Gianmario Lucini
Il bestiario delle bestiacce
Il titolo del recente libro di Annalisa Macchia è attraente. Incuriosisce. Invita a scrutare all’interno per vedere cosa spunta, cosa compare. Magari ci troveremo di fronte un animale tra il mitico e il reale, tra verità e invenzione fantastica.
Coerentemente con lo stile di Annalisa, il libro è serio e giocoso allo stesso tempo. Ma in maniera sincera e profonda, non di maniera. Annalisa gioca sempre con grande attenzione al senso, soprattutto a quello ulteriore, a ciò che non si vede ma c’è, e magari ci fa pensare, mentre sorridiamo.
La leggerezza di questo libro è consistente. Calvino approverebbe. Le Cosmicomiche qui diventano Le Bestiacomiche. Ma l’impressione è che ciascun animale sia, a bene vedere, al di là della pelle e delle squame, al di là dei colori camaleontici e cangianti, un’immagine della bestia per eccellenza, l’animale selvatico e sospettoso, che siamo, a tratti, noi tutti.
C’è molto metodo nell’apparente lievità del libro, come direbbe Amleto. Si percepisce un’accurata preparazione “a monte”, si nota un’accurata suddivisione speculare delle varie sezioni, saltano all’occhio analogie e contrapposizioni per niente casuali. Vengono in mente Esopo, Alice, i suoi specchi e i suoi animali parlanti e pensanti, si rammentano Trilussa e Rodari, ma soprattutto si beneficia di un libro che si legge volentieri, che fa tornare bambini senza scordarci il gusto agrodolce, ma necessario, di guardare il nostro volto riflesso nello specchio di bestiacce che, non di rado, sono molto meno bestiacce di noi.
IM
Annalisa Macchia, Il bestiario delle bestiacce, Pagine, Roma 2020
A TU PER TU
UNA RETE DI VOCI
L’obiettivo della rubrica A TU PER TU, rinnovata in un quest’epoca di contagi e di necessari riadattamenti di modi, tempi e relazioni, è, appunto, quella di costruire una rete, un insieme di nodi su cui fare leva, per attraversare la sensazione di vuoto impalpabile ritrovando punti di appoggio, sostegno, dialogo e scambio.
Rivolgerò ad alcune autrici ed alcuni autori, del mondo letterario e non solo, italiani e di altre nazioni, un numero limitato di domande, il più possibile dirette ed essenziali, in tutte le accezioni del termine.Le domande permetteranno a ciascuna e a ciascuno di presentare se stessi e i cardini, gli snodi del proprio modo di essere e di fare arte: il proprio lavoro e ciò che lo nutre e lo ispira.Saranno volta per volta le stesse domande.Le risposte di artisti con background differenti e diversi stili e approcci, consentiranno, tramite analogie e contrasti, di avere un quadro il più possibile ampio e vario individuando i punti di appoggio di quella rete di voci, di volti e di espressioni a cui si è fatto cenno e a cui è ispirata questa rubrica.IM
5 domande
a
Annalisa Macchia
1 )Il mio benvenuto, innanzitutto.
Puoi fornire un tuo breve “autoritratto” in forma di parole ai lettori di Dedalus?
Certamente e grazie per questo invito. Mi chiamo Annalisa Macchia, abito a Firenze, dove vivo da tanti anni, ma sono nata a Lucca; ho studiato a Pisa (Lingue e Letterature straniere) e frequento da sempre l’area livornese, luogo d’origine della mia famiglia. Dunque sono d’identità toscana, seppure variegata, dettaglio non trascurabile, perché credo che la mia scrittura sia rimasta “contaminata” da tutte quante queste frequentazioni. Sono un’autrice tardiva, se mi passate il termine. Dopo gli studi universitari e una prima pubblicazione (Pinocchio in Francia, edito dalla Fondazione Nazionale Carlo Collodi di Pescia), ho dedicato molti anni alla cura della mia numerosa e onerosa famiglia, scoprendo solo alla fine quanto avessero reso preziosa la mia formazione di persona, anche se mi avevano apparentemente allontanato dalla scrittura. Prepotente è però tornata la voglia insopprimibile di comunicare con la parola scritta. Sono nati così i primi lavori, storie in rima per l’infanzia (con l’assurda speranza che le parole scritte fossero più efficaci di quelle dette a voce…). Da allora, però, lettori o non lettori, non ho più smesso, cercando di conciliare i miei impegni familiari e di insegnante – ho insegnato lingua e letteratura francese in vari istituti fiorentini – con la mia nuova attività. Sono seguite raccolte poetiche e narrative, frequentemente dedicate all’infanzia, all’avviamento della parola poetica anche tra i più piccoli (un mondo a me familiare, dal momento che ho avuto quattro figli ed ora ho quattro nipotini), ma anche qualche testimonianza critica e traduzione. Attualmente collaboro con qualche racconto e soprattutto con recensioni, con la rivista “Erba d’Arno” e sono redattrice della rivista Gradiva, ammirevole ponte di poesia e letteratura tra l’Italia e gli Stati Uniti. Ho anche diretto una collana di poesia per l’infanzia con la casa editrice Poiein, occupazione purtroppo di breve durata per la prematura scomparsa del suo direttore Gianmario Lucini, un carissimo amico, a cui devo molto e che ancora oggi rimpiango. Nella città in cui vivo, compatibilmente con il mio tempo libero, ho cercato di seguire i movimenti letterari che l’hanno animata in questi ultimi anni. Con presentazioni di autori e varie attività collaboro strettamente con l’Associazione Pianeta Poesia (www.pianetapoesia.it ), a cura di Franco Manescalchi. Un’attività che ha contribuito non poco alla mia formazione, aprendomi a mondi poetici altri, talvolta d’insospettabile interesse e bellezza.
TARANTA D’INCHIOSTRO note e considerazioni dell’autrice
Ricevo da Valeria Serofilli alcune note riguardanti il suo libro di recente uscita, Taranta d’inchiostro, e, più in generale, concernenti la sua poetica.
A corredo delle note ho ricevuto dall’autrice alcune liriche tratte dalle varie sezioni del libro.
Le pubblico in calce assieme ad alcune foto e ad un video del prof. Aziz Mountassir.
IM
ALCUNE RIFLESSIONI
Di VALERIA SEROFILLI
Con particolare riferimento a Taranta d’Inchiostro, Oedipus, 2020
A mio avviso il significato assume senso e misura grazie al significante, in un connubio in cui tuttavia l’azione della parola assume un ruolo di ristrutturazione creativa della realtà. In questo senso potrei rispondere che il ruolo del significante è egemone, anche se forse una sintesi più esatta di quanto intendo può essere trovata in questo mio pensiero: “A mio avviso il senso del verso è da intendersi sia a livello logico che emotivo in quanto per scrivere poesia avverto l’esigenza di uno stimolo concreto, spesso di natura visiva” (1).
L’intento è il superamento della connotazione della realtà tramite la parola, senza tuttavia abdicare del tutto alla dimensione concreta ed efficace, al significato, al senso che il verso trasfigura tramite un significante, che la riscrive sia a livello logico che a livello estetico e sinestetico.
1) da: Valeria Serofilli, ” Amalgama” ne “La parola e la cura, I Quaderni di Poiein, Monografie di poeti contemporanei”, a cura di Gianmario Lucini, (puntoacapo 2010).
Nei miei versi penso che comunque vi siano l’uno e l’altro, cioè si riscontrino la preoccupazione dei “significati” e l’attenzione al gioco fonico e ritmico dei “significanti”; per la definizione di essi mio punto di riferimento è tra gli altri, la distinzione di Ferdinand De Saussure, che ispira e sottende lavori critici di grande valore come quelli di Gianluigi Beccaria consegnati al volume einaudiano “L’autonomia del significante”.
Link con recensioni al volume:
Altri link di note critiche sui testi ancora inediti, poi confluiti nell’attuale pubblicazione, tra cui la nota del prof. Romboli poi divenuta l’attuale postfazione al volume:
http://www.literary.it/dati/literary/p/piazza/taranta_dinchiostro.html

Dalla Sez. I LA TARANTA
La notte della taranta
(22 agosto 2015)
Quale ragno mi ha morso?
Prova col nastrino colorato/ amore
ma tanto già ne conosco il nome
come già ne so l’antidoto:
tu il veleno/ il contro veleno
la mia terapia coreutica
E abbracciati balliamo
in pizzica lenta
ad uccidere un ragno che non c’è.
Io il ragno
Mi tuffo dal soffitto/ per sprofondare
nell’abisso cristallino
a tessere la tela
dell’attesa e dell’aspettativa
Forse che
sono io il ragno
a misurare le distanze
tra dune di sabbia
ormai tarantata/ in notti senza sonno?
Conoscenza
È questa verità, tardiva
o il raggiungimento
di essa/ mio malgrado?
La ragnatela non serve
più/ me ne distacco:
ingombrante scaleo
di sapienza cui
ogni gradino ha acuito conoscenza.
Vecchiezza
Bulbo di memoria/ la conoscenza
cresce ad oltranza
«Sei pronta ad invecchiare con me?»
chiese il ragno alla sua tela
Ma la domanda giunse assai tardiva
alla ragnatela già bianca che
priva di forza e incanutita/ lasciò cadere
il suo ragno stanco/ ormai inerte
e questo facendo impronta di sé
reinventando il suo ieri.
Dalla Sez.II RAGNATELA DEL MONDO
Lettera al figlio
Vorrei vedere nel film dei tuoi occhi
scorrere le favole di una volta
Riccioli d’oro/ nel bosco del tuo disincanto
E risuscitare elfi per guardia a castelli
e draghi per assalti fuori porta
raccogliere gocce per farne stagno
e ogni filo d’erba intrecciarlo a parco
perché non siano stanche le fate
mentre mi scuso per il dolore che ti darò
Il destino/ figlio è cosi:
siam tutti condannati ad essere estratti a sorte
ma tu e non io/ mi hai dato la vita.
Testo tradotto in arabo dal prof. Aziz Mountassir con video al link:
Dalla Sez.Sezione III LUZIANE
“L’insegnamento poetico di Luzi ha inciso molto su di te
cara Valeria e lo si vede bene nei tuoi libri ma è ovvio
che tu conservi una notevole originalità”.
Giuseppe Panella
(27 Gennaio 2019)
Per sua significazione
Per sua significazione
la non parola
chiese al Poeta
e si fece Poesia e significanza.
Forse che il cielo ci ha salvato entrambi
Forse che il cielo ci ha salvato
entrambi/ da una inutile vecchiezza
preservandoci
senza dubbio uguali
e quant’altro donandoci
ad uno ad uno e insieme
un paio d’ali?
Si cristallizza nel momento della recisione
Il fluire di sempre
si cristallizza nel momento della recisione
dal sé/ dall’altro, dal resto
Questo da sempre temeva/ questo ormai sapeva
per sempre impresso acquisito
nel momento in cui
non seppe più.
Dalla sez IV PAGANELLIANE
Contemplo in cielo
Il teatro di me/ la mia
Dispersa storia.
G. Luigi Paganelli: poesia del 2015 pubblicata
sulla rivista “Paletot” g.c. da Claudio Frosini.
Funzione religiosa
Gremita era la Chiesa:
non mancava nemmeno/ la sua migliore amica
con quel cappellino
accessorio integrante/ di quell’ultimo acquisto di
Moschino
La chiesa era gremita:
il prete che tesseva/ le lodi di una vita.
Più pregi o più difetti?
Difettava semmai, la necessaria volontà di elencazione
non trattandosi, stavolta, di confetti
E tanti fiocchi
– Ma non rovinavano le panche? –
– Se al Matrimonio no, almeno adesso
le è concesso, anche se neri e non bianchi
Qualche pianto, più che altro rimpianto:
sensi di colpa per non averle più telefonato
o non averla invitata a quel concerto
Ormai non usciva che di rado, del resto
Tanti i convitati al lugubre banchetto:
chi si batte a croce il petto,
chi ricerca/ disperato, un fazzoletto
Amava scrivere, soprattutto accanto al caminetto
– Una pura, direi, –
– ma la pigrizia, poi, dove la metti? –
Si/ perché c’era anche quella
in sapida componente con l’ ingegno
La Chiesa era gremita. C’è chi pensava,
tra un pianto ed una rosa
che forse, in fondo, era più pazza che estrosa
inadatta alla vita, al contingente
C’era anche il Sindaco: non poteva mancare
In quanto pisana, se non una strada
almeno questa presenza
se la meritava
C’era il Prefetto,
dispiaciuto per non averle concesso
il patrocinio
a quel suo ultimo progetto
– Se n’era andata così, mentre scriveva – Leggeva? –
– No, scriveva. A leggere le cose altrui non ci teneva.
Ma aveva il Premio… –
– si, ma la Giuria leggeva anche per lei –
Tanti i discorsi
sommessi
in fondo all’androne
C’era anche il ladro
col sacchetto vuoto/ del suo ultimo misfatto
C’era anche il gatto/ col fiocco nero d’organza:
non si è mai capito se l’amava
certo la seguiva ovunque
anche se a debita distanza
C’era la zia, più vecchia di lei
– L’avevo sognato: perdita di dente
morte di parente –
E c’era lui, assenza/ presenza
che di lei sapeva tutto e non aveva niente
vestito a lutto impeccabilmente
ma un lutto artistico, con quella penna all’occhiello
ed il suo piccolo, immancabile ombrello
che forse pioveva e
nero per fortuna, che si addiceva
La Messa è finita: andate in pace
No, aspettate, c’è una postilla
o forse un refuso:
“Da leggersi al momento opportuno: istruzioni per
l’uso”.
(Testo finalista al premio L assedio della poesia 2020 presieduta da Antonio Spagnuolo e vincitrice del Premio della Giuria al Concorso “Tra Secchia e Panaro” 2020).



Un ricordo di Gianmario Lucini
Ho conosciuto Gianmario Lucini a Pisa in occasione del Premio Astrolabio e della presentazione di un suo libro. Ho avuto modo di cenare seduto di fronte a lui. Due timidi seduti uno davanti all’altro a studiare piatti e traiettorie di fuga e di incontro per gli sguardi e per le parole. Gianmario era una persona estremamente seria che conosceva l’arte di non prendersi sul serio. Una persona di grande spessore che conosceva e metteva in pratica l’arte della leggerezza, il dono della lievità. Aveva una malinconia allegra, il gusto di un’ironia mai aggressiva, mai pesante.
Gianmario, pur essendo un ottimo autore, sapeva pensare al plurale. Non poneva i suoi scritti al centro del mondo.
Aveva una mente “plurale” e un pensiero “civile”, nel senso più autentico e vero del termine.
Possedeva una malinconia, frutto della conoscenza del mondo, che, invece di spingerlo all’apatia, lo conduceva alla lotta, all’impegno vero, mai violento, sempre tenace.
Era convinto, lo ha dimostrato non solo con le parole ma in modo fattivo con decine di iniziative concrete, che il mondo può cambiare. Non solo l’orto della scrittura, ma il mondo intero, quello là fuori, quello dove si vive e si soffre.
Questo ha mostrato Gianmario Lucini. Nell’editoria e nella società, le cose possono cambiare.
Questo ci lascia in eredità Gianmario.
Tocca a noi non dimenticarlo.
A noi il compito di fare buon uso dei suoi gesti e delle sue parole.
i.m.
Giacomo Cerrai su “Terra bruciata di mezzo”
Una recensione di Giacomo Cerrai su “Terra bruciata di mezzo” di Mirko Servetti.
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Giacomo Cerrai su “Terra bruciata di mezzo(fra Vespero e Lucifero)”di Mirko Servetti
Sebbene il titolo stia curiosamente tra Tolkien e Eliot, la terra a cui allude Servetti risiede invece, come recita il sottotitolo, “fra Vespero e Lucifero” ovvero nel segno di Venere, nella sua doppia veste – nell’arco dell’anno – di stella del mattino portatrice di luce e di astro anticipatore del tramonto e della notte. Ma anche come emblema di un eros duplice, in costante dialettica tra epifanie e dubbi, tra luci e ombre, tra cadute e resurrezioni, così come per fortuna si conviene. Qui “eros” va inteso in senso ampio, ovviamente. Non solo cioè come valore primario, come interazione e libido tra corpi e menti (“simposio”, dice Servetti), ma anche come impulso vitalistico connaturato, modo di sentirsi qui e ora presente, fosse anche come uomo solitario davanti a un orizzonte. Questo porta Servetti a poetizzare una certa varietà di esperienze, anche frammentarie o fugaci o immanenti, dando loro un notevole smalto o colore. Diciamo che se l’occasione non basta, se non giocata sul suono e sullo stupore (e non dico certo che sia un male), con un pò di piglio attoriale. Il risultato, a dover sintetizzare, è un lirismo fantastico, popolato di creature linguistiche rare o culte o forse inventate, vai a sapere, sempre interessante e anche divertente. I cui prodotti migliori, al di là del gusto personale con cui ho scelto i testi qui presenti (ma avrebbero potuto essere di più), sono quelli che secondo me realizzano un equilibrio tra spinte diverse, diciamo tra febbre della parola e riconoscimento del fatto che quella stessa parola e la poesia che esprime hanno un côté “sentimentale” e affettivo insopprimibile a cui a volte fa bene lasciarsi andare, ma senza tuttavia rinunciare alla voglia di sperimentare, costante in tutta la raccolta.