Cingari 2008; Amalgama in Valeria Serofilli – La parola e la cura (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2010), Collana I quaderni di Poiein. I Quaderni dell’Ussero – Valeria Serofilli (Collezione di puntoacapo Editrice 2013) nell’ambito della Collana da lei stessa diretta fino al 2015;

l’ebook antologico di poesia Resoconto e senso ( LaRecherche 2013);

Vestali, ( Ibiskos Ulivieri Editrice, Empoli,Pisa, 2015); l’ebook antologico di racconti Ulisse (LaRecherche, 2013);

Ulisse, versione cartacea dell’ebook ( Ibiskos Ulivieri Editrice, Empoli, Pisa,2015).

Tra le altre pubblicazioni: Premio Astrolabio 2008, Antologia (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2009); Premio Astrolabio 2010, Antologia (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2011); Antologia dei poeti puntoacapo, (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2010, pp. 125-130); Aspettando il Premio – Astrolabio 2016/17(Ibiskos Ulivieri Editrice, Empoli, 2016); Le petit Ussero vol 1,2, (Ibiskos Ulivieri 2015,2016).

Suoi testi sono stati letti e commentati all’interno delle trasmissioni radiofoniche di Toscana Classica, Radio Alma di Bruxelles, nella rubrica culturale La Tela Sonora e Radio Città Futura, nel programma Carta Vetrata curato da Gaffi Editore di Roma nonché televisive. Alcune varianti poetiche dell’autrice, richieste dal Centro di Documentazione sulla Poesia Contemporanea Lorenzo Montano, sono depositate presso la Biblioteca Civica di Verona. Numerosi i critici si sono occupati del suo lavoro creativo.

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Letti sulla luna (5): La quiete dei respiri fondati

Postato il Aggiornato il

luna-1vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo. Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.

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Per introdurre, proporre e consigliare la lettura di Fernando Lena mi baso sulla nota qui sotto riportata a firma di Gabriella Montanari. Me l’ha indicata lo stesso Lena chiarendomi che si tratta della sola recensione ancora inedita. Su vari e validi blog, infatti, si possono leggere approcci e analisi sulla sua poesia. Per quello che mi riguarda, sono contento di poter parlare di Fernando Lena basandomi anche sulla lettura di Gabriella Montanari. Con Gabriella ho avuto modo spesso di parlare della “follia”, e il nostro primo dialogo ebbe come argomento il lavoro e la biografia (del tutto misteriosa) di una poetessa che meriterebbe di essere molto più conosciuta, Maria Marchesi. Una poetessa folle in modo autentico, non patinato o da rotocalco televisivo. Disperatamente attaccata alla vita, alla sensualità, a tutto ciò che le ha consentito di resistere a condizioni e situazioni inumane. Della Marchesi Gabriella Montanari ha anche curato un libro dal titolo che già di per sé attrae e trascina nel vortice che oscilla tra vita e scrittura: Non sono più mia, edito da White Fly press. 

Anche qui ed ora, con Fernando Lena, si parla di follia, della capacità di scrutarla guardandosi dentro con coraggio, senza farsi sconti o cercare improbabili e troppo facili vie di fuga. Preso atto del deserto, dell’oceano che ubriaca e stordisce ad ogni istante, il vero e unico atto poetico, e quindi schiettamente umano, è reagire, provare a ritrovare una rotta, un senso, un cammino. Lena c’è riuscito. E quello che colpisce, anche nei versi del libro qui sotto riportati, è la lucidità. Lo sguardo ha assunto una saldezza assoluta; potremmo dire, paradossalmente ma non troppo, serena. Come un viandante che ha visto violenze, dolore, ferite, miserie di ogni genere, e che nonostante tutto, anzi, forse proprio per la consapevolezza di queste realtà, riesce a proseguire, vedendo anche ciò che gli altri schivano o considerano di scarso rilievo.

Un’ironia amara, e il coraggio di chi ha già affrontato i colpi più aspri dei nemici, esterni ed interni. La quiete, dunque, come recita il titolo del libro. Ma, la quiete dei respiri fondati. Quiete, dunque, in opposizione al respiro, che invece è prova e condizione essenziale della vitalità, della possibilità di esistere e di interagire con tutto il bello e con tutto l’assurdo di cui è fatto il mondo.

Sensibili e miti”: in questo modo Gabriella Montanari definisce le scorie del passato di Lena. Ed è di questa mitezza, ancora in grado di scatenare azioni e reazioni possenti che si nutre la poesia di questo libro.

Ho solo imparato a convivere – dice –/ con l’urlo degli altri… tacendo/ quando vengo stuprato dalla loro demenza” – scrive Lena parlando di Ciro, un internato del manicomio. Ma forse, a ben pensare, Ciro è lo stesso Lena, o, più esattamente , Ciro è ognuno di noi, fuori e dentro le mura dei manicomi dell’esistere.

Chiusi come bestie”, così, in queste tre parole, l’autore racchiude il senso e l’assurdo spietatamente reale di una condizione imposta da uomini ad altri uomini.

Però, ed è, lo confermo, il valore aggiunto del libro, non farsi ridurre davvero alla condizione di bestia, conservare l’umanità, può essere un percorso che conduce ad una consapevolezza maggiore, perfino artistica, basata sulla scrittura ma anche sull’osservazione. Sapere ancora, nonostante la cognizione del dolore, imposta a se stesso prima e poi subita dal mondo. Sapere ancora, nel senso di conoscere, ma anche di assaggiare, assaporare, un profumo, un dipinto, una bellezza, una pulsione sensuale o della mente, può condurre a quella quiete del respiro che è allo stesso tempo accettazione e rivolta tramutata in ricerca di bellezza e di poesia.

Tutto quello che rimane da dire, e non è poco, lo affido alla nota qui sotto riportata e ai versi tratti dal libro.

Il consiglio è, come sempre, quello della lettura diretta e individuale. La ricerca del libro e la lettura. Che, come ribadisco anche qui ed ora, è, alla fine, ciò che conta.

IM

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Nota di Gabriella Montanari

Sul manicomio di Aversa avevo letto poesie scritte da chi da lì ci era passato con «onorevoli» finalità politiche, per uscirsene poi con un antipasto di voci di pazienti misti, forse realmente incontrati, forse solo impersonificati. Si può anche essere poeti provetti e avvezzi agli scomodi meandri della mente, ma l’esperienza vissuta in prima persona, o quel che resta di essa, ha in bocca e sulla carta un sapore più convincente e persistente. Certo, Fernando Lena, non deve convincere di quel che può aver passato tra le mura del padiglione 5, adibito alla riabilitazione di ex tossicodipendenti. Oggi, dopo aver masticato un necessario silenzio, se non del tutto «digerito» (e vorrei anche vedere, i sassi restano a lungo nel crasso…) mi appare uomo «metabolizzato». Come un organismo che trattiene i nutrienti di quanto ingerito e ne espelle le scorie, il prodotto di scarto. E sono belle le sue scorie. Sensibili e miti, dolcemente radioattive, mai spente in velenosa cenere. Sin dalla premessa al poemetto che, nella lunghezza emotiva, tutto è tranne che -etto : «…quell’inferno mite che ancora oggi non so se detestare o ricordare con nostalgia ». Non mi stupisce questo stare in bilico. Sento una familiarità che trascende i rispettivi passati e affonda in una lava che cola sin da prima di essi. Qualcosa che chiamerei «sindrome della cella socchiusa». L’ambivalenza tra insofferenza per la reclusione e accettazione del perimetro amico. Il quadro, la struttura, il «no» che i pedagogisti consigliano di imporre al bambino affinché sperimenti, per poi rielaborarla positivamente, la frustrazione. La placenta, poi la culla, poi il lettino con le sbarre. Troppo azzardate come radici dell’ossimoro relegazione/rifugio, privazione/protezione? Come si può non provare nostalgia per l’inferno che ha rappresentato anche una sorta di conforto nella necessità di proteggersi da se stessi, dal mondo, dalle delusioni, dalle prove? Qui a Santa Maria della Pietà posso andarmene appena finito il lavoro, ma in realtà non me ne vado mai da sola. Luoghi e incontri come questi continuano ad abitarti la testa e le emozioni anche di ritorno sul tram, anche a cena, anche a letto. E l’indomani ci torni con la sensazione di rincasare, di essere atteso, di appartenere, di stare al sicuro. È ben poca cosa questa mia, ma penso intuire il sentimento di Fernando. Quiete è la parola chiave della sua poesia, la chiave della cella che crea struggente dipendenza affettiva mista ad anelito d’ali. Le sue sono storie di dolore mite, mitigato dalla chimica e dalla stanchezza dei trascorsi, quasi pace fatta con la pena, la pena interiore non scelta e quella reclusiva inflitta. Porto, parto sicuro. Incontro tra malesseri d’animo e di mente, accomunati dal nidificare su un ramo alto, lontano dai passi della gente, ma lontano anche dal cielo aperto. Rabbia assopita ma non al punto da scegliere la rinuncia alla libertà. Piuttosto, disillusione che mette una distanza sana dal ricordo. Chi riesce a uscire dal buio, poi si ritrova ad affrontare le piccole notti quotidiane con occhi di gatto, con un settimo senso di umanità. E lo si legge con commozione e non compassione, con stima per l’essere umano che trapela dal poeta. Per il bambino stupito di «io non speravo che me la cavavo». Non sempre il tempo ripara gli strappi, ma di sicuro aggiunge strati, epidermidi. Fossilizza segni, forgia nuove sagome di sensibilità e inventa linguaggi al passo con l’attualità del sentire. Dà forza, cazzo. E la poesia di Fernando ha la forza dell’Etna dalla pancia di fuoco e magma. Dalle guance irrigate di vapore acqueo che scalda.

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FERNANDO LENA, I quaderni dell’Ussero, da «La quiete dei respiri fondati» , Puntoacapo editrice, 2014. A cura di Valeria Serofilli

« …
se solo si potesse
prenotare un angolo di paradiso
lui lo meriterebbe…
– ho solo imparato a convivere – dice –
con l’urlo degli altri… tacendo
quando vengo stuprato dalla loro demenza –
Ciro è un paranoico e basta…
È l’unico che respira oltre le mura
guardando negli occhi
la paura della gente inquieta
almeno quanto un sognatore
affamato di colori.»

Fernando LenaLA QUIETE DEI RESPIRI FONDATI, I quaderni dell’Ussero, 2014

I

siete il nulla

sotto il sole apatico

di questa trincea.

Chiusi come bestie

ogni giorno

ascoltate i passi

per capire dov’è

l’inizio dell’abisso.

a volte e’una certezza

essere domati dalla follia

o solo un incubo

che vi abbraccia

con camicie interdette

stritolandovi di silenzio.

III

Intina da almeno cinquant’anni

vive intrappolata

nella coscienza di una bambina.

Tutto il giorno

vaga tra i padiglioni

abbracciando una bambola

come se fosse l’unica erede

della sua estraneità…

la domenica pranza con noi

esile come una creatura innocente

si ciba  d’incanto…

parola dopo parola

diventa sempre più libera

di  abitare il suo poema apatico

ma pieno di bambole e silenzi

che pettinano l’ira impavida

dei suoi coinquilini…

la sua follia ha una logica

che la proietta nella libertà:

ha scelto di non essere donna

per contenere l’odore infernale

                                           degli uomini.

VIII

La  chiesetta accenna

un do di campane

però non è domenica

quindi è solo

un altro funerale…

qui si muore e si vive

con un tempo indifferente

solo qualche lacrima

per  un improvviso

mutamento cosmico

arriva dal cielo…

Passano una mano sull’oblio

i pochi amici rimasti

finalmente è libero

il demone… libero

di giocare con l’immenso

e di scegliere

una camicia più comoda

un po’ più alata

come quella di un angelo.

X

Cercano di fermare l’oblio

ma non è semplice:

ieri un altro suicidio

si è aggiunto

nel libro dell’inferno…

Peppino ha ingoiato un bullone

affermando la sua vocazione

di   cadavere incatenato

tra lo spirito e l’impulso

di un cannibale…

era la spalla di Don Celeste

tutte le domeniche

serviva messa

con  lo sguardo di chi

attende da sempre un miracolo…

Teatralmente era perfetto:

come un angelo del caos

adombrava d’imprevedibilità

                                             ogni eucarestia.

XII

Nessuno pensa che Cecilia

possa davvero innamorarsi

di un ex tossico come me…

Dal buio irrompe

con una vestaglia bianca

per cercare un secondo

del mio respiro… forse

le basta per non soffocare

nel suo solito

pensiero di suicida.

Una come lei

se ha una certezza

e’ quella di essere primordiale

come una Eva bandita dal paradiso

                                                  per aver tradito.

Inseguire a tutti i costi

l’amore immorale

è stata una caccia al dolore.

Nessuno pensa

che con la sua bellezza

possa ancora ammansire

le belve dell’inquietudine

mentre il suo  sguardo

cerca nel mio

la complicità di una favola.

XVI

Fedele tutte  le mattine

un topo si gode

la sua boccata d’aria

poi sparisce verso

la puzza dei sogni

-io posso osservarlo

ma non osservare me

nella fatica che metto

durante il via vai

tra la libertà

e l’abisso…

amo questa morte

millimetrata

perche’ non disperde

il gelo dei carnefici –

XXI

Paolino arriva eccitato

indossa la solita tuta

di due taglie in meno.

Gioca da portiere,

ama il calcio in modo struggente…

Ogni tanto in infermeria

gli lasciano vedere qualche partita

non appena il suo Diego

(Armando Maradona)

aleggia sul prato

come un danzatore

lui inizia a lacrimare.

Vederlo contrastare

la sfera di cuoio

traccia un sorriso

sull’apatia dei farmaci

che lo vorrebbero immobile

davanti a una morte

                                che lo stuzzica…

Sorprende lo slancio che mette

nel chiedere alla felicità

quello che gli altri

calpestano da sempre:

un po’ d’erba,qualche palo

uno sguardo che delimita

90 minuti di libertà

XXII

quasi per gioco  il vuoto

ha prosciugato la vena.

Una cintura, il sangue strozzato,

il buio nel mistero delle  pupille

niente di più urgente abbiamo chiesto;

volevamo il mondo

iniettandolo nella discarica della

                                                     coscienza

grammo dopo grammo poi la morte

si e’ rivelata una cifra

di respiri spacciati.

XXIX

stanotte rivedo le tue mani

che inconsapevolmente

mi porgono un po’ di morte

– il tuo denaro

e’ solo per arginare

il caos dei miei globuli

almeno così credi

mentre l’adolescenza

accede nell’aria

come un volo di farfalle

                                predestinate-

Forse ho solo amato

il ciclo terminale  di un miraggio.

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Fernando Lena (1969) è nato a Comiso (Sicilia) dove attualmente vive e lavora. Si è diplomato all’istituto statale d’arte e per anni ha  fatto il creatore di gioielli presso Valenza Po’ (Alessandria). Il suo primo libro risale al 1996 dal titolo “E vola via” edito da Libro Italiano poi dopo alcuni anni di silenzio ha pubblicato prima una breve silloge ispirata a otto tele del pittore Piero Guccione (archilibri edizione) e poi un  libro più corposo dal titolo “Nel Rigore Di Una Memoria Infetta” sempre edito dalla Archilibri di Comiso. Costellato ancora da periodi di silenzio dopo esattamente 10 anni ha pubblicato l’ultimo libro un poemetto edito nella collana i Quaderni Dell’Ussero (Puntoacapo editrice ,anno 2014)dal titolo “la Quiete Dei Respiri Fondati”. Le sue poesie sono presenti in diversi blog, è stato anche finalista in premi come:Tivoli Europa Giovani,Vola Alta La  Parola (premio Luzi), Astrolabio,Torre Dell’Orologio ecc. Frequenta spesso reading sforzandosi di portare i versi dove l’indifferenza poetica  urla a gran voce.

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Lapidarium , di Flaminia Cruciani

Postato il Aggiornato il

LETTI SULLA LUNA (5)

Lapidarium di Flaminia Cruciani

vademecum” della rubrica Letti sulla luna:
L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.
Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo.Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.
Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.

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Lapidarium di Flaminia Cruciani

nota di IM

“A volte le parole suonano vuote come monete false”: è questa una delle pietre scagliate da Flaminia Cruciani dalle pagine di questo suo libro. E non c’è contraddizione, non c’è incoerenza: le parole qui sono sincere. Scomode non per il gusto di farsi vedere, ma per la necessità di essere davvero quello che si è. Il volume è fatto di frasi brevi, fulminee, folgoranti. Anche questo mio commento si adeguerà, sia perché lo richiede la tipologia delle segnalazioni proposte in questa rubrica, sia perché preferisco lasciare spazio e voce alle parole della Cruciani, la cui forza e originalità emergono in modo immediato e spontaneo, senza necessità di sottolineature o indicazioni specifiche.
L’autrice spazia dalla dimensione personale a quella sociale, o meglio, a quella in cui l’individuo è parte di un sistema più ampio, non di rado strangolante e disumanizzante. Allora, senza isterie, senza roboanti quanto vani proclami, la poetessa si china, ma non piegarsi o inginocchiarsi, per raccogliere, piuttosto, quello che la terra offre in abbondanza, le pietre. Materiale con cui costruire ma anche armi estreme di difesa. Le scaglia, senza foga,  potremmo dire senza scomporsi, restando elegantemente infuriata, divertita e dissacrante, adirata ma tranquilla, come chiunque sa di non avere niente da perdere, se non se stessa, la propria vera natura. Quella che, comunque, niente e nessuno potrà mai rubarle.
Quindi ogni lancio è ben ponderato e calibrato, la balistica è perfetta; è quella di una ragione che non pretende di avere ragione, di una follia conscia e contenta del suo sussistere e resistere dall’altra parte della barricata.
La sola solidarietà quindi è “Con quelli che si sentono sbagliati” e il desiderio è di “stare, bere, mangiare con loro”. La condivisione dell’umanità profonda, naturale, prima di tutte le sovrastrutture assurdamente imposte.
Lapidarium è un libro profondo che esalta la semplicità.
Un libro semplice di rara complessità. Non una sola frase è banale o lascia indifferenti.
Si può essere d’accordo o meno, si può reagire in modo empatico oppure trovarlo estraneo ed eccentrico, magari. Ma è quasi impossibile che lasci indifferente. La genuinità espressiva si unisce ad un’accuratezza nello scavo, nell’indagine che risulta vagliata da un occhio libero e acuto, disposto al gioco più impegnativo e rischioso: quello di mettersi in gioco, di gettare sul tavolo sporco della vita il proprio autentico sé, quello che si è davvero, ciò che si vuole e non si vuole, si ama e si odia.
Flaminia Cruciani fa tutto ciò con naturalezza profonda in questo libro atipico che ha già ricevuto ottime recensioni e segnalazioni su vari organi di stampa, oltre che sul web.
Io, parlandone qui ed ora, posso esprimere la mia personale empatia, il gusto di scoprire dietro ogni pietra un motivo per riflettere, per sorridere di questa imperfezione che è descritta senza pontificare, senza chiamarsi fuori; dicendo però, passo dopo passo, pagina dopo pagina, io sono qui e voi là. Vi ascolto ma non cambio, non mi lascio mutare dalla corrente imperante.  Perché “Se ci mettiamo in ascolto l’invisibile ha molte cose da dirci.” “Come si può pensare di ingannare il fuoco puro?”.
Aggiungo solo, questo sì, che la lettura è consigliata. 
Lapidarium è un libro in cui ogni parola va schivata per poi lasciarsi colpire in pieno, in un dolore condiviso e nel riso di chi sopravvive, a dispetto di tutto, senza lasciarsi mutare. Condividendo lo stesso vento e la stessa materia, la libertà, la forza, il coraggio della schiettezza.
IM
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estratti da Lapidarium, puntoacapo editrice, 2015
La semplicità è difficile.
*
Con quelli che si sentono sbagliati voglio stare,
bere, mangiare con loro.
*
L’invisibile non va in vacanza.
*
I moralisti non sanno che il giudicare è il
pharmakon con cui curano la loro frustrazione.
*
Quelli che stanno male tutta la vita, tenendo in
scacco matto i congiunti, e non muoiono mai.
*
Procedo dritta alla vigna nel mio versetto di
fuoco.
*
Le parole curano, sono miracolose, creano.
*
L’amore e l’odio vivono dello stesso sguardo,
quando l’angelo custode si volge
precipita il demone.
*
Essere rapiti dai propri sogni.
*
Meglio un delirio d’onnipotenza che d’impotenza.
*
I rapporti di sangue sono un’aggravante.
*
Chi è capace di tutto pretende di convincere
con le stesse parole con le quali ha ingannato.
*
Amo il pensiero funambolico e spericolato.
*
Stanotte, fra un incubo e l’altro, ho sognato che
mangiavo un piatto che si chiamava avverbi di
mare…?!
*
Lasciami far parte delle disubbidienze, delle
cose fatte per voglia fuori dai cordami, delle
amate trasgressioni. Attesa, come una stella
cadente.
*
Dietro a una santa ostentazione si nasconde
sempre una donna del campo.
*
Le idee dentro di noi diventano marmo quando
la possibilità si posa.
*
Prendere una direzione significa guardare un
punto immaginario in cui non arrivare mai.
*
Fuori da chiese e da templi, lontano da dogmi e
da comandamenti ci sono cuori innamorati di
Dio.
*
Oggi esercizi d’invisibilità.
*
Contro la stupidità non ci sono né armi né
farmaci.
*
Brucio sospesa fra terra e cielo, la mia radice è
la cenere.
*
Non ho vuoti di memoria su chi ha provato a
pulirsi i piedi sulla mia vita.
*
Potremmo anche smetterla di fare i doppiatori
di noi stessi. Che ne dite?
*
La ragione è il baluardo di chi viaggia a poppa
della vita.
*
Se ci mettiamo in ascolto l’invisibile ha molte
cose da dirci.
*
Come si può pensare di ingannare il fuoco
puro?
*
L’enfasi è l’apparato di note a margine di un
testo inesistente.
*
Mi dice “ho sbagliato”: no, tu sei sbagliato!
*
Il tempo dell’attesa non è un tempo dignitoso.
*
Quando lo Shaykh di Tell Mardikh,
preoccupato che a trent’anni non fossi ancora
sposata, mi chiedeva “Flaminia, quando ti
sposi?”, rispondevo “la fretta viene dal
diavolo!”
*
Il destino è la scusa di chi vuole mettersi in
pantofole in poltrona.
*

La gentilezza è una sentenza di vita.
*
La volontà esteticamente fondata spalanca il
cielo.
*
Ogni potere deve essere legittimato.

L’ignoranza è il funerale dell’anima.
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recensione di Pierangela Rossi
<Amo il pensiero funambolico e spericolato>; <Contro la stupidità non ci sono né armi né farmaci>; <Brucio sospesa tra terra e cielo, la mia radice è la cenere>; <Se ci mettiamo in ascolto l’invisibile ha molte cose da dirci>.; <L’enfasi è l’apparato di note a margine di un testo inesistente>; <A volte le parole suonano vuote come monete false>; <E’ più facile cullare un drago che incontrare persone gentili>; <La realtà è un irrequieto susseguirsi di avvenimenti intermittenti>; <Ci sono fili che legano le ali dismesse>. <La poesia è una formula magica>;
<Anghelos è giunto / le ali ritagliano il profilo di Dio / porta una notizia / annunzia che il vento ha girato>; <Tuona di corallo il tuo sguardo>; <Oggi sono stata al mercato delle nuvole>; <La vita ricomincia da capo in ogni istante>; <Nello studio dove lavoro il mio capo è Dio>; <La voce è il numero civico dell’anima>.
Sono solo alcuni dei numerosi fulminanti aforismi o sintesi di poesia di <Lapidarium> (con la prefazione di Tomaso Kemeny) agile ma prezioso libro <lapidario> che la giovane poetessa Flaminia Cruciani (romana, lunghi studi archeologici e iconografici complicatissimi alle spalle) ha incuneato tra la poesia orfica di <Sorso di notte potabile> (LietoColle, 2008) e l’imminente <Semiotica del male>, in uscita da Campanotto. Esponente del movimento mitomodernista, è tra le ideatrici del Grand Tour Poetico e della Freccia della Poesia. E quel che scrive, pratica: è persona gentilissima.
Ci dice Flaminia Cruciani: <Lapidarium nasce come una risposta alla banalizzazione del pensiero omologato, al torpore della nostra società anestetizzata dalla tecnologia e dalla televisione, in questo eccesso di delega alla tecnica che ha modificato anche la nostra possibilità dell’esperienza estetica. È una denuncia su un mondo che ha dimenticato l’uomo, dove l’uomo si colloca sullo sfondo. Dove i valori non negoziabili sono stati negoziati. la dignità umana è stata disgiunta dall’idea di valore, di legge universale. Si scaglia contro le scelte abusive e dissennate delle grandi potenze che hanno sostituito il fine dell’uomo e della sua dignità con il denaro e la logica economico-strumentale. In cui il denaro da mezzo è diventato fine, e l’uomo da fine è diventato mezzo>.
Tra poco, con l’uscita di <Semiotica del male>, affronterà i demoni del nostro tempo, anche in poesia: chiosa Kemeny nella prefazione: <Flaminia Cruciani respinge con ira ed eroismo il richiamo del tripudio eudemonico, pare chiaro come il soggetto metamorfico della scrittura preferisca morire piuttosto che vivere come un comune mortale>.
Speriamo che Flaminia, come del resto accade in molti punti di <Lapidarium>, conservi, nella sua complessa ricerca poetica, quell’ equilibrio che umanamente sembra evidente lei possegga, negli strati più alla luce e anche più profondi del suo sentire. Equilibrio, lei sottolinea, funambolico in un mondo malato.
Flaminia Cruciani
Lapidarium
Pagine 52. Euro 10
Puntoacapo editore

 

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recensione di Gianluca Conte
pubblicata su http://glucaconte.blogspot.it/2016/03/lapidarium-di-flaminia-cruciani.html
«La realtà è un’allucinazione condivisa» (p.7). Potrebbe bastare questo fulminante incipit, questa brevissima e temibile isagoge, per costruire un intero edificio filosofico-letterario su Lapidarium di Flaminia Cruciani, puntoacapo Editrice, 2015. Sospeso tra lo status dell’aforisma e quello della prosa poetica, il libello della Cruciani affonda stilettate di sana e corrosiva ironia nel ventre molle dell’uomo d’oggi, coadiuvato da un’attenta analisi/sintesi di questa nostra contingente condizione antropica, pregna di un fiacco, invertebrato individualismo sociale. Se per un pensatore imprescindibile come Schopenhauer il mondo non era nient’altro che una rappresentazione e il noumeno kantiano, la “cosa in sé”, diventava l’inconsapevole, eterna, unica e cieca volontà di vivere, avvolgendo di un pessimismo pressoché irriducibile l’umana stirpe in saecula saeculorum, l’“allucinazione condivisa” della Cruciani cerca di squarciare la grande illusione, l’infinito, sterminato velo di Maya rappresentato dal nostro sonno della ragione. Le parole-rasoi cruciane sembrano indicare un sentiero di liberazione dalle convenzioni, dai convincimenti comuni e allineati, infine dal non-pensiero post industriale e post boom economico, che ci vorrebbe omologati, seriali: «Con quelli che si sentono sbagliati voglio stare, bere, mangiare con loro» (p.9). Così, se le vie della salvezza schopenhaueriane erano l’arte, la morale e l’ascesi, l’autrice sembra suggerire una via forse più facile da individuare ma molto difficile da percorrere, quella del risveglio, soprattutto in senso intellettuale: «Lasciami far parte delle disubbidienze, delle cose fatte per voglia fuori dai cordami, delle amate trasgressioni. Attesa, come una stella cadente» (p.13). Ed è proprio in quelle “cose fatte per voglia fuori dai cordami” che ha sede, a nostro avviso, l’issue del frangente temporale odierno, in cui la stragrande maggioranza dei pensieri e delle azioni è eterodiretta o quantomeno condizionata. Già Marcuse, molti anni orsono, metteva in guardia dai bisogni indotti e ingannatori, creati a tavolino al solo scopo di schiavizzare l’uomo, di renderlo succube di quel superfluo che per Pasolini rendeva superflua la vita. Prima di loro Marx aveva individuato, sulla scia di Feuerbach, il processo di alienazione – l’estraniarsi della coscienza e dell’uomo da sé – e la dipendenza dell’individuo da quell’aura di misticismo che circondava gli oggetti, i prodotti (feticismo delle merci): cose che l’uomo pur producendo febbrilmente, in realtà non possedeva. Il medium cruciano, lo psicopompo che funge da soggetto/oggetto di una trasmigrazione dalla reificazione dell’umano alla Poesia, dal torpore al risveglio, è la parola, entità generante, donatrice di vita e, per certi versi, preziosa panacea: «Le parole curano, sono miracolose, creano» (p. 10). Ma in un mondo doppio, equivoco, dove lo spettro dell’apparenza è sempre in agguato, anche le parole possono rivelarsi bugiarde «A volte le parole suonano vuote come monete false» (p. 20). È questo il contrasto dell’ambivalenza insito in ogni essere, in ogni organismo, anche nella più elementare particella dell’universo. Tuttavia, nonostante la causticità e le bordate impietose indirizzate ai tanti buffoni di corte, l’autrice non declina il suo sentire nella mera invettiva ma, stigmatizzando l’unidimensionalità dell’individuo, sembra teorizzare una nuova Philía, riservata ai soggetti che si riconoscono nella differenza, nella lateralità: «Prendere una direzione significa guardare un punto immaginario in cui non arrivare mai» (p. 14); «Se ci mettiamo in ascolto l’invisibile ha molte cose da dirci» (p. 17) e ancora: «La vita ricomincia da capo in ogni istante» (p. 43). Le parole della Cruciani, dense di suggestioni psico-foniche, appaionoverba dai richiami rizomatici, che a tratti ci ricordano il tentativo di rovesciamento dell’espressione dicotomica universale dell’“Io-Altro” deleuziano, compongono uno zodiaco di segni topici, di parole solide: làpis è, ad un tempo, pietra e matrice del segno e, in quanto tale, dinamicamente dura. Lapidarium è un vortice poetico, una spirale di “stelle danzanti” che sembra opporsi a tutto ciò che Nietzsche apostrofava come décadent, come l’immobilismo e il fatalismo dell’uomo contemporaneo: «Le cose accadono se noi le strappiamo al destino» (p. 48).

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Flaminia Cruciani – note biografiche
Romana, si ė laureata in Archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico, presso Sapienza Università di Roma sotto la guida del Prof. Matthiae. Ha poi conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Archeologia Orientale nella stessa università per poi perfezionare i suoi studi con un Master di II livello in “Architettura per l’Archeologia – Archeologia per l’Architettura” per la valorizzazione del patrimonio culturale. Per lunghi anni ha partecipato alle annuali campagne di scavo in Siria, in qualità di membro della “Missione archeologica italiana a Ebla”. Ha poi conseguito una seconda laurea in “Storia dell’arte”. Ha tenuto annualmente corsi nella cattedra di “Assiriologia”, presso Sapienza Università di Roma, sul rapporto fra l’iconografia e i testi nella tradizione mesopotamica. Si è specializzata inoltre in Discipline Analogiche, attraverso lo studio dell’Ipnosi Dinamica, della Comunicazione Analogica non Verbale e della Filosofia Analogica, conseguendo il titolo di Analogista, pratica una professione di aiuto per la lettura e la decodifica delle dinamiche emozionali profonde. Ha inoltre inventato il “Noli me tangere®”, uno strumento fondato sul potere evocativo delle immagini in grado di favorire il processo di individuazione della persona. Nel 2008 ha pubblicato Sorso di Notte Potabile, ed. LietoColle. Del 2008 è Dentro, ed. Pulcinoelefante. Nel 2013 ha pubblicato Frammenti, ed. Pulcinoelefante e nel 2015 Lapidarium, ed. Puntoacapo, con la prefazione di Tomaso Kemeny. Semiotica del male è uscito nel 2016, ed. Campanotto. Suoi testi letterari sono presenti in numerose antologie italiane e straniere. Ricordiamo la recente 42 voci per la pace ed. Nomos.
Suoi testi poetici sono stati tradotti in inglese, coreano, rumeno e spagnolo. È stata selezionata fra i giovani poeti italiani contemporanei per il Bombardeo de Poemas sobre Milán, opera del collettivo cileno Casagrande. È tra i fondatori e gli ideatori del Grand Tour Poetico e della Freccia della Poesia.

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DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE

Postato il

LETTI SULLA LUNA (4)

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Il quarto libro segnalato è Dalla canicola al blu, di Lorenzo Falletti. Si tratta di racconti, un genere che consente una gamma molto ampia di variazioni sul tema, voli panoramici  e scavi psicologici. Schizzo e dipinto dettagliato, abbozzo e disegno accuratissimo. Ho apprezzato i racconti di Falletti, come ho scritto anche nella prefazione di cui pubblico uno stralcio. Assieme al parere di una scrittrice-lettrice, Viviana Albanese, che ha voluto e saputo manifestare con sincera schiettezza e nitida partecipazione le sue impressioni e le sue emozioni.

Anche in questo caso, per chi sarà incuriosito, buona lettura; che, è, alla fine, quello che conta.

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vademecum” della rubrica Letti sulla luna:

L’intento è quello di incuriosire, e magari anche di spingere a compiere il passo ulteriore, piccolo ma significativo: approfondire, leggere altre cose, dire “sì mi piace”, oppure dire “Mugnaini non capisce niente, ha gusti da troglodita”.

Va bene tutto. Purché si metta in moto il meccanismo.Proporrò alcuni testi e qualche nota, nel senso musicale del termine, qualche breve accordo che possa dare un’impressione, un’atmosfera.

Se poi qualcuno, qualche essere semi-mitologico, volesse compiere anche il passo da gigante (quello alla Polifemo, o alla Armstrong sulla Luna, vera o presunta che sia) di acquistare una copia di uno dei suddetti libri… beh… allora il trionfo sarebbe assoluto e partirebbe la Marcia dell’Aida.

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Lorenzo Falletti, DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE, puntoacapo Editrice, Pasturana 2016, pp. 100, € 12,00

Un estratto dalla prefazione

Una verve comunicativa generosa e barocca quella dei racconti di Lorenzo Falletti. Uno specchio della sicilianità delle sue origini, fatta di sole, leggende, verità, iperboli sospese tra ponti concreti e immaginari, grandezza e sofferenza. A lato di tutto, in posizione pigramente attiva, tra coinvolgimento e atavico distacco, lo sguardo osserva la vita che suda, sbraita, si agita, corteggia e si fa corteggiare, irride e si rende ridicola, una goccia di sudore che scalda e placa al contempo: l’ironia. E una forma agra di indagine sull’esistere che un siciliano di Girgenti, tra drammi e farse, a suo tempo teorizzò e mise in pratica: il sentimento del contrario.

L’umorismo, anche nei racconti di Falletti, è ancora di salvezza, rifugio e schermo contro i colpi e gli spari della verità, quel sangue troppo caldo e troppo vivo. Falletti erige una barriera protetta da un cancello di ferro, ma di un ferro particolare, robusto ma mai pesante, mai ingombrante e goffamente massiccio. La danza barocca della parola è fatta di volute rotonde e lente, ghirigori e arzigogoli: un’esuberanza di aggettivi posti ovunque, sparsi come semi in un campo, rosseggianti e maturi come fichi d’india. Ma la crescita non è mai caotica nelle narrazioni di questo libro. C’è, accanto e dentro al rigoglio espressivo, un altrettanto saldo controllo, un rigore geometrico che impedisce di strafare e “stradire”.

Ciò è reso possibile dall’altra inclinazione naturale dell’autore, quella che poi è sfociata nella sua occupazione professionale, la recitazione. Nell’arte teatrale, lo sappiamo, tutto è tempo e il tempo è tutto. La misura quindi, anche qui, nelle storie registrate nella memoria e raccontate con gusto, contrasta e regola la sovrabbondanza senza togliere nulla della freschezza e della follia, del profumo e dell’eco della vita vissuta. È come se Falletti si facesse regista di se stesso e dei suoi personaggi, delle vicende che mette in scena sulla pagina.

Il risultato di questo connubio è un insieme godibile e originale di affabulazione e sostanza. Le trame sono sempre ben ritmate, mai lente o apatiche. Ma non c’è spazio neppure per una frenesia approssimativa e affastellata. Le descrizioni sono ricche di dettagli e di colore ma mai meramente estetizzanti o poste lì per puro sfoggio.

Il suo bagaglio magicamente s’aprì rovesciando una notevole quantità di piccoli oggetti: stelline, cilindri in metallo, palline, molle, marionette, tremule uova fritte in lattice, fazzoletti colorati ed altri aggeggi non catalogabili con nomi cristiani. Lo scroscio della pioggia di faville catturò l’attenzione di una bambina. Nei suoi occhi si specchiò la saettante follia dei balocchi.”

In questo esempio tratto dal racconto d’apertura, “Dalla canicola al blu”, si coglie in modo immediato la generosità espressiva a cui si è fatto cenno, quasi una volontà di dare al lettore non solo più dettagli possibili ma anche suggestioni, coordinate sensuali, odori, colori, sfumature visive, ed anche mentali. Come un pittore che aggiunge pennellata su pennellata, strato su strato, per giungere a rendere quasi tangibile quella “saettante follia dei balocchi”.

C’è anche un tocco di poesia, nelle trame di questo libro. Potrebbe sembrare fuori luogo, o apparire ridondante o puramente esornativa, se, a ben vedere, non fosse essa stessa sostanza, materia, o complemento mentale di quei riferimenti oggettivi, ed oggettuali, di cui le storie narrate abbondano.

Ivano Mugnaini

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Lorenzo Falletti, DALLA CANICOLA AL BLU E ALTRE STORIE

Io non sono una lettrice di racconti, la narrazione breve non è la mia misura, soffro quando capisco che c’è del non detto e che quel non detto avrebbe potuto essere funzionale alla storia, magari donandole un po’ di forza in più, rendendola più completa. Questa mia convinzione è stata smentita dal primo racconto di questa raccolta Dalla canicola al blu, che dà anche il titolo al volume.  Si tratta di un racconto abbastanza lungo e questo può sicuramente avermelo fatto apprezzare di più, ma ho trovato tra le righe una storia così potente e dei personaggi così profondi da farmeli amare e comprendere come quando si viene rapiti da un buon romanzo. Il protagonista Vincenzo Cassarisi è intenso, appassionato e pieno di contraddizioni e queste caratteristiche lo scrittore le fa assaporare tutte al lettore: la vita sregolata, fino alla fine, e la voglia di normalità, il tentativo di formare una famiglia a costo di falsificarne le fondamenta, il bisogno del pubblico e del successo ma anche la necessità di tornare a casa dalla madre, da quell’unica certezza che aveva dovuto abbandonare anni prima. Non mi sarei aspettata tanto; da un racconto e da un autore la cui professione è l’attore teatrale mi aspettavo più descrizione scenica, più gesti accentuati, plateali e invece ho trovato una profonda analisi dei personaggi ed emozioni palpabili che arrivano dritte al lettore. 

Anche gli altri racconti sono intensi; qualcuno mi ha toccato più di altri, nonostante i temi trattati siano fondamentalmente gli stessi: diversità innanzitutto, fisica e mentale (Liberi dagli stracci e  Solo per i bimbi) ma anche sociale  (Il principe Walter) e la necessità di integrazione spesso negata a questi personaggi, una frustrazione che sfoga spesso in violenza indirizzata solitamente verso la direzione sbagliata, come succede in Cari vecchi jeans.

Ogni racconto potrebbe appartenere a un genere diverso, nonostante quel comune denominatore che è la diversità, ma uno su tutti mi ha colpito più degli altri ed è Il principe Walter. Qui l’autore infatti sorprende più volte il lettore, e non solo per ciò che accade, per la sequenza degli eventi, ma perché disorienta, trascina nella mente del narratore e ad ogni pagina ci si chiede chi sta narrando veramente e se chi sta narrando la storia è cosciente di quel che accade, se la dimensione è quella della realtà o quella onirica e, alla fine, si rimane con l’amaro in bocca e uno strano senso di circolarità degli eventi, della vita.

È un libro che consiglierei e a cui non riuscirei ad assegnare un genere. A mio parere in pochi racconti c’è tanta varietà da poter appassionare ogni tipo di lettore e tanta maestria da parte dell’autore nel raccontare storie e personaggi diversi tra loro, donando a volte speranza ma spesso solo un senso di predestinazione. 

Viviana Albanese

falletti-lettura

Qui di seguito la parte iniziale del racconto che dà il titolo al libro:

DALLA CANICOLA AL BLU

Aprì la porta sporgendo cautamente il capo all’interno.

Si trovò faccia a faccia con un silenzio irreale. Non era successo niente. Bene. Non era venuto nessuno. Bene. Entrò cercando di non far rumore.

– Mamma… mamma… dove sei?

Prima piano con un soffio di voce poi, prendendo coraggio, sempre più forte.

– Mamma… ci sei? – Entrò in cucina a passo felpato. Era lì sua madre, seduta,  assente, gli occhi infissi come chiodi sul muro bianco.

– Mamma, perché non rispondevi? –

Lei tacque imperturbabile. Aveva qualcosa di strano, di diverso dal solito in sè che per un attimo lo fece trasalire ma che non riuscì a cogliere.     

-Allora…? Sono venuti?- Lei tacque ancora.

– Non sono venuti. – aggiunse lui ed esitò un attimo.

Ancora silenzio. Infine, la provocò: 

-Insomma vorrei sapere cosa c’entri tu! Che se la prendano con me. E’ con me che devono veders…- 

– Gli devi settanta milioni non è vero? Dimmelo. –

 La voce atona di  sua madre gli strappò il fiato, cadde di peso a sedere. Un colpo a tradimento. Silenzio. Greve di vergogna, di imbarazzo. Le carni che bruciano. E durò, durò a lungo quel silenzio, un tempo infinito. Poi lei riprese a parlare, gli occhi perduti nel vortice profondo di un ricordo.

-E’un maschio Maddalena! Vedrai, sarà la nostra consolazione -.

Era di lui che parlava sua madre.

Vincenzo Cassarisi, professione Mago-comico-illusionista. Età, venticinque anni. Stato civile, nessun vincolo, neppure con l’aria. Sempre in fuga da tutto e da tutti. Personaggio  brillante,  ma  spesso in preda a uno stato nevrotico che ne vestiva l’esistenza. In quell’attimo, di fronte a lei, si sentì come trafitto dagli spilli alla schiena, ai piedi, dappertutto. S’alzò di scatto con le mani percorse da un tremito e  raggiunse il soggiorno. Lei doveva averlo visto così un milione di volte ma probabilmente aveva smesso d’esserne emotivamente coinvolta solo alla millesima, una madre è sempre una madre.

Vincenzo aprì il portafogli. Scontrini, appunti, biglietti del bus, come grossi coriandoli planarono sul pavimento. Incollò le dita su una banconota nuova di zecca arrotolandola. Poi, svuotando un piccolo involucro di cellofan, formò sul comodino una striscia di polverina bianchissima. Applicò la banconota  alla narice ed aspirò velocemente. Qualche secondo e si accorse che la stanza era a soqquadro. Con uno scatto si precipitò  in cucina.

-Sono venuti allora! Mamma perché non mi hai detto che… –

Ma di nuovo si interruppe giungendo alle spalle di lei. Posò lo sguardo, per la prima volta, sui suoi capelli estirpati  come  gramigna. In un secondo immaginò la scena. Fluirono nella memoria presenze sinistre. Quando era accaduto? Un’ora? Due ore prima? Forse meno. Rabbrividì. Una contrazione  allo stomaco lo aggredì deformandone i tratti del viso. A piccoli passi si pose di fronte a sua madre. Le si accovacciò accanto. Ne abbracciò  le ginocchia scarne, muto.

 – Vincenzo,Vincenzo…- un filo di voce, lucido e vibrante come quello di una ragnatela. Restarono così, secondi, forse minuti, di nuovo. Ma non c’era niente di nuovo in questo. Da giorni, da mesi, da anni. Vincenzo si alzò.

– Mamma, i tuoi capelli…-

– Che vuoi che mi importi dei capelli –

 Nuovo  lungo silenzio. Poi lei riprese.

– Dove vai  stasera? –

Vincenzo rispondendo ad un irrefrenabile istinto istrionico, assunse un piglio  professionale e malgrado la desolazione della casa per aria accennò ad una piroetta. Poi, con voce  brillante, diede inizio al numero. 

-Signori e signore, tra poco, su questo esclusivo palcoscenico, il grande Cassarisi mago-comico-illusionista, eseguirà per voi uno dei suoi spettacolari numeri. Nessun altro al mondo saprà infondervi la stessa suspance e lo stesso brivido! – S’avvicinò alla madre e sfiorandola con mano lieve fece apparire due coltelli tra le pieghe dei suoi abiti.

-Signore… ma cos’ha qui? Un armamentario! Siamo forse in presenza di un novello Jack lo Squartatore? Due coltelli? E questo cos’è? Un trancia polli? Ma che se ne farà mai di un trancia polli? –

Poi rivolto al  pubblico immaginario con teatrale “a parte”:

 – Ah, ho capito, con tutti i polli che ci sono in giro un borseggiatore che si rispetti deve circolare attrezzato. Bravo!

Lei lo osservava con  un sorriso amaro sulle labbra. Era rimasto l’adolescente di sempre. A saper leggere scovavi ancora, nell’adulto, i tratti infantili, come  sbavature di colore lasciate sulla tela da un pittore alle prime armi. Ripensò  alla faccia seria con cui da ragazzino fregava tutti giocando coi tappi delle birre. Gli guardava le mani, abili come sempre. Quante volte aveva richiuso la porta alle spalle di lui che arrivava rincorso dai compagni inferociti, mentre qualche tappo ancora gli scappava dalle tasche rigonfie dei calzoni corti. 

Con le scarpe pericolosamente slacciate e le labbra increspate da un sorriso, correva Vincenzo, all’impazzata, sul ventre tremulo di quell’afa pomeridiana che sorgeva dalla terra sfocando la campagna, laggiù, in fondo alla stradina polverosa. Lei se lo stringeva al petto, forte, con complicità. Che altro poteva fare davanti a quel sorriso? Quei  denti bianchi come mandorle sgusciate finivano sempre per abbindolarla. Si sentiva ancora addosso il  suo umore selvatico di furetto.

Non aveva mai voluto smettere di giocare Vincenzo ma non si aspettava che quelli se la prendessero con lei.

 

– Adesso, gentile pubblico, avrei bisogno di qualcuno uscito di fresco dall’ospedale. No, non lei… ho detto dall’ospedale non dalla galera. No, lei no… lei neppure… oh, santo Iddio!

Fu la voce di sua madre a distoglierlo dalla  performance.

-Vincenzo, smetti per favore! – Vincenzo s’arrestò di colpo.

– Devi andartene. Lo hanno detto quelli.

Quelli” ebbe l’effetto del vischio sulla pelle, una sensazione di caldo paralizzante. Solo dopo qualche secondo  gli bastò l’animo per trascinare lentamente una sedia. Le sedette accanto. Poggiò il viso su ciò che restava dei suoi capelli. Lei socchiuse gli occhi. Con la mano diafana carezzò la sua pelle di bambino. Ne avvertì il profumo e non avrebbe voluto.

Fu il suono della voce di Vincenzo, questa volta, a giungere come rimedio ad un salto nel vuoto.

– Ce ne andremo insieme mamma .-

– No – Rispose lei decisa.

-Ma non posso lasciarti in balia di quella gente! Rifletti: oggi hanno fatto questo ma domani? –

-Non ci sarà nessun domani se dovessero tornare e trovarti in casa.

Devi sparire… solo così  mi lasceranno in pace. Questo hanno detto. E’ una grazia, Vincenzo, l’ultima… per me e per te.-

Ancora una lunga pausa.

– Ma dove vuoi che vada mamma…? –

– Dovunque, purché tu vada, poi si vedrà. –

 

Lui non disse una parola di più. Attraversò lentamente il soggiorno e giunse in camera sua. Preparò il bagaglio. Solo una valigia, neppure troppo grande.

Il mago Cassarisi aveva ben poco da portare con sé. Un bagaglio fatto di giochi, di trucchi più che di indumenti. Importava assai a Vincenzo di coprirsi; il freddo era dentro. Un freddo che solo la risata del pubblico riusciva a dissolvere. A fine spettacolo puntava lo sguardo sulla gente, sulle sciarpe colorate, su trecce, cappelli, sul goffo barcollare dei bambini assonnati imbacuccati nei cappotti. Al diradarsi di quell’ordinaria umanità scompariva dietro le quinte. Gettava alla rinfusa nella valigia i ferri del mestiere per raggiungere col  tremito in corpo il primo anfratto che gli capitasse a tiro per incontrare la sua compagna. Lei, impalpabile dama, gli si concedeva ormai per tempi sempre più fugaci, negli anni era diventata avara.  (Certe amanti svaniscono all’improvviso lasciandoti in ricordo solo la scia di  un profumo struggente.)

Sua madre ne avvertì la presenza alle spalle. S’era arrestato sulla soglia della cucina, valigia alla mano, bloccato da una dolorosa riluttanza. 

Lei era di nuovo assente, come scissa in mille particelle sull’universo bianco di un muro. Vincenzo tornò indietro e s’avviò all’uscita. Senza rumore chiuse alle sue spalle l’uscio di casa. Due lacrime urlarono, scivolando sui solchi precoci del viso lei. 

 

Un treno, uno qualsiasi- pensò il giovane prestigiatore avviandosi verso la stazione.-

Ma tu guarda- borbottò tra sé – un mago a cui tocca fuggire come un ladro! Ma, in fondo, tutti i ladri sono un po’ maghi. Solo che i ladri spesso, assieme alle cose, rubano anche i sogni delle persone. I maghi, almeno quelli, sono ben lieti di regalarteli.

Trovò, comunque, giusto fuggire. Non era stato molto furbo da parte sua far sparire “per gioco” un sacchetto di coca da una certa valigia. I sacchetti di coca non sono fazzoletti colorati e poi, dettaglio tutt’altro che trascurabile, quelli a cui lo aveva soffiato non erano certo tipi da apprezzare i lazzi dei fantasisti. Gli tornarono in mente, una ad una, le loro facce bovine. 

Affrettò il passo guardandosi intorno. Camminò sui grossi granuli di pietrisco scuro dei binari avvertendone le sporgenze aguzze attraverso le suole sottili.

– Maledette gambe!- pensò – ti portano sempre dove non vorresti- ma meglio una multa o un taglio al piede che il frequentato sottopassaggio.

Il primo treno in partenza dalla stazione di Messina era sul binario tre.

“Messina – Milano” c’era scritto sulla tabella gialla. Poteva andare bene. Come posto gli parve abbastanza distante. Eccessivo fuggire in Brasile e quella sera stessa. Al biglietto e ai documenti non pensò minimamente, lui aveva i suoi. Era o non era un mago? Ma un momento… quello su cui stava per salire non era  forse un vagone letto? – E allora? – si rispose – e subito si ridacchiò addosso valutando che non avere prenotazione fosse un problema altrettanto  ridicolo.

Detto-fatto, si ritrovò a percorrere il corridoio riscaldato alla ricerca di uno scompartimento tranquillo. Ne scelse uno ma, mentre stava per varcarne la soglia, il suo bagaglio magicamente s’aprì rovesciando una notevole quantità di piccoli oggetti: stelline, cilindri in metallo, palline, molle, marionette, tremule uova fritte in lattice, fazzoletti colorati ed altri aggeggi non catalogabili con nomi cristiani. Lo scroscio della pioggia di faville catturò l’attenzione di una bambina. Nei suoi  occhi si specchiò la saettante follia dei balocchi.

– C’è un mago! –

Un trillo, una sorta di richiamo che parve il dipanarsi di un festone tra le grigie  pareti della vettura.

Al mago era capitato spesso di aprire la valigia davanti alla polizia locale (che lo conosceva bene) o negli angoli bui delle stazioni quando dimenticava in quale giocattolo aveva nascosto la roba di riserva.  Gli fece piacere che, per una  volta, qualcuno aveva pronunciato la parola giusta, semplice e magica, appunto. Troppo spesso passava per un rappresentante di giocattoli o per un piazzista qualunque. Che fosse un mago, insomma, nessuno lo aveva mai supposto, neppure per sbaglio.

Vincenzo allora, davanti alla sua minuta spettatrice,  si produsse in un inchino sbilenco, un po’ per via dello sgangherato contrappeso che si ostinava a chiamare valigia, un po’ per via del corridoio stretto.

-Permette, signorina? Vincenzo Cassarisi, mago-comico-illusionista al suo servizio… –

Mentre lei lo fissava incuriosita, una donna s’inginocchiò, premurosa, a raccogliere i ninnoli. Vincenzo, allora, poggiò la valigia su uno dei posti letto. Si ritrovarono in tre a riempirla nuovamente, in preda ad una strana euforia.

Richiuso il bagaglio si presentarono. Il quarto viaggiatore, un uomo sulla cinquantina, distinto, dai capelli brizzolati, non aveva fatto una piega.

Il mago pensò ad un viaggiatore solitario. Dopo poco, senza scomporsi, l’uomo parlò.

– E’ proprio certo di avere un posto assegnato qui? –

Lui guardò la donna, osservò le sue curve, i suoi occhi verdi, i capelli corvini. Era molto bella. Come avrebbe potuto rispondere di no?

– Sì certo, vediamo, vediamo… questa deve essere la cuccetta numero 151. Si, è questa. Permette? – proseguì Vincenzo, avvicinandosi all’uomo con la mano protesa.- Vincenzo Cass… –

– Sì, ho sentito – fece quello, senza distogliere lo sguardo dal buio pesto del finestrino.

– Cordialità commovente.- sussurrò ritraendosi Vincenzo. Donna e donnina, accennarono ad un sorriso impacciato.

Il nome di lei, della donna, era Cecilia.

A lui parve proprio un bel nome. Anche le sue gambe gli parvero belle, perché erano belle: tornite, nervose, diritte come due sedani.

– Ma perché, i sedani sono diritti? – Si domandò, chiudendosi in una delle sue profonde digressioni. – Se aveva fatto questo pensiero, certo un motivo  doveva esserci. Forse perché un bel sedano, oltre che cotto, va anche gustato crudo, fresco e croccante. – Sì, forse ci sono – pensò – in fondo ogni volta che mi piace una femmina mi dico sempre: “Questa me la cucino” no? –

– Guarda – disse, sedendosi, alla bimba – guarda cosa ti regalo. – e portò la mano in tasca – regaliamo a… come si chiama la piccola, scusi? –

– Marinella- rispose pronta Cecilia, che già  gli indirizzava sguardi tutt’altro che di  circostanza. Lui tirò fuori dalla tasca un agnellino di plastica che animò premendo una molla alla base. Lei rispose con un sorriso convalescente, come la traccia  di luce sul volto di una bambola consunta dai giochi.

– Bello! –

– Sta attenta però, mi raccomando, il lupo è sempre in agguato!

– Io sono lo zio. – rispose a denti stretti l’uomo.

-Scusi tanto, sa. Dev’essere stato il suo pelo grigio a trarmi in inganno. Certo, se ora la bimba  mi rassicura. Proviamo a chiederlo a lei. Questo signore è tuo zio non è vero ?

– Lei, giovanotto, è un po’ troppo impudente per i miei gusti! –

– Lei, invece, pare essere un lupo alquanto maleducato. Ops, scusi… volevo dire uno zio alquanto maleducato! –

Le donne soffocarono nuovamente una risata. L’uomo, dopo una lunga pausa, si alzò e contenendo il disappunto  gli andò incontro con la mano protesa.

– In fondo non posso darle torto, sono stato un po’  scorbutico poc’anzi. Permette?  Dott. Angelo Petralia – Presentazione fatta. Un contatto che però, al mago, non piacque affatto. Aveva la mano viscida il tipo. Ripensamento troppo immediato per essere vero. Un mago sa scrutare le facce e gli occhi della gente, è da lì che si affaccia il cuore degli uomini sulle cose del mondo. Suo malgrado non riuscì a capire quale genere di rapporto legasse i tre. Ma in fondo siamo tutti degli strani viaggiatori, concluse. Certo, vedere  una  donna  così giovane in compagnia di un orso (anche se molto distinto)  in viaggio con una denutrita nipote da ospedale da poveri, non poteva che destare perlomeno curiosità. Per non parlare dello sguardo della bambina velato di  misteriosa malinconia.

Ma in quel momento ebbe altro a cui pensare: il freddo. Cominciò a sentirlo anche dentro. Infilò le mani in tasca finché non s’alzò col consueto scatto. Pensò alla toilette del treno. La raggiunse. Non che sperasse di trovarla libera ma quanto ci metteva quello ad uscire!? Nel corridoio s’era pure tolta la luce. In certi momenti pare che il tempo si fermi. Finalmente lo scatto della serratura. La luce che trafilò dall’uscio del bagno delle Ferrovie dello stato non temeva confronti con quella dell’eden. Entrò al volo. Girò più volte la maniglia sul rosso. Non s’apriva, bene. Tirò fuori la bustina di cellofan e la depose sul  ripiano di vetro della specchiera. Ma fu un attimo; un violento cambio di binario sbatacchiò lui contro la parete del bagno e la bustina dentro il WC. Biglietti… biglietti da centomila zuppi fradici, purtroppo in forma di polvere e a cui non sarebbe certo bastato il calore di un phon per tornare alla vita. 


Esiti del Premio Nazionale di Poesia “Astrolabio” 2014

Postato il

verbale Astrolabio 2014

PREMIO NAZIONALE DI POESIA

“ASTROLABIO 2014”

In memoria di Renata Giambene

6° edizione del Terzo Millennio

Presieduto e diretto da Valeria Serofilli

Verbale di Giuria

PRIMA SEZIONE: VOLUME EDITO DI POESIA (34 partecipanti)

In Giuria, presieduta da Valeria Serofilli, Presidente del premio,

Ivano Mugnaini, Andrea Salvini, Antonio Spagnuolo

1° Classificato

Dieter Schlesak e Vivetta Valacca, La luce dell’anima, Edizioni ETS, Pisa 2011

2° Classificato

Grazia Di Lisio, Un asciugar di tempo, Edizioni Noubs, Chieti 2014

3° Classificato

Paolo Pistoletti, Legni, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero (No) 2014

Sezione specifica a tema

Omaggio a Mario Luzi

Cristiana Vettori, Agenda 2014 – Arte e Pensiero, Edizioni Helicon, Fano (PU) 2013

Premio Speciale per l’originalità del testo

Evaristo Seghetta Andreoli, I semi del poeta, Edizioni Polistampa, Firenze 2013

Premio Speciale

Per la forza espressiva del volume

Brina Maurer (pseudonimo di Claudia Manuela Turco), Architectures (three-dimensional poems), Gradiva Publications, Stony Brook, New York 2013

Premio Speciale del Presidente della Giuria

 Lella De Marchi, Stati d’amnesia, LietoColle Edizioni, Faloppio (Co), 2013

Premio della Giuria

Luana Fabiano, Respiri violati, puntoacapo Editrice, Pasturana (AL) 2014

Finalisti in ordine di graduatoria

1° Evaristo Seghetta Andreoli, I semi del poeta, Edizioni Polistampa, Firenze 2013

2° Luigi Cannillo, Galleria del vento (poesie), La Vita Felice Editrice, Milano 2014

3° Sandro Pecchiari, Le svelte radici, Samuele Editore, Fanna (PN), 2013

4° Carla Spinella, Il canto dell’assenza, Leonida Edizioni, Rende (CS), 2013

5° Anna Magnavacca, Oltre la siepe di sambuco e altre poesie, Guerra Edizioni, 2012

Menzione Speciale in ordine di graduatoria

1° Giancarlo Remorini, Il canto dei cigni, Editorial Nazari, 2014

2° Matteo Casale, Studi Op. 3, Campanotto Editore, Pasian di Prato (Udine) 2014

3° Giuliana Piroso, Trasparenze, Libroitaliano, Ragusa 2007

4° Emidio Montini, Non un grido fra le palme, L’Arcolaio Editore, Segrate (Mi) 2013

5° Veronica Manghesi, Il mio mare all’improvviso, MdS Editore, Gorgonzola (MI) 2014

SECONDA SEZIONE: SILLOGE INEDITA

In Giuria, presieduta da Valeria Serofilli, Mauro Ferrari, Ivano Mugnaini, Andrea Salvini

1° Paolo Sangiovanni, Una voce ci chiama

2° Dante Goffetti, Unghie e altre storie di donne

3° Lorenzo Piccirillo, (Niente) Da ridere

Sezione specifica a tema

Maria Adelaide Petrillo, Sotto l’ombrello di foglie intrecciate

Premio Speciale del Presidente della Giuria

Franco Casadei, I luoghi dell’anima

Premio Speciale per l’originalità del tema

Giulio Maffii, Pater Fanghiglia

Premio Speciale della Giuria

Lella De Marchi, Bambina che conta

Finalisti in ordine di graduatoria

1° Donato Loscalzo, In ogni caso

2° Nicola Curzi, Scale anti-incendio

3°  Maristella Bonomo, Senso di blu

4° Fabia Ghenzovich, Totem

5° Serenella Menichetti, La geometria dei frattali

6° Michele Paoletti, Come se fosse giovedì

TERZA SEZIONE: POESIA SINGOLA

In Giuria, presieduta da Valeria Serofilli, Giulio Panzani

1°  Michele Paoletti, Accidentale lo sparo nella nebbia

2° Stefano Zangheri, Fuori contesto

3° Valentina Sanmartino, Sussurri

3° ex aequo Isabella Horn, Raggi e gironi

Premio Speciale per la forza espressiva

Maria Cristina Coppini, Varco

Premio Speciale per l’originalità del tema

Luciana Vasile, Non penso mai all’aldilà

Premio Speciale alla Memoria

Rosario Battaglia, Gela che ridi

Sezione Specifica a tema

Omaggio a Mario Luzi

Egizia Venturi, Torna, se puoi

 Omaggio a Pisa e alla posa della prima pietra della Cattedrale

1° Afra Marangoni, Omaggio alla Cattedrale

2 Sara Costanzo, L’attesa

Maria D’Ippolito, Primavera a Pisa

Premio Speciale per la Sezione specifica a tema Lorenza Corsini Cattedrale

QUARTA SEZIONE: FIABA INEDITA E STORIE PER RAGAZZI INEDITE

1° Achille Concerto, Sogno nel regno di Oz

2° Paolo Stefanini, Nerino e le cose vere

3° Giorgia Spurio, C’era una volta Sami

Sezione Specifica: Omaggio Galileiano

Pietro Rainero, La caduta dell’orso, del gatto e del topo

Premio Speciale per l’originalità del tema

Giampietro Filippi, La lunga, lunga storia di Carbo, Ossi e Geno

Premio Speciale per la forza espressiva

Maria Adelaide Petrillo, Sono nata in un castello

La Cerimonia di Premiazione si svolgerà il 17 gennaio 2015  presso la Sala del Palazzo del Consiglio dei Dodici in Piazza dei Cavalieri a Pisa.

ESITI DEL CONCORSO “LA VITA IN PROSA” 2014

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La Giuria del Concorso LA VITA IN PROSA, edizione 2014, composta da Mauro Ferrari (poeta, critico, direttore editoriale di puntoacapo Editrice), Luigi Fontanella (poeta, scrittore, critico letterario, direttore della rivista internazionale “Gradiva”), Roberta Lepri (scrittrice), Ivano Mugnaini (scrittore, consulente editoriale, co-direttore della collana di narrativa di puntoacapo Editrice), Alessandra Paganardi (scrittrice, collaboratrice di riviste letterarie nazionali), Daniela Raimondi (poeta e scrittrice), Valeria Serofilli (scrittrice, presidente del Premio Astrolabio), ha letto e valutato in forma anonima i testi inviati dai 205 concorrenti provenienti da tutte le regioni italiane.
Rilevando il buon livello dei lavori pervenuti, la Giuria ha stilato una graduatoria comprendente una rosa di Autrici ed Autori meritevoli da cui sono emersi in seguito i finalisti e i vincitori.

La classifica finale del Concorso La vita in prosa edizione 2014 è la seguente:
VINCITORI
Primo classificato: Brunello Gentile, con il racconto IN VIAGGIO CON HANNAH
Secondo classificato: Gian Cosimo Grazzini, L’USCITA
Terzo classificato: Lorenzo Falletti , LIBERI DAGLI STRACCI

FINALISTI ex-aequo, in ordine alfabetico
Are Caverni, Lidia , con il racconto PER LE INFINITE VIE
Astolfi Gabriele, DUE ORE
Brighi Antonella, STRADE
Massimo Mario, ASPETTANDO APRILE
Montini Emidio, IL TEMPO E LE MAREE
Morpurgo Roberto, UN SEGRETO DI KANT
Pretti Emma, IL REBUS DEI TACCHINI BIANCHI
Quintavalla Maria Pia, CARO DIARIO
Vetromile Giuseppe, EVARISTO GRAZIADEO

AUTRICI ED AUTORI SEGNALATI
La Giuria ha ritenuto interessanti e degni di segnalazione anche i lavori delle Autrici e degli Autori i cui nomi sono riportati qui di seguito in ordine alfabetico:

Bandini Paola
Bianco Antonella
Buda Loretta
Calamai Matilde
Caroletti Giulia
Caterino Alfonsina
Cicchino Lucia
Cologni Rosanna
De Castiglione Anna
Ficco Laura
Gamberini Sanzio
Giangiordano Mario
Iannini Valeria
Lucchini Antonella
Mari Lorenzo
Marchinetti Elisa
Martone Cristina
Mondelli Tommaso
Moretti Alessandra
Mori Angela
Mussi Carla
Nudo Nunziatina
Oppio Danila
Piccolo Carla
Polli Margherita
Puggioni Gavino
Raineri Laura
Rainero Pietro
Rando Pina
Santoro Antonella
Sartarelli Vittorio
Testi Niccolò
Trivellato Auro
Troise Sofia
Vasti Monia.
La Giuria del Premio ringrazia tutti i partecipanti al Concorso per aver inviato i loro lavori narrativi e invita fin d’ora i concorrenti interessati e anche nuovi partecipanti alla prossima edizione del Concorso che verrà presentata tra qualche mese.